Matteo Bianchetti - Rigore filosofico e logica formale

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MILANO
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
Corso di laurea in Filosofia
A.A. 2006-‘07
RIGORE FILOSOFICO
E LOGICA FORMALE
CANDIDATO: MATTEO BIANCHETTI
RELATORE: PROF. SILVIO BOZZI
CORRELATORE: PROF. PAOLO SPINICCI
4
INDICE
INTRODUZIONE
I. PROBLEMI FILOSOFICI E PROBLEMI LOGICI
p. 7
p. 11
1. La logica e i discorsi dei filosofi
p. 12
2. Forma e validità
p. 14
3. Dubbi sul formalismo
p. 18
4. Le ragioni della logica
p. 19
II. RAGIONAMENTO E LOGICA
p. 25
1. Ragionamento e logica
p. 26
2. Ragionamenti effettivi
p. 28
3. Ragionamenti validi
p. 30
4. Utilità delle dimostrazioni
p. 31
5. Argomenti filosofici
p. 33
5
III. C. I. LEWIS
p. 38
1. La questione meta-normativa
p. 39
2. Clarence Irving Lewis
p. 40
3. Tipi d’ordine
p. 41
4. Il sistema S di Royce
p. 43
5. Sistemi alternativi
p. 47
6. Caratteri della logica
p. 48
7. Confronto fra sistemi logici differenti
p. 54
a. Concetti e realtà
p. 54
b. Logica e realtà
p. 58
8. Criteri pragmatici
p. 61
9. Mondi possibili
p. 64
10. Significato dei sistemi logici
p. 65
IV. MONISMO E PLURALISMO
p. 70
1. Monismo
p. 71
a. Autofondazione
p. 71
a. Elenchos
p. 71
b. Eterofondazione
p. 74
a. Evidenza
p. 74
b. Ontologia
p. 76
2. Pluralismo
a. Confronto fra logiche
p. 77
p. 80
6
V. LOGICHE ALTERNATIVE
p. 84
1. Logiche polivalenti
p. 85
a. Giustificazioni filosofiche
2. Intuizionismo
p. 92
p. 104
a. Filosofia
p. 104
b. Matematica e logica
p. 109
c. Osservazioni sulla logica intuizionista
p. 115
a. Kolmogorov: Sul principio del terzo escluso
p. 116
b. Heyting: Le regole formali della logica intuizionista
p. 122
c. Heyting: Sulla logica intuizionista e La fondazione
p. 127
intuizionista della matematica
d. Kolmogorov: L’interpretazione della logica intuizionista
3. Pluralità di linguaggi
VI. MANNICHFACHE WEGE GEHEN DIE MENSCHEN
p. 131
p. 134
p. 136
1. Logica e filosofia
p. 137
2. Sistema e opera aperta
p. 139
BIBLIOGRAFIA
p. 144
7
INTRODUZIONE
7
Presento una ricerca sul rapporto tra argomentazioni filosofiche e la logica formale: se si può
sostenere che i filosofi cercano di supportare le proprie tesi con motivazioni logicamente fondate,
allora, sorge la questione di determinare più specificamente il rapporto che la filosofia intrattiene
con la logica. Cosa significa, infatti, fondare un discorso sulla logica? Che garanzie fornisce la
logica a proposito della correttezza e della validità di un ragionamento? Cosa significa giudicare
valido un ragionamento? Quali conseguenze ha la formalizzazione di un ragionamento sulle
caratteristiche di un argomento che, inizialmente, è stato presentato in modo informale? La
questione è ulteriormente complicata dal fatto che, dal punto di vista formale, sono state elaborate
diverse e molteplici logiche. Cosa significa tale pluralità di logiche? Quale rapporto vige tra
esattezza di un sistema deduttivo ed esistenza di logiche alternative? Se gli argomenti filosofici
debbono la loro validità anche al rispetto delle leggi logiche, occorre chiedersi se occorra
discriminare tra logiche corrette e logiche non corrette. Esiste, allora, una logica giusta? Cosa
significherebbe, per una logica, essere, eventualmente, quella giusta?
Per tentare di rispondere a queste domande ho organizzato la tesi in sei capitoli. I primi due
cercano di porre ordine nella questione indagando le caratteristiche e la natura dei rapporti tra
filosofia, ragionamento e logica formale. L’esigenza di fornire ragionamenti fondati ha richiesto che
si discriminassero quelle modalità argomentative che assicurano la verità delle conclusioni tratte da
premesse vere da altre che non forniscono tale garanzia. In tal modo, tuttavia, sorgono alcune
questioni: cosa significa esemplificare forme di argomenti intrinsecamente valide? Qual è il valore
di una dimostrazione e che cosa determina? Cosa garantisce la verità dei principi logici da cui
dedurre le proprietà di un certo sistema?
Nel terzo capitolo, per iniziare a rispondere a tali domande, espongo ed esamino le considerazioni,
in proposito, del logico e filosofo Clarence Irving Lewis (1883-1964). Egli è stato uno dei primi a
proporre sistemi alternativi alla logica classica, elaborando i sistemi dell’implicazione stretta (A
Survey of Symbolic Logic nel 1918 e, in collaborazione con C. H. Langford, Symbolic Logic, nel
1932) e si è chiesto cosa significasse elaborare differenti sistemi formali esatti e se e come sorgesse,
8
allora, una questione circa la loro verità e con quali criteri si potesse, eventualmente, valutarli.
Lewis si sofferma ad indagare la natura dei sistemi logici in generale ed assume come oggetto della
propria ricerca i sistemi formali nel loro complesso. Egli, quindi, non si limita a considerarli
soltanto come strumenti entro cui compiere determinate operazioni e sostiene che non sia possibile
indicare un’unica logica come quella corretta, nel senso che solo i suoi principi e le sue leggi
permetterebbero di passare da premesse vere a conclusioni altrettanto vere. La sua riflessione, come
cercherò di mostrare, si allarga, poi, a delineare un riflessione di carattere generale sul valore e la
natura della nostra conoscenza. Nella formazione del nostro sapere, infatti, concorre, in maniera
decisiva, una dimensione a priori (nel cui ambito rientrano anche i vari sistemi logici) che, però,
diversamente da quel che riteneva Kant, non è una dimensione insostituibile e intrascendibile. Sono
possibili a priori differenti, così come sono possibili sistemi logici alternativi, ed ognuno di essi è,
dal punto di vista logico, legittimo e corretto. L’adozione di uno solo di essi a discapito degli altri,
non avviene in conformità a considerazioni puramente logiche, bensì, e cercherò di mostrare meglio
cosa intenda dire, pragmatiche, ossia relative ai nostri interessi e alle nostre capacità, sotto lo
stimolo dell’esperienza.
Nel quarto capitolo approfondisco alcuni spunti di Lewis confrontando due differenti visioni della
logica: quella per cui è ammissibile solo un sistema logico (monismo) e quella per cui, invece,
esistono e sono accettabili logiche diverse. Per chiarire la questione considero le rispettive posizioni
e cerco di mostrare come gli argomenti che potrebbe proporre un ideale sostenitore del monismo
non siano adeguati e occorra, invece, sostenere che vi sono, legittimamente, più logiche, tra loro
alternative, e mi impegno a chiarire cosa comporti questa situazione.
Nel quinto capitolo
presento
gli esempi
della logica polivalente (Łukasiewicz) e
dell’intuizionismo (Brouwer, Kolmogorov e Heyting) ed esamino le motivazioni alla base dei nuovi
sistemi e le modalità con cui li si è interpretati per mostrare come l’elaborazione di logiche
differenti e la loro competizione non implichi che una di esse sia, in senso assoluto, logicamente
sbagliata.
9
Nel sesto capitolo riassumo i caratteri peculiari, per come ho saputo individuarli, del rapporto
logica-filosofia e propongo una concezione della filosofia improntata alla consapevolezza che la
logica, invece di essere il campo del sapere ineluttabile, accoglie, in numero infinito, visioni diverse
e alternative.
10
CAPITOLO I
PROBLEMI FILOSOFICI E
PROBLEMI LOGICI
11
1. LA LOGICA E I DISCORSI DEI FILOSOFI
In un noto passo del Sofista di Platone, lo straniero di Elea, “un vero e proprio filosofo” 1, mostra
la propria irritazione nei confronti di alcuni suoi predecessori: “Mi pare che ciascuno di essi ci
racconti un mito, come se fossimo dei bambini”2. Per non raccontare favole, bensì per sostenere
tesi opportunamente argomentate, la strada che, necessariamente, deve essere percorsa
consisterebbe nell' “esaminare le cose che ora ci paiono evidenti, per vedere se non ci siamo confusi
in qualche parte su di esse”3. La situazione in cui si ritrova chi, dopo un certo periodo di studio,
tenta di trarre le proprie conclusioni nel campo della filosofia e di proporle agli altri è, ancor oggi,
analoga a quella descritta nel brano citato e, probabilmente, non è mai stata differente.
La pluralità delle filosofie o, se si vuole, la pluralità nella filosofia, è evidente. Se, tuttavia, la si
rapporta alla pretesa del filosofo, comunemente addotta, di sostenere le proprie tesi con dei
ragionamenti, diventa interessante e urgente domandarsene il significato. Ciò che un filosofo
sostiene non dovrebbe essere semplicemente enunciato, altrimenti, non spiegando il motivo per cui
accettare quello che descrive e, eventualmente, rifiutare le tesi che, ugualmente, è possibile
proferire, sarebbe uno dei miti di cui si lamentava lo straniero di Elea. Il mito, inteso in questo
senso, illustra un contenuto, ma non argomenta a favore di esso e neppure, eventualmente, contro le
descrizioni antagoniste. Il filosofo, però, ponendosi alla ricerca della sapienza, deve chiedersi qual è
quella descrizione che, fra le tante, è vera e per rispondere a tale domanda deve elaborare dei
ragionamenti e, possibilmente, deve farlo con perizia, esaminando, appunto, anche le cose che ci
paiono evidenti ed esercitandosi4 a considerare ogni cosa riguardo alle altre (addirittura in relazione
a tutte le altre)5. I discorsi dei filosofi, ovviamente, non dovrebbero solo sembrare corretti rispetto ai
1
Platone, Soph., 216 a4 tr. it in id., Dialoghi filosofici, a c. di Giuseppe Cambiano, Utet, Torino 1981.
Ivi, 242 c8, tr. cit.
3
Ivi, 242 b10-c2, tr. cit.
4
Cfr. Platone, Parm., 135 d4, tr. it in id., Dialoghi filosofici, Utet, a c. di Giuseppe Cambiano, Torino 1981.
5
Cfr. ivi, 136 b8-c6: “A proposito di qualsiasi oggetto di cui tu ponga ogni volta per ipotesi che è o che non è o che
subisce qualsiasi altra affezione, bisogna esaminare le conseguenze sia in relazione all’oggetto stesso, sia in relazione a
ciascuno degli altri oggetti, qualunque tu scelga, e analogamente sia in relazione a più oggetti sia in relazione a tutti
quanti insieme; e inversamente esaminare questi altri oggetti tanto in relazione a se stessi quanto in relazione a qualsiasi
2
12
criteri della ragione6, ma dovrebbe esserlo effettivamente, altrimenti sarebbero discorsi sofistici7 o,
comunque, se pronunciati in buona fede, ideologici, perché non hanno davvero indagato tutto quel
che avrebbero dovuto indagare e, di conseguenza, non sono pienamente in grado di dare ragione
delle proprie affermazioni8.
Fornire ragioni è, dunque, la peculiarità del discorso filosofico, ed essere pronti a fornire ragioni,
normalmente, è inteso come equivalente ad essere disponibili ad argomentare a favore o contro una
certa tesi. Argomentare è una forma peculiare del linguaggio in cui sono riconoscibili un insieme di
asserzioni9, le premesse, talvolta introdotte con espressioni del tipo “poiché”, “dato che”, “in
quanto”, “perché”, … da cui si deriva una conclusione, spesso, a sua volta, introdotta da parole
come “quindi”, “allora”, “perciò”, “per questa ragione”, “di conseguenza”, …
L’interesse del filosofo per le dimostrazioni e la sua cura nel ricercarle nasce dalla convinzione
che se egli riesce a stabilire delle premesse vere e ad operare su di esse delle inferenze corrette,
allora anche la sua conclusione è vera.
Occorre porre particolare cura nel comprendere che cosa si intenda con correttezza del
ragionamento perché da essa dipende l’esplicazione del nostro compito di filosofi.
Tradizionalmente, si è indicato nella logica il luogo deputato alla chiarificazione delle regole
corrette per ragionare e la tecnica per dirigere gli atti della ragione, affinché procedano senza errore.
Tale considerazione riflette un uso comune di alcune espressioni che richiamano il vocabolario
tecnico della logica. Se, per esempio, dichiariamo “logico” un discorso, presumibilmente lo stiamo
approvando e se, al contrario, lo bolliamo come “illogico”, lo stiamo rifiutando. Spesso
accompagniamo l’approvazione di un ragionamento con termini quali “conseguente”, “cogente”,
altro oggetto tu scelga ogni volta, sia che dell’oggetto posto come ipotesi tu abbia posto che è, sia che tu abbia posto che
non è, se vuoi discernere la verità con piena padronanza grazie ad un perfetto allenamento”. Si noti che sia Socrate, sia
Parmenide, sia Zenone, i tre interlocutori principali del dialogo, sono notevolmente intimoriti dall’impegno
dell’esercizio. Cfr. Aristotele, Top., I 2. 101 a 34-36: “Potendo sollevare delle difficoltà riguardo ad entrambi gli aspetti
della questione, scorgeremo più facilmente in ogni aspetto il vero ed il falso”.
6
Cfr. Aristotele, Soph. el., 164 a20-165 a37.
7
Cfr. Platone, Soph., 233 c10-11.
8
Cfr. Aristotele, Soph. el., 165 a27.
9
Un’asserzione non è l’enunciato con cui la si esprime. Questo, infatti, potrebbe essere dipendente dal contesto o
ambiguo ed essere usato per esprimere, quindi, più di un’asserzione.
13
“valido”, “congruente”, “adeguato” … e, d’altra parte, quando lo contestiamo, osserviamo che è
“invalido”, “contraddittorio”, “incongruente”, “non conseguente”, … Una parte importante del
problema che stiamo sollevando consiste, appunto, nel determinare cosa sia la valutazione logica di
un discorso e come si differenzi da altri tipi di considerazioni (estetiche, morali, …).
Si può criticare un argomento o discutendo la verità delle premesse oppure dubitando della
validità del procedimento che ci ha portato alla sua conclusione10. Stabilire se delle premesse sono
vere non spetta alla logica, ma all’esperto della disciplina a cui si riferiscono le premesse. La logica,
invece, si assume l’onere di stabilire i canoni di ragionamento corretti, ossia le regole con cui si
giunge, validamente, ad una conclusione.
Se il filosofo vuole argomentare a favore delle proprie tesi, deve affidarsi (per lo meno anche) alla
logica, ma possiamo constatare che non esiste un’unica logica, bensì diverse logiche, dunque per
mezzo di quale di esse egli deve ragionare? Nell’odierno panorama pluralista, la logica può ancora
essere considerata la tecnica per mezzo di cui l’uomo procede sicuro nei propri ragionamenti? Se sì,
occorre chiedersi a quale logica affidarsi. Ad una sola? Sempre ad una sola oppure a diverse logiche
in contesti diversi? Come discriminare tra le logiche? E tra le situazioni? Come porli in relazione? I
criteri di questa eventuale classificazione apparterrebbero ad una logica superiore a tutte le altre?
Esistono dei principi logici irrinunciabili? Se sì, come riconoscerli? Se no, dovremmo concludere ad
una qualche forma di scetticismo?
2. FORMA E VALIDITÀ
La parola “logica”, come è noto, deriva dal greco logos, termine che, tra i suoi molti significati,
assume anche quello di ragione, che è quello che più direttamente indica il campo di indagine della
nostra disciplina. La logica, in quanto formale, indica ciò che appartiene ad una relazione
10
Cfr. P. T. Geach, Reason and Argument, Basil Blackwell, Oxford 1976, p. 18.
14
generalizzabile tra le parti di un ragionamento. Essa, in altre parole, considera soltanto la natura del
rapporto che sussiste tra i termini considerati ed astrae, pertanto, da ciò che, di volta in volta, essi
sono. In tal modo, ai singoli discorsi, che trattano argomenti specifici, si contrappone l’analisi di
relazioni tra gli elementi di un discorso a prescindere dal contenuto specifico, ritenendo, appunto,
che essi possano essere, opportunamente e di volta in volta, sostituiti da contenuti particolari. Agli
argomenti eterogenei che si producono e che, in quanto tali, potrebbero interessare al lessicografo, il
logico si rivolge con un interesse diretto non alla loro mera registrazione, bensì ai tipi generali di
congruenza e incongruenza che occorrono in essi. In un sistema di logica, dunque, non si troveranno
le implicazioni di concetti specifici quali “onesto”, “scapolo”, … che richiedono di essere usati in
situazioni limitate e frasi come “tutti gli onesti non rubano” e “tutti gli scapoli sono uomini non
sposati” avranno la stessa forma logica, benché, in italiano, significhino cose diverse. Ci si può,
forse, esprimere così: se la descrizione dei collegamenti dei termini di un enunciato e degli
enunciati tra loro non fornisce alcuna indicazione su ciò che si considera il contenuto di tali
enunciati, allora si sta fornendo una forma logica di tali enunciati. Questo modo di esprimersi
potrebbe non essere del tutto appropriato perché ci sono logiche, come quelle temporale e deontica,
in cui sappiamo, per lo meno, di trattare con asserti che parlano di tempo o etica. Potremmo, forse,
allora, immaginare la forma logica di un enunciato e di un argomento come ciò da cui si possono
costruire delle inferenze valide in generale. Combinando insieme questi due tentativi di definizione
si potrebbe iniziare a formarsi una certa idea di cosa si intenda quando si analizza un enunciato o un
argomento con simboli e regole logiche.
Cosa si intende, però, con “ragionamento valido in generale”? Cosa significa “in generale”? Cosa
significa “valido”? Considero, dapprima, la seconda questione. La logica formale ritiene di dover
indicare le forme generali di ragionamenti corretti, che possono, poi, essere istanziate da un
particolare contenuto. La struttura formale degli enunciati, allora, garantirebbe la validità del
ragionamento e, perciò, esso sarebbe valido in generale. Tali forme, infatti, possono essere,
opportunamente, utilizzate per costruire un’argomentazione nuova o criticarne una che ci è
15
proposta, mostrando che essa non rappresenta l’applicazione di una forma valida. La logica si
distingue dalla psicologia del pensiero e dalla sociologia della conoscenza, che, pure, hanno tra i
propri oggetti di studio la facoltà della ragione nell’uomo, perché, mentre queste vogliono
descrivere tali processi11, considerando, di conseguenza, anche le influenze individuali e sociali sul
modo di pensare, la logica intende stabilire i canoni corretti, in generale, di possibili ragionamenti.
Poiché, come si rileva spesso, le espressioni dei linguaggi naturali (italiano, inglese, giapponese,
…), con cui abitualmente comunichiamo, sono, non raramente, ambigue e vaghe (almeno dopo
averle estratte dal loro uso in un particolare contesto), la logica formale ha ritenuto di poter meglio
lavorare sostituendo tali espressioni poco definite con simboli dal senso più determinato12. Un caso
di ambiguità del linguaggio naturale potrebbe essere “La vecchia porta la sbarra”, dove non è chiaro
se una signora anziana stia procedendo con una sbarra o se una donna, di età imprecisata, trovi il
proprio spostamento impedito da un non recente serramento. Altri esempi della stessa natura sono
“Ho visto Giovanni con il cannocchiale” e “Giovanni segue un corso per ridere”. Interessanti sono i
casi in cui l’ambiguità sorge dalla mancata chiarezza dell’ambito di validità dei termini “ogni”,
“uno”, …: “Ogni uomo ha una moglie”, infatti, può significare sia che ogni uomo è sposato con una
donna che può essere diversa dalla moglie degli altri uomini o che tutti gli uomini sono sposati con
la medesima donna oppure, ancora, può indicare una situazione intermedia tra le due precedenti. Vi
sono, poi, i casi in cui l’ambiguità nasce dalla possibilità, almeno teorica, di interpretare gli
enunciati sia letteralmente sia metaforicamente: “Ha una fame che non ci vede”, “Dorme con
occhio solo”, … Alcune volte, poi, si formano frasi negative con due negazioni (“Non c’è nessuno”,
“No che non va bene”, …), oppure la doppia negazione può avere una funzione più complessa che
11
Cfr. V. Girotto - P. Legrenzi, Psicologia del pensiero, il Mulino, Bologna; K. Mannheim, Le strutture del pensiero,
Laterza, Roma-Bari.
12
Cfr. G. Lolli, Che cos’è la logica matematica, F. Muzzio editore, Padova 1992. Non credo, come pure si scrive
spesso, che il simbolismo elimini del tutto l’ambiguità. Se il contenuto di una proposizione, come spiegherò, è l’insieme
delle sue conseguenze, l’ambiguità sorge sempre, infatti, in relazione allo scopo che ci proponiamo di raggiungere e,
dunque, essa è sempre subordinata ad esso. Meno problematico, comunque, ma limitato ad una questione di fatto e non
di principio, potrebbe essere il richiamo a G. E. Hughes – M. J. Cresswell, An Introduction to Modal Logic, in id.,
Introduzione alla logica modale, a c. C. Pizzi, il Saggiatore, Milano 1973, p. 216, n. 131, in cui si lamenta la mancanza,
nel simbolismo modale, della distinzione tra il prendere come argomento di L (“è necessario che …”) o M (“è possibile
che …”) una proposizione o un predicato, esprimendo, nel primo caso, una modalità de dicto e, nel secondo, una
modalità de re.
16
non corrisponde né all’affermazione né al rafforzamento della negazione semplice (“Non può non
sapere”, infatti, è diverso sia da “Può non sapere”, sia da “Non può sapere” sia da “Può sapere”)13.
L’articolo indeterminativo o l’articolo determinativo singolare possono indicare la totalità degli
individui di un certo genere (“Un/L’uomo è un animale razionale”). La congiunzione “o” può
collegare due enunciati intendendo escluderne uno dei due (“Studia o non mangi”, “O la borsa o la
vita”, …) o per ammettere che possano essere veri entrambi (“Credo che ascolti la musica o guardi
fuori della finestra”). Anche “e”, parimenti, può essere usato con ambiguità come nel caso in cui,
presentandomi all’appuntamento con un amico pignolo in ritardo perché mi sono fermato troppo a
lungo al bar, ricordandomi che a casa avevo fatto una telefonata, non trovassi niente di meglio che
giustificarmi dicendo: “Mi sono fermato al bar e ho fatto una telefonata”14. Alcuni elementi, poi,
che costituiscono buona parte della ricchezza e dell’utilità delle lingue naturali, come le diverse
opportunità di utilizzo di congiunzioni come “ma”, “sebbene”, “in aggiunta”, …, normalmente,
sono tutte tradotte con la congiunzione logica, ma, tramite esse, solitamente, si suggerisce anche un
certo contrasto tra ciò è congiunto, oppure una certa sorpresa nel considerarli uniti. Lo stesso accade
anche con le varie espressioni che indicano una relazione di conseguenza tra enunciati: “a patto
che”, ”dato che”, ”perciò”, … Con un poco di immaginazione non è difficile trovare altri esempi
analoghi rispetto all’ambiguità, per lo meno rispetto all’ambiguità al di fuori del contesto in cui
sono impiegati (sembra difficile, infatti, che sorgano dubbi sulla corretta interpretazione da
attribuire alle frasi citate sopra, quando sono usate in situazioni determinate e note) o alla perdita di
numerose ed importanti sfumature quando si traduce un enunciato in termini simbolici. Espressioni
non linguistiche, poi, quali il tono della voce o gli atteggiamenti posturali, che, pure, concorrono a
determinare il significato di un discorso, sono, a fortiori, esclusi. Il logico, per rigore, così sembra
comportarsi, non può ammettere che vi siano espressioni (a tal punto) ambigue. Può essere
ragionevole presupporre che, all’inizio, nella scelta e nella determinazione delle espressioni logiche,
13
14
Cfr. P. F. Strawson, Introduzione alla teoria logica, tr. A. Visalberghi, Einaudi, Torino 1961, p. 56.
L’esempio è tratto, con modifiche, da E. Bencivenga, Il primo libro di logica, Boringhieri, Torino 1985, p. 32.
17
si fosse guidati dall’uso che si fa di alcune parole del linguaggio naturale, considerate affini al
significato dei simboli (nella logica classica, la più diffusa nei manuali, le espressioni logiche
assumono abbastanza fedelmente il senso che hanno le corrispondenti espressioni del linguaggio
naturale, ma con la importante eccezione, come cercherò di mostrare, dell’operazione di
implicazione). Con lo sviluppo del simbolismo, tuttavia, questa condizione di consonanza con la
lingua naturale è stata, spesso e, molte volte, proficuamente, subordinata ad altre finalità espressive.
La logica, in quanto disciplina formale, nel senso sopra delineato, trae, dunque, le conseguenze di
determinate premesse attraverso simboli che le permettono di gestire i propri elementi in maniera
notevolmente più efficiente di quanto accadrebbe se, al contrario, tentasse di presentare i propri
contenuti in modo discorsivo. La veste simbolica è scelta per comodità, ma si tratta di una
caratteristica, di fatto, irrinunciabile data la complessità della materia e i traguardi che si propone di
raggiungere (lo stesso si potrebbe dire, per esempio anche della matematica e della fisica). La logica
simbolica si basa su un linguaggio formale e un apparato deduttivo. Il linguaggio formale
comprende un alfabeto, che è l’insieme dei simboli utilizzati per costruire le formule, e l’insieme
delle formule, un sottoinsieme delle possibili sequenze di simboli dell’alfabeto. L’apparato
deduttivo è, solitamente, formato dagli assiomi, un sottoinsieme delle formule, e dalle regole di
trasformazione (a volte gli assiomi non sono presenti) che consentono di derivare certe formule del
linguaggio. Tali formule sono i teoremi del sistema formale.
3. DUBBI SUL FORMALISMO
Non di tutti i sistemi che sono stati, storicamente, creati, è possibile fornire una caratterizzazione
intuitiva e ciò è indicativo del modo di procedere della logica simbolica che, oltre a esplicare,
cercando un maggior rigore, alcune strutture con cui ragioniamo, costruisce anche strutture nuove,
sfruttando le possibilità che le offre la propria natura simbolica.
18
Quale garanzia fornisce una ricerca che indaga solo la forma dei ragionamenti se, come sembra,
invece, la materia su cui vertono le nostre asserzioni riveste notevole importanza? La correttezza di
un ragionamento del tipo “Quel tale è figlio minore (e nella sua famiglia sono sempre stati tutti
sani), dunque ha un fratello” è corretto anche grazie al concorso determinante dei significati dei
termini usati e non solo in virtù della sua forma logica. Un altro ragionamento, basato sulla stessa
forma logica (“p → q”), con altri termini potrebbe essere, secondo i nostri plausibili usi linguistici,
inaccettabile (“Se canti, allora il quadrato dell’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti
sui due cateti”). Alcune leggi della logica classica, come ((p → q) → (p → r) → q), , hanno
esemplificazioni assurde come “Se aggiungi lo zucchero, allora il the è buono e se ci aggiungi
anche l’aceto, allora il the è buono”. Il linguaggio naturale, in altre parole, osserva delle regole che
riferiscono le espressioni ad un certo contesto e che la logica formale trascura. Cosa significano
questi esempi? Non si era detto che per valutare la validità in generale di un argomento avremmo
dovuto considerarne la forma logica e che essa è tale proprio perché astrae dai contenuti particolari?
Conviene, innanzi tutto, approfondire la natura della logica, i suoi scopi e le esigenze da cui è
sorta che sono diverse dagli obiettivi e dalle esigenze che caratterizzano il linguaggio naturale e la
comunicazione quotidiana. Senza considerare questi aspetti, posti alla base dell’elaborazione della
logica come disciplina, si rischia di fraintendere il suo formalismo e la sua ricerca del rigore. Il
rigore cui essa aspira, infatti, è di un tipo particolare e ben determinato.
4. LE RAGIONI DELLA LOGICA
Perché è sorta quella ricerca che, in generale, chiamiamo logica? La risposta più immediata è
perché senza di essa saremmo privi di conoscenze fondate, di cui sentiamo di aver bisogno nella
nostra prassi (anche intellettuale). Cosa si intende, allora, con “conoscenza fondata”?
Presumibilmente potremmo accordarci di ritenerla una conoscenza che non può essere falsa quando
19
accadono certe cose, ossia, in termini, ormai familiari, è la conclusione che segue da determinate
premesse. La logica (almeno quella rilevante, in generale, per la riflessione filosofica) ci
indicherebbe, allora come evitare che le nostre affermazioni siano ingiustificate, ossia, proposizioni
dotate di significato (“il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti
sui cateti”, “Dio ama tutti gli uomini”, …), ma non motivate. La logica non pretende di dire quel
che effettivamente accade in colui che elabora una dimostrazione, ma assicura che, per così dire,
incastrando, opportunamente, tra loro le varie premesse, necessariamente ne scaturisca una precisa
conseguenza. Il ruolo della logica, in altre parole, consisterebbe proprio nel permettere
dimostrazioni (almeno alcune). Con dimostrazione non intendo l’insieme delle ragioni che può
accadere di citare nel tentativo di difendere una tesi, bensì il procedimento che garantisce che la
conclusione segua necessariamente dalle premesse. La logica, allora, si assumerebbe il compito di
fondare le nostre conoscenze (o, almeno, come già specificato, una loro parte).
Chiamo classica15 quell’idea di fondazione secondo cui la certezza del sapere si deve basare su
degli elementi primi indubitabili.
Kant16 ritiene che si possa intraprendere “il cammino sicuro della scienza” solo seguendo il
“metodo rigoroso” di stabilire i principi secondo regole, definire con precisione i concetti, ottenere
il rigore delle dimostrazioni ed astenersi dal praticare passaggi malsicuri nel corso di una
deduzione. È chiaro che, in un’impostazione siffatta, i punti di partenza delle dimostrazioni
assumono un’importanza decisiva. Sostiene, infatti, Aristotele che la conoscenza di un oggetto
consiste nella cognizione della sua causa e nel sapere che essa è proprio la causa di quell’oggetto, in
virtù della quale esso non potrebbe essere diverso da quello che è17 e, prosegue, la dimostrazione
(apòdeixis), o sillogismo (termine greco che significa “calcolo, ragionamento”) scientifico, si
costituisce necessariamente in conformità a proposizioni prime, vere, immediate e anteriori alla
15
Cfr. G. Lolli, QED. Fenomenologia della dimostrazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, p. 19.
Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B XXXVI, heruasgegeben von W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt am
Main, p. 36.
17
Cfr. Aristotele, An. Post., I 2, 71 b 9-13.
16
20
conclusione18. Il principio di una dimostrazione sono premesse immediate, ossia indimostrabili
perché non ne esiste alcuna che le preceda19. Se esse non fossero prime e immediate, dovremmo
regredire ulteriormente e infinitamente nella ricerca dei principi della dimostrazione senza poterne
mai elaborare una. Se non fossero cause della conclusione, non conosceremmo davvero la
conclusione, poiché ignoreremmo la ragione per cui essa è quella che è e, in quanto cause, le
premesse, è chiaro, sono anche anteriori alla conclusione. Devono essere vere, infine, affinché siano
conformi alla realtà20. In un'altra opera, lo stagirita sostiene che si ha una dimostrazione quando la
conclusione risulta da asserzioni vere e primitive o da asserzioni che sono, a loro volta, conclusioni
dimostrate da premesse prime21. In aggiunta al concetto già espresso, dunque, Aristotele precisa che
una dimostrazione può anche partire da conoscenze che non sono prime e immediate, ma solo a
condizione che tali conoscenze siano conosciute per mezzo di una dimostrazione che, in ultima
analisi, discende da principi primi indimostrabili.
Anche Descartes, nonostante le critiche che rivolgeva alla logica (come gli era stata insegnata al
collegio di La Flèche) per la sua inutilità come metodo di scoperta, riteneva che tutte le cose
conoscibili scaturissero deduttivamente da “lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili”22,
purché si proceda passo a passo. Non solo i punti di partenza, dunque, ma anche tutti i singoli
passaggi, se eseguiti con ordine e rigore, godono, a suo giudizio, della medesima certezza
immediata dei principi primi. La difficoltà delle dimostrazioni riguarderebbe, dunque, solo la loro
globalità e scomparirebbe considerandole localmente. Dalla considerazione della successione dei
singoli passaggi e dalla certezza del punto di partenza possiamo attingere la fondatezza della
dimostrazione.
Sullo sfondo di questa esigenza di garantire la correttezza del ragionamento, si può comprendere
l’idea secondo cui la logica simbolica, fondata su di un linguaggio artificiale per evitare i problemi
18
Cfr. ivi, I 2, 71 b 20-25.
Cfr. ivi, I 2, 72 b 6-8.
20
Cfr. ivi, I 2, 71 b 25-32.
21
Cfr. Aristotele, Top., I 1, 100 a 28-29.
22
Ivi, A. T. 19, 6-7.
19
21
di quello naturale, potrebbe essere lo strumento che, proprio grazie al suo formalismo, garantisce al
pensatore che non cadrà in errore. Era, infatti, sconcertante che a dichiarazioni tanto impegnative
riferite ad un metodo che pare tanto semplice quanto affascinante seguisse, poi, un disaccordo
profondo tra i filosofi non appena essi compissero i primi passaggi dei loro ragionamenti23. “Un
filosofo sogna con facilità” 24 osservava Condillac e Leibniz sembrava rendersene conto a tal punto
da desiderare di risolvere le dispute con un “calculemus”25.
L’aver parlato di logica in quanto disciplina formale non significa che in essa il significato non ha
importanza. Potrebbe generare tale equivoco l’aver affermato che la garanzia del sussistere della
consequenzialità tra le premesse e la conclusione è trattata con simboli in un formalismo che astrae
dal significato particolare delle espressioni che vi ricorrono (e in ciò risiederebbe l’universalità che
è stata attribuita alla logica). In realtà, il formalismo che dovrebbe indicare la corretta costruzione
di una dimostrazione è stato elaborato proprio dalla concezione del modo in cui i significati dei
diversi enunciati concorrono a costituire il significato dell’intero enunciato e di come i significati
dei diversi enunciati si combinino nella conclusione. Proprio nella misura in cui il formalismo, poi,
è stato elaborato al fine di garantire che a premesse di un certo valore designato seguisse sempre
una conclusione di un certo valore designato si può sostenere che esso sia stato concepito in
funzione della semantica. Prima ho sollevato la questione su come si componga legittimamente il
linguaggio della logica se esso, come si dice, astrae dai contenuti. Credo che, ora, si possa
comprendere che tale composizione, almeno parzialmente, riposi su ciò che ci aspettiamo che siano
le funzioni del linguaggio, qualunque sia l’argomento di cui si sta trattando. In questo modo, per
esempio, si avverte l’esigenza di assumere un preciso ruolo per la negazione: è, infatti,
presumibilmente, di grande importanza che si possa negare qualcosa non meno che asserirla. Anche
23
Cfr. Etienne Bonnot (Condillac), Traité des systémes, in id., Ouvres philosophiques, vol. I, a c. di G. Le Roy, 1798 (in
id., Trattato dei sistemi, a c. M. Garin, intr. E. Garin, Laterza, Bari 1977, p. 13).
24
Ivi, p. 6.
25
Entusiasmo che, oggi, è riconosciuto eccessivo. Nel 1936, ad esempio, Alonzo Church ha dimostrato il teorema che
prende il suo nome (talvolta denominato, più estesamente, teorema di Church-Turing) secondo cui la logica dei
predicati senza identità è indecidibile, ossia non esiste un algoritmo che consenta di stabilire se una qualsiasi sua
formula sia o non sia valida. Più precisamente, essa è definita semidecibile: se una formula è valida, allora vi è, anche,
l’algoritmo che lo conferma, ma se non è valida, allora potrebbe non esistere l’algoritmo che lo stabilisce.
22
se la negazione, in italiano o in altre lingue naturali, non ha un ruolo precisamente determinato,
appare, in ogni caso, irrinunciabile assumerla nella logica ed assegnarle il senso di contraddire
l’asserzione cui si aggiunge. In questo modo, poi, possiamo già porre delle incongruenze o delle
conseguenze, indipendenti dalla materia a cui si riferiranno. Anche a proposito delle altre costanti
logiche si potrebbero formulare analoghe considerazioni. Occorre, poi unire ad esse, anche
considerazioni di economia che, all’atto pratico, risultano importanti. Nei sistemi logici è possibile
dedurre una lunga serie di forme valide di ragionamento da pochi elementi iniziali (gli assiomi e le
regole o solo le regole senza assiomi). Nel passaggio dalla lingua naturale a quella formalizzata,
dunque, gli elementi che sarebbero stati di impedimento al raggiungimento di questo obiettivo di
sistematicità, quali la mutevolezza di significato delle medesime forme linguistiche e la
reduplicazione delle funzioni logiche, sono state abbandonate a favore della stabilità di alcuni
elementi, da assumere come punti di partenza della trattazione. Tra logica formale e linguaggio
naturale allora, volutamente, il parallelismo, quando c’è, è, ad ogni modo, solo parziale (diventa,
invece, sempre più evidente la sua affinità con la matematica).
