L’empowerment del consumatore
di Ariela Mortara
Introduzione
Il concetto di potere del consumatore è diventato un tema assai
dibattuto nella società contemporanea. Da anni ormai si legge che il
consumatore ha acquisito finalmente una sua totale autonomia nelle
decisioni d’acquisto, che è un consumatore “maturo e consapevole”
(Fabris, 2003), che è ormai diventato troppo furbo per essere preso in
giro dalla pubblicità e dagli altri strumenti di marketing.
Partendo dall’assunto che il primo potere del consumatore risiede nella
possibilità di compiere delle scelte che siano libere, cosa che, a sua
volta, presuppone che agisca in un mercato libero, ciò comporta una
totale marginalizzazione di tutte le strategie che - negli anni, se non nei
decenni - le imprese hanno messo in atto per tentare di convincerlo
(raggirarlo o addirittura ingannarlo in maniera subdola, secondo alcuni,
Packard, 1957/2005) e portarlo a scegliere un prodotto piuttosto che un
altro di prezzo inferiore, a compiere acquisti di sostituzione
assolutamente non necessari, a renderlo soggetto al potere della moda e
all’incessante, e spesso inutile, miglioramento della tecnologia.
L’assunto della libera scelta, infatti, altro non è che un modo di
deresponsabilizzare le imprese a fronte della premessa