Qualcuno potrebbe vederci un paradosso: se la logica volesse essere perfetta, divenendo, in altre
parole, in grado di parlare di tutto senza rinunciare alle molteplici sottigliezze delle lingue naturali
(ci si dovrebbe, però domandare a quali di queste lingue ci si riferisca perché ognuna di esse ha le
proprie peculiarità), finirebbe, inevitabilmente, per replicare la lingua naturale di partenza e, quindi,
la sua impresa si rivelerebbe inutile. La questione, in realtà, è più complessa e, ancora una volta, la
risposta sarà data solo gradualmente, nel corso dell’esposizione della tesi. Ad intuizioni a supporto
di tale concezione, quali quelle suggerite dagli esempi addotti in precedenza sulle modalità di
formazione della logica, se ne potrebbero opporre altri. Se ad esempio, una persona dicesse
“Sebbene ella sia gentile, è anche cortese”26, probabilmente penseremmo che ha qualche mancanza
lessicale, ma non, credo, logica e, allora, potremmo trovare adeguata la seguente formalizzazione di
quell’enunciato: “p ∧ p” (con “p” = “è gentile”). Occorre, inoltre, considerare il rapporto che si
26
Esempio tratto, con modifiche, da P. F. Strawson, op. cit., p. 63.
23
ritiene intercorrere tra la teoria logica e gli enti del mondo per determinare se vi siano carenze nella
formalizzazione dei nostri ragionamenti. L’esigenza di garantire la correttezza del ragionamento
non nasce da interessi puramente epistemologici, anzi, probabilmente, è stato decisivo un altro
aspetto, quello ontologico. Si ritiene importante trarre le conseguenze giuste da un insieme di
premesse perché si ritiene che, in tal modo, la nostra conoscenza sia più affidabile e ciò è possibile
perché il mondo sarebbe organizzato non casualmente, ma, appunto, secondo relazioni ben precise
tra gli enti che lo compongono e che il ragionamento può conoscere (anche, e soprattutto, in
anticipo rispetto al loro accadere). La correttezza della conclusione corrisponde alla necessità
dell’accadere di un certo evento nella realtà e perciò è essenziale per noi ragionare (almeno in certi
ambiti27) correttamente per non essere sopraffatti dagli eventi. La cogenza formale, orientata a
passare da premesse dotate di un valore di verità designato a conclusioni pure dotate di un certo
valore di verità (comunemente, soprattutto nelle discussioni filosoficamente rilevanti, il valore di
verità designato è “vero”) rinvierebbe, dunque, ad una connessione ontologicamente necessaria tra
gli accadimenti del mondo. L’individuazione delle regole formali non sarebbe, pertanto, di natura
esclusivamente epistemica. La questione introduce nella discussione condotta fin qui un nuovo
elemento: non si tratta più, infatti, di rispondere, solamente, alla domanda “come dobbiamo
ragionare?”, ma anche a quella “cosa giustifica il modo in cui sosteniamo che dovremmo
ragionare?”. Una serie di ricerche psicologiche, ha mostrato che le capacità logiche rivestono un
essenziale ruolo adattivo e sono, perciò, almeno in una certa misura, diffuse tra tutti gli uomini28.
Una questione centrale, che tratterò nei capitoli successivi, suggerita anche dalla considerazione
dell’esistenza di una molteplicità di sistemi di logica diversi, riguarda la giustificazione della logica
stessa: essa (o, meglio, una o alcune logiche) è in grado di autofondarsi oppure abbisogna di
un’eterofondazione? In che modo avverrebbe l’uno o l’altro caso? Le leggi logiche sono primitive o
evidenti? Sono sicure? Quale portata si raggiungerebbe con tale giustificazione: locale o globale?
27
In determinati ambiti e per determinate persone non si esclude che possa risultare vantaggioso avere convinzioni
errate (ad esempio credere in un risultato positivo impossibile potrebbe comunque spingere qualcuno a realizzare,
almeno parzialmente, un obiettivo degno di essere perseguito).
28
Cfr. V. Girotto, Il ragionamento, Il mulino, Bologna 1994.
24
CAPITOLO II
RAGIONAMENTO E LOGICA
25
1. RAGIONAMENTO E LOGICA
Nel capitolo precedente ho cercato di mostrare la complessità dei termini e delle questioni che
gravitano intorno alla logica e alla sua relazione con il discorso filosofico. Cercherò, ora, di
analizzare più da vicino quale rapporto possa avere la logica con le varie forme di ragionamento per
valutare la plausibilità e il senso della sua natura normativa ed introdurre la questione della sua
rilevanza per la ricerca filosofica.
Sembrerebbe un’affermazione di senso comune affermare che per ragionare correttamente e
appropriatamente occorra impiegare la logica. Di fatto, questa è stata anche l’opinione di Frege:
“Come devo pensare per raggiungere la meta, ossia la verità? Dalla logica ci attendiamo una
risposta a questa domanda”29.
Per entrare in argomento, propongo di considerare le tre questioni seguenti:
(1) come ragioniamo?
(2) come dobbiamo ragionare?
(3) come giustifichiamo le norme che imponiamo al ragionamento?
La prima domanda pone una questione descrittiva, la seconda si situa in un ambito normativo e la
terza, invece, in un ambito meta-normativo. Rispondere alla domanda (1) richiede un’indagine
empirica di natura psicologica circa i processi di pensiero che, effettivamente, compiamo quando
ragioniamo. Per rispondere a (2), dovremmo elaborare una teoria del ragionamento valido e, nel
caso di (3), occorrerebbe poter controllar la validità delle stesse norme che assegnano la validità ai
ragionamenti. Potremmo, sbrigativamente, archiviare la prima questione come riguardante gli
psicologi cognitivi e assicurare che essa non ha rilevanza né per il logico né per il filosofo e,
dunque, in questa ricerca, non occorre considerarla. Naturalmente, pensare di passare,
semplicemente, dal livello di fatto (quando ragioniamo, nella nostra testa accadono queste cose) ad
un livello di diritto (dunque è valido fare così e così) non sarebbe giustificato. Come potrebbe, però,
29
G. Frege, Logica, 1897, in id., Senso, funzione e concetto. Scritti filosofici 1891-1897, a. c. C. Penco ed E. Picardi,
Laterza, Roma-Bari 2005, p. 115.
26
lo psicologo, rivolgersi agli atteggiamenti che ritiene che siano ragionamenti senza riferirsi, almeno
parzialmente, al significato che tale termine ed altri, ad esso collegati, (inferenza, conclusione, …)
assumono nella logica? E come potrebbero, i logici, essersi dedicati ad elaborare la logica come
dottrina del ragionamento corretto se non avessero avuto esperienza dei ragionamenti quotidiani e
consueti, almeno come punto di partenza e come oggetto da perfezionare, emendare e correggere?
La linea che separa l’analisi dei nostri ragionamenti concreti e le loro forme logiche valide non può,
credo, essere tracciata con nettezza (il che non significa, però, che, semplicemente, non vi sia alcuna
distinzione d’ambito).
E la terza domanda? Non introduce, forse, una circolarità inaccettabile nel modo di procedere
perché occorrerebbe, almeno apparentemente, giustificare ciò con cui, appunto, si può giustificare
qualcosa? Oppure comporta un regresso all’infinito di giustificazioni di altre giustificazioni?
Introducendo un principio di risposta, che svilupperò più avanti, vorrei far notare come tale
questione richieda di esplicitare la nozione di meta-teoria, di una teoria, in altre parole, che assume
come proprio oggetto un’altra teoria di ordine inferiore (detta, appunto, teoria-oggetto) rispetto ad
essa. Per parlare dei sistemi formali, nel precedente capitolo, per esempio, ho utilizzato una metateoria che era costituita da un frammento della lingua italiana. Anche le meta-teorie possono essere
formalizzate e, astrattamente, potrebbero richiedere un’assicurazione della propria validità o in una
successiva meta-teoria di cui sarebbero l’oggetto e così, ancora, infinite volte, oppure potrebbero
contenere in sé la propria meta-teoria (o la meta-teoria di una teoria di ordine superiore),
interrompendo, in tal modo, la catena delle successioni di teorie-oggetto e meta-teorie. Si giunge, in
questo modo, ad affrontare il tema, filosoficamente notevole, della possibilità dell’auto-fondazione
di una teoria, che sarà, però, approfondito in seguito.
27
2. RAGIONAMENTI EFFETTIVI
L’obiettivo della logica non è, come si è detto, di descrivere i processi effettivi di ragionamento,
tuttavia non è privo di interesse, come spero di mostrare, soffermarsi a delineare più da vicino il
rapporto che intercorre tra il livello logico e quello dei ragionamenti prodotti di fatto al fine di
caratterizzare più precisamente l’aspetto normativo del primo rispetto al secondo ed affrontare
un’analisi più ravvicinata delle tre questioni sopra presentate.
L’idea che la logica non sia importante per ragionare potrebbe essere intesa in almeno due modi:
(a) i sistemi logici (finora sviluppati) non sono un buon modello del ragionamento umano;
(b) possiamo condurre dei ragionamenti legittimi senza rispettare i procedimenti logici.
Si potrebbe sostenere (a) senza impegnarsi anche ad assumere (b), come mostrano gli esempi
seguenti. La maggior parte dei ragionamenti consueti dipende da credenze generali che non sono
menzionate esplicitamente nel trarre la conclusione. Si potrebbe, infatti, approvare un ragionamento
di questo tono: il comune dovrebbe organizzare dei corsi di musica per i ragazzi perché l’arte è
formativa. Logicamente, però, andrebbe riordinato così: l’arte è formativa, il comune dovrebbe
organizzare tutto ciò che è formativo (premessa mancante nella formulazione originale), la musica è
arte (altra premessa mancante nella formulazione originale), dunque il comune dovrebbe
organizzare corsi di musica. Delle due premesse che sono state aggiunte per completare
l’argomento, la prima è una credenza implicita e la seconda è basata sul significato delle parole
impiegate. Consideriamo, ora, il seguente esempio: Marco è più alto di Andrea, Andrea è più alto di
Luca. Non ci sono problemi a concludere: Marco è più alto di Luca. L’inferenza non pone
particolari problemi ad alcuna persona, tuttavia le premesse non contengono alcuna stipulazione
della transitività della relazione “è più alto di”. Normalmente, le persone non hanno bisogno di tale
aggiunta e la ritengono emergere, spontaneamente, dal significato noto dei termini. Nei
ragionamenti concreti, spesso, si omettono dei passaggi quando sono considerati ovvi, mentre,
correttamente e comprensibilmente, la logica formale richiede che siano tutti esplicitati. Non vi è
28
nulla di strano in questa differenza, anche se va mostrata e chiarita. La combinazione di queste
caratteristiche del ragionamento comune, ad ogni modo, diventa più significativa, ovviamente,
quando i ragionamenti sono lunghi e complessi. In tal caso, il mancato controllo esplicito delle
premesse può condurre ad errori logici che, nei casi più semplici, invece, si riuscirebbe ugualmente
ad evitare.
Molto spesso è problematico esibire la struttura formale di un’argomentazione svolta
discorsivamente. È questo il caso, per esempio, in cui chi sostiene una tesi è un autore vissuto in un
contesto differente dal nostro ed occorre, di conseguenza, approfondire la sua cultura per
comprendere appieno la portata ed il senso delle sue espressioni.
Non tutte le inferenze valide, poi, sono sensate per gli scopi del ragionamento ordinario. Alcuni
esempi sono già stati forniti nel primo capitolo, perciò, richiamo, qui, solo alcuni casi. Da un
insieme qualsiasi di premesse, infatti, è teoricamente possibile trarre un’infinità di conclusioni. Da
“Il sole scalda” si può dedurre “Il sole scalda e il sole scalda” (e si potrebbe aggiunger un numero
indefinito di congiunti). Da “Se il sole scalda possiamo fare il bagno e il sole scalda”, possiamo
inferire “Possiamo fare il bagno”, ma, anche, analogamente al caso precedente, “Possiamo fare il
bagno e possiamo fare il bagno” oppure, ancora più banalmente “Il sole scalda”. Da due premesse
prive di collegamento fra loro come “Il sole è una stella” e “Il treno va a Domodossola” possiamo
concludere “Il sole è una stella e il treno va a Domodossola”. Altri problemi derivano dalla
considerazione della disgiunzione: se è vero che “Il sole è una stella” è anche vero che “il sole è una
stella o a Milano piove”. Particolarmente rilevanti, anche per il dibattito logico, sono stati, poi, i
problemi posti dai valori di verità del condizionale materiale, che è falso solo se l’antecedente è
vero e il conseguente falso e, quindi, una proposizione falsa implica qualsiasi proposizione e, di
converso, una proposizione vera è implicata da qualsiasi proposizione, quindi, date due qualsiasi
asserzioni, non importa quali siano, sicuramente, almeno una delle due implica l’altra. Questo modo
di intendere l’implicazione non appare essere quello comunemente intenso perché permette di
29
congiungere frasi che esprimono concetti che hanno alcuna, reciprocamente, relazione come, ad
esempio: “Se il quadrato è rotondo, allora il sole è una stella”.
Spesso, poi, nei comportamenti quotidiani, si ritiene che da un insieme di premesse non segua
nulla, perché, in realtà, nulla di interessante potrebbe esserne dedotto. In tal caso ci si riferisce,
come dovrebbe ormai essere chiaro, ad una nozione di conseguenza logica significativamente
diversa da quella propria di molti sistemi logici.
3. RAGIONAMENTI VALIDI
È esperienza comune ritenere di aver compiuto, talvolta, una deduzione valida30. Si tratta di
un’esperienza meta-deduttiva che ha per oggetto un ragionamento e che ne sancisce, non
necessariamente in maniera definitiva, la validità. Questa capacità, di livello, per così dire, superiore
rispetto al saper ragionare, permette l’istituirsi di un piano normativo e ciò impedisce di separare
nettamente la logica dalla psicologia31. Non comprenderemmo, infatti, il senso di operare secondo
regole d’inferenza e principi logici se tali regole e principi non avessero, almeno in una certa
misura, un legame con le nostre intuizioni di validità dei ragionamenti. Anche nel ragionare comune
vi è una certa comprensione ed un certo utilizzo del livello normativo della logica, infatti siamo in
grado di accettare ed elaborare argomentazioni in cui il significato dei termini utilizzati non ci è
noto (si dovrebbe, forse, concedere che si comprenda che i termini sono impiegati in modo
plausibile) e dobbiamo, dunque, basarci sulla forma che il ragionamento ci presenta. Ad esempio
(immaginiamo di rivolgerci una persona che non conosca la teoria armonica della musica tonale):
-
Se la sensibile non è intonata dalla voce superiore, allora può non salire a tonica;
-
La sensibile non è intonata dalla voce superiore.
30
Cfr. P. N. Johnson-Laird – R. M. J. Byrne, Deduction, Lawrence Erbaum Associates, Hillsdale, N. J. 1991, p. 147.
Un altro senso in cui avvicinare psicologia e logica è quello di notare che anche le acquisizioni della psicologia
possono suggerire prescrizioni per il ragionamento corretto. Accade, infatti, che la psicologia mostri la causa di errori
sistematici commessi nel ragionare e che, conoscendoli si possono evitare.
31
30
Chiunque trarrebbe la conclusione corretta: ∴ la sensibile può non salire a tonica.
Se le regole logiche non fossero, almeno in una certa misura, normative, si dovrebbe concludere
alla loro non adattività, che, però, sembra difficile da negare32 e le nostre intuizioni meta-normative
offrono lo spunto iniziale da cui possono sorgere le teorie, offerte dalla logica, della validità degli
argomenti. Le argomentazioni effettive ritenute intuitivamente valide che si producono sia negli
atteggiamenti quotidiani sia in pratiche più raffinate, come quella scientifica, offrono il campo alle
precisazioni, ai raffinamenti, alle generalizzazioni e, anche, alle modifiche apportate, poi, dalla
logica.
4. UTILITÀ DELLE DIMOSTRAZIONI
Il ruolo che una dimostrazione logica svolge allo scopo, appena ricordato, di garantire la validità
di una conclusione, è multiforme33. Può capitare che non sempre il rigore sia richiesto e, a volte,
solo quando la situazione cambia in un certo modo si sente l’esigenza di maggior precisione allora
si cercano dimostrazioni delle nostre precedenti intuizioni e conoscenze e tali dimostrazioni
possono anche smentire e correggere ciò che, prima, ci era sembrato sufficientemente plausibile34.
La ricerca di una dimostrazione, in genere, si accompagna non solo alla ricerca di come sia fatto
qualcosa, ma anche alla spiegazione del suo perché. In tal modo, si vorrebbe comprendere il motivo
che lo determina per poter dire di averlo spiegato. Se si possiede la spiegazione di qualcosa, la si
può anche controllare, prevedere o utilizzare e ciò, come si comprende, è, spesso, un notevole
32
Cfr. V. Girotto, Il ragionamento, Il Mulino, Bologna 1994.
33
Cfr. G. Lolli, QED. Fenomenologia della dimostrazione, Bollati Boringhieri, Torino, 2005, cap. II.
Il recente interesse per la bioetica potrebbe costituire un esempio di come, mutate le condizioni storiche (in questo
caso, il progresso della scienza e della tecnologia), occorra rinunciare alle nostre precedenti intuizioni e al nostro sapere
che non si mostra abbastanza rigoroso su concetti come vita, morte, salute, malattia, cura, deontologia medica, … Senza
certi cambiamenti scientifici e tecnologici, non è implausibile pensare che non avremmo sentito l’esigenza di una tale
ricerca di nuovo e più profondo rigore.
34
31
vantaggio. Saper rendere ragione35 delle cose ci permette di agire senza affidarci al caso.
Dimostrare qualcosa permette di accrescere la comprensione di ciò di cui si tratta ed affinare e,
eventualmente, correggere o, addirittura, smentire, le nostre intuizioni e le nostre conoscenze
precedenti. Quando si sa che qualcosa è stato dimostrato, ci possiamo fare affidamento senza rifare,
ogni volta, tutto il processo necessario alla dimostrazione, ossia, la dimostrazione ci mette a
disposizione scorciatoie per la comprensione e per l’azione. La nostra conoscenza potrà, quindi,
utilizzare più economicamente le proprie risorse ed essere più efficiente rispetto al caso in cui
dovesse, ogni volta, assicurarsi, nuovamente, ogni passaggio. I nostri stessi modi di intuire e di
procedere in altri casi, poi, avvertiti dell’esperienza maturata nelle precedenti dimostrazioni,
potranno essere considerati più affidabili e la nostra capacità di affrontare nuovi problemi potrà
essere migliore. L’aver provato qualcosa, poi, avviene ponendola in relazione ad altre cose e ciò,
ovviamente, può suggerire analogie inaspettate ed indicare nuove caratteristiche e proprietà prima
impensate ed ora disponibili alla conoscenza e, eventualmente, anche all’impiego pratico. Una
dimostrazione non è, dunque, una banale sequenza di passaggi meccanici, ma può suggerire molte
cose nuove ad una mente creativa: collegamenti sconosciuti, nuove relazioni tra elementi, nuove
proprietà e analogie, nuove generalizzazioni e modifiche di concetti precedentemente acquisiti,
conoscenza delle condizioni36 da cui discendono certe conseguenze esplicitandone il contenuto e,
quindi, suggerimento delle circostanze appropriate per ottenere i risultati voluti, …
Una
dimostrazione ottenuta in un certo ambito, poi, ne potrebbe suggerire altre in ambiti diversi, più o
meno affini, oppure rivelarsi adatta ad essere, più semplicemente, trasposta in essi. Facendo uso di
variabili, essa rende capaci di comprendere una generalità di casi, oltre a quello singolo che ha
suscitato l’interesse originario alla spiegazione, quindi essa si rivela capace di una spiegazione di
tutta una serie di casi omogenei e permette, al momento opportuno, di affrontare più comodamente
tali nuovi casi particolari, suggerendo, se non proprio fornendo esplicitamente, le soluzioni
appropriate. Nel corso di una dimostrazione, poi, come anticipato, si possono correggere intuizioni
35
36
Cfr. Platone, Thaet., 177 b 2.
Affronterò fra poco il tema specifico della distinzione fra condizioni necessarie e sufficienti.
32
e conoscenze precedenti e, in tal modo, si creano, letteralmente, nuovi concetti. Si tratta di un
aspetto decisivo per comprendere l’importanza delle dimostrazioni, poiché in tal modo si determina
l’espandersi, a volte anche inaspettato, della nostra conoscenza poiché le si permette di rivolgersi ad
un nuovo ambito di problemi, ad un nuovo territorio da esplorare e le si consente di riguardare alle
proprie precedenti acquisizioni con occhi e prospettive diverse. Nel corso dei tentativi di
dimostrazione, poi, non solo si scoprono nuovi concetti, ma anche nuove tecniche euristiche, nuovi
artifici e nuove forme di ragionamento: dimostrazione per assurdo; prova attraverso teorie più
potenti dell’ambito a cui si applica ciò di cui si ricerca la dimostrazione; prova che ricorre non solo
alle regole formali, ma anche alla rappresentazione semantica dell’universo di discorso, ossia a ciò
che è vero in determinate situazioni; dimostrazione per induzione; dimostrazione che scopre nuove
applicazioni di conoscenze già acquisite ma scarsamente utilizzate; … Alcune dimostrazioni che
falliscono, poi, consentono, in ogni modo, di acquisire nuovi risultati intellettuali perché conducono
alla scoperta di controesempi che invalidano ciò che si era presupposto essere vero e, a sua volta, lo
stesso controesempio può ispirare la ricerca di nuovi teoremi. In alcuni casi, si dimostra che alcune
conseguenze sono impossibili sotto determinate circostanze e permettono, quindi, di tracciare dei
limiti a certe possibilità (dimostrazioni per assurdo) o di mostrare l’indipendenza reciproca di
assunzioni diverse (dimostrazioni di indipendenza).
5. ARGOMENTI FILOSOFICI
Una dimostrazione, poi, mette in luce importanti differenze tra le premesse che si assumono che,
nel modo ordinario di trattare il linguaggio, invece, spesso, si trascurano. Non si tratta solo del fatto
già richiamato di esplicitare premesse ed assunzioni che rimarrebbero, altrimenti, implicite, ma
anche quello di distinguere tra necessità e sufficienza delle condizioni che occorrono per giungere
33
alla conclusione cercata37. Una qualsiasi cosa, o evento, p è condizione sufficiente di un’altra cosa,
o evento, q, se il verificarsi di p implica il verificarsi anche di q. Non si dà il caso che, quando
accade p, non accade, di conseguenza, anche q (“se p, allora q”, in simboli: p → q) e se constatiamo
che non è accaduto q, allora non è neppure accaduto p ( ¬ q → ¬ p) . Dal solo fatto che è accaduto q,
però, non possiamo sapere se è accaduto anche p, perché non possiamo escludere che anche altre
cause, oltre a p, implichino l’accadere di q. Diversamente, p è condizione necessaria di q, se ogni
volta che si verifica q, allora si verifica anche p (“q solo se p”: q → p). In questo caso, dal fatto che è
accaduto q, è legittimo inferire che è accaduto anche p, perché p è causa necessaria di q, dunque
deve sempre concorrere al suo verificarsi. Se non occorre p, inoltre, allora, sicuramente, non si è
verificato nemmeno q ( ¬ p → ¬ q), ma, non necessariamente, se non si è verificato q, allora non si è
verificato nemmeno p, perché non è detto che p sia causa sufficiente di q, dunque, per causare q,
oltre a p, potrebbe essere necessario il concorso di altre e diverse cause. Una cosa, od un evento,
potrebbe, come si vede, esser causa sufficiente, ma non necessaria, o viceversa, necessaria, ma non
sufficiente di qualcos’altro. Potrebbe anche accadere, però, che la medesima cosa, o evento, sia,
insieme, causa sufficiente e necessaria di un'altra cosa (o evento). In questo caso, si stabilisce, tra
esse, come si nota dall’unione dei due condizionali (p → q e q → p), una relazione di equivalenza
(p ↔ q) in cui all’occorrere di p segue l’occorrere di q e viceversa, dunque ognuna delle due è causa
sufficiente e necessaria dell’altra (se ne accade una, deve necessariamente accadere anche l’altra e
quest’ultima può essere accaduta solo se è accaduta anche la prima). Da questa osservazione è facile
accorgersi, anche, che quando p è condizione solo sufficiente o solo necessaria di q, allora q è,
rispettivamente, condizione necessaria oppure condizione sufficiente di p. Quando compiamo una
dimostrazione organizziamo, appunto, le nostre conoscenze in un insieme di premesse e da esse,
applicando determinate regole d’inferenza, giungiamo ad una conclusione, ossia mostriamo la
validità, tramite alcuni passaggi, del condizionale che unisce le premesse alla conclusione. A questo
punto, dopo aver richiamato l’attenzione sulla distinzione tra condizioni sufficienti e condizioni
37
Cfr. S. Wolfram, Philosophical Logic. An Introduction, Routledge, London and New York 1990, pp. 15-24.
34
necessarie, possiamo notare come le premesse, rispetto alla conclusione, siano condizioni sufficienti
e non necessarie. Ciò significa una cosa importante e sottile: una dimostrazione assicura che, date
certe condizioni, occorre una certa conclusione, ma non che, data quella medesima conclusione,
allora essa discende, in quel caso particolare, da quelle premesse. Da questa osservazione, un
filosofo dovrebbe trarre, spesso, motivo di cautela nel proprio procedere. Se, infatti, egli si
impegnasse a confutare una certa conclusione, mostrando che occorre rigettarne le premesse, non
potrebbe ritenere di aver dimostrato come quella conclusione non possa, in assoluto, essere
accettata. Se lo facesse, si renderebbe colpevole di confusione tra condizioni necessarie e
sufficienti, mentre, in realtà, se non avesse commesso altri errori, avrebbe solo mostrato che un
certo insieme di premesse non è sufficiente a dimostrare quella tesi. Questa circostanza deve essere
tenuta presente in molteplici occasioni, sia quando l’insieme delle premesse è, esaurientemente,
fornito dallo stesso pensatore con cui ci si confronta, sia quando è congetturato da
un’argomentazione ellittica, sia, infine, quando è formulato da se stessi allo scopo di spiegare un
certo fatto. In tutti e tre i casi, come si è già mostrato, non si deve ritenere di aver manifestato la
definitiva implausibilità di una certa tesi, ma solo, nel migliore dei casi, di averne mostrato la non
consequenzialità rispetto alle premesse date. Nel secondo caso, in più, occorre completare, secondo
il principio di carità, l’insieme delle premesse e se la dimostrazione rimane senza successo, solo con
cautela e per motivi d’ordine extra-logico (presumibilmente storici), si può, ragionevolmente,
ritenere confutato un certo pensatore. Nel terzo caso, infine, quello più interessante perché sorge da
una ricerca filosofica d’ordine generale e non limitata ad un ambito polemico, normalmente
l’investigazione si svolge a ritroso, dalla conclusione alle premesse: una certa esperienza desta
meraviglia38 e ci si domanda quali ne siano le cause39 e le peculiarità. Si considera un evento, cioè,
e se ne ricerca la spiegazione. Quand’anche si giungesse alla formulazione di un insieme di principi
che, coerentemente svolti permettessero di comprendere, come loro conclusione, l’evento che ha
originato la ricerca, però, non si avrebbe, ancora, fornito una giustificazione per l’unicità di tale
38
39
Cfr. Platone, Thaet., 155 b 2-4; Aristotele, Met., 982 b 11-19.
Cfr. Aristotele, Met., 981 b 28-29.
35
spiegazione. Non si potrebbe escludere, in pratica, che esistano altre spiegazioni altrettanto valide.
Se la conduzione della dimostrazione, poi, richiede l’esistenza di determinate entità non altrimenti
giustificate (ad esempio, le idee per spiegare la possibilità della conoscenza40, …) non si potrebbero
accampare diritti del tutto fondati sulla necessità di postularne l’esistenza. La mancanza di
spiegazioni alternative, infatti, potrebbe essere dovuta solo alla mancanza di fantasia, di acume o di
volontà di proseguire la ricerca e non certifica, quindi, l’inesistenza di soluzioni alternative. La
scoperta di una dimostrazione particolare, infatti, è, generalmente guidata da una serie di domande
specifiche a cui la soluzione tenta di rispondere e di pre-comprensioni che situano la ricerca in un
determinato spazio di manovra, quindi, l’ignoranza di spiegazioni alternative potrebbe essere
dovuta anche alla persistenza delle medesime domande e pre-comprensioni che hanno guidato la
prima scoperta (oppure possono essere uguali le domande e diverse le idee-guida, o il contrario). In
altri ambienti, tuttavia, al medesimo evento si potrebbe trovare una spiegazione differente.
Spiegazioni differenti della medesima conclusione potrebbero suggerire generalizzazioni e
collegamenti differenti, oppure potrebbero essere diversamente trasponibili in altri ambiti, o affinare
in altro modo la nostra intuizione e la nostra conoscenza, permettere di dimostrare, oltre a quella
originariamente in questione, cose diverse, consentire un’altra economia delle nostre risorse
intellettuali, procedere da principi più o meno fermi, … Ciò che cambia, in differenti dimostrazioni,
può essere, come si vede, importante e condurre alla costruzione di corpi di conoscenze alquanto
differenti tra loro. Un’altra conseguenza, poi, che deriva dall’impossibilità di escludere l’esistenza
di molteplici dimostrazioni della medesima conclusione (di fatto, in matematica, per esempio, è
possibile trovarne numerosi esempi) è che non si può proclamare con sicurezza di aver elaborato un
sistema intellettuale da cui sono escluse conseguenze considerate sgradite. Potrebbe darsi il caso,
non infrequente, che si intenda proseguire l’opera di un filosofo che si riconosce come proprio
maestro, emendando, però, la sua riflessione da quelli che sono considerati dei difetti. In nessun
sistema intellettuale, tuttavia, si può escludere che vi siano conseguenze sgradite. Nel momento in
40
Espongo tale riferimento a Platone solo come esempio, senza volermi impegnare in un’esegesi della sua opera. Si
confronti, ad ogni modo, Platone, Phaed., 96.
36
cui chiudiamo la nostra riflessione, ritenendoci soddisfatti, non possiamo escludere che, per citare
un esempio storico, da qualche parte, un analogo di Russell rispetto a Frege ci stia scrivendo la
lettera che confuta il nostro sistema.
37
CAPITOLO III
C. I. LEWIS
38
1. LA QUESTIONE META-NORMATIVA
Un filosofo è certamente interessato alle garanzie con cui assicurare la correttezza dei propri
ragionamenti e la logica formale si presenta, almeno a prima vista, come la disciplina che si occupa
(anche) proprio della ricerca in tale ambito. Non sarebbe giustificato, tuttavia, formarsi,
frettolosamente, l’opinione che grazie alla logica si possa risolvere ogni discussione. La prudenza
circa la legittimità di assumere tale posizione non nasce, essenzialmente, dal fatto che, in pratica, il
progetto potrebbe essere irrealizzabile per la testardaggine o l’ottusità di alcune persone, bensì, più
profondamente, è suggerita da un’analisi della stessa natura della logica, del tipo di rigore che
persegue, del significato dei linguaggi formali che studia, di ciò che con essi si può dire meglio che
con il linguaggio naturale, di ciò che non esso non si può dire, della portata che hanno sia l’apertura
di nuovi campi di ricerca, sia la preclusione rispetto ad altri, il ruolo e la rilevanza della molteplicità
dei percorsi che si possono intraprendere all’interno di essa, …41 Stando così le cose, sorge,
naturalmente, la questione di come potremmo elaborare con esattezza e correttezza la logica stessa.
È legittimo porre questa domanda? Sembrerebbe di sì se si pensa che la logica, come ogni altra
conquista umana, ha una sua storia in cui attraversa numerosi e non univoci cambiamenti.
Sembrerebbe di sì, poi, se come ho già fatto notare, ci si rivolge allo stato attuale della disciplina e
si nota che è tutt’altro che unitaria nel suo presentarsi, anzi, in maniera apparentemente
sconcertante, occorre constatare che esistono diverse logiche. Potrebbe essere un pericolo per la
stessa filosofia, intesa non, ovviamente, come professione, bensì in quanto aspirazione alla verità,
indipendentemente dalle idiosincrasie personali? Come potremmo ricercare la verità se ogni nostro
discorso è elaborato con logiche parziali, che un’altra persona potrebbe non accettare?
D’altra parte, come si ricorderà, all’inizio del secondo capitolo, avevo già anticipato tale
questione, formulando la domanda “Come giustifichiamo le norme che imponiamo al
41
Cfr. cap. II, §5, Argomenti filosofici, pp. 33-37, questo volume.
39
ragionamento?”42. Nella breve considerazione che gli avevo, allora, riservato, ho posto in evidenza
che, benché buoni motivi ci spingano a porre sensatamente tale questione, essa apre un campo di
ricerca tutt’altro che chiaro e semplice. Si tratta, infatti, nientemeno, di tentare di fondare la logica
e, possibilmente, evitare di dover ricorrere, all’infinito, a teorie di ordine superiore per giustificare
ciò da cui siamo partiti e di evitare il circolo vizioso che sembra incombere su chi cerca di
giustificare ciò con cui, soltanto, si può fornire qualche giustificazione.
2. CLARENCE IRVING LEWIS
Per avanzare ulteriormente, in questa trattazione, mi rivolgo al logico e filosofo Clarence Irving
Lewis (1883-1964) che ha lungamente riflettuto e scritto sulla possibilità e sul significato di
costruire diverse logiche esatte. Egli, tra le altre cose, ha considerato le teorie logiche non solo
come mezzi con cui compiere un’indagine, ma anche come oggetti da studiare e da porre in
relazione tra di loro. Da ciò è sorta l’esigenza di rispondere alle questioni poste dalla considerazione
del ruolo dei sistemi di logica formale nei confronti della conoscenza in generale e dalla valutazione
della possibilità e del senso dell’esistenza di logiche diverse (che egli ha contribuito a creare con i
suoi sistemi dell’implicazione stretta).
Lewis ricorda di aver studiato i Principia Mathematica di Whitehead e Russell al principio degli
anni Dieci del secolo scorso e di averne notevolmente apprezzato il progresso che essi avevano fatto
compiere alla logica formale43. Egli spiega che, tuttavia, non si rassegnò ad accettare il poco usuale
significato attribuito all’implicazione, detta materiale, nei Principia Mathematica in quanto, per
esso, è vera ogni implicazione il cui antecedente è falso oppure il cui conseguente è vero (o
entrambe le condizioni insieme). Le ricerche logiche, sorte per affrontare questi problemi, lo
42
Cfr. cap. 2, §1, Ragionamento e logica, pp. 26-27, questo volume.
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, in AA. VV., Contemporary American Philosophy, ed. by G. P. Adams and
W. P. Montague, reprinted in C. I. Lewis, Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. by J. D. Goheen and J. L.
Mothershead Jr., Standford University Press, Standford, California 1970 p. 4.
43
40
impegnarono per sei anni, influenzando anche il suo sviluppo filosofico44. Egli, infatti, di contro alla
realizzazione del calcolo estensionale di Whitehead e Russell45, basato sulla relazione fra classi di
oggetti e indifferente al significato dei termini impiegati46, notò che era possibile costruirne uno
intensionale47, in cui l’implicazione, denominata stretta, si sarebbe fondata sulle relazioni fra
concetti48 e avrebbe coinciso con le basi inferenziali da lui ritenute reali49. Da queste indagini, egli
fu spinto a domandarsi, non solo, in che modo potessero essere analoghi e in che modo potessero
differire i vari calcoli logici, ma, soprattutto, se avessero potuto esserci calcoli logici esatti differenti
e, se, a causa della loro reciproca incompatibilità, nascesse una questione di validità o verità tra essi
e con quali criteri deciderla50.
3. TIPI D’ORDINE
Lewis sostiene che la logica simbolica, o logistica, debba considerare i differenti sistemi d’ordine
che, tramite opportune specificazioni, possono essere, poi, impiegati dalle scienze particolari51. Un
tipo d’ordine è un complesso di relazioni e operazioni (relazioni di relazioni) che si stabiliscono tra
enti la cui natura, ad eccezione delle proprietà che discendono dalle relazioni assunte, è del tutto
indifferente52. Uno degli argomenti privilegiati53 dell’indagine logica, dunque, è l’analisi dei sistemi
deduttivi in quanto tali, al di là della loro concreta applicazione nelle indagini scientifiche o nelle
44
Cfr. ibidem.
Cfr. ivi, p. 6.
46
c, p. 5.
47
Cfr. ivi, p. 4.
48
Cfr. ivi, p. 5.
49
Cfr. ivi, p. 8.
50
Cfr. ivi, p. 6 .
51
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, in the Philosophical Review, Vol. XXV (1916), n. 3, p. 407-19,
ristampato in id., Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford
University Press, Stanford, California 1970, p. 361.
52
Cfr. ivi, p. 360.
53
Cfr. ivi, p. 361.
45
41
attività della vita comune54.
Ognuno di tali sistemi, considerati di per sé, ammette diverse
interpretazioni e può essere applicato in vari contesti, con più o meno successo, sempre
soddisfacendo, ad ogni modo, la validità delle relazioni e delle operazioni caratteristiche55. Ogni
sistema d’ordine è caratterizzato dalle peculiari relazioni che si stabiliscono tra i suoi termini e dalle
particolari operazioni, per mezzo di cui i termini sono ordinati e le relazioni sono trasformate56. Il
ruolo della logica, dunque, in buona parte, consiste nell’analizzare i tipi d’ordine possibili minimali,
per così dire, da cui, poi, per ulteriori specificazioni, si ottengono gli ordinamenti specifici tipici
delle differenti discipline. Una tale concezione, è evidente, interessa da vicino la filosofia e credo
che, addirittura, coincida, in parte, con essa in quanto indagine sulle nostre esperienze e credenze al
livello più generale. Egli dichiara, infatti, ogni sistema scientifico, ossia ogni sistema che organizza
le nostre esperienze di un particolare ambito è un sistema d’ordine57 e, in quanto tale, oggetto di
studio della logica58. Anche i problemi propri della riflessione filosofica, d’altra parte, riguardano,
ugualmente, i criteri di classificazione e i principi d’interpretazione che sono alla base della nostra
conoscenza59 e, di conseguenza, anch’essi sono direttamente collegati all’indagine logica intorno ai
vari ordinamenti possibili e alle loro proprietà. Lewis riferisce questa posizione al suo maestro
Royce60 e precisa che i tipi d’ordine propri delle scienze particolari si possono descrivere
aggiungendo ulteriori specificazioni a quell’ordine minimo che deve sussistere tra generiche entità
solo per il fatto di essere unite in un insieme o, detto altrimenti, in un sistema, che è, appunto
l’ordine logico61. Egli stesso, poi, in un altro articolo, sottolinea la rilevanza dello studio dei sistemi
54
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, in The Journal of Philosophy, Vol. XVIII
(1921), n. 19, pp. 505-16, ristampato in id., Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L.
Mothershead Jr., Stanford University Press, Stanford, California 1970, p. 371.
55
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., p. 360.
56
Cfr. ibidem.
57
Cfr. ibidem.
58
Cfr. ivi, p. 361.
59
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, C. Scribner’s Sons, 1929, reprinted
Dover Publications Inc., New York 1956, p. 10.
60
Cfr. ibidem, Cfr. anche n. 1.
61
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 361.
42
logici e dei loro recenti progressi in riferimento a notevoli problemi metafisici62. La nozione di
sistema, in particolare, merita di essere approfondita ed è evidente il suo importante ruolo in molte
questioni concernenti la conoscenza, la verità, la realtà, … Numerosi concetti ad essa collegate, poi,
quali unità sistematica, organizzazione, sistema deduttivo e coerenza ricorrono particolarmente
spesso nelle discussioni filosofiche, assumendovi un ruolo centrale63. Parlare di problemi filosofici,
poi, significa solo indicare che essi sono di carattere generale e tali da superare i confini delle
singole discipline64.
4. IL SISTEMA Σ DI ROYCE
Un sistema di concetti, dunque, è un tipo d’ordine i cui caratteri distintivi risiedono nelle
caratteristiche delle relazioni che sussistono tra i suoi elementi65. Per mezzo della logica, è possibile
determinare questo aspetto formale66, indipendente dalla natura degli enti a cui si applica67, dei
diversi sistemi. Lewis suggerisce di distinguere tre differenti metodi con cui si è studiato questo lato
astratto. Il primo è quello in cui si assumono, oltre alle nozioni logiche, anche alcuni concetti
primitivi propri della disciplina trattata ed è esemplificato dal lavoro Peano e dei suoi collaboratori
nel Formulaire de Mathématiques68. Il secondo è il metodo analitico e gerarchico, proprio di
Russell nei Principles of Matbematics69 e, poi, di Russell e Whitehead nei Principia Mathematica70,
in cui si assumono solo concetti ed operazioni della logica e le nozioni che appartengono alla
62
Cfr. C. I. Lewis, Facts, System, and the Unity of the World, in The Journal of Philosophy, Vol. XX (1923), N. 6, pp.
141-51, ristampato in id., Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr.,
Stanford University Press, Stanford, California 1970, p. 382.
63
Cfr. ibidem, p. 385.
64
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., pp. 7-8.
65
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 360.
66
Cfr. ivi, p. 361.
67
Cfr. C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic. The Classic Algebra of Logic. Outline of its History, its Content,
Interpretations and Applications, and Relation of it to Later Developments in Symbolic Logic , Dover publications, New
York, 1960.
68
Cfr. ivi, p. 344.
69
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 361.
70
Cfr. C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic, op. cit., p. 344. Cfr. anche C. I. Lewis, Types of Order and the System
Σ, op. cit., op. cit., p. 361.
43
disciplina oggetto di analisi (che, nei loro casi, è stata la matematica) sono considerati complessi,
con una struttura interna e costruiti a partire dalla logica. Il terzo metodo è quello esemplificato da
Dedekind in Was sind und was sollen die Zahlen, da Grassmann in Aussdehnungskehre, da Kempe
in On the relation between the Logical Theory of Classes and the Geometrial Theory of Points, e,
nel modo più compiuto71, Royce, di cui Lewis fu allievo, in The Relation of the Principles of Logic
to the Foundations of Geometry72. Tale impostazione richiede che i termini su cui si fonda il
sistema siano del tutto semplici e privi di ogni preliminare interpretazione73.
Nel primo caso, la validità dei ragionamenti effettuati dipende anche da elementi che non
appartengono alla logica, ma al soggetto trattato e che consistono nelle nozioni tratte da esso e
assunte come primitive. È legittimo, qui, utilizzare dei metodi di ragionamento validi solo nel caso
particolare della materia a cui si riferisce perché si accettano le caratteristiche specifiche proprie
degli enti che le appartengono (nel caso di Peano, ad esempio, si accetta come primitiva la nozione
di numero e, di conseguenza, alcuni ragionamenti danno per scontata l’esistenza di una loro serie
ordinata, …)74.
Per quanto riguarda il metodo gerarchico, detto anche logistico, e sviluppato nel modo più
profondo nei Principia Mathematica75, esso si basa su quattro punti: (1) i principi di prova sono
solo gli assiomi e i teoremi logici, (2) alle variabili proposizionali si possono sostituire le
proposizioni che appartengono ad una determinata materia (geometria, fisica, …), (3) ad un termine
se ne può sempre sostituire un altro ad esso equivalente, (4) due proposizioni affermate
singolarmente possono essere riunite in un’unica asserzione76. Il calcolo logico è sviluppato come
base di ogni passo successivo che consiste nel ridurre i termini e i concetti delle varie discipline a
relazioni puramente logiche77. Il grande svantaggio di questo metodo non risiede tanto nella
71
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 361.
Cfr. J. Royce, The Relation of the Principles of logic to the Foundations of Geometry, in Transactions of the
American Mathematical Society, vol. 6, n. 3, July 1905, pp. 353-415.
73
Cfr. ibidem.
74
Cfr. C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic, op. cit., p. 351.
75
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 361.
76
Cfr. C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic, op. cit., p. 353-354.
77
Cfr. ivi, p. 368.
72
44
laboriosità del suo modo di procedere78, quanto, piuttosto, nel fatto che esso deve presupporre la
meta a cui tende, ossia la disciplina stessa79 che, infatti, non è costruita, bensì ri-costruita.
Il terzo metodo, invece, permette di comportarsi come esploratori in un universo i cui contenuti e
le cui applicazioni non sono conclusivamente determinati 80. Nell’articolo citato, Royce si propone
di generalizzare e compiere ciò che era stato elaborato da Kempe81. Egli propone un sistema,
denominato S, che fornirebbe il tipo d’ordine fondamentale da cui possono essere selezionati i
differenti tipi d’ordine particolari (tra cui proprio la logica dei Principia). Questa affermazione può
risultare, al momento difficile da comprendere, perciò illustro brevemente la speculazione di Royce.
Il sistema S consiste di infiniti elementi, semplici ed omogenei, (simboleggiati da lettere latine
minuscole) che possono essere raccolti, in qualsiasi numero, a formare un’unità derivata, detta
“collezione” (indicata con lettere greche minuscole)82. Le collezioni sono di diversi tipi. Vi sono,
innanzitutto, le O-collezioni che sono classi di collezioni i cui membri sono, nel loro complesso,
incompatibili83 (rappresentate da O e dai suoi elementi racchiusi tra parentesi). Se due elementi
possono essere reciprocamente sostituiti in ogni O-collezione in modo tale che essa rimane tale,
allora sono logicamente equivalenti84. Se una collezione non è una O-collezione, allora è una Ecollezione85. Se due collezioni sono tali che la riunione di una con il complemento dell’altra è una
O-collezione, allora formano una F-collezione86.
Egli aggiunge, a queste premesse, sei principi87:
1. se O(a), allora O(ag) per qualunque g;
2. se b è un elemento di b e O(db) e O(b), allora O(d);
3. esiste almeno un elemento di S;
78
Cfr. ivi, p. 369.
Cfr. ivi, p. 369-370.
80
Cfr. ivi, p. 370.
81
Cfr. J. Royce, The Relation of the Principles of logic to the Foundations of Geometry, op. cit., p. 353.
82
Cfr. ivi, p. 362.
83
Cfr. ivi, p. 359.
84
Cfr. ivi, p. 365. Tale caratteristica mostra, probabilmente, l’influenza della massima pragmatica espresso da Peirce e
James (cfr. nota , questo volume).
85
Cfr. ivi, p. 364.
86
Cfr. ivi, p. 372-373.
87
Cfr. ivi, p. 367.
79
45
4. se esiste almeno un elemento x di S, allora esiste anche y tale che x è diverso y;
5. per ogni coppia di termini distinti (pq), esiste un r tale che O(rp) e O(rq) sono falsi e O(pqr) è
vero;
6.
se esiste un elemento w per cui vale O(qw), allora vi è anche un v tale che O(qv) e, per ogni
elemento t di q, O(vwt).
Dal sistema S, selezionandone opportunamente alcuni elementi ed alcune collezioni88, possono
essere derivati infiniti altri sistemi d’ordine parziali. Tra gli esempi più significativi vi sono
l’algebra della logica e l’algebra della quantità89. Ciò può essere fatto per semplice selezione90,
senza aggiungere nuovi elementi91. In tal modo, il sistema si presenta come un territorio da
esplorare per generare e determinare nuovi sistemi d’ordine, senza limitarsi a considerarne solo
alcuni che si rivelano essere solo specificazioni arbitrarie di un sistema più vasto. L’ordine del
sistema S è inclusivo di quelli dei diversi campi specifici92 e la questione diviene, allora, come
procedere per individuarli93.
L’impostazione di Royce, a differenza di quella dei Principia, permette di confrontare fra loro
differenti sistemi d’ordine, rilevandone analogie e differenze94 e di generarne di nuovi sulla base
della nostra inventiva95.
Lewis ha dedicato molta attenzione a questo lavoro del proprio maestro e ne ha trattato,
specificamente, sia nel saggio del 1916 Types of Order and the System Σ sia nel capitolo VI di A
Survey of Symbolic Logic, del 1918. Ciò che, in entrambi i casi, attirò la sua attenzione è proprio
la possibilità di compiere una ricerca (che, ad ogni modo, lo porterà anche ad allontanarsi, come si
dirà, da alcune convinzioni di Royce) in cui le teorie logiche non sono solo lo strumento ma anche
l’oggetto dell’indagine.
88
Cfr. ivi, p. 394, nota *.
Cfr. ivi, p. 412.
90
Cfr. C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic, op. cit., p. 368.
91
Cfr. ibidem.
92
Cfr. C. I. Lewis, A Survey of Symbolic Logic, op. cit., p. 368.
93
Cfr. ivi, p. 368, nota 31.
94
Cfr. ivi, p. 362. Cfr. anche C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 370.
95
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., op. cit., p. 370.
89
46
5. SISTEMI ALTERNATIVI
Da Aristotele, in poi, sostiene Lewis, le leggi della logica sono state considerate fisse e
archetipiche, tali, in altre parole, da non ammettere alternative concepibili. Spesso, inoltre, si è
cercato di giustificare tale convinzione riferendosi ad una supposta struttura dell’universo o natura
della ragione umana. Esse sembravano il punto di Archimede nell’altrimenti mutevole realtà del
pensiero. Gli studi logici recenti, tuttavia, hanno reso, per lo meno, problematica tale opinione.
Molti sistemi di logica contemporanea, infatti, sostiene Lewis, si differenziano dalla
caratterizzazione della logica attribuibile ad Aristotele. Un esempio, fra tanti, è la dottrina dei
Principia Mathematica. La differenza fra questi nuovi molteplici sistemi logici rispetto a quello di
Aristotele non è superficiale, ma riguarda proprio il modo in cui si determinano le categorie
fondamentali della deduzione96. Łukasiewicz97, poi, ha sviluppato logiche, cosiddette polivalenti,
che rifiutano la dicotomia delle proposizioni in vere e false, qual è, invece, il caso del sistema di
Whitehead e Russell. Ognuno di questi sistemi, poi, per quanto possa sembrare, a prima vista,
strano, può essere interpretato in modo tale che ogni sua legge sia vera all’interno di quel sistema ed
essere considerato contenente principi logici validi anche se differenti o, addirittura, contrastanti
con quelli di un altro sistema (che, a loro, volta, sono pure da considerare validi)98. Ciò che vi è di
particolarmente notevole, poi, è che la verità di uno di questi sistemi diversi, non implica la falsità
degli altri, benché essi non smettano di essere diversi e reciprocamente alternativi99, nel senso che
se uno di essi fosse scelto come canone di deduzione, il che è sempre possibile, allora i principi e le
96
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, in The Monist, Vol. XLII (1932), N. 4, pp. 481-507, ristampato in id.,
Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press,
Stanford, California 1970, p. 400.
97
Lewis, cfr. ibidem, n. 1, si riferisce all’articolo Philosophische Bemerkungen zu mehrwertigen Systemen des
Aussagenkalküls, Comptes rendus des Séances de la Société des Sciences et des Lettres de Varsovie, XXIII (Warsav,
1930), Classe III, pp. 51-77.
98
Cfr. ivi, p. 401.
99
Cfr. ibidem.
47
leggi appartenenti agli altri dovrebbero essere abbandonati in quanto inapplicabili, non esprimibili
oppure del tutto privi di significato100.
6. CARATTERI DELLA LOGICA
Esistono infinite logiche diverse ed ognuna di esse fornisce i propri criteri per trarre,
correttamente, delle conclusioni. Non pare possibile affermare, solo su questa base, la preferenza
per l’una o per l’altra perché non sembra possibile, almeno a questo livello, dichiarare che una è
vera oppure falsa. I criteri di ognuna paiono posti legittimamente e la verità delle loro conclusioni,
all’interno del sistema, non pare contestabile. Se, però, proprio nel campo della logica non possiamo
più fare affidamento a criteri di verità e falsità assoluti che cosa ci resta? Proprio lo statuto della
logica, che è apparsa a molti come una scienza intimamente legata alla possibilità di discriminare la
verità101, appare ora non giudicabile in riferimento ad essa e di natura eterogenea.
La confusione che potrebbe sorgere in merito, deriva, credo, dal non aver compreso il nuovo
livello in cui si situa l’indagine di Lewis, che non è più interno ad una logica particolare, bensì di
carattere superiore. Le teorie logiche sono, ora, non strumenti, ma oggetti di indagine. Parlare di
verità e falsità presuppone un criterio discriminante, ma esso, per ora, manca in quanto, a livello
meta-logico, non può essere fornito da una delle logiche esaminate, perchè, altrimenti, essa sarebbe,
ingiustificatamente, privilegiata rispetto alle altre.
Al fine di orientarci in modo più appropriato, occorre analizzare alcuni concetti costitutivi dei
sistemi logici. Quando ci riferiamo ad una legge logica, indichiamo la validità di una certa
affermazione in riferimento ad altri concetti assunti come primitivi102. Questi concetti primitivi, a
100
Cfr. ibidem.
Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, B 83, heruasgegeben von W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt am Main, p.
102, ricorda che la domanda con la quale, solitamente si cercava di imbarazzare i logici era proprio “Che cos’è la
verità?”.
102
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, op. cit., p. 401.
101
48
loro volta, non sono tali in virtù di qualche prodigiosa aderenza alla struttura dell’universo o della
mente umana103. Il loro carattere di nozioni di base è dovuto alla convenienza della loro riunione e
del loro utilizzo in tal senso104. Se, per esempio, assumiamo come concetti primitivi la negazione e
la disgiunzione, dopo aver fissato il canone del loro uso, possiamo enunciare leggi logiche, ossia
sempre valide all’interno del sistema così stabilito. In questo modo, semplicemente, si propone una
certa organizzazione dei nostri concetti e delle esperienze sussunte sotto di essi che non è vera o
falsa senza condizioni (espressione priva di senso), bensì all’interno di un particolare
ordinamento105.
Qualcuno potrebbe ritenere che nei sistemi logici si dimostrino fatti complessi a partire da alcune
semplici proposizioni auto-evidenti, gli assiomi. In realtà, le cose stanno diversamente perché gli
assiomi non sono scelti per la loro evidenza intuitiva, ma per la loro capacità di essere comodi punti
di partenza per sviluppare le deduzioni opportune106. L’evidenza non garantisce la correttezza di
una credenza, come dimostra la conoscenza delle diverse concezioni, che negli ambiti più disparati,
sono state ritenute, nel corso della storia, del tutto affidabili e fondate. L’evidenza è una proprietà
che appartiene alla nostra psicologia e che si accompagna a certe credenze, ma ciò, naturalmente,
non offre alcuna garanzia della loro validità in assoluto. La validità è sempre relativa ad un certo
ambito in cui si assumono come primitive certe relazioni, ossia, secondo la definizione di Lewis,
essa si riferisce sempre ad un sistema. Non ha senso parlare, per esempio, di teorema valido in
assoluto, perché la sua dimostrazione è sempre relativa ad una certa teoria. La nostra tendenza a
considerare evidenti alcune cose, poi, muta nel tempo, anche grazie, probabilmente, ai cambiamenti
nella stessa disciplina della logica107.
Aristotele considerava il principio di non contraddizione il più sicuro di tutti (bebaiotàte pasòn), il
più noto (gnorimotàten), non ipotetico (anupòtheton) e necessariamente posseduto (ékein
103
Cfr. ivi, p. 400.
Cfr. ivi, p. 401.
105
Cfr. ivi, p. 401.
106
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., p. 372 e id., Mind and WorldOrder. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 204.
107
Per una discussione più approfondita di queste questioni, cfr. cap. II, questo volume.
104
49
anagkàion) prima che si apprenda qualsiasi cosa108: “È impossibile che la stessa cosa insieme
inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto”109. Chiunque intenda
dimostrare qualcosa, precisa lo stagirita, deve, necessariamente, riferirsi a questa nozione, che,
pertanto, è ultima e imprescindibile110. Non si può dimostrare tutto, altrimenti si dovrebbe regredire
sempre ulteriormente, dimostrando la dimostrazione dell’ultima dimostrazione, ma, non essendoci
alcun punto fermo, nessuna dimostrazione sarebbe fondata111. Il principio di non contraddizione
rappresenta, per Aristotele, proprio il principio più saldo di tutti, quello oltre il quale non si può
procedere. Di esso non si può fornire, dunque, alcuna dimostrazione, ma è possibile mostrarne
l’ineludibilità attraverso la confutazione (élegkos) di chiunque rifiuti di accettarlo (a condizione che
tale antagonista dica qualcosa dotato di senso). La strategia di Aristotele consiste nel cercare di
mostrare l’assoluta certezza di un certo principio perché esso, deve, necessariamente essere
ammesso. A chi lo negasse, infatti, secondo il filosofo greco, si potrebbe mostrare che, in realtà, ne
fa uso e, dunque, non si dà la possibilità di farne a meno.
Lewis nega che esistano principi logici irrinunciabili e si impegna a dimostrare come la strategia
argomentativa aristotelica non sia valida. Proporrò, ora, una ricostruzione ed un’analisi della sua
critica. Il nostro autore affronta tale questione in un articolo del 1920, The Structure of logic and Its
Relations to Other Systems112 e riporta, quasi identiche, le pagine che affrontano questo argomento
anche nel suo libro, posteriore, Mind and World-Order (1929)113.
Egli ritiene conseguente alla propria concezione dei sistemi logici come tipi d’ordine di cui
possono esistere varie alternative che non sia possibile stabilire verità necessarie attraverso
procedimenti deduttivi114. Contrariamente a quanto ha ritenuto una certa tradizione razionalistica,
non è possibile mostrare l’esistenza di un primo principio incontrovertibile perché non vi sono
Cfr. Aristotele, Met. Γ 1005 b 11-17.
Cfr. ibidem, Γ 1005 b 19-20.
110
Cfr. ibidem, Γ 1005 b 32-34.
111
Cfr. ibidem, Γ 1006 a 5-11.
112
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., pp. 372-379.
113
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., pp. 199-216.
114
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., p. 372.
108
109
50
principi né logicamente necessari (se non all’interno di un certo sistema) né auto-evidenti115. In
particolare, non si stabilisce l’intangibilità di una proposizione, ritenendo che essa sia implicata
dalla propria negazione116. Per cominciare a far chiarezza, occorre, osservare, più precisamente, che
chi afferma una proposizione auto-contraddittoria non sta affermando e, nello stesso senso,
contemporaneamente, negando la medesima cosa. In senso esplicito, si limita ad affermare qualcosa
e se anche nega il medesimo contenuto è questione che dipende da ciò che la sua affermazione
implica. In secondo luogo, occorre distinguere la necessità di una proposizione dalla sua verità: ogni
sistema di logica ha le sue proposizioni necessarie ed esse possono essere diverse da quelle proprie
degli altri sistemi, ma ciò significa solo che o sono assiomi o sono conseguenze logiche degli
assiomi, ottenute da essi, cioè, applicando le regole del sistema. Il problema della loro verità, nel
senso di una adeguata descrizione della realtà, non è ancora deciso, dunque, con il riconoscimento
della loro necessità in un dato sistema formale117.
Procediamo gradualmente e, per prima cosa, osserviamo i passaggi logici con cui procede chi
tenta di stabilire l’assoluta stabilità di un principio tramite il rifiuto della propria negazione.
Consideriamo proprio il caso del principio di non contraddizione nella formulazione “è falso che x
sia A e x sia non-A”. Il suo contraddittorio è “x è A e x è non-A”. Lewis prova ad assumere
quest’ultima affermazione come premessa e ne indaga, in modo semi-formale, le implicazioni:
1. “x è A e x è non-A” implica “x è non-A”;
2. “x è non-A” implica “è falso che x sia A”;
3. “È falso che x sia A” implica “è falso che x sia A e x sia non-A”.
Apparentemente, in tal modo, si è ricavato proprio il principio di non contraddizione dalla sua
negazione. Se, tuttavia, si osserva con maggiore attenzione la derivazione, si può notare che si è
potuta raggiungere tale conclusione solo perchè, nel secondo passaggio, si è utilizzato il principio di
non contraddizione che, però, essendo stato negato, non avrebbe dovuto essere impiegato. La
115
Cfr. ibidem.
Questo è il caso, sopra citato, di Aristotele.
117
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 206.
116
51
conclusione, dunque, è viziata da una petizione di principio. Senza ricorre al principio di non
contraddizione, infatti, non avremmo potuto compiere il passaggio 2., da “x è non-A” a “è falso che
x sia A”, perché solo se x non può avere, insieme, attributi contraddittori, dalla verità dell’uno (x è
non-A) possiamo dedurre che è falso che x sia A. Se non valesse questo principio, come avevamo
assunto nell’ipotesi, non vi sarebbe nulla di necessariamente valido in questo passaggio e, in quel
sistema, potrebbe essere possibile che, contemporaneamente e sotto il medesimo rispetto, x sia A e
non-A118. Il negatore del principio di non contraddizione, poi, proprio perché tale, potrebbe non
essere turbato dalla derivazione del contraddittorio del proprio principio (mi soffermerò più a lungo,
su questa specifica questione, nel prossimo capitolo).
La discussione di Lewis potrebbe apparire difficile ad intendersi sia perché condotta in modo non
del tutto formale e, quindi prestarsi all’obiezione di confondere linguaggio e meta-linguaggio
oppure a quella di trarre una conclusione generale (non ci sono principi inconfutabili) sulla base di
un singolo esempio (il principio di non contraddizione è confutabile)119, sia perché il suo bersaglio è
uno dei principi, intuitivamente e tradizionalmente, effettivamente considerati irrinunciabili. Con
passaggi puramente formali, come è facile immaginare, non si possono compiere inferenze non
autorizzate dalle regole esplicitamente introdotte nel sistema, quindi, a maggior ragione, se si
espunge il principio di non contraddizione o regole e principi equivalenti120, non si è legittimati ad
affermare ciò la cui negazione implica contraddizione perché sarebbe ammessa la situazione in cui
esistono affermazioni contraddittorie121. La tesi generale di Lewis, di cui la trattazione del principio
di non contraddizione costituisce un esempio122, è che, in logica, tutte le deduzioni sono,
inevitabilmente, circolari. Tramite esse, in altre parole, non si perviene se non a ciò che vi è stato
118
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., pp. 373.
Cfr. F. Bellissima – P. Pagli, Consequentia mirabilis. Una regola logica tra matematica e filosofia, L. S. Olschki
editore, Firenze 1996, p. 157. Non condivido, come spiego nel testo, tali critiche.
120
Una regola è deduttivamente equivalente ad un’altra se, all’interno di uno stesso sistema logico, dall’una è ricavabile
l’altra e viceversa.
121
Con ciò ritengo di aver risposto alla prima critica mossa a Lewis nel testo citato alla n. 40 e riportata sopra.
122
Non quindi, una constatazione a partire da cui, per generalizzazione, si cercherebbe di giungere ad una verità
universale (il che, peraltro, nella concezione di Lewis non avrebbe senso). Con ciò ritengo di aver risposto alla seconda
critica mossa a Lewis nel testo citato alla n. 40 e riportata sopra.
119
52
messo all’inizio, stabilendo i principi fondamentali e le regole di deduzione di quel sistema123. Se,
all’interno di un sistema logico, si nega una delle sue leggi logiche, allora si perverrà ad una
contraddizione, ma ciò significa soltanto che, nonostante la negazione di quella particolare legge, la
si è usata lo stesso, o si sono usati i principi che implicano quella legge, nel corso della deduzione
delle implicazioni della sua negazione. La contraddizione sussiste, è chiaro, solo se si conduce la
deduzione all’interno del sistema logico da cui si è tratta la regola che si intende negare. Ogni
logica, anche quelle più lontane dalla nostra intuizione, sono, sotto questo punto di vista, uguali fra
loro. In ognuna di esse, infatti, le deduzioni dei principi sono circolari e nella dimostrazione del
teorema che li riafferma si utilizza lo stesso principio negato, o uno equivalente. Se, pure, qualcuno
ci sottoponesse una logica che definiremmo, per qualche motivo, cattiva e sbagliata, anche in essa
potremmo condurre derivazioni del tutto coerenti e valide in quel sistema e dimostrare teoremi che
hanno la stessa necessità, all’interno di quel sistema, di quelli della logica che giudichiamo buona.
La dimostrazione di una legge logica tramite la confutazione della sua negazione, dunque, non ne
garantisce la verità in assoluto e, allo stesso modo, la necessità di un qualche teorema di un sistema
non ne garantisce la verità in assoluto. La verità di una logica o, ugualmente, dei suoi principi e dei
suoi teoremi non si può determinare giustificandola in tal modo124. Non c’è nulla, nella logica, che
non sia stato messo da noi stessi125, pertanto i suoi risultati, per il semplice fatto di essere dedotti,
non stabiliscono verità incontrovertibili.
123
Cfr. C. I. Lewis, Some Suggestions Concerning Metaphysics of Logic, in American philosophers at Work, ed. S.
Hook, New York, 1957, pp. 93-105, ristampato in id., Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and
J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press, Stanford, California 1970, p. 432.
124
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., pp. 375.
125
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 12.
53
7. CONFRONTO FRA SISTEMI LOGICI DIFFERENTI
La necessità dei teoremi di un sistema non è, dunque, ineluttabile126. Questo è un punto molto
importante per comprendere correttamente l’apporto che logica e filosofia possono fornire l’una
all’altra e, per comprenderlo, occorre considerare la relazione che intercorre tra la logica e il
determinare una concezione del mondo, tra la logica e la verità. L’approfondimento di questioni
generali di logica, intesa, a là Lewis, come confronto fra sistemi deduttivi nel loro complesso
conduce, naturalmente, ad occuparsi di problemi genuinamente filosofici. La soluzione alla richiesta
di discriminare fra le molteplici logiche esistenti e le infinite possibili quella giusta e vera (cosa ciò
significhi è, appunto, un aspetto da approfondire) non appartiene alla logica, bensì alla filosofia o,
come afferma Lewis, più specificamente, all’epistemologia127.
7.a. CONCETTI E REALTÀ
La coerenza logica di un sistema è una questione diversa dalla sua applicabilità all’esperienza128.
Così come esistono differenti geometrie, tutte logicamente impeccabili, ma l’utilità dell’una per
interpretare correttamente la nostra esperienza è diversa da quella delle altre, così vi sono molteplici
sistemi di logica alternativi e tra di essi non è possibile operare una discriminazione di correttezza
con criteri logici perché, come si è mostrato, ogni principio può essere valido solo relativamente al
proprio sistema e nulla ci legittima ad utilizzarlo meta-logicamente. La nostra esperienza sensibile
reclama dei criteri di interpretazione e questi le sono dati dai sistemi concettuali elaborati dalla
logica. È proprio sul livello dell’utilità strumentale129 e pragmatica130 dei sistemi concettuali, sul
126
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 211.
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 12 e id., , Mind and World-Order. Outline of a Theory of
Knowledge, op. cit., p. VII.
128
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. VIII.
129
Cfr. ivi, p. X.
127
54
piano della loro convenienza131, che è possibile impostare adeguatamente, secondo Lewis, la
questione di come discriminare tra i diversi sistemi logici.
La nostra esperienza sensibile ci presenta una gran quantità di dati. Essi non impongono da sé una
determinata interpretazione. Alla medesima conclusione, infatti, si potrebbe giungere attraverso
considerazioni diverse132 e, proprio per questo, il presentarsi di una medesima cosa non esige che la
si interpreti in modo univoco. Sicuramente, però, l’esperienza deve essere ordinata secondo qualche
criterio, quale che sia, altrimenti sarebbe del tutto inintelligibile e, quindi, non sarebbe neppure
esperienza. Si può comprendere qualcosa solo sulla base di criteri che precedono l’esperienza e che
organizzano ciò che percepiamo, inducendolo ad assumere una forma particolare133. È evidente,
nell’impostazione epistemologica di Lewis, l’influsso della filosofia critica di Kant134, al cui studio
si era dedicato con impegno negli anni della sua formazione universitaria135. Non mancano, però le
commistioni con pensatori quali Peirce, James e Dewey (soprattutto, sottolinea Lewis, con il
primo)136 e gli elementi originali che si concretizzano, sulla base delle visioni logiche esposte sopra,
in una peculiare elaborazione del trascendentalismo kantiano e del pragmatismo.
Lewis distingue, nella conoscenza, due elementi diversi: il concetto, prodotto dal pensiero, e il
dato (given) sensibile, che è indipendente dal pensiero e si impone ad esso. I concetti sono a priori
rispetto all’esperienza e la conoscenza oggettiva sorge quando si interpretano i dati secondo
determinati concetti137. Ciò che Kant aveva chiamato forma e materia diventano, per Lewis,
concetto e dato, ma le loro relazioni, a questo punto dell’esposizione, sono le stesse. Per il pensatore
di Königsberg, infatti, la materia di un fenomeno (Erscheinung) era, appunto, ciò che proviene
dall’impressione che un oggetto suscita sulla nostra capacità di rappresentazione, mentre la forma è
130
Cfr. ibidem; id., Logic and Pragmatism, op. cit., pp. 13-15; id. Altrenative Systems of Logic, p. 419; id., Types of
Order and the System Σ, op. cit., p. 360.
131
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 13. Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, op. cit., p. 401.
132
Cfr. C. I. Lewis, Facts, System, and the Unity of the World, p. 392.
133
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 18.
134
Cfr., per esempio, I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, op. cit., B 74 (contenuti analoghi, come è noto, si ritrovano in
anche in molti altri passaggi delle opere kantiane).
135
Cfr. ivi, p. 3.
136
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. XI.
137
Cfr. ivi, p. 37.
55
ciò che ordina quel molteplice disordinato in modo tale da renderlo rappresentabile. La materia è
sempre a posteriori rispetto alla nostra capacità di conoscere il fenomeno, la forma, al contrario, è a
priori, ossia precedente rispetto all’esperienza e derivante dal soggetto conoscente138.
Il modo con cui, però, Lewis procede nella trattazione si discosta da Kant per avvicinarsi, come
egli stesso riconosce a Peirce. La dimensione a priori della conoscenza, infatti, non è una
dimensione fissa sotto cui sussumere, univocamente, se non si compiono errori, la materia, a
posteriori, della sensazione. Essa, al contrario, è l’interpretazione di una serie di dati sensibili
tramite la loro riunione in uno schema, temporalmente orientato verso il futuro. Conoscere, in altre
parole, significa elaborare una previsione sugli eventi che si verificheranno in determinate
circostanze. Ogni interpretazione concettuale è sempre verificata soltanto parzialmente e i concetti a
priori non limitano in alcun modo la varietà di manifestazioni possibili che i dati possono assumere.
Definire un oggetto è fornire delle previsioni sugli eventi che lo riguardano139. Tali previsioni non
possono essere, in ogni caso, più che probabili140. Nell’interpretazione del dato sensibile, oltre al
riferimento al futuro141, considerato come plausibile continuazione del presente, intervengono anche
gli interessi del soggetto (o quelli della comunità a cui appartiene142). Ciò che accade, tra gli
innumerevoli modi con cui potrei interpretare quanto mi si presenta attualmente e tra le infinite
conseguenze di ogni interpretazione determinata143, è che si scelgono quelli che si adattano meglio
138
Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, op. cit., B 33-34.
Cfr. C. S. Peirce, What Pragmatism is, 5.422 in id., Collected Papers, vol. V., Pragmatism and Pragmaticism, ed. C.
Harsthorne and P. Weiss, The Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts 1960, pp. 281282: “Consider what effects that might conceivably have pratical bearing you conceive the object of your conception to
have. Then your conception of those effects is the WHOLE of you conception of the object”. Cfr. anche id., Issues of
Pragmaticism, 5.438 in id., Collected Papers, op. cit., p. 293:”The entire intellectual purport of any symbol consists in
the total of all general modes of rational conduct which, conditionally upon all the possibile different circumstances and
desires, would ensue upon the acceptance of the symbol”. Cfr, anche id., How to Make Our Ideas Clear, in id., Writings
of Charles S. Peirce. A Chronological Edition, vol. 3, 1872-1878, ed. E. C. Moore et alia, Indiana University Press,
Bloomington 1986, p. 265-266:”What a things means is simply to determine what habits it produces. (…) Our idea of
anything is our idea of its sensible effects”.
140
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., pp. 37-38.
141
Cfr. C. S. Peirce, What Pragmatism is, 5.427, op. cit. p. 284-285:”The rational meaning of every proposition lies in
the future. (…) In order that that form of the proposition which is to be taken as its meaning should be applicable to
every situation and to every purpose upon which the proposition has any bearing, it must be simply the general
description of all the experimental phenomena which the assertion of the proposition virtually predicts”.
142
Cfr. ivi, 5.421 in id., Collected Papers, p. 281:”The man’s circle of society (however widely or narrowly this phrase
may be understood ), is a sort of loosely compacted person, in some respects of higher rank than the person of an
individual organism”.
143
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 12.
139
56
alle proprie esigenze, al fine di poter modellare il comportamento in modo conseguente ed
opportuno144. Un altro scopo della conoscenza, che ne influenza anche la formazione, è la necessità
di comunicare con gli altri. La formazione dei concetti risponde anche a questa esigenza in quanto
riesce ad elevarsi al di sopra della privatezza dei dati immediati ed essere comune ad intelletti
diversi. In questo senso, la definizione di un oggetto e di un mondo di oggetti, proprio grazie alla
loro definizione mediante concetti, può essere intersoggettiva e permettere la cooperazione in una
realtà riconosciuta come comune145. Questa comunanza, peraltro, è anch’essa soggetta ad una
verifica continua e mai compiuta ed è, di conseguenza, solo un’assunzione, benché irrinunciabile in
ogni impresa intellettuale146.
Determinare la realtà di qualcosa significa elaborare delle proposizioni condizionali che
prevedono che, qualora occorressero determinate circostanze, allora ne avverrebbero certe altre. Il
significato di una conoscenza è la sua possibilità di essere sperimentata, come avevano già
affermato, nota Lewis, Peirce e James con ciò che avevano denominato prova pragmatica147.
Il nostro modo di interpretare i dati dell’esperienza coincide con l’applicazione di determinati
concetti a priori a ciò che ci si presenta nell’esperienza. La nostra interpretazione e, quindi, anche la
nostra elaborazione ed applicazione dei concetti è funzionale alla soddisfazione dei nostri bisogni
ed interessi148. Lo scopo della conoscenza è quello di esserci guida in un’azione possibile, sia
individuale, sia collettiva. In ciò risiede l’importanza della comunicazione e della trasmissione della
conoscenza tra soggetti diversi. Il criterio che ci indica se la comunicazione è efficace è la
144
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., pp. 51-52.
Cfr. ivi, p. 52.
146
Cfr. Platone, Parm.
147
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 64, n. La prova pragmatica
consiste, appunto, nell’identificare il significato di un’affermazione con le conseguenze e le modificazioni che essa
induce. Discutendo il medesimo problema, ivi, p. 133, Lewis cita direttamente Peirce:”Consider what effects that might
conceivably have practical bearings you conceive the objects of your conception to have. Then, your conception of
those effects is the whole of your conception of the objects”. Cfr. n. 57, questo volume. In id., Pragmatism and Current
Thought, in The Journal of Philosophy, vol. XXVII (1930), n. 9, pp. 238-246, ristampato in id., Collected Papers of
Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press, Stanford, California
1970, p. 79, Lewis cita anche un brano di James, con il medesimo contenuto.
148
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 85.
145
57
determinazione del comportamento, proprio ed altrui149. Se esso risulta concordante con
l’informazione trasmessa, allora, riteniamo che si è compreso il medesimo contenuto, altrimenti,
potremmo dubitarne e fornire o richiedere ulteriori informazioni150. Il linguaggio verbale è solo una
parte, benché la più rilevante, del comportamento con cui interagiamo e comunichiamo con le altre
persone151.
Poiché, all’interno del genere umano, ci consideriamo tutti fondamentalmente simili quanto a
bisogni, interessi e capacità e riteniamo che la realtà ci stimoli in modo equivalente, è molto
probabile, benché non certo (come nulla, del resto), che i nostri concetti siano, in buona parte,
effettivamente condivisi, al di là delle particolarità individuali152.
7.b. LOGICA E REALTÀ
Dopo aver presentato, nei suoi aspetti principali e per quanto riguarda la presente ricerca, la
teoria della conoscenza di Lewis, è possibile tornare ad occuparsi, più specificamente, delle sue
considerazioni circa la formulazione di un sistema di logica e l’esistenza di molte logiche diverse.
Quando si attribuisce un certo carattere alla propria esperienza, si elabora un’interpretazione che
unisce al dato sensibile l’elemento concettuale, a priori, del nostro pensiero. Tale elemento a priori
consiste in un rete di significati, ciascuno in relazione agli altri, che, applicata al dato, determina la
realtà del nostro mondo. Se ciò che il soggetto mette nell’esperienza, quando la interpreta e la
conosce, fosse immutabile, come riteneva Kant, non potremmo accorgerci che esso dipende da noi
e non è dato insieme alla mera presentazione sensibile153. Se avesse ragione Kant, la realtà del
pensiero ci rimarrebbe, sempre, del tutto ignota perché in nessun modo potremmo scoprire la
149
Cfr. ivi, app. C, p. 409.
Cfr. ivi, p. 90.
151
Cfr. ibidem.
152
Cfr. ivi, 91.
153
Cfr. ivi, app. D, p. 422.
150
58
differenza che sussiste tra mondo al di fuori di noi e pensiero che ci appartiene. Il pensiero, e
l’attività in cui si esplica, consiste nel prestare attenzione, riflettere, ricordare, immaginare, …154 In
tal modo, esso introduce, rispetto ai dati sensibili, nuove caratterizzazioni nell’esperienza che
dipendono dal soggetto che, dunque, si configura come colui da cui dipendono tali intenzioni
intellettuali. È possibile scoprire ciò che costituisce l’apporto a priori del pensiero proprio perché
siamo in grado di concepire alternative e immaginare, di conseguenza, come, a parità di dati
sensibili, cambierebbe la nostra esperienza. Il solo fatto che siamo in grado di compiere questo
esperimento mentale, dimostra che i nostri concetti a priori non sono immutabili di diritto, ma
potrebbero essere, almeno idealmente, sostituiti da altri ad essi alternativi. Se ciò che è a priori, poi,
fosse una certezza psicologica, allora, a maggior ragione, non lo conosceremmo con maggiori
garanzie rispetto a ciò che, finora, è sempre stato verificato da un’esperienza uniforme e non
potremmo attribuirgli uno statuto di ineluttabilità155.
Al costituirsi dell’esperienza, dunque, oltre al dato sensibile contribuisce anche l’elemento a
priori, posto dal pensiero. Ciò che è a priori costituisce il riferimento concettuale che utilizziamo
per interpretare i dati sensibili. Al livello più alto di astrazione, i nostri concetti e le loro relazioni
divengono espliciti nella costituzione di un sistema logico156, ossia un particolare tipo d’ordine157.
Le leggi della logica e i sistemi cui danno origine indicano, con notevole chiarezza, le nostre
modalità generali di classificazione della realtà.
Le leggi logiche, come si è già mostrato, non possono essere provate valide in modo assoluto.
Ognuna di esse è sempre valida o non valida rispetto ad una particolare teoria. I rapporti tra gli
elementi di un sistema, esplicitati dalle sue leggi, sono puramente analitici in, questo senso, al suo
interno, necessari. Per spiegare questo punto, Lewis suggerisce di immaginare una persona che
impari la lingua araba usando solo un dizionario arabo. Egli potrà imparare a formulare frasi del
tutto corrette, conoscendo le regole grammaticali e le relazioni che sussistono tra le varie parole,
154
Cfr. ivi, app. D, p. 421.
Cfr. ivi, p. 212.
156
Cfr. ivi, p. 246.
157
Cfr. ivi, app. E, p. 430.
155
59
benché gli sfugga completamente il loro significato, ossia la loro possibilità di applicazione
all’esperienza158. La situazione dei sistemi logici è analoga. Ne possono sussistere, infatti, di
alternativi e, comunque, legittimi perché la validità di un principio o di una legge logica non si
estende al di là della teoria a cui appartiene e, perciò, non può assumere il ruolo meta-logico di
discriminare tra sistemi differenti. Ognuno di essi si costituisce con le proprie regole e, all’interno
di essi, si possono trarre inferenze corrette, nel senso di consentite dalle relazioni e dalle operazioni
stabilite tra gli enti di un sistema159. Fin qui, la condizione di ciascuna logica è come quella di un
linguaggio che, tramite la propria grammatica, consente di generare frasi corrette anche se, come
nel caso dello studente di arabo, non si sa indicarne un’applicazione all’esperienza. La questione
della correttezza dei sistemi di logica è disgiunta dal problema della loro applicabilità pratica160.
Per avere una qualsiasi conoscenza, occorre che ci siano delle verità a priori, ossia analitiche e,
quindi, necessarie. La realtà è il dato sensibile interpretato secondo le categorie del nostro pensiero.
Per mezzo di tale sussunzione, il puro dato, riceve una determinazione ed assume una certa veste di
realtà grazie a cui diventa un oggetto conosciuto, ossia di cui si sanno prevedere gli effetti e i
comportamenti futuri. I principi a priori che rendono possibile l’interpretazione e, quindi, la
conoscenza consentono alternative. Non vi sono criteri indubitabili. Né l’evidenza, né la necessità
della loro presupposizione possono essere invocate per testimoniarne l’irrinunciabilità. Nel primo
caso, infatti, non avremmo altro che una certezza psicologica suscettibile, come ogni cosa, di errore
(come, tra l’altro, mostra, copiosamente, la storia: ciò che è sembrato saldo ed innegabile in alcuni
periodi è stato rifiutato in altri e viceversa161), nel secondo, ci si confonderebbe tra condizioni
necessarie e condizioni sufficienti. Nel precedente capitolo, ho spiegato la differenza fra i due tipi di
condizione ed è, ora, facile notare come non si possa passare dall’esistenza di qualcosa alla
158
Cfr. C. I Lewis, An Analysis of Knowledge and Evaluation, Open Court Publishing Co., Chicago 1946, p. 132.
L’esempio di Lewis è analogo all’esperimento della scatola cinese, formulato, posteriormente, da Searle (cfr. J. R.
Searle, Minds, Brains and Programs, in The Behavioral and Brain Sciences, September 1980, vol. 3, n. 3, pp. 417-424).
159
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 248.
160
Cfr. C. I. Lewis, Types of Order and the System Σ, op. cit., p. 360.
161
Cfr. ivi, p. 199. Alle considerazioni di Lewis, su questo punto, si potrebbe aggiungere che pensare la negazione di un
contenuto evidente non significa pensare nulla. Ciò indica, mi pare, che è possibile pensare e, dunque, elaborare un
sistema logico, anche da contenuti non evidenti e, addirittura, opposti ad un principio supposto evidente. Su ciò,
comunque, mi soffermerò più a lungo nel prossimo capitolo.
60
determinazione della sua causa necessaria. In generale, infatti, non si può escludere che eventi
diversi possano produrre la medesima conseguenza e che, quindi, diano origine alla stessa cosa. Ciò
a cui si può pervenire, per questa via, è solo la scoperta di condizioni sufficienti, ma non necessarie,
del sussistere di un determinato stato di cose. Non è, quindi, giustificato presupporre certi criteri e
certe realtà perché con esse si spiegherebbe la nostra esperienza. Qualora tali criteri riuscissero
davvero a spiegare l’esperienza, sarebbero, soltanto, condizioni sufficienti, ma non necessarie e,
dunque, potrebbero non sussistere anche se si verificasse proprio quell’esperienza a partire da cui ci
si era ritenuti legittimati a presupporli162. Sistemi logici con principi diversi, infatti, possono
originare i medesimi risultati (o in tutto o in parte)163.
8. CRITERI PRAGMATICI
Ciò che si presenta entro l’esperienza, dunque, non richiede un’interpretazione univoca, ma ne
consente diverse e non giunge mai a stabilire definitivamente la correttezza o l’erroneità di una
spiegazione. Ogni verifica od ogni smentita sono sempre, soltanto, parziali perché la conformità o
meno dell’esperienza ad una teoria possono essere, a loro volta, interpretate in molti modi, senza
pensare, necessariamente, che ciò riguardi proprio una certa credenza. Per tutti i motivi fin qui
esposti, è, ormai, chiaro che la scelta del sistema concettuale da applicare all’esperienza non può
essere compiuta a livello teorico, bensì per motivi strumentali164 e pragmatici165. Le modalità con
cui applicare all’esperienza i principi logici elaborati dal pensiero dipendono da fattori extra-logici e
sono considerazioni di convenienza166. I sistemi logici, in quanto ordinamenti astratti, sono
162
Cfr. ivi, pp. 200-202.
Cfr. ivi, pp. 203-204.
164
Cfr. ivi, p. X.
165
Cfr. ivi, p. X e p. 434.
166
Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 13. In questo passo, Lewis richiama l’opinione analoga di
Poincaré in merito ai criteri con cui discriminare tra i differenti sistemi geometrici. Cfr. anche C. I. Lewis, Types of
Order and the System Σ, op. cit., p. 360.
163
61
indipendenti dal dato empirico. L’applicazione, individuale e sociale, di un determinato
ordinamento all’esperienza non è guidata da motivi logici (in quanto, come si è mostrato, attraverso
di essi non si può stabilire la verità di un sistema a discapito degli altri), bensì da motivi di utilità
pratica167. Benché non sia semplice né, in definitiva possibile oltre una certa approssimazione
indicare quali siano gli elementi pragmatici che intervengono nella nostra scelta fra sistemi d’ordine
alternativi, Lewis suggerisce che essi vadano ricercati tra gli interessi e gli scopi umani e la facilità
di organizzare l’esperienza168. La razionalità del reale non è data, semplicemente, insieme alle
percezioni sensibili, con i fatti del mondo, ma è una richiesta dell’individuo e della società. L’ideale
della razionalità, ossia della determinazione del giusto ordine, in logica, come in etica,
giurisprudenza, politica, ed altri ambiti ancora è un’esigenza che cerchiamo di soddisfare al fine di
assicurarci una vita buona169. Sistemi troppo elaborati, potrebbero non essere convenienti in quanto,
benché teoricamente adeguati, si rivelerebbero, di fatto, inservibili o, ad ogni modo, troppo
dispendiosi. Sistemi troppo semplici, d’altra parte, potrebbero non essere sufficientemente precisi e,
quindi, lasciarci spesso senza guida nelle nostre scelte170.
La verifica di ogni sistema è sempre parziale e induttiva perché, come ho spiegato prima, il
confronto non avviene fra una singola tesi ed una particolare esperienza, bensì tra l’esperienza e il
sistema nel suo complesso. Solo considerando la generale conformità del sistema a ciò che
consideriamo essere i fatti si può cercare di determinare la verità di una singola proposizione e nel
caso di mancata verifica, si potrebbe procedere alla revisione non della proposizione per la cui
verifica si è svolto l’esperimento, bensì di altre parti del sistema171. Si immagini di avere un certo
numero di fatti di cui si ricerca la natura. Poniamo che si individuino alcune proprietà che
167
Cfr. ibidem.
Cfr. ivi, p. 15.
169
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., pp. 379.
170
Lewis non ne tratta esplicitamente, tuttavia, anche sulla base della consonanza con affermazioni simili di Peirce, che,
invece, ne parla apertamente, ritengo plausibile che tali opinioni vadano collegate ad una visione evoluzionista della
storia, in cui, almeno nella maggior parte dei casi, ciò che non si rivela utile al benessere della specie è abbandonato in
favore di ciò che è più vantaggioso. Per quanto riguarda Peirce, cfr., per esempio, C. S. Peirce, What Pragmatism is,
5.433 in id., Collected Papers, op. cit., p. 289.
171
Tale argomento è affine, ma non identico, alla tesi olistica difesa da Quine, allievo di Lewis, in id., Two Dogmas of
Empiricism, in id., From a Logical Point of View. Nine logico-Philosophical Essays, Harvard University Press, 1953.
La posizione di Quine, in riferimento a tale questione, sarà esposta nel prossimo capitolo.
168
62
appartengono a questi fatti e che le si ritenga particolarmente importanti e caratteristiche. Quando
ne specifichiamo le reciproche relazioni determiniamo un sistema172. Ogni insieme di fatti, tra le cui
proprietà stabiliamo certe relazioni, è un sistema, o, in altre parole, un complesso di enti inseriti in
una struttura definita173. Affinché un sistema di tal genere sia rilevante per la nostra conoscenza,
occorre che abbia le tre caratteristiche seguenti:
1. se A è un fatto (o una proposizione che esprime un fatto174) del sistema S e A è incompatibile
con B, allora B non è in S;
2. se A è in S e implica C, allora anche C è in S;
3. se A e C sono in S, allora, in S vi è anche il fatto che è la congiunzione di A e C.
Un complesso ordinato di questo genere è, in altre parole, un insieme di fatti tra loro compatibili
(1.), delle loro combinazioni (3.) e delle loro conseguenze (2.)175. I sistemi, in generale,
corrispondono, esattamente, con la riunione delle proposizioni che possono essere generate
deduttivamente a partire da un numero qualsiasi di assunzioni. Le nostre conoscenze delle varie
discipline (fisica, biologia, …) determinano un sistema ed assegnano, dunque, una veste logica
alle relazioni fra i propri concetti. Dopo aver fissato, in termini generali, che cos’è un sistema, si
possono notare alcune sue proprietà. Oltre al sistema delle nostre attuali conoscenze, innanzitutto,
potremmo pensarne numerosi altri che siano diversi e reciprocamente alternativi. Nessun
complesso d’ordine è logicamente privilegiato rispetto agli altri. Un sistema, poi, può contenerne
altri, essere contenuto in altri
o coinciderne parzialmente. In questo caso, più sistemi
condividerebbero, almeno in parte, le medesime proposizioni. Due sistemi dotati delle stesse
proposizioni sono equivalenti. In due sistemi che hanno parte del contenuto uguale, le
proposizioni che differenziano il primo dal secondo potrebbero essere incompatibili con quelle
172
Cfr. C. I. Lewis, Facts, System, and the Unity of the World, op. cit., p. 386. È importante rilevare che, in tal modo,
non stiamo costituendo un sistema, bensì lo stiamo determinando perché fissiamo i nessi che intercorrono tra i suoi
elementi, ma non siamo consapevoli di tutte le conseguenze che sarebbe possibile trarre. In questo secondo senso, tale
sistema sarebbe, piuttosto, simile all’Assoluto del suo maestro Royce: cfr. J. Royce, Infinity, Determinateness, and
Individuality, in id., The World and the Individual, The Macmillan Company, New York 1912, p. 567.
173
Cfr. C. I. Lewis, Facts, System, and the Unity of the World, op. cit., p. 385.
174
Cfr. C. I. Lewis, Some Suggestions Concerning Metaphysics of Logic, op. cit., p. 345.
175
Cfr. ibidem.
63
dell’altro oppure, semplicemente, indipendenti, ossia teoricamente compatibili, ma non congiunte
di fatto. In tal caso, il medesimo fatto di un insieme S sarebbe compatibile sia con il fatto di un
altro insieme S’ sia con la sua negazione176.
9. MONDI POSSIBILI
Quando indaghiamo la costituzione effettiva del nostro mondo, elaboriamo un vero e proprio
sistema, così come quando immaginiamo un mondo la cui natura sia, per qualche rispetto,
differente da quello che consideriamo attuale177. Ogni mondo concepibile è un sistema e gode
delle tre proprietà descritte sopra, ma non ogni sistema è un mondo possibile. In una teorica
collezione di fatti potremmo, appunto, omettere di specificare se l’uno o l’altro termine di una
contraddizione è presente mentre ciò non è possibile per un determinato mondo concepibile. Per
chiarire la differenza, si deve modificare il precedente punto 2. con una norma più restrittiva:
2.b. se un fatto A non è in S, allora il contraddittorio di A è in S178.
Ogni insieme di fatti che rispetti 1., 2.b. e 3. è un mondo possibile. Il problema della conoscenza
consiste, precisamente, nel determinare quali fatti appartengano al mondo attuale, ossia quale
sistema concettuale, dal momento che le medesime conseguenze potrebbero appartenere a più di
un sistema, descriva il nostro mondo. Quando compiamo un’inferenza per scoprire le
conseguenze dei fatti che ammettiamo come reali, ricerchiamo ciò che sarebbe vero in ogni
mondo possibile in cui varrebbero le medesime premesse179. Nessuno di noi, in pratica, è in grado,
né lo sarà mai, di scoprire tutte le implicazioni di un sistema di premesse, dunque, non esisteranno
176
Cfr. ivi, p. 386.
Cfr. ivi, p. 387.
178
Lewis, in altre parole, ritiene che la legge del terzo escluso valga per i mondi, ma non per i sistemi.
179
Lewis ha elaborato tale concezione dell’implicazione, da lui denominate stretta, rifiutando quella proposta da
Whitehead e Russell nei Principia Mathematica. Cfr., per esempio, C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 8.
177
64
mai garanzie assolute dell’adeguatezza di un certo sistema a descrivere il nostro mondo180 e, ad
ogni modo, è possibile che più sistemi descrivano, con pari legittimità, il medesimo mondo181.
Ogni insieme consistente di proposizioni descrive un mondo possibile182, quindi possiamo
definire un sistema, anche come la struttura di un mondo possibile183. I sistemi alternativi e i
mondi possibili sono infiniti184.
10. SIGNIFICATO DEI SISTEMI LOGICI
Elaborare un sistema logico, dunque, permette di esplicitare quei criteri di classificazione che,
nell’uso quotidiano, sono, per lo più, impliciti e non analizzati185. L’ordine deduttivo che, spesso,
tali sistemi assumono non indica, allora, alcuna necessità assoluta, ma, in maniera, per lo più,
chiara, mostra le connessioni che vigono tra le nostre verità a priori. Un sistema logico non fornisce,
allora, delle prove della verità di certe affermazioni, bensì ne indica una possibile analisi in termini
di altre componenti e relazioni186. Poiché non vi è nulla di evidente né di auto-fondato, gli assiomi
non sono scelti per qualche privilegio intrinseco, bensì per comodità espositiva, organizzativa o
pragmatica di altro tipo (ci appare semplice, siamo abituati a partire in un certo modo, ad operare
determinati collegamenti, …). Stabilire cosa sia semplice e cosa complesso, o derivato, è, a sua
volta, ancora una questione di convenienza187. Ogni significato è relazionale, ossia assume le
proprie caratteristiche solo all’interno di un sistema in cui entra in relazione con tutti gli altri
180
Cfr. C. I. Lewis, Facts, System, and the Unity of the World, op. cit., p. 388.
Cfr. ivi, p. 389. In tal modo, Lewis si oppone, nettamente, alle concezioni di Royce secondo cui solo un insieme di
proposizioni è reale e contiene ogni affermazione o la sua negazione, ma non entrambe, e ciò che non vi appartiene è
solo apparentemente possibile. Cfr. J. Royce, Infinity, Determinateness, and Individuality, op. cit., p. 574.
182
Cfr. ivi, p. 390.
183
Cfr. ivi, p. 391.
184
Cfr. ibidem. Lewis si domanda, poi, ma non risponde, di quale tipo di infinità si tratti: cfr. ivi, p. 392.
185
Cfr. C. I. Lewis, Some Suggestions Concerning Metaphysics of Logic, op. cit., p. 430.
186
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., pp. 380.
187
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 106.
181
65
componenti188. Non esistono proposizioni che significhino qualcosa di per sé, ma ognuna di esse
acquista un significato solo relativamente ad altri elementi in un gioco di determinazioni reciproche.
In un sistema in cui si assumono dei termini primitivi e si spiegano gli altri in funzione di quelli, in
realtà si sta determinando il significato di quegli stessi termini primitivi grazie a ciò che si deduce
da essi189. Ciò che, in un sistema, propriamente, è dimostrato, infatti, è la connessione globale che
esso esibisce, tutte le relazioni che sussistono tra i suoi termini, così come, in un dizionario tutte le
parole sono definite per mezzo di altre parole dello stesso dizionario e il linguaggio, che alla fine ne
risulta, è la rete dei loro rapporti reciproci190. Tutti i termini sono definiti, quindi, circolarmente, ma
ciò non significa che non sia possibile la comprensione perché essa, invece, si realizza conoscendo
il posto che ogni elemento occupa all’interno del sistema e le relazioni che intrattiene con gli altri.
Se la definizione compie un circolo abbastanza ampio, sarà in grado di fornire una notevole quantità
di informazioni a proposito di ciò che coinvolge, mostrandone, appunto, i riferimenti, i nessi e le
connessioni reciproci191.
Sistemi logici diversi potrebbero avere capacità espressive differenti e ciò a cui ci si può riferire in
un certo contesto, potrebbe non sussistere in un altro. La logica dei Principia Mathematica, per
esempio, è basata sulla dicotomia dei valori di verità tra vero e falso, ma altri autori, quali
Łukasiewicz, hanno sviluppato un sistema di logica in cui i valori di verità sono tre: certo,
certamente falso e incerto (secondo l’interpretazione della logica trivalente fornita da Lewis)192. In
quest’ultimo caso, la legge del terzo escluso non è più esprimibile, ossia non ha significato (il che è
diverso dall’essere falsa)193. È possibile costruire infiniti sistemi logici diversi e non si dà il caso,
come si è mostrato, che solo uno di essi sia vero194. Ognuno ha le proprie leggi vere195 ed è
alternativo rispetto ad ogni altro (ove si ritenga valido un dato sistema, i principi e le leggi
188
Cfr. ivi, p. 107.
Cfr. ivi, p. 111.
190
Cfr. ibidem.
191
Cfr. ivi, pp. 80-81.
192
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, op. cit., p. 400.
193
Cfr. ibidem.
194
Cfr. ivi, p. 401.
195
Cfr. ivi, p. 414.
189
66
appartenenti agli altri sarebbero abbandonati come inapplicabili, inespressivi e privi di
significato196). In ogni sistema, le proprie leggi logiche esprimono verità analitiche e necessarie
circa il significato di certi concetti197 ed ognuno di essi è scelto o scartato sulla base di motivi di
convenienza pragmatica198. Non deve intimorirci, poi, il fatto che molti di questi ordinamenti logici
non presentino caratteristiche intuitivamente comprensibili199: le nostre capacità intuitive sono,
infatti, limitate e non forniscono un criterio per discriminare presunte verità assolute da concezioni
false. Ogni legge logica di un sistema è vera qualunque valore si attribuisca alle sue variabili. Non
si tratta di una proprietà sorprendente, ma semplicemente una necessità che deriva dalla natura
analitica delle definizioni: una legge logica mostra le connessioni universalmente valide tra gli
elementi di un sistema ed esse risultano, di necessità, dai punti di partenza che si è assunto e non
esprime verità contingenti200. Non vi nulla, cioè, in logica, che non sia stato esplicitamente inserito
fin dal principio201. Ciò che, peculiarmente, differenzia un sistema da un altro è la sua capacità
espressiva, ossia le formula che si possono derivare in esso e che possono essere diverse da quelle
derivabili in un altro sistema. Il caso del principio del terzo escluso è solo un esempio fra tanti. A
seconda dei nostri interessi e bisogni, un canone di deduzione potrebbe essere più utile di un altro
proprio in virtù delle proprie capacità linguistiche202. È la stessa realtà del nostro mondo e della
nostra esperienza che ammette alternative, sistemi diversi con differenti concetti primitivi e
relazioni203.
Occorre, infine, ribadire che i differenti sistemi di logica sono alternativi, nel senso più profondo e
generale, anche considerati in se stessi, indipendentemente dall’eventuale ricchezza dell’esperienza
che potrebbe rendere difficile o, al limite, impossibile la sua considerazione in un unico sistema
196
Cfr. ivi, p. 401.
Cfr. ibidem.
198
Cfr. ivi, p. 402.
199
Cfr. ibidem.
200
Cfr. C. I. Lewis, Some Suggestions Concerning Metaphysics of Logic, op. cit., p. 430, 436.
201
Cfr. ivi, p. 432. Cfr. C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, op. cit., p. 12.
202
Cfr. ivi, p. 415.
203
Cfr. ivi, p. 416. Lewis usa l’espressione “la verità assoluta include alternative”, che è, evidentemente, un netto
distanziamento dal monismo del proprio maestro che riteneva esistesse una sola realtà assoluta in cui tutto era
determinato in un modo solo. Cfr. J. Royce, Infinity, Determinateness, and Individuality, op. cit., p. 568.
197
67
generale. Non vi sarebbe alcuna esperienza e, dunque, a fortiori, nessuna ricchezza dell’esperienza,
senza l’unione dei principi a priori al dato sensibile204. Tali concetti a priori, tra i quali rientrano
anche le leggi della logica, ammettono alternative e sono modificabili205 (diversamente non
potremmo distinguerli dai fatti che accadono indipendentemente da noi206). L’a priori rivela i nostri
criteri di interpretazione207 , che contribuiscono, insieme al dato, a determinare ciò che si chiama
“realtà”208 e se essi cambiano, naturalmente, si modificano, di conseguenza, anche le nostre
rappresentazioni209. Anche le leggi logiche rientrano nell’a priori e, quindi, anch’esse sono parte di
quei criteri soggettivi indispensabili per interpretare il dato e determinare, così, una certa
esperienza210. Ritenere che i principi e i teoremi della logica siano fissi archetipi del pensiero o del
mondo è solo, sostiene Lewis, un pregiudizio razionalistico che, alla luce delle considerazione sopra
riportate, ritiene di aver mostrato ingiustificato211. Per quanto stramba212, nessuna logica può essere
dichiarata assolutamente falsa perché è proprio per mezzo di essa che si definisce ciò che è vero e
ciò che è falso213 e ogni sistema logico potrebbe essere sostenuto di fronte a qualsiasi presentazione
sensibile214. Poter essere sostenuto di fronte a qualsiasi dato, anzi, è proprio la definizione di a
priori215. Non vi sono infatti, limiti alla possibilità di immaginare sistemi logici216 e, ad ogni modo,
non potremmo indagare l’esperienza senza averla già compresa utilizzando certi concetti a priori217
e l’esperienza non si impone da sé tali criteri218, ma essi dipendono da propensioni umane219 che,
204
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World Order, op. cit., p. 230.
Cfr. ivi, p. 232.
206
Cfr. ibidem.
207
Tra i molti luoghi in cui esprime la medesima convinzione, cfr. ivi, p. 230.
208
Cfr. ivi, p. 350.
209
Cfr. ivi, pp. 233-235.
210
Cfr. ivi, p. 236.
211
Cfr. ivi, p. 233. Cfr. anche C. I. Lewis, Alternative Systems of Logic, op. cit., p. 400.
212
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its relations to Other Systems, pp. 374-375.
213
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World Order, p. 227.
214
Cfr. ivi, p. 224.
215
Cfr. ivi, p. 224.
216
Cfr. ivi, p. 265.
217
Cfr. ivi, p. 259.
218
Cfr. ivi, p. 14.
219
Cfr. ivi¸ p. 248.
205
68
rispetto alle nostre esigenze e ai nostri interessi220, rendono più favorevole, conveniente e utile un
sistema logico piuttosto che un altro221.
220
221
Cfr. ivi, p. 238.
Cfr. ibidem. Cfr. anche ivi, pp. 245-249. Cfr. anche ivi, p. 265.
69
CAPITOLO IV
MONISMO E
PLURALISMO
70
In quest’ultimo capitolo tenterò di approfondire in riferimento al particolare problema delle
diverse scelte che è possibile compiere riguardo alla fondazione della logica. A tale scopo, pongo,
inizialmente, una distinzione, che sarà arricchita, tra posizione monista e pozione pluralista.
1. MONISMO
Chiamo monistica la concezione secondo cui solo una delle varie logiche è corretta e, di
conseguenza, occorre accettare solo quella e rifiutare tutte le altre. Tale concezione è stata
prevalente fino a quando, all’inizio del secolo scorso, sono stati elaborati sistemi formali nettamente
diversi e, spesso, antagonisti. Il sostenitore del monismo deve ritenere che la logica fornisca non
solo il fondamento esplicativo delle nostre conoscenze, ossia l’esplicitazione delle loro condizioni e
componenti, bensì anche il loro fondamento epistemico, vale a dire la garanzia della loro
correttezza. Egli, poi, deve sostenere che tutte le varie logiche esistenti, tranne una, siano meri
formalismi che è possibile ottenere manipolando opportunamente i simboli del linguaggio, ma
costruiti, in fondo, su basi arbitrarie perché solo una logica è quella vera, ossia che produce
inferenze realmente corrette.
1.a. AUTOFONDAZIONE
1.a.a. ELENCHOS
Un argomento che si può utilizzare per difendere tale posizione è ritenere che senza attenersi alle
regole di un’unica determinata logica non sarebbe possibile lo stesso atto di pensare. Questo
argomento, tipicamente, tenta di confutare colui che nega un certo principio logico, mostrando
come, in realtà, egli debba riaffermarlo e servirsene proprio nel suo stesso tentativo di negarlo. Tale
prova è stata chiamata elenctica, a partire dalla trattazione che ne fornisce Aristotele, nel libro Γ
71
della Metafisica222. Attraverso un procedimento di questo genere si tenta di fondare, nel senso
rigoroso, i principi logici, garantendo così, che essi sono i punti di partenza imprescindibili di ogni
buon ragionamento. L’esigenza alla base della ricerca di tale prova è quella di evitare di
presupporre qualcosa di non fondato che un negatore della validità di una certo principio logico
potrebbe citare contro di esso.
Come notava Lewis
223
, l’opponente del negatore di un principio logico cerca di scovare, nelle
implicazioni della tesi dello scettico, un risultato che smentisca la sua assunzione per concludere,
che egli non può, quindi, negarla con coerenza. Ciò che si ricava dall’analisi del filosofo americano
è, quindi, che l’oppositore dello scettico deve richiedere che egli accetti una base, seppur minima, di
regole logiche, altrimenti non potrebbe sussistere alcuna derivazione. In secondo luogo occorre che
lo scettico accetti la regola di rifiutare tutto ciò che contraddice la propria tesi. Sembra che Lewis
ponga implicitamente tali premesse e ne concluda che, anche in tal caso, non è possibile giungere a
riaffermare un principio negato a meno che si assuma, viziosamente, tale principio, o altri
equivalenti, nel corso della dimostrazione.
Consideriamo, ancora una volta, il caso del principio di non contraddizione. Supponiamo che
colui che lo rifiuta sostenga, a tale scopo, che 1.a.) ogni cosa è contraddittoria oppure 1.b.) almeno
una cosa è contraddittoria (al limite: tutto è contraddittorio tranne “tutto è contraddittorio”), 2)
accetti le conseguenze della propria tesi, 3) sia pronto ad abbandonarla se si dimostrasse che proprio
essa è, così, contraddetta e 4) accetti una base minima di regole (che determinino il comportamento
della congiunzione e della negazione) per assicurare la significanza della discussione (ciò che
Aristotele esprimeva con “purché dica qualcosa di sensato”224). Nel primo caso, se ogni cosa è
contraddittoria, allora anche a 1.a.) si opporrà la sua negazione e, per 2) e 3), lo scettico non potrà
più misconoscere il principio di non contraddizione. Naturalmente, in sintonia con Lewis,
potremmo dubitare della conclusività di tale argomentazione perché lo scettico non è obbligato ad
222
Cfr. cap. III, questo volume.
Cfr. C. I. Lewis, The Structure of Logic and Its Relation to Other Systems, op. cit., pp. 372-379 e cfr. C. I. Lewis,
Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., pp. 199-216.
224
Cfr. Aristotele, Met., 1006 a 22-24.
223
72
assumere 3) e, senza tale condizione, egli potrà continuare a sostenere la propria tesi. Se, tuttavia, e,
in modo intuitivamente più plausibile, lo scettico non assume 1.a.), bensì 1.b.), non si può neppure
derivare la negazione della sua tesi225 e, dunque, sicuramente, il tentativo di affermazione tramite la
negazione fallisce.
Mostrare la non conclusività dell’argomento elenctico applicato al principio di non
contraddizione, lo stesso preso ad esempio da Lewis, per l’aurea di innegabilità che esso ha spesso
rivestito, mi sembra un indizio assai forte del fatto che non è possibile alcuna forma di autofondazione di una teoria logica. Ritengo, tuttavia, che l’argomento decisivo, anche a prescindere
dall’accettazione completa dell’epistemologia a cui lo collega il proprio autore226, sia quello
formulato da Lewis e, prima, presentato: ogni legge logica è valida sempre e solo in riferimento ad
un determinato orizzonte teorico, al di fuori del quale o non ha significato (perché il nuovo ordine
non consente di esprimerla), oppure è falsa. Un determinato fatto può ricevere interpretazioni,
spiegazioni e giustificazioni differenti. Non vi sono presupposti necessari, ma ogni teoria è, al più,
solo condizione sufficiente del verificarsi di un determinato evento e non esclude, quindi, che esso
possa essere caratterizzato altrimenti. La validità di una legge logica è sempre limitata al proprio
sistema di riferimento227.
225
Analisi ripresa, con modifiche, da S. Galvan, Fondazione del sapere e procedura per autoconfutazione, in AA. VV.,
L’oggettività della conoscenza scientifica, a c. F. Minazzi, F. Angeli, Milano 1996 pp. 59-78.
226
Mi soffermerò, fra poco, a considerare quale tipo di rapporto intercorra tra la tesi di Lewis della legittimità dei
diversi sistemi logici e la sua dottrina epistemologica.
227
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, in The Monist, Vol. XLII (1932), N. 4, pp. 481-507, ristampato in id.,
Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press,
Stanford, California 1970, p. 414.
73
1.b. ETEROFONDAZIONE
1.b.a. EVIDENZA
Poiché i criteri logici hanno valore solo all’interno di un sistema, non è con essi che si può
discriminare la correttezza dei vari sistemi logici e occorre esaminare, dunque, la possibilità di una
fondazione che ricorra ad elementi esterni rispetto alla logica, dell’eventuale superiorità di un
sistema rispetto agli altri. Mi sembra che le uniche due vie percorribili siano la fondazione basata
sull’evidenza dei principi di una certa logica oppure quella fondata sull’ontologia.
Nel primo caso, si sostiene che il contenuto di alcuni principi è, immediatamente, evidente e, per
questo motivo, non sensatamente rifiutabile. Il ricorso all’evidenza sarebbe richiesto per
interrompere la ricerca di ulteriori giustificazioni, ma, di per sé, non è sufficiente. Anche un
contenuto non evidente, infatti, potrebbe prestarsi ad assicurare la validità di determinate inferenze.
Il fatto di non essere evidente non lo rende nullo e non prescrive al pensiero di non affidarsi ad esso.
Non è certo, infatti, né che la nostra tendenza a considerare qualcosa come evidente, coincida con la
validità di tale contenuto, né che la nostra propensione a ritenerlo tale non sia mutevole e
contingente. In tal modo, anzi, si pretenderebbe di considerare normativo uno stato psicologico di
cui non si è in grado di esibire l’affidabilità. Non ci aspettiamo, infatti, di avere i medesimi giudizi
di una persona che riteniamo insana di mente, anche se essa insistesse a dichiararli del tutto evidenti
e, con
un simile atteggiamento, mostriamo di non ritenere affidabile qualsiasi contenuto
intenzionato come manifesto. Neppure il ricorso a tale modalità di risoluzione delle controversie,
poi, ha evitato, nel corso della nostra storia, dispute infinite su ciò che si sarebbe dovuto accettare.
Non vi è, inoltre, un unico tipo di evidenza. Anche l’immaginazione e i sensi sembrano in grado
di produrre impressioni del tutto evidenti, ma non è ad esse che si pensa quando si considera
l’evidenza un criterio della verità. Con l’immaginazione, infatti, possiamo pensare anche
74
avvenimenti irreali228 e tramite i sensi, considerati di per sé, non possiamo discriminare il vero dal
falso, ma solo registrare ciò che ci colpisce. Soltanto l’evidenza della ragione
è considerata
affidabile, ma su quali basi? Se si trattasse di una mera certezza psicologica non potrebbe avere
l’autorità di un fondamento indiscutibile, ma, al massimo di un’uniformità dell’esperienza
(condizione che, ad ogni modo, come ho detto, né la storia né i comuni rapporti con le altre persone
confermano).
Il difensore della veridicità dell’evidenza, a questo punto, potrebbe tentare di rivolgersi alla
facoltà dell’intuizione: l’apprensione immediata di un contenuto di ragione, secondo lui, sarebbe del
tutto affidabile perché tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto non si interporrebbe alcuna
mediazione che potrebbe falsare la relazione. L’intuizione non sarebbe determinata da conoscenze
precedenti, che richiederebbero, dunque, di essere, a loro volta, fondate, ma da un oggetto che si
rivelerebbe immediatamente alla coscienza. Non credo che neppure questo tentativo riesca ad
ottenere ciò che si prefigge. Occorre, innanzitutto, distinguere, tra l’avere un’intuizione e il sapere
di averla. Anche il sapere di averla dovrebbe essere fondato, altrimenti, si potrebbe dubitare della
correttezza dell’interpretazione di qualcosa in quanto intuitivamente conosciuto. In tal modo, però,
sembra inevitabile richiedere sempre ulteriori giustificazioni intuitive del proprio sapere senza che
si giunga mai ad un livello assolutamente fondato. Se la certezza della conoscenza ci si desse
nell’intuizione stessa, essa si configurerebbe come una vera e propria illuminazione, ma non
assumerebbe più un carattere di comprensibilità razionale, bensì di sanzione da parte di un’autorità
esterna al pensiero e ad essa indisponibile229. Anche ammesso che tutto ciò sia plausibile, non si
eviterebbe il dubbio sulla correttezza della comprensione del contenuto rivelato dall’illuminazione e
sul riconoscimento dell’illuminazione stessa e, perciò, sorgerebbero difficoltà analoghe a quelle del
caso precedente. A causa di tutti queste impedimenti, non credo che sia possibile sostenere che
l’evidenza ci fornisca la garanzia indiscutibile della verità di qualche sapere.
228
Anche su questo punto, tornerò fra poco.
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, C. Scribner’s Sons, 1929, reprinted
Dover Publications Inc., New York 1956, p. 212.
229
75
Si noti, infine, che il pensiero che intenziona un contenuto non evidente non è, per questo, privo di
valore e nullo, ma, proprio per l’impossibilità di unire certezza e verità, potrebbe, legittimamente,
fornire la base per nuovi sistemi di logica. Essa, infatti, non deve limitarsi a ragionare secondo
modalità intuitivamente rappresentabili dall’uomo (e, per di più, dagli uomini di un certo periodo
storico e di un certo ambiente culturale).
1.b.b. ONTOLOGIA
La seconda via che si potrebbe tentare di seguire, come eterofondazione, per privilegiare una
logica al di sopra delle altre, considerando la prima come l’unica corretta e le altre come mere
possibilità formali, è quella di valutare la sua conformità all’ontologia.
Una prima, rilevante, difficoltà nasce dal carattere problematico dell’ontologia stessa, che è un
terreno di lotte senza fine. Ci si dovrebbe domandare, poi, se è possibile elaborare una teoria
ontologica (o qualsiasi altra teoria) senza far già ricorso alla logica. Non è possibile, infatti,
elaborare un qualsiasi discorso dotato di significato senza fondarsi su una base, seppur minima, di
regole e principi condivisi (la stessa difficoltà si era presentata a proposito della valutazione
dell’argomento elenctico). Ma la natura stessa delle cose influenza, magari in maniera esclusiva o
quasi, la nostra scelta di quelle regole e di quei principi? In altre parole, prima di approfondire il
discorso ontologico, vi è alla base della logica che lo fonda, un’influenza del mondo che indica
quali caratteri generali adottare (bivalenza, non contraddizione, terzo escluso, …)? Questa
prospettiva potrebbe essere accettata anche senza condividere il monismo logico e ritenere che sia
proprio l’ontologia ad orientare in favore della legittimità del pluralismo delle logiche, specificando,
eventualmente, se si intendono ammettere tutte logiche sullo stesso piano o sceglierne più di una.
Nel caso in cui, tuttavia, si faccia appello all’ontologia per mostrare la superiorità di una logica
rispetto a tutte le altre, occorrerebbe poter indicare con certezza che le proprietà delle cose sono
76
compatibili solo con un particolare ordinamento logico. Mi sembra impossibile che una tale impresa
riesca perché occorrerebbe mostrare, al contempo, la correttezza e l’indubitabilità dell’analisi della
realtà e della conoscenza di tale analisi. I problemi che sorgerebbero, allora, sarebbero i medesimi
incontrati a proposito della considerazione della conoscenza evidente. Pretendere di affermare che
la realtà è costituita da cose che possiedono, sicuramente, determinati caratteri o sarebbe una
generalizzazione a partire dall’esperienza oppure sarebbe l’intuizione o la rivelazione, in qualche
modo, della loro costituzione essenziale. Nel primo caso, la giustificazione non può essere
incondizionata, ma sempre relativa alle esperienze svolte e all’interpretazione che se ne fornisce,
nel secondo, ci si scontra con la necessità di giustificare apoditticamente la fonte intuitiva o
autoritativa della conoscenza, il che comporta i problemi, a mio avviso esiziali, già esposti nel
paragrafo precedente.
2. PLURALISMO
Colui che sostiene il pluralismo ritiene che non esista una sola logica corretta. Una prima
motivazione per sostenere la posizione pluralista è non aver considerato soddisfacenti le ragioni a
sostegno del monismo, ma si possono trovare anche ulteriori motivi, che derivano dalla stessa
natura dei sistemi logici.
Ho osservato, nel secondo capitolo, che, nella nostra pratica discorsiva comune, vi sono già delle
intuizioni di validità. La formulazione e, poi, la scelta tra le diverse logiche, non può che basarsi
anche su tali conoscenze che sono, continuamente, poste a confronto con la nostra esperienza del
mondo. In ogni cognizione, possiamo distinguere la presenza di un elemento soggettivo che deriva
dal nostro modo di interpretare ciò che ci si presenta230 e che può risultare, per i nostri interessi,
230
Cfr. ivi, p. 246.
77
variamente soddisfacente231. Nel tentativo di elaborare una compiuta descrizione della realtà, il
nostro obiettivo è pervenire ad uno stato di equilibrio tra ciò che la teoria di cui ci serviamo
considera valido e quel che ci presenta l’esperienza. Ogni presentazione sensibile, come afferma
Lewis, può essere spiegata in molti modi diversi232 ed ognuno di essi è, nel proprio ambito,
legittimo, dunque non è con la logica che possiamo discriminare fra di essi. Nessuna proposizione
di un sistema è intoccabile e, se lo si ritenesse opportuno, potrebbe essere modificata o abbandonata
anche quella che esprimesse un concetto ritenuto, fino ad allora, del tutto saldo. Propriamente
parlando, in tal modo si genererebbe un nuovo sistema concettuale, a cui, a sua volta, sarebbe
richiesto di mostrare la propria utilità pragmatica. Non c’è modo di separare con esattezza l’ordine
concettuale imposto dal soggetto all’esperienza e ciò che, al contrario, appartiene sicuramente alle
cose con cui il soggetto entro in contatto, pertanto, ogni ipotetica sistemazione teorica è,
logicamente, accettabile233. È l’elemento soggettivo dell’esperienza che è valutato secondo criteri
pragmatici ed esso assegna le varie presentazioni sensibili alle proprie categorie, rendendole, in tal
modo, parte della realtà, ossia, in termini equivalenti, di un certo ordine. La logica, come già
mostrato, indica quali siano i nostri criteri di interpretazione234 ed essi possono essere sostituiti, in
un dato momento, da altri235. Categorie e concetti, propriamente, non cambiano nel corso della
storia, ma sono abbandonati a favore di altri differenti236. Ciò che descriviamo come un
231
Cfr. ivi, p. 247. Cfr. anche C. I. Lewis, Logic and Pragmatism, in AA. VV., Contemporary American Philosophy,
New York 1930, vol. II, pp. 31-50, ristampato in C. I. Lewis, Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D.
Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press, Stanford, California 1970, p. 15. Cfr. anche C. I. Lewis,
Alternative System of Logic, in The Monist, Vol. XLII (1932), N. 4, pp. 481-507, ristampato in id., Collected Papers of
Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press, Stanford, California
1970, p. 419.
232
Cfr. C. I. Lewis, Facts, System, and the Unity of the World, in The Journal of Philosophy, Vol. XX (1923), N. 6, pp.
141-51, ristampato in id., Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr.,
Stanford University Press, Stanford, California 1970, p. 388. Cfr. Anche C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of
a Theory of Knowledge, op. cit., p. 271.
233
Cfr. W. V. Q., Two Dogmas of Empiricism, in id., From a Logical Point of View. Nine logico-Philosophical Essays,
Harvard University Press, 1953. Quine concepisce tale posizione come una critica nei confronti di Lewis, ma il suo
obiettivo particolare, probabilmente è l’ultima esposizione che Lewis fece della propria epistemologia in An Analysis of
Knowledge and Evaluation, mentre in Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, come mostrerò
appresso nel testo, egli si esprime in termini molto simili a quelli usati, successivamente, da Quine.
234
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 10.
235
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, in The Monist, Vol. XLII (1932), N. 4, pp. 481-507, ristampato in id.,
Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press,
Stanford, California 1970, p. 400.
236
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 268.
78
cambiamento, è in realtà, una sostituzione di concetti che mantiene una certa analogia, magari
nominale, con ciò che era creduto prima. In ogni cambiamento, ciò che muta, dunque, non è solo
una parte delle nostre conoscenze, ma tutto il sistema nel suo complesso, anche se, naturalmente, il
nuovo ordinamento sarà, quasi sempre, in molte parti, identico al precedente. Ciò che era vero nei
termini di un sistema continua a rimanere vero anche dopo che è stato sostituito da un altro e ogni
contraddizione tra i due è soltanto verbale perché, in realtà, si confrontano due schemi differenti che
assegnano significati diversi ai medesimi termini237. La contraddizione tra i due sorge solo quando
non si rispetta la reciproca indipendenza, ma si ritiene di doverne valutare uno secondo i principi e i
concetti dell’altro238.
Ciò che si deve prendere in considerazione al fine di considerare la portata della sostituzione di un
sistema con un altro sono i due insiemi di concetti, presi nella loro totalità, l’esperienza che non si è
più disposti ad accomodare entro le precedenti categorie e le nuove condizioni di interpretazione
che sono rese possibili dal nuovo sistema proposto239. Tra i concetti di ogni apparato interpretativo
si trovano, insieme, generalizzazioni empiriche e proposizioni a priori, tra cui le leggi della logica.
La verità delle prime è, manifestamente, basata sull’esperienza passata e dipendente dall’esperienza
futura ed è, dunque, solo probabile. Le seconde, invece, sono sempre certe perché analitiche, ossia
basate solo sul funzionamento del linguaggio240. In tal modo, però, non si raggiunge una certezza
indiscutibile a proposito delle proposizioni a priori e nemmeno delle leggi logiche perché tale
distinzione è, a sua volta, valida solo all’interno di un dato sistema. Per questo motivo l’attacco che
Quine rivolge contro la possibilità di distinguere analitico e sintetico, benché esplicitamente rivolto
anche contro Lewis241, non appare intaccare significativamente l’epistemologia proposta dal
secondo. Lewis, infatti, avrebbe potuto accettare agevolmente, se lo avesse ritenuto opportuno, i
rilievi del suo allievo, che ha sostenuto che, non possedendo una rigorosa nozione di sinonimia, non
237
Cfr. ibidem..
Cfr. ivi, p. 269.
239
Cfr. ibidem.
240
Cfr. ivi, p. 303.
241
Cfr. W. V. Q., Two Dogmas of Empiricism, in id., From a Logical Point of View. Nine logico-Philosophical Essays,
p. 46.
238
79
possiamo comprendere appieno che cosa si intenda con “proposizione analitica” in quanto questa è,
correntemente, definita come vera solo in riferimento al significato delle parole che la
compongono242. La conclusione a cui Quine giunge, però, è del tutto analoga a quel che già Lewis
aveva sostenuto specificando che ciò che consideriamo analitico è tale solo relativamente ad un
determinato sistema d’ordine e neppure esso è immune dalla possibilità di una revisione o di un
abbandono243. Lewis, poi, aveva già mostrato di accorgersi dell’oscurità del termine “significato”
(peraltro non maggiore di altre parole o locuzioni che, tuttavia, è possibile continuare ad utilizzare
sensatamente, come “realtà fisica”, “volontà”, “introspezione”, …). Egli infatti ha osservato come
non sia possibile costruire il linguaggio su un punto fermo che ne certifichi la solidità. Ogni
definizione è inevitabilmente circolare perché si riferisce ad altri termini, i quali, a loro volta,
richiedono una definizione ulteriore, e, poi, non solo la saldezza dei principi garantisce la
correttezza delle conclusioni, ma anche la plausibilità di queste contribuisce a confermare quelli244.
2.a. CONFRONTO FRA LOGICHE
Confrontare fra loro due sistemi logici differenti significa valutare due diverse tipologie d’ordine
l’una in rapporto all’altra. La concorrenza fra di esse verte su questioni di significato, ossia su come
concepire l’ordinamento concettuale ed astratto in cui inserire i dati della nostra esperienza e le
nostre successive elaborazioni intellettuali. Se si pone in discussione la validità formale di un certo
argomento, ci si chiede se i criteri della logica di cui sarebbe un teorema siano accettabili oppure, al
contrario, vadano rifiutati perché non forniscono una garanzia ritenuta conclusiva. Se si elabora una
teoria logica alternativa in cui tali garanzie sembrano, invece, presenti, a parità delle altre
condizioni, ciò che è cambiato è il significato delle costanti logiche impiegate.
242
Cfr. ivi, p.
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 303. Cfr. anche ivi, p. 232.
244
Cfr. ivi, p. 109-209.
243
80
Il significato di un asserto è il suo ruolo nella comunicazione, ossia il suo uso secondo certe
regole245. Se un individuo associa a un simbolo, o ad una stringa di simboli, un significato che non
si rivela nel suo modo di impiegarlo non sarà mai in grado di comunicarlo ad altre persone che, di
conseguenza, conosceranno e diffonderanno il significato di quel simbolo, o di quella stringa,
determinandone il significato proprio in base all’uso che hanno osservato essergli riservato. Essi,
infatti, non hanno altri mezzi per rendersi consapevoli di ciò che si intende con un certo simbolo se
non quello di comprendere quale ruolo esso riveste nella comunicazione. Se due parole hanno un
significato diverso, tale differenza deve manifestarsi nel comportamento linguistico dei parlanti.
In questo modo, tuttavia, non perdono di rilevanza e di senso le dispute fra sostenitori di logiche
differenti. Tra sistemi diversi, infatti, può sussistere una genuina rivalità, ma essa non si risolve con
la determinazione di una logica come falsa in assoluto (e, eventualmente, ma non necessariamente,
dell’altra come vera in assoluto), bensì con l’accettazione o il rifiuto di una certa struttura
concettuale e di una organizzazione di relazioni ed operazioni. L’accettazione di un sistema è
tutt’altra faccenda rispetto alla sua verità, la quale è sempre relativa ad un determinato ordine246. Le
strutture della logica sono, all’interno di ogni sistema, eterne come le idee di Platone247 e la
contraddizione fra teorie diverse è soltanto nominale perché i medesimi simboli, in un nuovo
contesto, mutano significato248. La concorrenza fra due sistemi, tipicamente, si rivela
nell’accettazione di un nucleo comune di proposizioni e nella deviazione circa un altro insieme di
tesi. Le giustificazioni addotte a favore dell’una o dell’altra soluzione sono la plausibilità di
accordare le presentazioni sensibili con le prescrizioni, rispettivamente, di ciascuna teoria. La
molteplicità dei diversi aspetti con cui si usano gli elementi di una teoria rende possibile criticare
alcuni di tali usi, proponendone, eventualmente, altri alternativi, ritenuti principi di interpretazione
più validi. Un interlocutore Α può tentare di confutare B proponendo un esempio di impiego delle
leggi logiche accettate da B in cui, da premesse vere, si deducono conclusioni false. B potrebbe
245
Cfr. ivi, p. 109.
Cfr. ivi, pp. 242-243.
247
Cfr. ivi, p. 269.
248
Cfr. ivi, p. 268.
246
81
tentare di contestarlo, restringendo il campo di applicazione della sua logica o dichiarando che essa
riguarda un altro ambito o che, ad ogni modo, benché non perfetta sia la migliore fra quelle
conosciute e potrebbe provare a sostenere quest’ultimo punto cercando di mostrare ad A la relativa
semplicità con cui essa permette di organizzare una parte notevole e rilevante delle nostre
conoscenze e delle nostre esigenze deduttive. In alcuni casi, poi, A potrebbe tentare di indurre B ad
abbandonare le proprie opinioni sostenendo non che l’applicazione dei principi di B conduce a
risultati chiaramente sbagliati, ma, più debolmente, inappropriati, ossia che fanno affermazioni
troppo generali ed impegnative, quando, anche se non vi è alcun controesempio disponibile, non si è
legittimati a sostenere alcunché. Con i principi di B, in altre parole, da certe premesse si giunge, in
alcuni casi, ad una conclusione che non è falsa, ma, neppure, riconoscibilmente vera e, dunque, A
potrebbe sostenere che sarebbe ingiustificato accettarla. Si nota facilmente, a questo proposito, la
correttezza dell’osservazione di Lewis secondo cui non solo le conclusioni di un’inferenza sono
garantite dai principi, ma, circolarmente, anche i principi sono garantiti dalla plausibilità delle
conclusioni a cui permettono di giungere249. Nessuna argomentazione a disposizione di A e B è
assoluta, ossia vera in modo irrefutabile, ma ognuna fa riferimento ad altre tesi assunte come
terreno comune che assicura la significanza delle espressioni e la possibilità di intesa su ciò di cui si
discute. Ogni giustificazione delle leggi logiche, dunque, si conferma sempre relativa ad un
orizzonte impregiudicato di assunzioni a cui si fa riferimento. I disaccordi nel campo
dell’accettazione e del rifiuto di determinate leggi logiche vertono sul significato da assegnare alle
costanti logiche impiegate per formare gli enunciati. Tale divergenza può essere, agevolmente,
risolta introducendo uno o più simboli nuovi che specifichino con maggiore esattezza le differenze
nell’uso del precedente singolo simbolo. Più frequentemente, però, i contendenti contestano la
legittimità del significato che il proprio opponente unisce al simbolo in questione. La profondità e
l’importanza filosofica delle dispute logiche risiede proprio nelle diverse concezioni sistematiche e
249
Cfr. ivi, .
82
relazionali che esse veicolano perché, in tal modo, si contrappongono diverse considerazioni sulla
struttura del realtà esaminata250.
Qualora gli stimoli sensibili ci inducano a dissentire da alcune tesi del nostro apparato
concettuale, saremmo portati ad interrogarci sulle modalità con cui intervenire per cambiarle e, alla
fine, otterremo un nuovo sistema che, come ogni altro, svolge la funzione di organizzare la nostra
esperienza in funzione di quella intelligibilità che assicura la validità delle nostre conoscenze e dei
nostri comportamenti.
Le leggi logiche non godono di uno statuto privilegiato. Anch’esse sono discutibili e possono
essere modificate e sostituite. Lewis sostiene che le verità logiche sono analitiche, ossia vere
soltanto in virtù del significato degli operatori logici che vi compaiono. Con ciò intende dire che
sono gli elementi soggettivi, ossia le regole di classificazione ed elaborazione251 a cui ricorriamo
per interpretare le presentazioni sensibili, ma ciò, naturalmente, non significa che debbano essere
sempre accettate da tutti. Se anche, per amore di discussione, si ammettesse che se una legge logica,
quando è correttamente compresa, non può mai essere falsa, la situazione non cambierebbe di molto
perché, come ho cercato di mostrare prima, trattando dell’evidenza, non vi è alcun caso in cui
disponiamo di assicurazioni assolutamente certe (ammesso che ciò, poi, significhi qualcosa) di aver
correttamente compreso e interpretato un certo oggetto. La stessa cautela potrebbe essere
raccomandata anche a chi sostenesse la tesi dell’infallibilità delle proposizioni analitiche e non
concedesse che la loro natura è pragmatica. Un errore inavvertito potrebbe insinuarsi in ogni nostra
conoscenza e ad ogni livello.
250
Cfr. The Logical Basis of Metaphysics, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1991 in id., La base logica
della metafisica, a c. di E. Picardi, il Mulino, Bologna 1996, p. 24.
251
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, op. cit., p. 268.
83
CAPITOLO V
LOGICHE ALTERNATIVE
84
In questo capitolo, intendo mostrare in concreto, sul terreno dell’analisi storica, la pertinenza delle
osservazioni fin qui svolte in merito alla natura e al carattere della logica e alla sua rilevanza per le
teorie filosofiche. Oggetto della ricerca diventano ora due filoni di indagini logiche che sono sorti
all’inizio del secolo scorso e si sono opposti, per determinati aspetti, alla logica cosiddetta classica:
i sistemi di logica polivalente e l’intuizionismo.
1. LOGICHE POLIVALENTI
La logica non ha quel privilegio che Kant le aveva assegnato, considerandola una delle poche
scienze in cui si possa giungere, e si sia di fatto giunti, ad uno stato di perfezione che non consente
più alcun legittimo mutamento252. Ancor meno, poi, tale stabilità fu acquisita fin dal suo sorgere per
opera di Aristotele253. A dimostrazione di ciò si può citare una breve nota del 1920, Sulla logica
trivalente254, in cui il logico polacco Łukasiewicz espone un nuovo sistema di logica che egli stesso,
espressamente, oppone a quella aristotelica255. Caratteristica di quest’ultima sarebbe la distinzione
dei valori di verità in vero e falso. Ogni proposizione, in altre parole, può, a queste condizioni,
essere solo o vera o falsa (principio di bivalenza). Non vi sono altre possibilità, intermedie o di tipo
diverso, e neppure tali valori possono essere attribuiti, contemporaneamente e sotto il medesimo
rispetto, alla stessa proposizione. Se si stabilisce di indicare il vero e il falso, rispettivamente, con
“1” e “0” e l’uguaglianza con “=”, si ottengono, dunque, le seguenti leggi:
1.a. identità della falsità: (0 = 0) = 1;
1.b. identità della verità: (1 = 1) = 1;
252
I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, 1800, in id., Schriften zur Metaphysic und Logik, Werkausgabe Band
VI, 2, herausgegeben W. Weischedel, , Suhrkamp, Frankfurt 1968, A 18, p. 443: “Es gibt nur wenige Wissenschaften,
die in einen beharrlichen zustand kommen können, wo sie nicht mehr verändert werden. Zu diesen gehört die Logik”.
253
Ibidem: “Übrigens hat die Logik, von Aristoteles’ Zeiten her, an Inhalt nicht viel gewonnen und das kann sie ihrer
Natur nach auch nicht”.
254
J. Łukasiewicz, O logice trojwartosciowej, in Ruch Filozoficzny, 5, 1920, pp. 170-171, tr. inglese On Three-valued
Logic, in id., Selected Works, ed. L. Borkowski, North-Holland Publishing Company - Amsterdam London, PWN –
Polish Scientifc Publishers – Warszawa, 1970, pp. 87-88.
255
Ivi, p. 87.
85
1.c. non identità della verità e della falsità e viceversa: (0 = 1) = (1 = 0) = 0;
2.a. casi in cui è vera l’implicazione: (0 < 0) = (0 < 1) = (1 < 1) = 1;
2.b. casi in cui è falsa l’implicazione: (1 < 0) = 0.
Se indichiamo con “a” e ”b” delle variabili sui valori di verità (0 e 1), otteniamo anche:
3.a. definizione della negazione: a’ = (a < 0);
3.b. definizione dell’addizione (disgiunzione): a + b = [(a < b) < b];
3.c. definizione della moltiplicazione (congiunzione): ab = (a’ + b’)’.
La logica trivalente si distingue da quella appena presentata perché assume che, oltre alle
proposizioni vere e a quelle false, vi siano anche enunciati che non sono né veri né falsi. La nuova
logica, in tal modo, si differenzia da quella bivalente attribuita al filosofo di Stagira e, di
conseguenza, Łukasiewicz la denomina non-aristotelica. In seguito, considerando i dubbi di
Aristotele in merito all’applicabilità del principio di bivalenza ai futuri contingenti256, egli ravviserà
nello stoicismo257, e, specialmente, in Crisippo, l’enunciazione della validità generale di tale
principio e, quindi, proporrà, più opportunamente, di chiamare non-crisippea una logica, come la
propria, che non lo rispetta258. Simbolicamente, il nuovo valore di verità può essere indicato con 2,
oppure, come farà lo stesso logico polacco in scritti successivi e come diventerà abituale perché,
come mostrerò più consono all’impostazione della logica polivalente, con 1/2259.
Nel nuovo sistema, tutti i principi sopra esposti rimangono validi, con la specificazione che le
variabili “a” e ”b” possono assumere anche il nuovo valore 1/2. Ai principi dell’identità e
dell’implicazione formulati per i valori “0” e ”1” occorre, poi, aggiungere:
256
Cfr. Aristotele, De int., 9, 19 a 36.
Cfr. J. Łukasiewicz, Z historii logici zdań, in Przeglad filozoficzny, 37 (1934), pp. 417-437, tr. inglese Z. Jordan in
id., On the History of the Logic of Propositions, in id., Selected Works, op. cit., p. 202: “The Stoic logic of propositions
is two-valued logic. In it the basic principle holds, that every propositions is a either true or false, or, as we say today,
can take one of only two possible “truth values”, ‘the true’ or ‘the false’. This principle is laid down in conscious
opposition to the view that there are propositions which are neither true nor false, namely those which treat of future
contingent events”.
258
Cfr. J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu mehrwertigen Systemen des Aussagenkalküls, in Monatshefte
für die Mathematik und Phisik, XXXVII, pp. 51-77, tr. it. G. Corsi in id., Osservazioni filosofiche sui sistemi polivalenti
della logica proposizionale, in AA. VV., Dalla logica alla metalogica. Scritti fondamentali di logica matematica, a c.
E. Casari, Sansoni, Firenze 1979, p. 262.
259
Cfr nota ** in J. Łukasiewicz, O logice trojwartosciowej, op. cit., p. 87.
257
86
1.d. (0 = 1/2) = (1/2 = 0) = (1 = 1/2) = (1/2 = 1) = 1/2;
1.e. (1/2 = 1/2) = 1;
2.c. (0 < 1/2) = (1/2 < 1) = (1/2 < 1/2) =1;
2.d. (1/2 < 0) = ( 1 < 1/2) = 1/2.
I teoremi dimostrabili nella logica trivalente sono, in parte, diversi da quelli della logica bivalente
e, in particolare, alcune sue leggi divengono, ora, solo possibili, non più necessarie, il che significa
che possono assumere il valore designato, ma non ciò non accade uniformemente. Gli esempi
principali, a tal proposito, riguardano il principio di non contraddizione (aa’ = 0) e quello del terzo
escluso (a + a’ = 1).
La prima reazione, di fronte a tale proposta è, probabilmente, quella di sentirsi disorientati e
diffidenti. La prima sensazione nasce dal fatto di non ritrovare espresse dalle formule le nostre
usuali intuizioni logiche. La seconda, poi, sorge dalla prima e potrebbe indurci a considerare il
nuovo sistema un mero gioco formale, come del resto ebbe a lamentarsi, riferendosi, però alla
considerazione, in generale, di tutta la logica simbolica da parte di molti uomini di cultura, lo stesso
Łukasiewicz260. Il logico polacco, al contrario, attribuisce grande rilevanza filosofica ai risultati
della logica simbolica, tanto da giungere ad affermare che essa mostra, impietosamente, come i
sistemi di (nientemeno) Platone, Aristotele, Descartes, Spinoza, Kant ed Hegel sono castelli di
carte261 e che la filosofia dovrebbe essere ricostruita sulla base della nuova logica262. Filosofiche,
appunto, sono le motivazioni che inducono Łukasiewicz ad elaborare la logica trivalente. Egli non
la considera un artificio matematico, ma ritiene che tramite essa si possa risolvere in modo
260
Cfr. J. Łukasiewicz, O zasadzie sprecznści u Aristotelesa, 1910, in id., Del principio di contraddizione in Aristotele,
tr. it. G. Maszkowska, a c. G. Franci e C. A. Testi, presentazione M. Matteuzzi, Qoudlibet, Macerata 2003, p. 165.
“Spesso si obbietta, specialmente da parte dei filosofi, che la logica formale in generale e quella simbolica in
particolare, è [sic] soltanto un divertimento del pensiero”.
261
Cfr. J. Łukasiewicz, O determinizmie, in Z zagadnień logici i filozofii, ed. J. Słupecki, Warsav 1961, tr. inglese On
Determinism, in id., Selected Works, op. cit., pp. 111-112:”When we approach the great philosophical systems of Plato
or Aristotle, Descartes or Spinoza, Kant or Hegel, with the criteria of precision set up by mathematical logic, these
systems fall to pieces as if they were houses of cards”.
262
Cfr. ivi, p. 112:”Philosophy must be reconstructed from its very foundations; it should take its inspiration from
scientific method and be based on the new logic”.
87
soddisfacente l’importante problema del determinismo, che non può essere significativamente
trattato, invece, nella logica a due valori263.
Łukasiewicz espone tali idee nel saggio Osservazioni filosofiche sui sistemi polivalenti della
logica proposizionale (1930)264. Per prima cosa, qui, formalizza le quattro proposizioni modali:
-
“è possibile che p”: Mp;
-
“non è possibile che p”: NMp;
-
“è possibile che non p”:MNp;
-
“non è possibile che non p” (ossia: “è necessario che p”): NMNp265.
Il passo successivo consiste nel mostrare come, all’interno della bivalenza, non sia possibile
accettare, insieme, tre proposizioni che egli suppone si sia, invece, normalmente disposti a ritenere
vere:
(1) “se non è possibile p, allora non-p: CNMpNp;
(2) “se non-p, allora, sotto questa supposizione, non è possibile p”: CNpNMp;
(3) “per almeno un p, è possibile p ed è possibile non-p”: ΣpKMpMNp.
La prima e la terza proposizione appaiono immediatamente accettabili e, anzi, indispensabili per
una trattazione significativa dei concetti di possibilità e necessità: (1) non può verificarsi ciò che
non è possibile e (3), se non si ritiene che ogni evento accada necessariamente, allora alcuni eventi
possono sia verificarsi sia non verificarsi. La seconda, invece, potrebbe aver bisogno di chiarimenti.
Essa non significa che ogni cosa che accade è necessaria, ma che, quando una cosa accade, nel
momento in cui accade, non può darsi qualcosa di diverso. Nell’istante in cui si verifica qualcosa,
dunque, è necessario che si verifichi proprio quella cosa e, correlativamente, nell’istante in cui
qualcosa non si verifica, è necessario che non si verifichi266. La possibilità che accada qualcosa
Nelle pagine seguenti, seguirò il simbolismo dell’autore (la notazione polacca, da lui introdotta): “ ¬ α”, “α ∧ β”,
“α ∨ β”, “α → β”, “α ↔ β”, “ ∃ φα”, “ ∀ φα” diventano, rispettivamente, “Nα”, “Kαβ”, “Aαβ”, “Cαβ”, “Eαβ”, “Σφα”,
“N φα”.
264
J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen des Aussagenkalküls, op. cit., pp. 241264.
265
Cfr. Ivi, p. 241.
266
Aristotele, De int., 19 a 23-24.
263
88
d’altro è esclusa nel momento presente e consentita solo in riferimento al futuro. Benché, per
esempio, non sia necessario che, fra un’ora, Fryderyck suoni il pianoforte, se, fra un’ora, Fryderyck
suonerà il pianoforte, allora non sarà possibile che, in quel momento, non lo stia suonando.
Da (1) e da alcune tesi ausiliarie del calcolo proposizionale, Łukasiewicz ricava cinque asserzioni:
1.1. CpMp;
1.2. CNpMNp;
1.3. CNMNpp;
1.4. CNMNpMp;
1.5. CNMpMNp.
Nessuna di queste leggi pone problemi circa la propria plausibilità.
Meno convincenti, invece, appaiono le conseguenze di (2):
2.1. CMpp;
2.2. CMNpNp;
2.3. CpNMNp;
2.4. CMpNMNp;
2.5. CMNpNMp.
(2.1.), per esempio, permette di passare dalla possibilità dell’accadere di una cosa alla sua realtà,
il che, naturalmente, è inaccettabile se vogliamo conservare alla nozione “possibile” il suo
significato intuitivo. Ogni tesi del secondo gruppo, poi, è la conversa della corrispondente del
primo e, dunque, entrambi i lati dell’implicazione sono equivalenti. Per (1.1.) e (2.1.) “p” equivale a
”Mp” e, a loro volta, per (1.3.), (2.3.), (1.4) e (2.4.) sono equivalenti a “NMNp”. Lo stesso, per
(1.2.) e (2.2.), vale per le espressioni “Np” e ”MNp” e, per (1.5.) e (2.5.), tra di esse e “NMp”. Le
espressioni modali, di conseguenza, sono inutili perché non esprimono nulla di più del calcolo
proposizionale tradizionale.
Problemi analoghi sorgono anche a proposito di (3), di cui importa citare solo una conseguenza:
1.1. Mp.
89
Questa formula indica che ogni cosa è possibile e da essa, per sostituzione, si può ricavare
“MNp.” e, quindi, dobbiamo negare sia “NMp.” sia “NMNp.”.
Se, poi, consideriamo insieme (2) e (3), per (2.1.) e (3.1.), otteniamo “p”, ossia una qualunque tesi
è un teorema, il che significa che il sistema è inconsistente e (2) e (3), benché ciascuna sia
intuitivamente plausibile, sono, formalmente, incompatibili.
A questo punto, potremmo sospettare di aver sbagliato la traduzione formale di una delle
proposizioni (2) e (3) o di entrambe e che, se correggessimo tale svista, si eviterebbero, forse, I
problemi. Łukasiewicz considera questa ipotesi nel caso di (2) (evidentemente ritiene chiaro che la
traduzione (3) sia corretta), ma non la accetta. Egli mostra di considerare non soddisfacente la sua
formulazione, ma si dichiara convinto che non sia possibile, nell’ambito del calcolo proposizionale
bivalente, fornirne una migliore.
Il punctum dolens della questione mi sembra stare nell’ambiguità dell’espressione “se non-p,
allora, sotto questa supposizione, non è possibile p”. Il passo in cui Aristotele formula tale principio
è: “To#
me#n ouùn eiùnai to# oàn oçtan hjù, kai# to## mh oàn mh# eiùnai oçtan mh# hjù,
aèna@gkhÚ ouè me@ntoi ouòte to# oàn açpan aèna@gkh eiùnai ouòte to# mh# oàn mh#
eiùnai”267. Łukasiewicz nota, correttamente, che oçtan non è una particella condizionale, bensì
temporale268. Il primo periodo, allora, afferma: “È, dunque, necessario che ciò che è, quando è, sia e
che ciò che non è, quando non è, non sia”269. Che Aristotele non pensi che ciò che è sia necessario
nel senso che non avrebbe potuto non essere è confermato dal secondo periodo: “Non è, però,
necessario che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia”270. Aristotele prosegue e
introduce, esplicitamente, una distinzione tra due diversi tipi di necessità: “Ouè ga#r tauèto@n
eèsti to# oàn açpan eiùnai eèx aèna@gke¹ oçte eòstin, kai# to# aéplȹ eiùnai eèx aèna@gke¹Ú
oémoi@o¹ de# kai# epi# tou^ mh# oònto”¹ (“Non è, infatti, la stessa cosa che necessariamente tutto ciò
che è, quando è, sia e l’essere assolutamente di necessità. Similmente si dica anche per ciò che non
267
Aristotele, De int. 9, 19 a 23-25.
J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen des Aussagenkalküls, op. cit., pp. 243.
269
Aristotele, De int., 9, 19 a 23-14, tr. G. Colli, modificata da me.
270
Aristotele, De int., 9, 19 a 23-24, tr. G. Colli.
268
90
è”271). Lo stagirita differenzia una necessità relativa al verificarsi di un’altra condizione da una
necessità incondizionata. Non è necessario che ciò che è in potenza sia in atto, se non perché portato
a tale condizione da una determinata causa e per il tempo in cui rimane in quello stato272. Ciò che è
necessario, in tal caso, non è un membro della relazione, ma la relazione stessa. Diverso è il
secondo caso, che caratterizza solo gli enti che, in virtù della propria natura, sono sempre in atto.
Ritengo che questa analisi riveli l’inadeguatezza della trascrizione simbolica di tale principio fornita
dal logico polacco perché il condizionale che egli usa, CNpNMp, che si potrebbe parafrasare con
“se non-p, allora è necessario non-p”, riferisce la necessità solo al conseguente.
Ritengo più plausibili le riflessioni che sviluppa dalle difficoltà che sorgono da (3). Assumendo
quest’ultimo principio, infatti, si ottiene che qualsiasi proposizione è possibile, il che, se, forse, non
rende del tutto inutili le espressioni modali, di sicuro le rende inaccettabilmente banali. Che senso
potremmo attribuire, infatti, ad un sistema sorto per trattare le espressioni “è possibile” e “è
necessario” in cui la prima è sempre vera e la seconda sempre falsa?
Rifiutando (2), tuttavia, non è possibile condividere la conclusione di Łukasiewicz circa
l’impossibilità di sviluppare una logica modale che rispetti le tre proposizioni tradizionalmente
accolte nell’ambito della logica bivalente. Ciò che lo aveva condotto a tale risultato, infatti, era stata
l’osservazione che (1), (2) e (3) non possono essere considerate vere insieme, non solo perché come
ha mostrato, da (2) e (3) segue ogni formula, ma anche in virtù di considerazioni semantiche. In un
sistema bivalente, possono esistere solo quattro funzioni mono-argomentali. Poniamo che φ sia un
funtore ad un argomento:
a. φ0 = 0 e φ1 = 0;
b. φ0 = 0 e φ1 = 1;
c. φ0 = 1 e φ1 = 0;
d. φ0 = 1 e φ1 = 1.
271
Aristotele, De int., 9, 19 a 25-26, tr. mia.
Aristotele, Met., E, 3, 1027 a 14 – 1027 b 9: “Questa data cosa sarà o no? Sì, se si produrrà quest’altra cosa; se no,
no. (…) Il fatto avvenuto esiste attuato in qualche cosa; di necessità, dunque, avverranno tutte le cose future che da esso
dipendono”.
272
91
(1) vale solo per b. e d., (2) vale solo per a. e b., (3) vale solo per d. Come si nota, è vero che non
vi è una condizione che sia comune a tutte e tre i principi, ma (2) non si può più considerare come
un’espressione formale adeguata del concetto di possibilità.
1.a. GIUSTIFICAZIONI FILOSOFICHE
Łukasiewicz afferma che, nel 1920, le sue ricerche sul calcolo proposizionale a due valori e quelle
sulle proposizioni modali si sono intrecciate e si è convinto che la radice delle difficoltà incontrate a
proposito di queste ultime risiedesse nella base stessa della logica tradizionale, ossia nella legge di
bivalenza273. Fin dall’antichità, secondo Łukasiewicz, si era dibattuto intorno ad essa proprio per
questioni riguardanti i concetti di possibilità e necessità. Se le proposizioni sono, necessariamente, o
vere o false, afferma il logico polacco, allora anche un asserto riguardante il futuro come “Sarò a
Varsavia domani” deve essere o vero o falso e deve esserlo sempre, quindi anche prima che esso si
verifichi. Łukasiewicz non sta sostenendo che qualcuno sappia già se tale affermazione sia vera o
falsa, ossia se si verificherà oppure no, o che ciò possa essere scoperto in qualche modo. Egli
afferma che, anche se non sappiamo quale, se gli unici due valori di verità ammessi sono vero e
falso, allora tale proposizione ne deve possedere già uno dei due.
In tal modo, però, ogni
avvenimento sarebbe necessario perché il suo valore di verità sarebbe già determinato (benché
sconosciuto) prima che accada. Se oggi è vero che domani sarò a Varsavia, allora è necessario che
domani sia nella capitale polacca. Al contrario, se oggi tale asserto è falso, allora è impossibile che
domani sia a Varsavia. Łukasiewicz ritiene che solo rifiutando la dicotomia dei valori di verità in
vero e falso sia possibile esprimere genuine proposizioni modali e rifiutare il determinismo. Solo se,
oggi, la proposizione “domani sarò a Varsavia” non è né vera né falsa, allora è possibile, ma non
necessario, che, domani, si verifichi o non si verifichi ciò che tale frase esprime. Łukasiewicz
273
Cfr. J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen des Aussagenkalküls, op. cit., pp.
251-252.
92
ritiene che la sua analisi delle cause della difficoltà di escogitare un’opportuna logica modale in una
logica bivalente sia confermata dalla storia delle discussioni sorte intorno alla legge di bivalenza.
Aristotele, infatti, a proposito degli eventi contingenti futuri affermò che, benché sia necessario che
una delle due parti della contraddizione sia vera, non è necessario che una determinata parte sia vera
o falsa274. Secondo una testimonianza di Cicerone, Epicuro, che si opponeva al determinismo,
riteneva che una proposizione riguardante il futuro non fosse, né vera né falsa275. Gli stoici, al
contrario, che ritenevano che tutto fosse assoggettato al fato, accolsero e difesero la bivalenza276.
La logica trivalente nasce proprio dal tentativo di evitare il determinismo, ossia sorge da ben
precise esigenze metafisiche277. Łukasiewicz stabilisce che, se 1 = vero e 0 = falso, il terzo valore di
verità debba situarsi in mezzo ed essere, cioè, 1/2. Esso è il valore attribuito ad una situazione futura
possibile e non necessaria.
La capacità della logica simbolica di elaborare differenti sistemi di calcolo che si discostano dalle
nostre intuizioni abituali potrebbe intimidire e rendere diffidenti circa la loro reale efficacia e
plausibilità278. Non sempre gli autori, poi, si sono preoccupati di mostrare le divergenze delle loro
leggi dai significati che, normalmente, sono attribuiti agli operatori corrispondenti nel ragionamento
informale. Il filosofo di Varsavia, d’altra parte, conformemente alla natura della propria indagine,
che è sorta da questioni semantiche, si è preoccupato di esporre nel dettaglio il significato del
proprio lavoro. La divergenza dalla prassi, anche tecnica, informale, non è, però, il solo elemento,
pertinente alla mia ricerca, di interesse nell’opera di un logico. Come ho più volte sottolineato nelle
274
Aristotele, De int., 9, 19 a 36-38. Cfr. J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen
des Aussagenkalküls, op. cit., p. 262.
275
Cicerone, De fato, 37. Cfr. J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen des
Aussagenkalküls, op. cit., p. 263.
276
Cfr. J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen des Aussagenkalküls, op. cit., p.
263.
277
Non è questa la sede per soffermarsi sul problema metafisico del determinismo ed approfondire se è, davvero, una
conseguenza del principio di bivalenza. Vorrei, tuttavia, osservare che non sono sicuro che le ragioni addotte da
Łukasiewicz siano conclusive. Se, infatti, il suo ragionamento è {se [necessariamente, se (ora è vero che domani sarò a
Varsavia), allora (domani sarò a Varsavia)], allora [se (ora è vero che domani sarò a Varsavia), allora, (necessariamente,
domani sarò a Varsavia)]} mi sembra esemplificare la seguente legge, di cui ritengo inaccettabile, per i motivi esposti
sopra discutendo la formalizzazione della proposizione (2), il conseguente del principale segno di implicazione:
CNMNCpqCpNMNq. (o, in altri termini: (L(p → q)) → (p → (Lq))).
278
C. I. Lewis, Implication and the Algebra of Logic, in Mind, vol. XXI (1912), n. 84, pp. 522-531, ristampato in Id.,
Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press,
Stanford, California 1970, p. 351.
93
parti precedenti della tesi, uno degli aspetti più rilevanti del panorama della logica attuale è la
molteplicità di sistemi differenti, reciprocamente alternativi. Rivolgendo l’attenzione all’opera di
Łukasiewicz è possibile esemplificare le riflessioni sopra riportate.
Anche nella logica trivalente ritroviamo gli stessi connettivi vero-funzionali che sono solitamente
impiegati nella logica proposizionale bivalente. Le loro tavole di verità, però, sono diverse e di,
conseguenza, il loro significato è differente279. Nel primo e secondo capitolo, ho puntualizzato che
il rigore che si ottiene formalizzando un’espressione della lingua naturale comporta, generalmente,
anche una deviazione, almeno parziale, dal significato originario. Parlando con naturalezza, non
affermeremmo, infatti che “se le stelle sono lacrime, allora il quadrato ha quattro lati”, eppure nella
logica proposizionale classica tale formula è accettabile perché l’implicazione “se p, allora q” è
falsa solo se l’antecedente è vero e il conseguente è falso. Nell’esempio fornito, tuttavia, il
conseguente è vero e quindi l’implicazione, nel suo complesso, è vera. Possiamo esprimere la stessa
cosa fornendo una tavola di verità per l’operatore “ → ” (l’antecedente si trova a sinistra e il
conseguente in alto, il valore designato è “1”):
→
1
0
1
1
0
0
1
1
Allo stesso modo possiamo definire anche l’operatore “ ¬ ”:
p
¬p
1
0
0
1
279
C. I. Lewis, Alternative System of Logic, in The Monist, Vol. XLII (1932), N. 4, pp. 481-507, ristampato in id.,
Collected Papers of Clarence Irving Lewis, ed. J. D. Goheen and J. L. Mothershead Jr., Stanford University Press,
Stanford, California 1970, p. 406.
94
Sulla base di queste matrici, nella logica classica, è possibile definire tutti gli altri connettivi,
ponendo le seguenti definizioni:
p ∨ q =def. (p → q) → q
p ∧ q =def. ¬ ( ¬ p ∨ ¬ q)
p ↔ q =def. (p → q) ∧ (q → p)
In questo modo, si fissa il significato degli operatori logici, ossia le loro condizioni d’impiego, e
si possono agevolmente notare le differenze con i termini omonimi della lingua naturale.
Una legge logica è una formula valida, ossia una formula il cui operatore principale, in questo
sistema, riceve sempre il valore designato per ogni assegnamento di valore alle sottoformule che la
compongono.
Con il metodo delle tavole di verità è possibile costruire infiniti sistemi logici alternativi.
Ciascuno di essi, assegnerebbe un determinato significato ai connettivi e avrebbe le proprie leggi
logiche, ossia formule che sono sempre vere. Anche Łukasiewicz espone il proprio sistema tramite
le sue matrici caratteristiche:
C
1
1/2
0
1
1
1/2
0
1/2
1
1
1/2
0
1
1
1
p
¬p
1
0
1/2 1/2
0
1
95
Le altre operazioni sono così definite:
Apq. =def. CCpqq.
Kpq. =def. NANpNq.
Epq. =def. KCpqCqp.
In questo modo si ottengono le seguenti tavole di verità:
A
1
1/2
0
1 1/2
0
1
1
1
1 1/2 1/2
1 1/2
0
1
1/2
0
1
1/2
0
1/2 1/2 1/2
0
K
1
0
0
0
0
1
1/2
0
1
1/2
0
1/2 1/2
1
1/2
1/2
1
E
1
0
0
96
Il valore di verità 1/2, da assegnare alle proposizioni che riguardano futuri contingenti, può essere,
intuitivamente, compreso come “indeterminato”280. Tali enunciati non sono né veri né falsi prima
che accada ciò che indica il loro contenuto e lo stesso vale per la loro negazione. In tal modo, non
occorre concepirli come se fossero già, inevitabilmente, veri o falsi prima di accadere281.
Łukasiewicz non esita a definire la sua proposta rivoluzionaria come lo fu, a suo tempo, la scoperta
delle geometrie non-euclidee282.
Su questa base, il logico polacco ritiene di poter fondare una logica modale che rispetti il valore
delle proposizioni (2) e (3), citate nel sotto-paragrafo precedente. Seguendo un suggerimento
formulato da Tarski nel 1921, egli propone la seguente definizione di possibilità: Mp =def. CNpp.
Tale condizionale è falso solo quando p = 0. Da esso si ottiene: M0 = 0; M1/2 = 1; M1 = 1. Tutti i
teoremi del gruppo (1) rimangono validi. I teoremi di (2), invece, non sono più verificati, ma sono
dimostrate le formule CpCpNMNp e CNpCNpNMp, che permettono di inferire la necessità che si
verifichi una certa cosa se la si è, preventivamente, ammessa. (3) è valido. A questo punto
Łukasiewicz conclude di essere riuscito a fornire un sistema di calcolo che rispetti tutti i teoremi
modali intuitivamente validi.
Łukasiewicz mostra che il calcolo trivalente è solo un esempio delle infinite logiche polivalenti
che si potrebbero, teoricamente, realizzare. Poniamo che “p” e “q” denotino numeri compresi tra 0 e
1, allora, con le indicazioni seguenti, si potrebbero costruire infinite matrici differenti:
- Cpq = 1 per p ≤ q;
- Cpq = 1 ─ p + q per p > q;
- Np = 1 ─ p.
Se si scelgono solo i valori 1 e 0, si ottiene l’ordinario calcolo proposizionale, se si ammette anche
1/2 si ha la logica trivalente sopra presentata e così via per n valori. Tra gli infiniti sistemi
280
Cfr. J. Łukasiewicz, O determinizmie, op. cit., p. 126.
Ibidem.
282
Ibidem. Cfr. anche J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu den mehrwertigen Systemen des
Aussagenkalküls, op. cit., p. 262.
281
97
polivalenti possibili, Łukasiewicz ritiene filosoficamente rilevanti solo quello trivalente e quello ad
infiniti valori di verità perché gli paiono ragionevoli solo due interpretazioni di “indeterminato”: o
quella mediana tra il vero e il falso o quella con innumerevoli variazioni di grado tra i due valori
estremi. Coerentemente con l’origine della sua opera logica, egli ritiene, dunque, di poter
discriminare, con motivazioni filosofiche, tra differenti sistemi di calcolo. Ciò, peraltro, significa un
loro rifiuto solo provvisorio, infatti, come egli riconosce, non si possono prevedere tutte le possibili
novità apportate dallo sviluppo della logica283. Nello scritto del 1930, comunque, non considera
interessanti tali alternative e, anzi, si pronuncia, pur senza motivarlo, a favore, sopra tutte le
alternative, del sistema ad infiniti valori di verità. Tale sistema è una parte propria della logica
trivalente che, a sua volta, è una parte propria di quella bivalente. Ciò significa che tutti i teoremi
del primo sono verificati anche nel secondo e nel terzo, ma non viceversa e tutti i teoremi del
secondo sono verificati anche nel terzo, ma non vale l’inverso. Nel secondo sistema vi sono formule
che non sono valide nel primo, così come, alcune leggi del terzo non sono necessariamente
verificate nel secondo284. Alcune tesi notevoli che valgono nel sistema bivalente, ma non in quello
trivalente sono:
a.
CCNppp;
b.
CCpNpNp;
g.
CCpqCCpNpNp;
d.
CCpKqNqNp;
e.
CCpEqNqNp.
Le prime due affermano che se una tesi segue dalla propria negazione, allora tale tesi è vera. La
terza e la quarta indicano di rifiutare una tesi da cui segua una contraddizione. L’ultima impone di
rifiutare una tesi che implica l’equivalenza di due proposizioni contraddittorie.
283
Cfr. J. Łukasiewicz, O zasadzie sprecznści u Aristotelesa, op. cit., p. 166.
Se, invece di considerare il calcolo proposizionale, però si avesse a che fare con quello predicativo, allora la
situazione sarebbe diverso perché vi sono tesi dei sistemi polivalenti che non sono valide in quello bivalente.
284
98
Ancora più rilevante, tuttavia, appare il fatto che il principio del terzo escluso non vale nel sistema
trivalente: ApNp = 1/2, infatti, per p = 1/2. Ciò appare curioso se si pensa che, nei nostri
ragionamenti comuni, ci sembra, normalmente, del tutto plausibile che un determinato oggetto,
necessariamente, abbia o non abbia una certa proprietà, oppure che
un particolare evento si
verifichi o non si verifichi. Si potrebbe pensare, infatti, che anche se non sappiamo dire quale dei
due disgiunti, reciprocamente contraddittori, sia vero è necessario che uno lo sia e l’altro, di
conseguenza, non lo sia. In realtà, afferma Łukasiewicz, se si concede la validità del principio del
terzo escluso, allora si ricadrebbe nel determinismo. Una disgiunzione è vera, infatti, se uno dei due
disgiunti è vero. Considerare vero ApNp, però, significa accettare la verità di “p” o la verità di
“non-p” in ogni caso e se “p” fosse un’asserzione su un fatto contingente futuro, il principio del
terzo escluso imporrebbe di considerare quel fatto o la sua negazione come già determinati (anche
se, eventualmente, a nostra insaputa) prima che si verifichino285. Se si rifiuta la visione determinista,
allora, non si può assegnare alcun valore di verità né a “p” né a “non-p” quando riguardano futuri
contingenti286.
A questo ragionamento di Łukasiewicz, si potrebbe obiettare che la causa di questa situazione
risiede nel linguaggio formale adottato e come apparivano intuitivamente validi i teoremi (2) e (3)
che, tuttavia, il calcolo bivalente non riusciva ad esprimere, così appare intuitivamente credibile che
“p o non-p” sia, per così dire, una disgiunzione speciale, ossia vera anche se nessun disgiunto
assume valore 1. Tale intuizione si basa sulla considerazione che, riguardo ai fatti contingenti,
sebbene non sia già fissato quale evento si verificherà in futuro, esso, sicuramente, sarà p oppure
non-p. Aristotele espresse proprio questa opinione: “Riguardo agli oggetti che non sono sempre,
oppure a quelli che non sempre non sono (…) è (…) necessario che una delle due parti della
contraddizione sia vera e l‘altra invece falsa, ma non è tuttavia necessario che una determinata parte
sia vera e l’altra falsa”287. Il discorso dello stagirita sembra traducibile così: ├⁄ L(p ∨ q) →
285
Cfr. J. Łukasiewicz, O determinizmie, op. cit., p. 123.
Cfr. ivi, p. 124.
287
Aristotele, De int., 9, 19 a 35-38.
286
99
(Lp ∨ Lq). Prima di rispondere, è opportuno approfondire ulteriormente la questione. Il fatto che
ApNp non sia una legge del sistema trivalente non significa che essa sia falsa, ma che, piuttosto, è
inesprimibile nei termini di questa logica. La tricotomia dei valori diversità, a differenza della loro
dicotomia, rende il principio del terzo escluso irrilevante e, dunque, può essere assente dal sistema
senza che ciò generi alcun problema. Lo stesso significato della negazione e della disgiunzione, di
conseguenza, sono diversi. Negare p, infatti, non significa, ora, assegnarli un valore di verità
diverso da quello che appartiene a p, perché p = 1/2 e Np = 1/2. Unire due proposizioni in una
disgiunzione, poi, significa che almeno uno dei due è vero, ossia non è né falso né indeterminato e
non più solo non-falso. Può, forse, essere più laborioso comprendere il contenuto delle formule
della nuova logica, ma tali significati sono sicuramente legittimi. Allo stesso modo, sulla base delle
tavole di verità fornite prima, è possibile esplicitare anche i nuovi sensi con sui sono usati gli altri
connettivi e, di conseguenza, le leggi che si formano con essi:
- “Kpq” significa “p e q hanno un valore determinato ed è quello vero”,
- “Cpq” significa “la conseguenza non è meno vera dell’antecedente”288;
- “Epq” significa “p e q hanno il medesimo valore di verità”.
I nuovi sensi espressi da queste formule sono sensibilmente diversi da quelli dell’ordinario calcolo
bivalente. Una definizione di “Kpq” come “né p né q sono falsi”, infatti, sarebbe valida in
quest’ultimo caso, ma non nella logica a tre valori. In modo analogo si possono riscontrare anche le
ulteriori differenze.
Esaminare un simile sistema logico, permette di sviluppare numerose osservazioni. La
delineazione delle caratteristiche della logica trivalente di Łukasiewicz, infatti, mostra come sia
possibile realizzare sistemi differenti dotati di leggi che sono, al proprio interno, valide, ma che non
lo sono se si assumono premesse differenti. La discussione sul valore e le intenzioni filosofiche di
un tale sistema, poi, permette di apprezzare come si pongano in competizione sistemi alternativi. Le
intuizioni modali da cui Łukasiewicz incomincia a criticare il calcolo bivalente rappresentano un
288
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, p. 411.
100
modo di ordinare i dati del mondo ed egli immagina che le proprie convinzioni richiedano criteri
interpretativi differenti da quelli offerti dalla logica classica289. Łukasiewicz fornisce un nuovo
calcolo, ossia un nuovo canone di deduzione e tenta di accreditarlo con argomenti filosofici. Dal
punto di vista logico, come ho già notato, entrambi i sistemi sono possibili e legittimi e le leggi che
essi determinano, in modo, parzialmente, diverso, sono solo verità relative al proprio sistema. Le
logiche alternative si confrontano pragmaticamente, ciascuna dal proprio, pienamente legittimo,
punto di vista 290. Non si tratta di tollerare la pluralità delle logiche perché, in pratica, non sappiamo
determinare quale sia quella corretta (o quale sarà, quando verrà scoperta), ma di riconoscere che
qualunque elemento a priori, quale è, appunto la logica, imponiamo all’esperienza, non produrrà
mai un errore logico291. Ogni alternativa logica si mantiene sempre nell’ambito della verità292.
Quando ci si impone di scegliere un solo sistema logico e di escludere gli altri, il nostro
atteggiamento non potrà che essere guidato da considerazioni relative all’utilità di una certa logica,
ossia formulare considerazioni in relazione alle sue capacità esplicative, alla sua semplicità e
intelligibilità e ai nostri interessi che ci orientano a privilegiare una certa classificazione
dell’esperienza piuttosto che un’altra293. Discriminiamo tra le diverse logiche, così come scegliamo
di contare con il sistema decimale piuttosto che un altro o di utilizzare, in matematica, le coordinate
cartesiane invece di quelle gaussiane294.
In nessuno di queste casi, scegliendo una qualsiasi
alternativa si commetterebbe un errore logico. L’unica conseguenza è quella di operare con criteri
più o meno soddisfacenti in relazione ai nostri obiettivi e alla natura degli oggetti di cui ci si
occupa. Nessun canone di deduzione, ossia nessuna logica, e nessun modo di ordinare qualunque
realtà, per quanto astrusi, comunque, sono rinnegabili su basi puramente logiche295. Il nostro modo
di argomentare, poi, a favore di una di esse, rivela, come ho notato nel capitolo precedente, che
289
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, C. Scribner’s Sons, 1929, reprinted
Dover Publications Inc., New York 1956, p. 202.
290
Cfr. ivi, p. 416.
291
Cfr. ivi, p. 416-417.
292
Cfr. ivi, p. 416.
293
Cfr. ivi, p. 418.
294
Cfr. ibidem.
295
Cfr. ibidem.
101
spesso si citano le nostre intuizioni abituali, certe nostre conoscenze che si danno per acquisite, si
immaginano determinate situazioni in cui l’applicazione del principio che si vuole contestare
sarebbe problematico o, al contrario, si citano condizioni in cui ciò che si difende fornirebbe
un’interpretazione particolarmente appropriata, … Anche a proposito delle logiche polivalenti, oltre
alle analisi già esplicitate, si ritrovano discussioni con questi caratteri. Il tentativo di comprendere
ciò che esse significano o potrebbero significare ha suscitato numerose dispute e sono state fornite
nuove interpretazioni e nuove ragioni, a sostegno o contro, la loro plausibilità. Putnam, ad esempio,
sostiene la proposta di Reichenbach296 di adottare una logica a tre valori per descrivere in maniera
più semplice le leggi della fisica quantistica297. Conveniamo, ad esempio, di assegnare ai termini
“vero” e “falso” un carattere atemporale, tale, cioè, che non cambi rispetto al momento in cui un
enunciato viene pronunciato298. Individuiamo, poi, un terzo valore di verità, “medio”, che si situa a
metà strada fra i primi due e ne condivide l’atemporalità. Le matrici sono le stesse del calcolo di
Łukasiewicz con vero = 1, falso = 0 e medio = 1/2. Adottando il nuovo valore di verità, di
conseguenza, si modificano I nostri usi dei termini logici. Nei casi in cui si conoscono la verità o la
falsità di ogni componente di una proposizione, il comportamento di chi usa la nuova logica non si
distingue da quello di chi ragiona in termini bivalenti. Nei casi in cui uno o più termini assumono il
valore “medio”, invece, i risultati sono diversi. Si può sicuramente costruire un sistema del genere
in maniera del tutto coerente, ma quali ragioni vi sono, si potrebbe domandare, per adoperarlo
effettivamente? In particolare, perché scegliere un sistema che non permette di dire che è
sicuramente vero “p o non-p”? Forse ripensando all’analogia istituita da Łukasiewicz, anche
Putnam cita le geometrie non euclidee per ricordare come, al loro sorgere, anch’esse furono
accompagnate da dubbi analoghi e come, quindi, alla luce delle applicazioni successive, un tale
296
Cfr. H. Reichenbach, Philosophical Foundations of Quantum Mechanics, University of California Press, Berkeley
1944, tr. it. in id., I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, Einaudi, Torino 1954.
297
Cfr. Hilary Putnam, Three-valued Logic, in Philosophical Studies, 8, ottobre 1957, pp. 73-80, ristampato in id,
Mathematics, Matter and Method. Philosophical Papers, Volume I, Cambridge University Press, 1975, tr. G. Criscuolo,
Logica a tre valori, in id., Matematica, materia e metodo, Adelphi, Milano 1993, p. 190.
298
L’asserzione “Colombo attraversò l’oceano nel 1492” è cioè sempre vera, indipendentemente dal suo essersi già
verificata e dalle nostre capacità epistemiche.
102
scetticismo, di per sé, non sia giustificato perché non si può escludere che ciò accada anche alle
logiche polivalenti. Il filosofo americano ritiene che sia la nostra fede riguardo al fatto che, nel
nostro mondo abituale, ogni affermazione è sempre, in linea di principio, verificabile o falsificabile,
a renderci restii di fronte ad una logica che non esprime, come verità necessaria, il principio del
terzo escluso. Nella realtà microscopica, tuttavia, secondo certe leggi quantistiche, se si conoscono
certi dati, è impossibile conoscerne determinati altri. Certe asserzioni, in altre, parole, per principio,
non possono mai essere né verificate né falsificate. Poiché, in virtù del loro utilizzo, non sembra
possibile ritenere che gli enunciati che riguardano tali eventi siano, semplicemente, privi di
significato, appare, invece, ragionevole affermare che non sono né veri né falsi, il che si può
esprimere attribuendogli proprio il valore “medio”.
Un eventuale oppositore potrebbe, poi, ribattere che, benché, esistano cose che, in linea di
principio, non conosceremo mai, pure, esse o sono in un certo modo o non lo sono. Tale obiezione,
tuttavia, si porrebbe sul livello, come direbbe Lewis, dell’a priori. Essa non è, infatti, per
definizione, un possibile oggetto di scoperta, ma è un criterio che informa il nostro modo di
conoscere la realtà. Se lo assumiamo, o assumiamo principi equivalenti (come, per esempio,
afferma Lewis, “ogni proposizione è vera o falsa”299), allora la situazione è già decisa a favore
della bivalenza300 e la proposta del logico trivalente assume solo il carattere di fantasia o, al più, di
descrizione più vicina alla nostra prassi del modo in cui comunichiamo, ma non della realtà,
indipendente da noi, delle cose.
299
300
Cfr. C. I. Lewis, Alternative System of Logic, op. cit., p. 418.
Cfr. ivi, p. 410.
103
2. INTUIZIONISMO
A questo punto della ricerca, occorre rivolgerci ad un altro ambito della logica in cui, per altra via,
si è giunti ad elaborare una visione alternativa alla logica classica e in cui si è posta in discussione,
tra l’altro, proprio la validità del principio del terzo escluso. Approfondire, dunque, le motivazioni
della logica intuizionista permette di considerare ulteriori aspetti della questione che si sta trattando
e di riprendere, infine, il discorso sull’intreccio di ragioni logiche ed opzioni metafisiche a cui si è
giunti studiando la logica trivalente.
Nella speculazione di Brouwer, colui che ha, inizialmente, fondato l’intuizionismo, le concezioni
filosofiche generali e quelle riguardanti la matematica e la logica sono, esplicitamente, unite in
modo assai stretto. La logica, egli afferma, in quanto convezione linguistica, non gode di alcuno
statuto superiore alla matematica e non può, legittimamente, pretendere di fondarla. La matematica
è un prodotto dello spirito umano indipendente dal linguaggio con cui lo si fissa e comunica e,
quindi, anche dalla logica301. Per comprendere appieno tale visione, però, occorre conoscere il
contesto in cui essa si inserisce. Il matematico olandese, infatti, ricostruisce l’origine e il ruolo del
linguaggio, della logica e della matematica all’interno di una fenomenologia della coscienza.
2.a. FILOSOFIA
La coscienza è, originariamente, mossa e indotta ad uscire da se stessa dalla percezione dello
scorrere del tempo302 i cui istanti passati sono ritenuti nella memoria e confrontati con il momento
presente, direttamente esperito303. L’esodo della coscienza costituisce la mente, ossia la funzione
del soggetto che esperisce gli attimi passati e presenti come oggetti distinti e, tuttavia, in relazione
301
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, ed. D. van Dalen, Cambridge University
Press, 1981, tr. it. S. Bernini in id., Lezioni sull’intuizionismo, Boringhieri, Torino 1983, pp. 29-30.
302
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, 1948, in id., Collected Works, ed. A. Heyting,
p. 480. Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 30.
303
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit., p. 480.
104
reciproca. Dalla conoscenza della prima bi-unità di un momento passato e di uno presente e dalla
sua indefinita iterazione sorge l’intero mondo delle sensazioni e della pluralità degli oggetti. Nella
misura in cui qualcosa è concepito come estraneo al soggetto, ossia indisponibile alle modificazioni
che egli è, immediatamente, capace di produrre, diventa un oggetto distinto dal soggetto e, in
quanto tale, meta o mezzo della sua ambizione e della sua attività304. La mente ricerca nei fenomeni
una regolarità causale al fine di classificarli, prevederli e dominarli. Il mondo, dunque, subisce la
divisione in cose, tutto ciò che è estraneo ed esterno rispetto al soggetto (compreso il suo corpo), e
anima, che comprende tutto ciò che è indissolubilmente legato all’essere umano, ad esso interno e
che si rivela nei fenomeni della vocazione e dell’inspirazione305.
Entro tale concezione, l’attività volitiva del soggetto progredisce e da spontanea effusione diviene
atto misurato che distingue fini e mezzi e valuta i comportamenti al fine di adottare quelli che
garantiscono le conseguenze più opportune. Egli sviluppa la consapevolezza delle connessioni
causali tra gli oggetti del mondo e tenta di costruire un ambiente a lui favorevole e di distruggere
tutti gli elementi che potrebbero danneggiarlo. Contemporaneamente, egli scopre anche che i suoi
atteggiamenti possono deluderlo e che non riesce a conoscere con sufficiente precisione tutto ciò
che occorre per porre la propria esistenza al sicuro da ogni pericolo.
L’attenzione alle connessioni causa-effetto che avvengono nel mondo, portano il soggetto ad
accorgersi che alcune sue sensazioni rivelano la presenza di altri soggetti simili. La comunanza di
interessi, spinge gli uomini ad unirsi per accrescere la loro potenza. Dall’esigenza di comprendere
in maniera più efficiente le nuove possibilità d’azione del gruppo, il pensiero causale si raffina e
diventa vero e proprio pensiero scientifico. Questa nuova forma razionale si fonda su una nuova
conoscenza, la matematica, capace, insieme di astrazione e applicabilità tecnica. Essa sorge quando
la bi-unità che, in origine, smosse la coscienza dal proprio riposare in se stessa, è spogliata da ogni
qualità accidentale e rimane solo la pura successione di elementi qualsiasi, estendibile,
304
305
Cfr. ibidem.
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit., pp. 480-481.
105
potenzialmente, all’infinito306. La forma vuota comune a tutte le bi-unità, ossia a tutte le unità
minime che rivelano una sequenza, è l’intuizione che permette la nascita e lo sviluppo della
matematica.
L’evolvere della comunità, poi, ha reso sempre più complicata l’organizzazione dei compiti da
assolvere e dei messaggi da trasmettere e, di conseguenza, i suoni e i gesti primitivi hanno dovuto
lasciare il posto a forme linguistiche più elaborate rispetto ai suoni e ai gesti primitivi e diretti della
relazione faccia a faccia. Per poter dirigere e coordinare, in modo appropriato, i sempre più
numerosi e reciprocamente connessi elementi sociali (segnali, leggi, teorie, …) diviene sempre più
importante una nuova forma di attenzione, intenta ad esprimere e comprendere in maniera più
precisa il contenuto dei messaggi307. La precedente attenzione rivolta alle connessioni causali tra le
cose del mondo, diviene, ora, intenta a scoprire le capacità del linguaggio di esprimerle e
modificare, di conseguenza, il comportamento degli individui. Da tale studio, sorge un particolare
sistema matematico basato su segni linguistici308. Dalle loro connessioni, poi, derivano le regole
grammaticali che danno vita ad una nuova organizzazione del linguaggio che, non solo permette di
gestire più efficacemente le pratiche umane e sociali, ma suggerisce, anche modalità inedite di
espansione della conoscenza309. Per il suo carattere strumentale, tale linguaggio, tuttavia, assimila
l’intera realtà alle proprietà degli oggetti che fungono da mezzi o fini dei processi di soddisfazione
degli interessi umani e non tenta neppure di esprimere il fenomeno, totalmente differente, della
soggettività per sé considerata310. Il ruolo del linguaggio, che consiste nel trasmettere messaggi utili
al buon funzionamento della società, poi, non va confuso con la genuina trasmissione del pensiero
da parte di due o più menti indipendenti311. Ogni conoscenza di altri (presunti) soggetti è sempre
asimmetrica e relativa al mio porre in altri individui contenuti di pensiero affini ai miei312. Lo scopo
306
Cfr. ivi, . p. 482.
Cfr. ibidem.
308
Cfr. ivi, . p. 482-483.
309
Cfr. Ivi, p. 483.
310
Cfr. Ivi, p. 484.
311
Cfr. Ibidem.
312
Cfr. Ivi, p. 483.
307
106
della comunicazione è, in realtà, solo cercare di influenzare l’azione altrui e ogni reale scambio
intellettuale è precluso dal fatto che non posso mai conoscere gli altri se non ponendomi al di sopra
di loro come colui che gli attribuisce proprio quello status di altre menti313. Se si escludono rari
momenti eccezionali in cui può accadere una reale, mutua, comprensione314, la vita trascorre come
un soliloquio315 e assumere l’esistenza di altri soggetti e di un mondo obiettivo, che esiste
indipendentemente dalla mente che lo percepisce, è una mera ipotesi316. La realtà, al contrario,
coincide solo con l’esperienza della coscienza: ciò che essa, al presente, sente e ciò che, del passato,
ritiene nella memoria317. Tra questo genere di cose che esistono davvero vi sono anche gli enti
matematici e le loro proprietà concepiti per mezzo di precisi atti intuitivi318. Ciò che ci si attende dal
futuro, invece, e ciò che si attribuisce alle altre menti sono solo ipotesi e non verità. Anche ciò che è
vero in senso proprio è comunicato per mezzo di quel linguaggio cooperativo che distorce la natura
delle cose che appartengono al soggetto. Tramite esso, si stabilisce un insieme di regole che
permettono di aggiungere nuove parole a quelle che, già, si ritiene di conoscere. Tali regole
costituiscono la logica e gli uomini credono che essa li renda capaci di dedurre nuove verità,
basandosi su alcune conoscenze acquisite in precedenza319. La logica sorge dalla credenza che, oltre
al soggetto, vi sia un mondo oggettivo le cui proprietà e regolarità sono riproducibili esattamente
per mezzo del linguaggio320. Tali caratteristiche immutabili sono state espresse dagli assiomi e si
ritenne possibile utilizzarli per produrre nuove conoscenze in quanto garanti della verità di tutto ciò
che da essi è, correttamente , dedotto321. Ogni cosa, secondo questa impostazione, sarebbe
sottoposta alle leggi della logica, originariamente astratte dagli elementi immutabili dell’esperienza
313
Cfr. Ivi, p. 484.
Ibidem: In situazioni eccezionali, di cui non chiarisce la natura, Brouwer ritiene che possa accadere un autentico
incontro di anime differenti. Sembra, dunque, che ciò presupponga l’esistenza di altri soggetti oltre all’ego che li
percepisce. Se così fosse, allora, la filosofia del pensatore olandese non sarebbe, come, al contrario, farebbero pensare le
altre riflessioni, solipsistica.
315
Cfr. ibidem.
316
Cfr. ibidem.
317
Cfr. Ivi, p. 488.
318
Cfr. ibidem.
319
Cfr. ibidem.
320
Cfr. L. E. J. Brouwer, Appendice, in id., Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 97.
321
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 27.
314
107
ed espresse nel linguaggio. Anche la matematica, dunque, dipenderebbe dalla logica322 e, nel suo
procedere, essa scoprirebbe nuove verità e nuove proprietà manipolando le regole logiche
inizialmente stabilite. Per Brouwer, al contrario, il linguaggio, in quanto imperfetto, e il mondo, in
quanto elaborazione del soggetto che ne ha esperienza, non possono garantire la verità di ciò che
non è direttamente presente alla coscienza323. La matematica, dunque, deve essere fondata non sulla
logica, bensì, sull’intuizione che costruisce, nella mente del soggetto, i propri contenuti e ne
garantisce, in tal modo la validità324. In accordo con l’opinione che il vero sé è quello interiore e
solo abbandonando ogni considerazione del mondo esterno e degli alti soggetti per tentare di
ritornare alla condizione primigenia di semplice stabilità della coscienza con se stessa325, il
matematico olandese ritiene che la validità della matematica risieda nel suo giocoso procedere
intuitivo che fornisce, alla mente, forme percepibili e leggi che valgono del tutto interiormente326,
libere dalle costrizioni della spiegazione327 e della concezione linguistica328. L’intuizione
matematica procede con atti soggettivi che creano da sé i propri oggetti e le loro determinate
proprietà. La matematica, in ciò, è simile all’arte329, ma è ad essa, addirittura, superiore in quanto
attinge livelli di bellezza introspettiva (l’unica vera bellezza) più compiuti perché i suoi atti sono, in
sommo grado, liberi dalle costrizioni della causalità imposte dagli elementi mondani330. In virtù
della sua separazione dal mondo esterno, la matematica, unica tra le discipline, può cogliere i propri
contenuti in modo del tutto chiaro331. Essa sorge, senza connessione con il linguaggio, nella mente e
da essa procede come sua libera attività che mostra la validità delle proprie operazioni332. La base
della conoscenza matematica è l’intuizione e il linguaggio, strumento umano sviluppato al solo fine
322
Ibidem.
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit., p. 488.
324
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., pp. 29-30.
325
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit., pp. 485-487. L’uscita della coscienza
da se stessa è descritta, infatti, come una colpa, benché non si precisi a sufficienza cosa si intenda. Cfr. L. E. J., Leven,
Kunst en Mystiek, p. 99, in id., Life, Art, and Mysticism, tr. W. P. van Stigt, in Notre Dame Journal of Formal Logic,
vol. 37, n. 3, Summer 1996, p. 429.
326
Cfr. ivi, p. 483.
327
Cfr. ivi, p. 484.
328
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 29.
329
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit., p. 483.
330
Cfr. ivi, p. 484.
331
Ibidem.
332
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 30.
323
108
di cooperare efficacemente,
svolge l’unico ruolo di ausilio per la memoria e per una certa
comunicazione intersoggettiva333. Esso non è, d’accordo con la critica di Lord Chandos334, né
infallibile né esatto335.
2.b. MATEMATICA E LOGICA
Non vi sono, dunque, verità che non siano attualmente esperite, o come presenti o come passate, e
la logica, compromessa con il linguaggio, non può garantire l’effettiva validità delle sue
deduzioni336. È lo stesso matematico, che con le proprie intuizioni, costruisce337 gli elementi
matematici338. La matematica che ne risulta è chiamata intuizionista e differisce, sotto molti rispetti,
da quella considerata classica339.
Una prima differenza consiste nello stile adottato per l’esposizione. Brouwer, infatti, ritenendosi
coerente con le proprie idee sul linguaggio, non utilizza i simboli logici e preferisce esporre i propri
ragionamenti in maniera, per lo più, informale. Ovviamente non può rinunciare ad usare una
qualsivoglia lingua, che è pur sempre un mezzo imperfetto, ma, evidentemente, ritiene che con la
lingua naturale, forse proprio a motivo della maggiore difficoltà di manipolarne le espressioni
(invece di scrivere, per esempio, “ ¬ ¬ ¬ α”, scrive “l’assurdità dell’assurdità dell’assurdità di α”),
333
Ibidem.
H. von Hofmannsthal, Ein Brief, (1902), tr. M. Vidusso Feriani, intr. C. Magris, Lettera di Lord Chandos, Bur,
Milano 1974.
335
Ibidem.
336
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit., p. 488.
337
È interessante la congiunzione, in Brouwer, degli elementi consueti dell’atteggiamento mistico, quali l’abbandono
del mondo esterno, l’esclusiva considerazione della propria consapevolezza interiore (cfr. le citazioni da Bhagavadgītā,
Eckhart e Schopenhauer in Leven, Kunst en Mystiek, op. cit. e la conclusione dell’opera del 1905 e le citazioni da
Bhagavadgītā e le considerazioni alle pp. 485-487 in Consciousness, Philosophy, and Mathematics, op. cit.), elementi,
cioè, passivi e che rinviano l’evento dell’illuminazione ad un tempo anelato e indecidibile, con l’atteggiamento attivo e
creatore della costruzione, sulla base dell’intuizione, delle verità della matematica. La mente non è così debole da poter
solo presentire la chiarificazione della propria natura spirituale ed attenderla da altro, ma tale condizione è
effettivamente raggiunta, almeno parzialmente, nel momento in cui crea nuove validità e nuovi ambiti immutabili e
assolutamente certi come dispiegamento delle proprie capacità. La dimensione apofatica del linguaggio e di ogni
esperienza, in altre parole, non è l’unico atteggiamento consapevole e giustificato dell’uomo, perché unita ad esso e
nutrita dalle stesse convinzioni, vi è anche la sicura conoscenza matematica.
338
Cfr. ibidem.
339
L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 30.
334
109
vi sia meno possibilità di farsi convincere che segni convenzionali a cui non corrisponde
un’intuizione indichino una reale conoscenza340.
La matematica classica, ad ogni modo, utilizza, come se fossero affidabili, il linguaggio formale e
i principi logici che inducono a credere in verità non concretamente afferrate con un atto della
mente. Netto è il rifiuto del principio del terzo escluso341, il quale afferma che ogni asserto
(matematico, in questo caso) o è vero o non può essere vero. Poiché, come ho già ricordato, è reale
solo il contenuto della coscienza, ai due valori di verità “vero” e ”falso” occorre sostituire le
espressioni ”sicuramente riconosciuto come vero”342 (o “dimostrato vero”343) e “sicuramente
riconosciuto come falso”344 (o “dimostrato falso”345). Da ciò segue la non validità del terzo escluso
in quanto lo si è, in tal modo, trasformato nell’affermazione “ogni asserto matematico è stato
sicuramente riconosciuto come vero o come falso”346 che è palesemente falsa in quanto vi sono
anche asserzioni che non sono ancora state dimostrate né vere né false e neppure si conosce un
algoritmo che conduca, in un numero finito di passaggi, a scoprire se siano vere oppure false347. Le
asserzioni di quest’ultima specie, ovviamente, potranno cambiare stato in futuro ed essere
considerate sicuramente vere o false.
Il principio del terzo escluso, ad ogni modo, non è respinto totalmente, ma è accettato entro un
ambito ristretto. Brouwer, nell’articolo Consciousness, Philosophy, and Mathematics, propone,
quindi, una nuova formulazione di tale principio, che contrappone a quella classica e da ognuna di
esse trae due conseguenze348.
340
Van Dalen, Prefazione del curatore, in L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit.,
pp. 24-25, ritiene che il rifiuto del formalismo indichi che Brouwer concepiva la matematica come un campo a cui
convertirsi e di cui convincersi, evidentemente, in opposizione alla presunta oggettivazione degli enti matematici
operata dalla matematica classica.
341
Cfr. ibidem.
342
Cfr. L. E. J. Brouwer, Appendice, in id., Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 98.
343
Cfr. ivi, p. 99.
344
Cfr. ivi, p. 98.
345
Cfr. ivi, p. 99.
346
Cfr. ivi, p. 98.
347
Cfr. ivi, p. 99.
348
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics , op. cit., p. 489-490.
110
FORMULAZIONE INTUIZIONISTA
FORMULAZIONE CLASSICA
Principio semplice del terzo escluso:
Principio completo del terzo escluso:
ogni assegnamento τ di proprietà ad un ente
se a, b e c sono specie349 di enti matematici e a e
matematico può essere giudicato, ossia si può
b sono parti di c tali che b è composto dagli
provare la sua verità o la sua assurdità.
elementi di c che non possono appartenere ad a,
allora c è identico all’unione di a e b.
I corollario: se si è dimostrata la non
Principio della reciprocità dei complementari (I
contraddittorietà di τ (con τ definita come
corollario): se a, b e c sono le specie definite
sopra), ossia l’assurdità della sua assurdità,
sopra, allora a è composta dagli elementi di c
allora, similmente, si può dimostrare anche la
che non possono appartenere a b.
verità di τ.
Principio semplice di esaminabilità (II
Principio completo di esaminabilità (II
corollario): ogni τ può essere esaminata, cioè
corollario): se a, b e c sono le specie definite
dimostrato non contraddittorio o assurdo.
sopra e d è una specie composta dagli elementi
che non possono appartenere a b, allora c è
identico all’unione di b e d.
Per l’intuizionismo, il principio del terzo escluso e i suoi corollari non sono contraddittori solo
nella versione semplice, posta a sinistra dello schema, perché essi sono certe asserzioni relative a τ,
349
Una specie matematica è una proprietà ipotizzabile per enti matematici già dimostrati che, se vale per un certo ente
matematico z, allora vale anche per tutti gli enti matematici definiti uguali a z. Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s
Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 32.
111
le quali valgono solo se una certa verità è stata esperita. In un sistema finito, si può sempre
giudicare, in un numero finito di passi, la verità di τ350. In tal caso, dunque, vale il principio del
terzo escluso. Nel caso di sistemi infiniti, però, vi sono asserzioni che non siamo in grado di
giudicare (proprietà sfuggenti351) e, in tal caso, è privo di senso fare affermazioni su di esse, perché,
dal momento che non vi sono enti matematici al di fuori del pensiero, esse non parlano di nulla di
definito352. L’esempio delle proprietà sfuggenti confuta la validità del principio completo del terzo
escluso e, ugualmente, quella del suo primo corollario353, mostrando che vi sono enti matematici
che non godono né di una proprietà, nel del suo contrario. La formulazione di tale corollario,
tuttavia, non appare subito univoca. Nell’articolo Consciousness, Philosophy, and Mathematics,
Brouwer scrive: “If a, b and c are species of mathematical entities, if further a and b form part of c,
and if b consists of the elements of c which cannot belong to a, then a consists of the elements of c
which cannot belong to b”. In un altro saggio, tuttavia, Intuitionistische Zerlegung mathematischer
Grundbegriffe, afferma: “Für ein beliebiges mathematisches System aus der Absurdität der
Absurdität einer Eigenschaft die Richtigkeit dieser Eigenschaft folgert”. Questa seconda
formulazione (la prima in ordine cronologico, tra le due qui presentate) sembra, tuttavia, essere
identica al I corollario del principio semplice del terzo escluso, formulato nell’articolo
Consciousness, Philosophy, and Mathematics, che, invece, Browuer accetta: “If for an assignment τ
of a property to a mathematical entity the non-contradictority, i. e. the absurdity of the absurdity,
has been established, the truth of τ can be demonstrated likewise”. Proviamo ad approfondire la
questione. Per il matematico olandese, il principio semplice del terzo escluso è valido per ogni
singola asserzione e, per il principio dell’additività finita della non contraddittorietà, vale anche
350
Cfr. L. E. J. Brouwer, Intuitionistische Zerlegung mathematischer Grundbegriffe, discorso pronunciato
all’Accademia di Amsterdam delle scienze il 24 novembre 1923, in id., Collected Works, ed. A. Heyting, p. 275. Cfr. L.
E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 30. Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness,
Philosophy, and Mathematics , op. cit., p. 490.
351
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 31.
352
Cfr. ibidem. Inverte il ragionamento di Fredegiso di Tours per il quale si può dedurre l’esistenza dal semplice
significato di un nome (Cfr. Fredegiso di Tours, Il nulla e le tenebre. La nascita filosofica dell’Europa, a c. F.
D’Agostini, il melangolo, Genova, 1998, p. 142).
353
Cfr. L. E. J. Brouwer, Intuitionistische Zerlegung mathematischer Grundbegriffe, op. cit. p. 276.
112
quando è applicato ad un numero finito arbitrario di asserzioni354. Supponiamo che r e s siano due
asserzioni non contraddittorie. Se avanziamo l’ipotesi w
che la loro congiunzione t sia
contraddittoria, si ricava che la verità dell’una implica l’assurdità dell’altra, il che contrasta con i
dati, quindi w è contraddittoria, cioè t non è contraddittoria355. Anche nelle Cambridge Lectures,
da cui è tratta la precedente dimostrazione, Brouwer trae due conseguenze dal principio semplice
del terzo escluso, e, rispetto al primo corollario, fornisce una presentazione equivalente a quella del
saggio del 1948: se l’asserzione a è equivalente all’assurdità dell’asserzione b, allora b è
equivalente all’assurdità di a356.
Nel quinto capitolo delle Cambridge Lectures, egli non si limita a mostrare come il principio
completo del terzo escluso non valga in generale perché vi sono delle proprietà sfuggenti, ma
dimostra, come terza applicazione del “teorema del ventaglio”357, che il continuo non può contenere
una sottospecie propria rimovibile e, in particolare, non si scinde nelle due specie dei nuclei
razionali e dei nuclei irrazionali358. Di conseguenza, è contraddittorio affermare che ogni numero è
razionale o irrazionale, ossia è contraddittorio applicare il principio completo del terzo escluso359.
Per riprendere la questione lasciata indeterminata circa l’interpretazione da fornire del primo
corollario del principio semplice del terzo escluso, ora si può comprendere appieno la sua differenza
dalla legge “ ¬ ¬ A → A”. Tale corollario, infatti, si applica solo alle proposizioni matematiche per
cui vale il principio semplice del terzo escluso, ossia alle proposizioni di un sistema matematico
finito perché lo enuncia solo come sua conseguenza e la reciproca non vale360.
Consideriamo, ora, un successione di negazioni. Vi è un teorema intuizionista che permette di
elidere due negazioni quando, immediatamente prima di un’asserzione, ne sono presenti almeno tre.
354
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 34.
Cfr. ibidem. Cfr. anche L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics , op. cit., p. 493.
356
Cfr. ibidem.
357
Cfr. ivi, p. 88. Il ventaglio è uno spiegamento in cui ogni vertice ha solo un numero finito di successori. Se ad ogni
ramo del ventaglio (detto “freccia”) è associato un numero naturale n, allora esiste un livello del ventaglio (uno
sbarramento) raggiunto da ogni ramo in al massimo n passi.
358
Cfr. ivi, pp. 93-94.
359
Cfr. ivi, p. 94.
360
Brouwer afferma che è stato Bernays a fargli notare questa particolarità. Cfr. L. E. J. Brouwer, Intuitionistische
Zerlegung mathematischer Grundbegriffe, op. cit. p. 276, n. 4.
355
113
Siano a e b asserzioni, se a implica b, allora l’assurdità di b implica l’assurdità di a. Poiché, poi, a
implica l’assurdità dell’assurdità di se stessa, allora, l’assurdità dell’assurdità dell’assurdità di a
implica l’assurdità di a361. Ogni successione di n predicati di assurdità, con n < 2, può essere ridotta
all’assurdità, se n è dispari, o all’assurdità dell’assurdità, se n è pari362. Sulla base di questo
teorema, possiamo esprimere il “principio di esaminabilità”, asserendo la disgiunzione fra
l’assurdità di una proposizione e la sua non contraddizione, ossia l’assurdità della sua assurdità.
Ogni formulazione differente che faccia uso solo di proposizioni negate può essere ridotta a questa.
Brouwer afferma che neppure questo principio, che esprime il terzo escluso restringendone l’ambito
alle asserzioni negate, vale. Potrebbero, infatti, esserci asserzioni matematiche negative non
dimostrate e, in tal caso, il principio di esaminabilità sarebbe privo di senso363.
Il campo di applicazione del principio del terzo escluso, egli conclude, coincide, allora,
l’intersezione dei campi in cui valgono i suoi due corollari. Egli dimostra questa proprietà
mostrando un caso in cui vale il principio di esaminabilità, ma non il principio del terzo escluso e
un altro caso in cui vale il principio della reciprocità dei complementari, ma non, ancora una volta,
il terzo escluso364.
361
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics , op. cit., p. 490. Cfr. anche L. E. J. Brouwer,
Intuitionistische Zerlegung mathematischer Grundbegriffe, op. cit. p. 277.
362
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 35. Cfr. anche L. E. J. Brouwer,
Consciousness, Philosophy, and Mathematics , op. cit., p. 494.
363
Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics , op. cit., pp. 491-492.
364
Cfr. ivi, p. 492. L’argomento, almeno così come è stato formulato, mi sembra chiaramente insufficiente perché
esprimerebbe la fallacia ((A → B) ∧ (A → C)) → ((B ∧ C) → A), ossia se il principio del terzo escluso implica
quello di reciprocità dei complementari e quello di esaminabilità, allora i principi di reciprocità dei complementari e di
esaminabilità, insieme, implicano il terzo escluso.
114
2.c. OSSERVAZIONI SULLA LOGICA INTUIZIONISTA
Brouwer era convinto che la sua critica alla logica contribuisse a renderla più sottile365, proprio
mentre ne denunciava la pretesa di esser una fonte di verità366. L’intuizionismo, poi, rendeva la
matematica una ricerca che si svolge tutta all’interno del soggetto conoscente. Tale soluzione non è
solo dettata dalle visioni epistemologiche e ontologiche del matematico olandese (è vero solo ciò
che è percepito dalla coscienza367; il linguaggio e, di conseguenza, la logica hanno solo un valore
strumentale e non sono affidabili368), ma anche dalla morale che permea la sua speculazione. La
saggezza e la felicità consistono nel permanere della coscienza entro se stessa e nel ritornare, dopo
il colpevole esodo, a se stessi. Ogni strumento della vita rivolta verso il mondo esterno, compreso,
dunque, quel genere di matematica che è al servizio del pensiero causale369 e della tecnica370, è
misero e riprovevole371. Solo quando l’attività della coscienza si rivolge dentro di sé e fluisce libera
e senza costrizioni in un libero gioco372, allora, si può attingere quella bellezza che reca la vera
soddisfazione dalla malinconia della vita mondana373. Si generano, in tal modo, l’arte374 e,
soprattutto, la vera e propria matematica375.
Non tutti i discepoli di Brouwer, come è facile immaginare, condivisero totalmente la sua
concezione filosofica. Ciò che essi mantennero fu la tesi che la matematica sia un prodotto dello
spirito umano, ossia della sua libera attività di pensiero e che il linguaggio, contrariamente
all’intuizione che crea i propri oggetti, non possa fornire garanzie accettabili della verità delle
proprie inferenze376.
365
Cfr. ivi, p. 494.
Cfr. ibidem.
367
Cfr. ivi, p. 488.
368
Cfr. ivi, pp. 484 e 488.
369
Cfr. ivi, p. 482.
370
Cfr. ibidem.
371
Cfr. ivi, p. 483.
372
Cfr. ibidem.
373
Cfr. ibidem.
374
Cfr. ibidem.
375
Cfr. ivi, p. 484.
376
Cfr. A. Heyting, Die intuitionistische Grundlegung der Mathematik, in Erkenntins, vol. 30, 1931, p. 106.
366
115
Nonostante la riluttanza descritta del maestro nei confronti del formalismo logico, alcuni studiosi
avanzarono delle proposte che definissero sistematicamente la logica utilizzata da Brouwer.
Esaminerò i risultati di alcuni di essi, soprattutto in riferimento al problema del principio del terzo
escluso.
2.c.a. KOLMOGOROV: SUL PRINCIPIO DEL TERZO ESCLUSO377
Kolmogorov accetta la critica brouweriana all’uso del principio del terzo escluso nei ragionamenti
transfiniti e si propone di spiegare perché, finora, tale utilizzo non abbia, tuttavia, ancora prodotto
alcuna contraddizione. Egli costruisce una disciplina fittizia, che denomina pseudomatematica, in
cui è legittimo l’uso del terzo escluso purché si sostituisca un enunciato con un altro che asserisce la
sua doppia negazione (tale nuova asserzione è la pseudoverità del corrispondente enunciato
vero)378.
Il principio del terzo escluso è problematico solo nella logica della matematica, non in quella
ordinaria, che pretende di essere applicabile alla realtà concreta379.
Kolmogorov inizia presentando gli assiomi proposti da Hilbert per la logica degli enunciati380:
(1) implicazione
1. A → (B → A)
2. (A → (A → B)) → (A → B)
3. (A → (B → C)) → (B → (A → C))
4. (B → C) → ((A → B) → (A → C))
377
A. N. Kolmogorov, O principe tertium non datur, in Matematiceskii Sbornik, XXXII, 1925, pp. 646-667, in id., Sul
principio del terzo escluso, tr. it. V. M. Abrusci, in AA. VV., Dalla logica alla metalogica. Scritti fondamentali di
logica matematica, a c. E. Casari, Sansoni, Firenze 1979, pp. 167-194.
378
Cfr. ivi, p. 167.
379
Cfr. ivi, pp. 169-170. Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics , op. cit., p. 494. anche se
non in termini chiari, Brouwer, tuttavia, aveva ritenuto che la matematica intuizionista, pur sviluppandosi libera e
indipendente dal mondo esterno, fosse applicabile anche ad essa.
380
Cfr. A. N. Kolmogorov, O principe tertium non datur, op. cit., p. 170.
116
(2) negazione381
5. A → ( ¬ A → B)
6. (A → B) → (( ¬ A → B) → B).
L’insieme di questi assiomi è consistente e ciò basta, dal punto di vista formalista, in cui la scelta
degli assiomi che devono costituire la base della matematica è arbitraria382, per accettarli come base
della logica degli enunciati383. Se consideriamo gli enunciati senza badare al loro contenuto, ma
solo alla loro verità o falsità, e comprendiamo che il significato di “A → B” è il dovere di accettare
la verità di B se si accetta la verità di A, allora gli assiomi dell’implicazione ci appaiono del tutto
naturali ed accettabili.
Nel caso degli assiomi della negazione, però, la questione è diversa. Se consideriamo un
enunciato come non ulteriormente analizzato nei propri componenti, la negazione, sostiene
Kolmogorov, è, semplicemente, il divieto di considerarlo vero384. L’usuale interpretazione logica,
tuttavia ha unito e confuso con questa caratterizzazione la comprensione della negazione come
l’incompatibilità di un predicato con un certo soggetto. La seconda interpretazione è stata
considerata, come di fatto è, più originaria perché sorge dall’esperienza ottenuta con diretti esami
delle cose. In tal modo, tuttavia, non ci si mantiene, diversamente da quel che accadeva con gli
assiomi dell’implicazione, a livello della forma della combinazione di qualsiasi enunciato, ma,
osserva Kolmogorov, si considera la sua composizione interna, ossia, almeno parzialmente, il suo
contenuto. Quando la negazione è il risultato di un deduzione formale non è, però, legittimo passare
dal livello che prescinde dal contenuto delle asserzioni a quello che lo analizza385. Il primo ad
accorgersene, secondo il logico russo, fu Brouwer che, infatti, definì il primo tipo di negazione
come assurdità386.
Kolmogorov usa “Ā” per indicare la negazione di A. Per comodità tipografica, vi sostituisco “ ¬ A” .
Cfr. ivi, p. 168.
383
Cfr. ivi, p. 170.
384
Cfr. ivi, p. 173.
385
Cfr. ivi, p. 173.
386
Cfr. ibidem.
381
382
117
Il primo assioma della negazione non appartiene agli assiomi intuizionisti perché afferma un fatto
tutt’altro che evidente, asserendo qualcosa come conseguenza di un’altra cosa che è impossibile.
Ciò, ad ogni modo, non esclude che tale formula possa essere un teorema.
Il secondo assioma hilbertiano esprime, seppure in maniera non immediatamente chiara, il
principio del terzo escluso. Dall’interpretazione della negazione come assurdità, l’unica legittima
quando la negazione consegua da una derivazione, non si può concludere alla validità del principio
del terzo escluso. Gli assiomi intuizionisti, infatti, secondo il logico russo, sono fatti che si danno,
nella mente, come validi387. Ritenendo assurda una certa asserzione, in generale, nella mente non si
dà alcuna intuizione della validità dell’affermazione contraddittoria. Per giustificare il principio del
terzo escluso occorre considerare la relazione del soggetto con il predicato, ossia la struttura
dell’enunciato388. Ma gli elementi indicati dal soggetto possono essere infiniti e, concordemente con
quanto ha affermato Brouwer, non è evidente che, in questo caso, valga tale principio.
In sostituzione dei due assiomi hilbertiani della negazione, Kolmogorov ne propone un terzo, che
esprime una formulazione del principio di non contraddizione:
(3) 5. (A → B) → ((A → ¬ B) → ¬ A).
Sia B (da Brouwer) il sistema basato sui quattro assiomi (1) e su (3). B, secondo il logico russo,
formalizza la logica intuizionista389 e, pur non risolvendo la questione della sua completezza, ritiene
che non vi siano formule enunciative intuitivamente evidenti che non siano dimostrabili in esso.
Brouwer ammette la validità del principio del terzo escluso nell’ambito degli enunciati finitari.
Nello stesso ambito, e solo in esso, poi, vale anche:
(4) 6. ¬ ¬ A → A.
387
Cfr. ivi, p. 169.
Cfr. ivi, p. 174. Ciò può apparire strano nel contesto della logica enunciativa, ma, probabilmente, Kolmogorov
ritiene che, ad ogni modo, questa sia l’origine dell’interpretazione della negazione che legittima il principio del terzo
escluso e che, poi, essa sia passata anche in un contesto che non considera la struttura degli enunciati, quale è, appunto,
la logica enunciativa, perché si è ritenuto che tale struttura fosse implicitamente ancora valida.
389
Il sistema di Kolmogorov non coincide con quello presentato, nel 1930, da Heyting a cui, per lo più ci si riferisce
quando si parla, oggi, di logica intuizionista. B coincide, piuttosto con la logica di Johansson, poi detta “minimale”.
388
118
B, ovviamente, vale anche nell’ambito degli enunciati finitari. Se a B aggiungiamo (4) otteniamo
un sistema equivalente a quello ottenuto da (1) e (2) e che, perciò, sarà chiamato H (da Hilbert). H è
completo. Tutte le formule dimostrate in H sono valide qualora si sostituiscano, ai simboli per
enunciati arbitrari, simboli per enunciati arbitrari solo dell’ambito del finitario390. Con questa
indagine Kolmogorov riesce a delineare un rapporto preciso tra la logica classica e quella
intuizionista, al di là delle enunciazioni teoriche e programmatiche dei protagonisti del dibattito.
In B è possibile dimostrare due formule affini a 5. e 6., rispettivamente:
(12)391 A → ( ¬ A → ¬ B)
(24) (A → B) → (( ¬ A → B) → ¬ ¬ B).
(24) è la legge più vicina alla formulazione hilbertiana del principio del terzo escluso e afferma
che se B segue sia dalla verità sia dalla falsità di A, allora è non contraddittorio.
Applicando l’assioma (4), valido solo nell’ambito finitario, a (12) e (24), otteniamo, tramite
semplici passaggi, il primo e il secondo assioma hilbertiani della negazione. Poiché il secondo
esprime il principio del terzo escluso, ne possiamo concludere che il sistema mostra come esso sia,
effettivamente, una legge nell’ambito finitario392.
Poiché le formule valide in B sono valide sempre, B costituisce la logica generale degli enunciati.
Diversamente, le leggi di H, in quanto basate anche sull’assioma (4), di validità più ristretta,
formano la logica speciale degli enunciati. H è più ricco di B, ma, proprio per questo, gode di un
campo di applicazione più ristretto. Il logico russo intende, ora mostrare quale sia tale ambito di
applicabilità (che, forse, potrebbe essere addirittura più ristretto di quello in cui vale il principio del
terzo escluso)393.
Si introducano i simboli “A°”, “B°”, … per indicare enunciati la cui verità deriva dalla loro
doppia negazione. Sono di questo genere gli enunciati finitari e, per il teorema sopra citato per cui
l’assurdità dell’assurdità dell’assurdità equivale all’assurdità, anche gli enunciati negativi.
390
Cfr. ivi, p. 175.
Seguo la numerazione di Kolmogorov. Cfr. ivi, pp. 177-178.
392
Cfr. ivi, p. 178.
393
Cfr. ivi, p. 179.
391
119
Tale condizione è espressa dalla formula:
(37) ¬ ¬ A° → A°.
Solo questa formula è valida nel sistema intuizionista, mentre occorre rifiutare (4).
Sono enunciati del tipo A° proposizioni elementari negative, ma anche enunciati complessi
negativi e ogni formula espressa con i simboli “A°”, “B°”, … e l’implicazione394.
Tutte le formule della logica speciale degli enunciati sono vere per enunciati di tipo A°395. In tal
modo, possiamo affermare che il campo di applicabilità di H coincide con quello della doppia
negazione (formula (4))396. Tutte le formule della logica ristretta, che è quella tradizionale, allora
valgono nella logica generale, ossia intuizionista, purché si riconosca che esse riguardano solo
enunciati di tipo A°.
Si comprende, ora, dunque, la giustificazione, inizialmente affermata, della legittimità dell’uso del
principio del terzo escluso negli enunciati della pseudomatematica. Ad ogni formula della
matematica ordinaria corrisponde una formula della pseudomatematica di tipo A°. L’intento
centrale, ad ogni modo, del lavoro del logico russo è quello di approntare una traduzione della
matematica classica in quella intuizionista. Ad una formula S della matematica corrisponde una
formula S* della pseudomatematica che esprime la doppia negazione di S397. Agli assiomi di
Hilbert
corrispondono,
nella
pseudomatematica,
gli
assiomi
della
forma
S*398.
La
pseudomatematica corrisponde, in realtà alla matematica intuizionista, e il suo nome è fuorviante in
quanto solo le sue formule valide sono legittimamente considerate vere anche nella matematica
classica. A quest’ultima, invece, appartengono anche delle conclusioni ottenute con uso improprio
delle leggi della logica ristretta. Tali casi si fondano sull’applicazione al di là dell’ambito del
finitario, della formula (4) e comprendono anche, appunto, il principio del terzo escluso399.
394
Cfr. ivi, p. 180-181.
Cfr. ivi, p. 181.
396
Cfr. ivi, p. 182.
397
Cfr. ivi, p. 183.
398
Cfr. ivi, p. 184-185.
399
Cfr. ivi, p. 186-187.
395
120
Si può comprendere, a questo punto, perché non è ancora accaduto che l’uso illegittimo del
principio del terzo escluso non abbia portato a contraddizioni nell’ambito della matematica. La
spiegazione è che se ciò avvenisse, vi sarebbe una formula della pseudomatematica che, pure,
conduce a contraddizione senza utilizzare quel principio. Questo caso, però, riteneva Kolmogorov,
non può verificarsi.
Il logico russo analizza, poi, un altro caso in cui non vale il principio del terzo escluso. Hilbert
riteneva che l’insieme delle seguenti formule giustificasse l’applicazione del principio del terzo
escluso a collezioni infinite di oggetti:
(59) ¬ ∀ a A(a) → ∃ a ¬ A(a)
(60) ∃ a ¬ A(a) → ¬ ∀ a A(a)
(61) ¬ ∃ a A(a) → ∀ a ¬ A(a)
(62) ∀ a ¬ A(a) → ¬ ∃ a A(a).
Da (59) e (60) si ricava il principio del terzo escluso: ( ∀ a A(a) ∨ ∃ ¬ a A(a)). Le formule (60),
(61) e (62) si possono dimostrare a partire da principi evidenti, ma (59) richiede l’applicazione di
(4), dunque quel che è stato, in precedenza, stabilito a proposito della sua applicabilità vale anche in
questo caso400. A tal proposito, poi, egli osserva che l’espressione “ ∀ a A(a)” non è la prima che
pare condurci al di fuori dell’ambito del finito, in quanto, in realtà, la quantificazione universale è
implicita in ogni formula della logica degli enunciati. Le variabili che sostituiscono le proposizioni,
infatti, indicano che una certa legge vale per qualsiasi asserzione che sia data. Il significato della
quantificazione universale “ ∀ a A(a)”, infatti, è sempre da ristretto al darsi di un a qualsiasi, e, in
quanto tale, non si applica al di fuori dell’ambito del finitario401.
Kolmogorov conclude mostrando la connessione tra principio di induzione transfinita402 e terzo
escluso: è impossibile dimostrare senza principio del terzo escluso (o, in modo equivalente, la legge
della doppia negazione) una proposizione per la cui dimostrazione, altrimenti, occorrerebbe
400
Cfr. Ivi, pp. 188-189.
Cfr. Ivi, p. 189.
402
L’induzione transfinita è il principio per cui, se un teorema T vale per il primo elemento di un insieme ben ordinato I
e vale per ogni altro elemento a solo se si applica ad ogni elemento b < a, allora T vale per ogni elemento di I.
401
121
utilizzare il principio dell’induzione transfinita. Lo stesso principio di induzione transfinita, poi, può
essere dimostrato solo impiegando il principio del terzo escluso403.
Nonostante il discorso fin qui sviluppato, ad ogni modo, il logico russo ritiene che la matematica
ordinaria non vada abbandonata, ma conservata, per il suo interesse, come estensione della
pseudomatematica404.
2.c.b. HEYTING: LE REGOLE FORMALI DELLA LOGICA INTUIZIONISTA405
Nel 1930, Heyting pubblicò l’articolo Le regole formali della logica intuizionista, rielaborando
una precedente monografia del 1928, con la quale aveva partecipato (e vinto) al concorso
dell’associazione matematica olandese Het Wiskundig Genootschap che chiedeva di elaborare un
sistema formale il più possibile fedele al metodo intuizionista utilizzato, in matematica, da
Brouwer406.
All’inizio del suo saggio, Heyting appare molto preoccupato di chiarire il senso e la natura del suo
lavoro. Come ho riportato prima, infatti, Brouwer non stimava il linguaggio e la logica poiché
l’unica realtà è costituita dagli enti costruiti dalla mente con i suoi atti intuitivi. Pur senza
richiamare tutta la filosofia del maestro, Heyting si dichiara consapevole che la matematica
intuizionista è un’attività mentale407 e il linguaggio non è nulla di più che un mezzo di
comunicazione408. La matematica intuizionista, per principio, in quanto basata su liberi atti del
403
Cfr. Ivi, p. 193.
Cfr. Ivi, p. 194.
405
A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, in Sitzungsberichte der preussichen Akademie der
Wissenschaften, Phys.-Math. Klasse, pp. 42-56, in id., Le regole formali della logica intuizionista, tr. it. C. Bestini, in
AA. VV., Dalla logica alla metalogica. Scritti fondamentali di logica matematica, a c. E. Casari, Sansoni, Firenze
1979, pp. 195-212.
406
A. S. Troelstra, Commentary, p. 163.
407
Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, op. cit., p. 195. Cfr. anche A. Heyting, Die
intuitionistische Grundlegung der Mathematik, in Erkenntins, vol. 30, 1931, p. 106.
408
Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, op. cit., p. 195. Brouwer avrebbe usato termini
più spregiativi (Cfr. L. E. J. Brouwer, Consciousness, Philosophy, and Mathematics, p. 483).
404
122
pensiero409, non tollera l’irregimentazione in un sistema finito di regole410. L’intuizionista riconosce
le regole opportune caso per caso in quanto esse si offrono come valide al pensiero411, come anche
Kolmogorov aveva precisato all’inizio del suo articolo prima trattato412. Sono, invece, le necessità
pratiche della comunicazione quotidiana ad aver indotto la logica a costituirsi come un sistema
rigido, in cui le sue regole sono, previamente, date413. Pur costituendo, sicuramente, un caso
peculiare, anche il ragionamento intuizionista può essere, parzialmente, trattato in modo formale
purché, ovviamente, a tale formalizzazione si attribuisca solo lo scopo di porre ordine nelle
regolarità degli atti creativi del matematico intuizionista e non quello di sostituirsi ad essi414.
L’utilità di un tale tentativo è quella di raggiungere una maggiore concisione e determinatezza
rispetto al modo di esprimersi che ricorre alla lingua comune415. Brouwer non si espresse mai,
pubblicamente, sul tentativo di Heyting né lo adottò in alcun suo scritto. Troelstra ricorda, però, una
sua comunicazione privata in cui mostrò di apprezzarlo416.
Ogni formula del sistema di Heyting esprime una certa espressione matematica per una certa
interpretazione delle costanti e per adeguate sostituzioni delle variabili417.
Sono introdotti:
α. quattro concetti fondamentali: → , ∧ , ∨ , ¬ ;
β. due definizioni: (a ↔ b)=def.((a → b) ∧ (b → a)); ¬ ¬ a=def. ¬ ( ¬ a);
γ. undici assiomi:
(1) a → (a ∧ a)
(2) (a ∧ b) → (b ∧ a)
(3) (a → b) → ((a ∧ c) → (b ∧ c))
409
Cfr. A. Heyting, Die intuitionistische Grundlegung der Mathematik, in Erkenntins, vol. 30, 1931, p. 106.
Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, op. cit., p. 195.
411
Cfr. Ibidem.
412
Cfr. A. N. Kolmogorov, O principe tertium non datur, op. cit., p. 168.
413
Cfr. ivi, p. 195.
414
Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, op. cit., p. 195.
415
Cfr. ibidem. Ma cfr. a p. 135, in questo volume, le congetture circa il non gradimento del formalismo da parte di
Brouwer.
416
Cfr. A. S. Troelstra, Commentary, op. cit., p. 171, n. 5: lettera di Brouwer a Th. De Donder, ottobre 1930.
417
Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, op. cit., p. 196.
410
123
(4) ((a → b)(b → c)) → (a → c)
(5) b → (a → b)
(6) (a ∧ (a → b)) → b
(7) a → (a ∨ b)
(8) (a ∨ b) → (b ∨ a)
(9) ((a ∨ b) ∨ c) → (a ∨ (b ∨ c))
(10) ¬ a → (a → b)
(11) ((a → b) ∧ ( a → ¬ b)) → ¬ a;
δ. se “a” e “b” sono formula valide anche “a ∧ b” lo è
ε. il modus ponens;
ζ. la regola di sostituzione uniforme.
La logica intuizionista differisce da quella classica fin dal principio perché in essa non è possibile
definire i quattro concetti fondamentali per mezzo di due soli di essi. Nel sistema intuizionista,
infatti, valgono i seguenti teoremi, ma non i loro inversi:
(12) ¬ (a ∨ b) → (a → b)
(13) (a → b) → ¬ (a ∧ ¬ b)
(14) (a ∨ b) → ( ¬ a → b)
(15) (a ∨ b) → ¬ ( ¬ a ∧ ¬ b)
(16) (a ∨ b) → ((a → b) → b)
(17) (a ∧ b) → ¬ ( ¬ a ∨ ¬ b).
Poiché i quattro connettivi sono, tra di loro, indipendenti occorre introdurli tutti esplicitamente.
I teoremi più interessanti, rispetto a quelli classici, della logica intuizionista riguardano il diverso
trattamento della negazione. Già Kolmogorov aveva riportato, giustamente, l’attenzione sulla
diversità della negazione intuizionista rispetto a quella classica418 e, ora, anche Heyting ribadisce
418
Cfr. A. N. Kolmogorov, O principe tertium non datur, op. cit., p. 168.
124
l’importanza di questo aspetto419. Nella logica intuizionistica valgono due delle quattro regole di
contrapposizione, (18) e (19):
(18) (a → b) → ( ¬ b → ¬ a)
(19) (a → ¬ b) → (b → ¬ a).
Sono, altresì, derivabili:
(20) a → ¬ ¬ a
(21) ¬ ¬ ¬ a → ¬ a
(22) (a ¬ a) → b
(23) (a ∨ b) → ( ¬ a → b)
(24) (a ∨ ¬ a) → ( ¬ ¬ a → a).
(24) è un esempio, per sostituzione, di (23) e afferma che, se, per una certa asserzione matematica
“a”, vale il principio del terzo escluso, allora per “a” vale anche il principio di reciprocità dei
complementari.
Sono dimostrabili due teoremi che affermano la non contraddittorietà dei due principi menzionati
sopra:
(25) ¬ ¬ (a ∨ ¬ a)
(26) ¬ ¬ ( ¬ ¬ a → a).
Nella logica intuizionista, poiché non vale il principio (completo) del terzo escluso, non è valida
una forma di ragionamento come il dilemma costruttivo. Tale schema inferenziale autorizza a
derivare B se esso segue sia da A sia da ¬ A e si bassa sul fatto che, nella logica classica, (A ∨ ¬ A)
è sempre valido. Ciò, naturalmente, non è legittimo nella logica intuizionista, ma valgono:
(27) ((a ∨ ¬ a) → b) → ¬ ¬ b
(28) ((a ∨ ¬ a) → ¬ b) → ¬ b.
419
Cfr. A. Heyting, Die formalen Regeln der intuitionistischen Logik, op. cit., p. 197, n. 3, in cui chiarisce che, per
marcare ulteriormente tale differenza, ha anche voluto cambiare il simbolo della negazione comunemente usato nella
logica classica “~” con il nuovo “ ¬ ”.
125
(27) afferma la non contraddittorietà di b se esso deriva sia da a sia da ¬ a. (28), poi, asserisce che
per dimostrare un teorema negativo si può legittimamente usare il principio del terzo escluso.
Ci si può rendere conto che il principio completo del terzo escluso (a ∨ ¬ a) non vale nella logica
intuizionista utilizzando (24) e le seguenti tavole di verità (il valore designato è 0, il primo elemento
sta in alto, il secondo a sinistra) che verificano tutti gli assiomi e le regole di operazione:
→
0
1
2
0
0
0
0
1
1 0
1
2
2
0
0
∧
0
1
2
0
0
1
2
1
1
1 1
2
2
1 2
∨
1
2
0
0 0
0
1
0 1
2
2
0
2
¬
0
0
2
1
2
1 0
1
126
Per a = 2, non vale ( ¬ ¬ a → a), dunque, non può valere (a ∨ ¬ a), altrimenti, per (24) e modus
ponens, si deriverebbe proprio ( ¬ ¬ a → a). Heyting suggerisce di interpretare “0” come il valore di
verità “vero”, “1” come il valore ”falso” e “2” come “non può essere falso, ma non è dimostrato”420.
Utilizzando le tavole di verità, poi, è possibile mostrare la non validità del principio del terzo
escluso (si veda la terza colonna della tabella riportata sotto) e la validità di (25) che esclude che la
non validità del terzo escluso indichi la validità, per così dire, di un principio del terzo incluso.
a
¬a
(a ∨ ¬ a)
¬ (a ∨ ¬ a) a ∧ ¬ a ( ¬ (a ∨ ¬ a)) → (a ∧ ¬ a)
0
1
0
1
1
0
1
0
0
1
1
0
2
1
2
1
1
0
Se, cioè, valesse ( ¬ (a ∨ ¬ a)), allora, poiché ( ¬ (a ∨ ¬ a)) → (a ∧ ¬ a) è un teorema, per
separazione, si otterrebbe (a ∧ ¬ a). Da ciò, per (11), segue (25), ossia l’assurdità dell’assurdità del
principio del terzo escluso.
2.c.c. HEYTING: SULLA LOGICA INTUIZIONISTA E I FONDAMENTI DELLA LOGICA
INTUIZIONISTA
Con il primo di questi due saggi, pubblicato nel 1930421, Heyting intende fornire
un’interpretazione della logica intuizionista in rapporto alle idee di Brouwer sulla natura delle realtà
matematiche. Egli osserva, in primo luogo, che il significato da attribuire al verbo “esistere” è una
420
Cfr. ivi, p. 212.
A. Heyting, Sur la logique intuitionniste, in Acadèmie Royale de Belgique, Bulletin, 16, 1930, pp. 957-963 translated
by A. L. Rocha in id., On the intuitionistic Logic, in AA. VV., From Brouwer to Hilbert. The Debate on the
Foundations of Mathematics in the 1920s, ed. P. Mancosu, Oxford University Press, New York – Oxford, 1998, pp.
306-310.
421
127
questione che è stata ed è notevolmente discussa. Brouwer, di conseguenza, non ritiene giustificato,
nelle dimostrazioni matematiche, fare affidamento ad una sua interpretazione che legittima la
credenza in enti che sussisterebbero indipendentemente dalla percezione che ne abbiamo. Una tale
convinzione non si rivela così solida da essere accettata nel campo della matematica e, in tale
ambito, occorre, piuttosto, elaborare i teoremi ricorrendo solo a proprietà giustificabili senza
ricorrere ad essa422. Anche chi sostenesse, invece, un punto di vista realista, ad ogni modo,
dovrebbe riconoscere l’interesse del tentativo di Brouwer perché esso permette di comprendere che
cosa, in matematica, non dipenda da una tale, discussa, assunzione423. Poiché per gli intuizionisti la
matematica è una nostra realizzazione, occorre intendere l’espressione “esiste” come “è stato
costruito per mezzo della ragione”424.
Una proposizione p esprime il problema di determinare se il suo contenuto è verificato o non lo
è425. Essa pone, dunque, un’aspettativa circa la determinazione del valore di verità del suo
contenuto. Affermare p, nella logica classica, significa che essa è vera e ciò è un fatto che non
deriva dal nostro pensiero, ma è, al contrario, trascendente rispetto ad esso. Tale impostazione,
come è chiaro, non è accettata dagli intuizionisti, ma occorre prestare attenzione a come si replica.
Non è, infatti sufficiente sostenere che affermare p non significhi “p è vera”, ma, piuttosto, “p è
provabile”. In tal modo, infatti, dice Heyting, si continuerebbe ad accettare che esistano enti
matematici, in questo caso la prova di p, indipendenti dai nostri atti di pensiero426. Per soddisfare le
richieste intuizioniste occorre, invece, ritenere legittimo affermare p solo se si osserva il fatto
empirico espresso che essa esprime. L’asserzione, per così dire, brouweriana di p, significa che si
conosce una prova di p per mezzo di una costruzione427. L’importante differenza, rispetto alla logica
classica, è che in quest’ultimo caso si può affermare una certa proposizione sulla base
422
Cfr. ivi, p. 306.
Heyting polemizza, in particolare, contro Paul Lévy che aveva sostenuto, nel suo articolo Critique de la logique
empirique, in Revue de Métaphysique et de Moral, 33, 1926, pp. 545-551, non solo l’indipendenza degli enti matematici
dal nostro pensiero, ma anche l’aproblematicità di una tale posizione.
424
Cfr. ivi, p. 307.
425
Cfr. ibidem.
426
Cfr. ibidem.
427
Cfr. ibidem.
423
128
dell’osservazione di un fatto trascendente, mentre, per l’intuizionismo, tale fatto è empirico e
coincide con la nostra capacità di costruirlo mentalmente. Il simbolo di asserzione è “├”428.
La negazione di un enunciato, nella logica classica, è speculare alla sua affermazione e significa
“p è falsa”. Nella logica intuizionista, tuttavia, occorre costruire la falsità di p e, di conseguenza, ~p
corrisponde a “p implica una contraddizione” (per analogia rispetto al caso dell’affermazione,
Heyting suggerisce di chiamare tale funzione logica “negazione brouweriana”)429. “├ ~p” significa
“si conosce una prova per ridurre l’affermazione di p ad una contraddizione”.
Appare chiaro, allora, come tra “├ p” e ” ├ ~p” vi sia anche la possibilità di astenersi
dall’affermare qualcosa a proposito di p. Piuttosto che assegnare un simbolo anche a questa nuova
condizione, tuttavia, Heyting ritiene più pratico pensare che, in tal caso, non si dica nulla e che,
dunque, nel linguaggio formale non le corrisponda alcunché.
L’espressione “├ ~~p”, poi, sta per “si conosce un metodo che riduce a contraddizione la
supposizione che p implichi una contraddizione”430. “├ ~~p”, dunque, non è identica a “├ p” e la
prima può valere senza che si accetti anche la seconda. In tal caso, infatti, si sarebbe in grado di
mostrare la contraddittorietà di ~p, ma non si sarebbe in grado di costruire p431.
Heyting suggerisce di arricchire il vocabolario logico del un nuovo termine “+” per indicare
l’aspettativa di saper dimostrare una certa tesi. “├ p” e “├ +p” hanno lo stesso significato perché
entrambe indicano che si conosce una dimostrazione di p. “p” e ”+p”, tuttavia, si distinguono
perché la prima formula indica che qualsiasi caso che rientra in quelli determinati da p ne conferma
la correttezza, la seconda, invece, richiede che si sia in grado di fornire una dimostrazione di p. La
differenza tra le due espressioni è ancora più chiara se si considera “├ ~+p”. Tale formula indica
che si è in grado di ridurre ad una contraddizione la supposizione che si possa dimostrare p. Negare
che si possa provare p non significa, si badi, negare p e, perciò potrebbero sussistere, senza
428
Cfr. ibidem.
Cfr. ibidem.
430
Cfr. ivi, p. 308.
431
Cfr. ibidem.
429
129
contraddirsi, “├ ~+p” e ” ├ ~~p” e, di conseguenza, sarebbe impossibile risolvere il problema posto
da p.
Poiché “+~p” equivale a “~p”, “++p” a “+p” e, come ha già mostrato Brouwer, “~~~p” a “~p”,
ogni affermazione su p si riduce ad una delle seguenti e ai loro rispettivi conseguenze e significati:
PROPOSIZIONI CONSEGUENZE AFFERMAZIONI ESCLUSE
AFFERMATE
PREDICATI
1.
├ p (o ├ +p)
├ ~~p
├ ~~+p
├ ~~p
├ ~+p
Provata (vera)
2.
├ ~p
├ ~+p
Tutte le altre
Contraddittoria (falsa)
3.
├ ~+p
e
├ ~~p
Tutte le altre
Insolubile
4.
├ ~+p
├ +p
├p
├ ~~+p
Non provabile
5.
├ ~~+p
├ ~p
├ ~+p
Non non provabile
6.
├ ~~p
├ ~p
Non contraddittoria
├ ~~p
7.
Non risolta
Heyting nota che se si interpretasse p come richiedente già una costruzione, a prescindere dal fatto
che sia affermata, la differenza fra “p” e ”+p” scomparirebbe. In saggio, apparso nel 1931 sulla
rivista Erkenntins432, egli ripropone la medesima interpretazione della logica intuizionista, ma si
sofferma a considerare più a fondo tale osservazione e ne conclude che l’introduzione di “+” rende
432
Cfr. A. Heyting, Die intuitionistische Grundlegung der Mathematik, op. cit., pp. 106-115.
130
il simbolismo inutilmente farraginoso. Heyting, dunque, propone di scrivere, semplicemente “p” ed
intendere, in ogni caso, che p è la costruzione a cui siamo condotti tramite un certo procedimento433.
Egli analizza meglio anche il ruolo della negazione, soprattutto in rapporto alla non validità del
principio del terzo escluso. Ogni funzione logica è un processo che permette di passare da una certa
costruzione ad un’altra. La negazione è, appunto, una funzione logica e, dunque, assume un
significato positivo, ossia l’intenzione di affermare la contraddizione di un’intenzione precedente434.
A queste condizioni, il principio del terzo escluso diventa esprime il soddisfacimento
dell’intenzione espressa da p oppure il riconoscimento che tale intenzione condurrebbe ad una
contraddizione. Tale soddisfazione, secondo questo principio, varrebbe per ogni proposizione, ossia
ogni enunciato matematico sarebbe stato provato o sarebbe stata provata la sua contraddittorietà, il
che, palesemente, è inaccettabile.
2.c.d. KOLMOGOROV: L’INTERPRETAZIONE DELLA LOGICA INTUIZIONISTA435
In questo saggio, il logico russo propone un’interpretazione della logica intuizionista come un
calcolo di problemi436 ed è interessante considerarla insieme alla proposta di Heyting esposta nel
sotto-paragrafo precedente. In alternativa all’interpretazione della logica come sistema degli schemi
di prova validi, egli suggerisce di costituire una logica che organizzi gli schemi di soluzione dei
problemi, ossia dei percorsi tramite cui giungere validamente alla soluzione di un dato problema se
si conoscono le soluzioni di altri problemi che stanno in determinati rapporti con il primo. Egli
procede a fornire un sistema di questo tipo che, nota, è formalmente identico alla logica
intuizionista descritta da Heyting nell’articolo che ho sopra esposto437.
433
Cfr. ivi, p. 114.
Cfr. ivi, p. 113.
435
A. N. Kolmogorov, On the Interpretation of Intuitionistic Logic, 1931, pp. 328-334.
436
Cfr. ivi, p. 328.
437
Cfr. ibidem.
434
131
Siano “a”, “b”, “c”, … variabili per problemi, allora i connettivi e il quantificatore universale
usuali ricevono la nuova interpretazione:
- (a ∧ b) = “sono stati risolti sia a sia b”;
- (a ∨ b) = “è stato risolto a oppure b oppure entrambi”;
- (a → b) = “si sa riportare la soluzione di b alla soluzione di a”;
- ¬ a = “si sa trovare una contraddizione dalla soluzione di a”;
-
∀ x A(x) = “si sa risolvere il problema A per ogni elemento in un numero finito di
passaggi”.
In generale, ogni formula p(a, b, c, …), in cui p indica la costruzione di una formula contenente i
problemi a, b, c, … per mezzo delle costanti sopra riportate, designa un nuovo problema. “├ p(a, b,
c, …)” significa “si sa risolvere p(a, b, c, …)”438. Lo scopo del nuovo calcolo logico è quello di
fornire uno schema del metodo di soluzione di ├ p(a, b, c, …)439.
Il logico russo fornisce due gruppi di postulati, ossia di problemi che si suppone siano stati già
risolti. Nel primo gruppo compaiono undici degli assiomi e teoremi presentati da Heyting440. Nel
secondo, invece, egli presenta tre problemi che non sono esprimibili solo con simboli logici441:
I.
se ├ p ∧ q, allora ├ p;
II.
se ├ p e ├ p → q, allora ├ q;
III.
se ├ p(a, b, c, …), allora ├ p(q, r, s, …).
Tra i problemi che, allora, si possono considerare risolti vi sono:
(1) a → ¬ ¬ a
(2) (a → b) → ( ¬ b → ¬ a)
(3) ¬ ¬ ¬ a → ¬ a.
Non è derivabile il principio del terzo escluso e, se lo si assumesse, esso significherebbe che, per
ogni problema, si conosce la sua soluzione o si sa che da essa deriva una contraddizione. Tale legge
438
Cfr. ivi, pp. 329-330.
Cfr. ivi, p. 330.
440
Cfr. ibidem.
441
Cfr. ivi, p. 331.
439
132
sancirebbe, in altre parole, l’onniscienza del soggetto che esercita il calcolo dei problemi. Per
questo motivo, la logica classica non è in grado di rappresentare un calcolo dei problemi adeguato
(tranne il caso in cui si assuma un soggetto onnisciente).
Il principio basilare che rende la logica intuizionista adatta ad esprimere il calcolo dei problemi,
secondo il logico russo, consiste proprio nel nocciolo dell’attacco intuizionista alla logica ed alla
matematica classiche: qualsiasi proposizione dotata di contenuto deve riferirsi ad uno stato di cose
accessibile dalla nostra esperienza. Poniamo che a sia una proposizione universale che afferma
“tutti gli elementi dell’insieme K sono A”, con K infinito. Negare questa proposizione, tuttavia, per
il principio appena enunciato, non è sufficiente per concludere ad una proposizione esistenziale a’
“almeno un elemento di K non è A”. La negazione, qui, significa solo che si sa che a conduce ad
una contraddizione. Per poter affermare a’ occorrerebbe conoscere gli elementi di K che non sono
A, altrimenti la proposizione, priva di contenuto intuibile, sarebbe anche priva di senso. Solo
costruendolo quegli oggetti di K che non sono A si può, legittimamente, affermare a’. Kolmogorov
conclude affermando che il risultato più importante dell’intuizionismo è il ritenere che la negazione
di una proposizione universale non è una proposizione determinata, il che significa che non siamo
legittimati a considerarla esistenzialmente informativa perché non conosciamo l’oggetto che
soddisferebbe la proposizione esistenziale.
La logica classica non è adatta ad esprimere la nostra attività di risoluzione dei problemi. A molte
questioni, ovviamente, non siamo in grado di fornire una risposta, dunque non si possono accettare
quelle leggi che ci costringerebbero a supporre di averlo fatto. L’interdizione ad accettare senza
limitazioni il principio del terzo escluso sorge dalla mancanza di significato che assumerebbe, per
noi, l’alternativa che esso esprime442.
442
A. N. Kolmogorov, On the Interpretation of Intuitionistic Logic, 1931, p. 333.
133
3. PLURALITÀ DI LINGUAGGI
L’opposizione di visioni logiche differenti, al di là delle eventuali convinzioni dei protagonisti del
dibattito, in virtù delle osservazioni dei capitoli precedenti, non si basa sulla possibilità di trovare un
punto fermo su cui edificare la logica corretta, ma si configura come un insieme di osservazioni che
si ritiene inducano ad assumere una certa prospettiva interpretativa dei fatti a cui si intende
applicare la logica. Ciò che le loro leggi spiegano è perché è corretto trarre certe conclusioni da
determinate premesse e perché è illegittimo farlo in altri casi. Le norme logiche si situano a metà
strada tra la prescrizione di un comportamento (come nel caso di un regolamento sportivo, del bonton, …) e le leggi di natura, nel senso, ad esempio, delle formule fisiche e chimiche. Assomigliano
alle seconde in quanto, secondo gli autori qui considerati, non sono create arbitrariamente
dall’uomo, ma si accordano alla realtà dell’oggetto trattato (questo vale anche nella prospettiva
soggettivista di Brouwer). Per il fatto di poter essere trasgredite, invece, esse sono analoghe alle
regole di atteggiamento. La non osservanza di una regola logica porterebbe ad una fallacia nel
ragionamento, ma è certamente possibile che si verifichi.
Si potrebbe chiedere ai nostri autori perché si dovrebbe ritenere corretta la logica che propongono
ed adeguarvi, di conseguenza, i nostri ragionamenti, in modo opportuno. Potremmo anche
chiedergli come sia possibile porre in discussione una legge logica. Sia Łukasiewicz sia Brouwer
impostano la propria logica su una concezione metafisica dell’ambito di cui forniscono una logica:
per il primo si tratta del rifiuto del determinismo443 e per il secondo della natura alinguistica e
mentale della matematica444. Le differenti interpretazioni, poi, che sono state offerte dei loro sistemi
(da Reichenbach e Putnam, ad esempio per la logica polivate e da Kolmogorov e Heyting per quella
intuizionista) rivelano, ancora, il tentativo di offrire un campo a cui una determinata logica possa
applicarsi (la meccanica relativistica o la descrizione dei gradi con cui conosciamo il valore di
443
444
Cfr. J. Łukasiewicz, Philosophische Bemerkungen zu mehrwertigen Systemen des Aussagenkalküls, p. 252.
Cfr. L. E. J. Brouwer, Brouwer’s Cambridge Lectures on Intuitionism, op. cit., p. 35.
134
verità di verità di una certa proposizione nel primo caso e il calcolo di problemi o di costruzioni nel
secondo).
La logica, dunque, si rivela strettamente intrecciata alle convinzioni metafisiche di colui che la
propone o la utilizza e risente anch’essa delle dispute e delle controversie che avvengono in quella
regione dove, come disse Kant, ossia proprio colui che ritenne la logica del tutto compiuta445, le
battaglie sembrano non avere mai fine446. Le leggi logiche, come mostrano gli esempi sopra
riportati, non nascono e si sviluppano in modo perfetto e immodificabile e, benché si situino alla
base delle nostre conoscenze, come ho cercato di spiegare soprattutto nel capitolo precedente, non
sono necessarie in senso assoluto e non godono di alcun privilegio che le ponga al riparo dalla
possibilità di errore.
La logica, invece di essere il campo del sapere ineluttabile, si rivela, come ogni esperienza e
conoscenza umane, un terreno in cui è particolarmente importante la fantasia e, anzi, la stessa logica
aiuta a svilupparla offrendo innumerevoli alternative all’irriflesso senso comune.
445
I. Kant, Logik. Ein Handbuch zu Vorlesungen, op. cit., A 18, p. 443
Cfr. I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A VIII, heruasgegeben von W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt am Main,
p. 11.
446
135
CAPITOLO VI
MANNICHFACHE WEGE
GEHEN DIE MENSCHEN447
447
Friedrich von Hardenberg (Novalis), Die Lehrlinge zu Saïs, (1798) in id., I discepoli di Sais, tr. it. A. Reale,
Bompiani, Milano, 2000.
136
1. LOGICA E FILOSOFIA
Il nostro riferimento ed impiego delle leggi della logica è sempre relativo ad un particolare
sistema entro cui ci collochiamo e il sistema globale di tutti i sistemi è privo di un elemento primo
(o ultimo) che sia per essi un riferimento assoluto ed intrascendibile. Anche se nessuna logica è
privilegiata rispetto alle altre, l’adozione di una di esse piuttosto che un’altra è una questione di
grande importanza. I fini ed il campo di applicazione di un sistema logico, infatti, sono assai vasti e,
probabilmente, come quelli della filosofia, tendenzialmente globali perché vorrebbero essere in
grado di comprendere le relazioni che intercorrono tra ogni aspetto della realtà. Una sua revisione
potrebbe avere, dunque, conseguenze molto profonde nel nostro modo di concepire la realtà448.
Non credo che il modo corretto di impostare la questione sia, a questo punto, chiedersi quale sia la
logica che, seppure non più fondata di altre, dovrebbe essere utilizzata dal filosofo per compiere i
propri ragionamenti. La scelta che si compie tra i vari sistemi e la loro uguaglianza in quanto a
valore logico indica che anche ogni criterio con cui se ne assumerebbe uno piuttosto di un altro
sarebbe relativo ai nostri interessi e alle nostre capacità intellettuali, ossia alle nostre possibilità di
comprendere, in modo più o meno agevole, un determinato ordine tra certi enti. Si potrebbe, forse,
pensare che i sistemi più accessibili e con cui, magari anche solo momentaneamente e rispetto a
determinate e circoscritte situazioni, accettiamo di cambiare una logica più abituale siano quelli le
cui regole siano più simili a quelle che già possediamo, oppure quelli le cui leggi si accordino con
una particolare pratica (scienziato quantistico, …) e con una determinata ontologia (gli enti
matematici, …). Nessuno di questi criteri è, ad ogni modo, come dovrebbe essere ormai chiaro,
assolutamente decisivo. La concezione della filosofia come sapere fondato su principi logici
irrefutabili non è, quindi, accettabile.
Non solo, poi, non si può, legittimamente, discriminare, in termini puramente logici, i sistemi
alternativi di logica. Occorre anche riconoscere il ruolo della creatività e l’esistenza di percorsi
448
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World-Order. Outline of a Theory of Knowledge, C. Scribner’s Sons, 1929, reprinted
Dover Publications Inc., New York 1956, p. 258.
137
alternativi nel formulare le dimostrazioni di una certa tesi e il conseguente rilievo accordato ai
collegamenti e ai metodi di ragionamento esplicitati o suggeriti da una certa via di dimostrazione
che avrebbero potuto, altrimenti, rimanere in ombra449. I percorsi con cui costruiamo le nostre teorie
e su cui basiamo le nostre conoscenze non sono neutrali, ma suggeriscono o tendono a precludere
certi approfondimenti e certe domande, concorrendo, in tal modo, attivamente a determinare i nuovi
concetti e le relazioni che si scorgono tra di essi. A ciò si aggiunge anche il fatto che la ricerca della
spiegazione del verificarsi di un certo evento conduce solo a trovare una condizione sufficiente per
il verificarsi di quell’evento e non di una condizione necessaria e che, analogamente, una medesima
tesi può essere sviluppata a partire da assunzioni diverse, in modo tale che non è corretto assumere
alcuni postulati come necessari per una certa spiegazione450. Questo terzo aspetto mostra i limiti
entro i quali si può considerare giustificato un argomento filosofico. Esso, infatti, non può
pretendere di aver spiegato in modo esaustivo e univoco una data situazione perché con il suo
ragionamento ha colto, al massimo, una delle molte spiegazioni possibili, ossia una causa
sufficiente, ma di cui non è in grado di esibire la necessità451. Ciò vale anche quando si tenta di
confutare una certa tesi affermando che essa, per essere sostenuta, richiede l’assunzione di principi
inaccettabili. Anche in tal caso, infatti, non si può escludere che esistano altri principi a cui non si è
pensato che permetterebbero di sostenere, ugualmente, la medesima tesi. Un’ulteriore
considerazione, poi, riguarda il fatto che non conosciamo tutte le conseguenze che dipendono dal
sistema di conoscenza che abbiamo determinato e, quindi, non possiamo escludere che ne
scopriremo, prima o poi, una che riteniamo del tutto inaccettabile e che ci costringa, quindi, a
correggere, in modo più o meno profondo, le nostre precedenti convinzioni452.
449
Cfr. cap. II, § 4, Utilità delle dimostrazioni, pp. 33-31, questo volume.
Cfr. cap. II, § 5, Argomenti filosofici, pp. 33-37, questo volume.
451
Cfr. ibidem.
452
Cfr. ibidem.
450
138
2. SISTEMA E OPERA APERTA
Il ruolo della filosofia è sia descrittivo sia prescrittivo, senza una chiara delimitazione tra le due
funzioni. Essa, infatti, tenta, come aveva sostenuto anche Lewis, di esplicitare i nostri criteri di
interpretazione e le assunzioni implicite dei nostri ragionamenti e della nostra esperienza nella
consapevolezza che ogni affermazione può essere ritenuta valida o non valida solo in riferimento ad
un certo ordine di relazioni ed operazioni e, inoltre, essa suggerisce anche nuove strade e nuove
possibilità che, pragmaticamente, si contendono il primato.
Dovrebbe risultare chiaro, ormai, come il sostenere una tale posizione non sia un mero
proferimento di fatto, impossibile, però da mantenere in sede argomentativa. La nota obiezione
rivolta allo scetticismo di contraddire se stesso perché, nel momento in cui dichiara che non vi sono
verità, ne assume una, quella, appunto, che non ci sono verità453 non appare cogente in questo caso.
Essa, infatti, si richiama alla necessaria condivisone di alcuni principi logici, quali il principio di
non contraddizione, per mostrarne la violazione e richiedere, di conseguenza, che si abbandonino le
tesi che conducono ad un tale risultato. Se, tuttavia, si manca di riconoscere un valore
incontrovertibile a qualsiasi principio, però, non si è neppure confutati dal fatto di non rispettarlo e,
in secondo luogo, le asserzioni dell’opponente dello scettico si presentano, a loro volta, determinate
da una certa logica e quindi, non sono assolute, ma relative ad essa e non hanno alcuna capacità di
esibire la loro validità in modo incontrovertibile.
Vi è, poi, una terza osservazione. Asserire che la dimostrabilità di una tesi è relativa ad un certo
tipo d’ordine, non significa porsi da un punto di vista superiore ad esso e a tutti gli altri che
appartengono al suo stesso livello (o a livelli inferiori) e guadagnare una posizione che, in modo
simile allo spirito assoluto di Hegel, consideri tutto il resto come è veramente in sé e per sé454. Il
giudicarsi del pensiero, ossia il rintracciare, nella propria esperienza, la conoscenza di se stesso,
Cfr.: Democrito, DK 9 e 125; Platone, Thaet.; Aristotele, Met. Γ 1009 a 6 - 1012 a 9; Agostino, Contr. Ac., VII 15 VII 17.
454
Cfr. G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Verwaltung des oswaldschen
Verlags, (C. F. Winter) Heidelberg 1830, §§ 573-574.
453
139
delle proprie strutture e delle relazioni che intreccia ai dati sensibili non è mai una conquista
completa che non permetta altri punti di vista. La ragione che indaga su se stessa non si scopre mai
interamente perché le manca la giustificazione assoluta del proprio metodo e dei propri contenuti.
Come scrive Peirce, una quantità notevole di presupposti sono assunti, quando ci si pone una
qualsiasi questione455. La ricerca per eccellenza della filosofia, nel senso in cui l’ho assunta
all’inizio della mia tesi, è quella di comprendere il mondo fornendo argomentazioni fondate nel
modo più saldo possibile, ed era quindi del tutto naturale rivolgersi ad indagare la speculazione
della logica. La domanda logica e quella filosofica, anzi, nella loro radicalità, mi sono sembrate
coincidere nell’indagine sul fondamento della propria attività. L’inquietudine della ricerca nasceva
proprio dalla difficoltà di incominciarla in modo corretto. Se occorre rendere ragione di ogni cosa,
nulla può essere presupposto e quando il pensiero cerca la soluzione al problema del fondamento
dei propri ragionamenti si ritrova nella situazione di doversi conoscere e giudicare. Lo stesso atto di
giustificazione, quindi, appartiene già alla filosofia. Una giustificazione della filosofia, dunque, è
già filosofia e non è possibile concepirne una preliminare e neutra. Indicare un giustificazione del
proprio modo di procedere equivale a trovare il punto da cui si deve incominciare e lasciare che il
metodo con cui procedere sia, idealmente, determinato dall’oggetto stesso del ragionamento, che
indica le relazioni ed i collegamenti che esso stabilisce con le altre cose456, raccogliendo tutto, alla
fine, in un sistema perfettamente concluso457. Se tale sistema, poi, non coinvolgesse ogni cosa, ossia
se non fosse totale, resterebbe qualcosa, al di fuori di esso, che non sarebbe spiegato e dunque, il
compito della filosofia non sarebbe concluso e se non fosse un sistema non avrebbe mostrato la
struttura del reale, ma, più modestamente, avrebbe raccolto dei dati (anche, eventualmente, tutti)
empiricamente e senza garanzia di correttezza458. Un procedere senza sistematicità, così recita
455
Cfr. C. S. Peirce, The Fixation of Belief, in The Popular Science Monthly, novembre 1877, in id., Collected Papers,
vol. V., Pragmatism and Pragmaticism, ed. C. Harsthorne and P. Weiss, The Belknap Press of Harvard University
Press, Cambridge, Massachusetts 1960, 5.369.
456
Cfr. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, 1812, in id., Scienza della logica, tr. it. A. Moni, rev. e intr. C. Cesa,
Laterza, Roma-Bari 1999, I, 1, C, p. 16-17.
457
Cfr. G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, op. cit., §§573-574.
458
Cfr. ibidem.
140
quell’idea di filosofia, esprimerebbe solo un punto di vista soggettivo, un parere o un’opinione e
non qualcosa che si impone, invece, sopra ogni altra possibile concezione, in forza delle proprie
ragioni e della propria adeguatezza, a mostrare la vera organizzazione della realtà459.
Vi è, poi, il problema di con che cosa debba incominciare la conoscenza filosofica e se essa
debba iniziare. Alla seconda questione, Lewis risponde che ad ogni tipo di conoscenza, per quanto
empirica, è unita una metafisica
460
, in quanto si suppone la validità di una serie di relazioni e
strutture secondo le quali si organizzerebbero le cose e gli eventi del mondo. Senza di essa non si
potrebbe neppure muovere un passo perché già in questa semplice azione si producono valutazioni
dello stato attuale e passato del mondo e si propongono inferenze e previsioni circa quel che accadrà
in futuro e ciò è possibile solo in base a leggi che definiscano in un certo modo la nostra esperienza.
Qualora si ritenga che la filosofia debba costituire un sistema globale, nel senso prima spiegato, e ci
si domandasse come avanzare con sicurezza nella determinazione delle proprie credenze, ecco che
sorgerebbe, naturalmente, il problema di determinare, in modo opportuno, l’inizio e il fondamento
della speculazione. Il pensiero, allora, dovrebbe riflettere su di sé per scoprire quale valore abbiano
le conoscenze alle quali si è, finora, affidato e i metodi di scoperta e giustificazione che ha, fin lì,
utilizzato. La propria determinazione diventa, dunque, l’interesse principale del pensiero. Se ciò su
cui si basano i nostri ragionamenti, infatti, non fosse affidabile, come sarebbe possibile conoscere
altre cose?
La costruzione del sistema della nostra conoscenza, incomincia, dice Hegel, con l’idea più
semplice ed immediata461, ossia ciò che vi di più puro e privo di ogni determinazione, che gli sarà
aggiunta solo posteriormente. Se non si deve presupporre nulla, allora ogni particolarità, all’inizio,
deve essere bandita perché non mostra immediatamente la necessità della propria assunzione462.
Non mi interessa, qui, approfondire perché Hegel consideri l’essere un immediato e tale da dover
459
Cfr. G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, op. cit., § 14.
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World Order r. Outline of a Theory of Knowledge, C. Scribner’s Sons, 1929, reprinted
Dover Publications Inc., New York 1956, p. 18.
461
Cfr. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, op. cit., p. 65.
462
Cfr. ibidem.
460
141
essere assunto come principio della sua logica, ossia di tutto il sistema del sapere, dal momento che
la logica ne rappresenta, appunto, la prima parte. Quel che ritengo importante è notare che ogni
cosa, invece, come ho cercato di chiarire nelle pagine precedenti, può essere il punto di partenza di
un ragionamento o di un intero sistema ed essere considerata come immediata. Ogni considerazione
può costituire il principio e la guida del nostro sapere e questo può essere modellato da quella
assunzione. Si costituisce, in tal modo, un primo sistema di classi in cui da una parte si trovano i
principi del sistema (eventualmente anche uno solo) e dall’altra i campi di indagine in cui operare
con essi. Proprio per questo ogni ricerca ha i suoi presupposti463. Anche la stessa ricerca hegeliana
intorno al cominciamento li ha e, tra i primi, per quanto appaia banale dirlo, la stessa condizione di
non concedere alcun presupposto.
In Hegel, tuttavia, vi è anche un altro aspetto: il cominciamento è una necessità, egli dice, solo per
il singolo soggetto, nel momento in cui decide di fare il filosofo. Dal punto di vista del sistema
completo, infatti, non vi è alcun punto realmente fermo, ma ognuno di essi si richiama464 a tutti gli
altri465. La Logica, al termine dell’Enciclopedia466, infatti, perde la prima posizione nel sistema e si
inserisce tra le altre due grandi partizioni, lo Spirito e la Natura, in quanto essa è contigua tanto
all’una quanto all’altra e sorge da e conduce ad entrambe. Questa impostazione non è, in fondo,
dissimile da ciò che, in parte, pensa Lewis. Egli ritiene, infatti che ognuno costruisca il proprio
sistema della conoscenza (anche a livello, come ho riportato sopra, di metafisica ingenua467) e, da
questo punto di vista, organizzi, insieme agli altri uomini468, con livelli di consapevolezza relativi
alle sue capacità intellettuali469 e ai suoi interessi470, gli aspetto della propria concezione471 e quelli
463
Cfr. C. S. Peirce, The Fixation of Belief, op. cit., 5.369.
Per Hegel, ovviamente, tramite la dialettica (cfr. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, op. cit., p. 64), ma ciò,
benché possa apparire azzardato, non mi pare una questione fondamentale, almeno a questo livello. Più interessante è,
infatti, la concezione di sistema e di relazione che sussiste tra tutte le parti, indipendentemente da quale tipo di relazione
egli abbia creduto vigesse.
465
Cfr. G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik, op. cit., p. 71: “l’essere non passa, ma è passato nel nulla” (corsivo
mio), ossia l’inizio non è tale dal punto di vista del sapere assoluto.
466
Cfr. G. W. F. Hegel, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, op. cit., § 577.
467
Cfr. C. I. Lewis, Mind and World Order, op. cit., p. 18.
468
Cfr. ivi, p. 8.
469
Cfr. ivi, p. 245.
470
Cfr. ivi, p. 238.
464
142
delle teorie che gli si oppongono472. In tal modo si pone da un punto di vista simile allo spirito
assoluto hegeliano. Tuttavia non è legittimo rendere tale inevitabile prassi un privilegio non relativo
accordato ad un certo sistema. La consapevolezza delle caratteristiche della logica e della ricerca
filosofica mostra che lo stesso ordinamento che subordina tutto a sé non può porre, insieme, la
propria assolutezza perché non può cancellare il fatto che la propria costruzione sia sorta e si regga
proprio su determinate assunzioni che non sono, nel sistema, logicamente provate. Anche in Lewis,
dunque, si configura una sorta di eliminazione del cominciamento, ma diversamente da Hegel, ciò
non indica l’assolutezza del sistema rispetto ad uno qualsiasi dei momenti che lo compongono,
bensì la parità logica di ogni sistema473 che, conseguentemente, può confliggere con gli altri, nel
senso spiegato in precedenza, solo sul piano pragmatico474.
471
Cfr. ivi, p. 234-235.
Cfr. ivi, p. 271-273.
473
Cfr. ivi,
474
Cfr., per esempio, ivi, p. 239.
472
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Indico, qui, solo le riviste di che ho letto e utilizzato interamente. Per quanto riguarda i singoli articoli, altrimenti, si
trovano citati nella voce Testi.
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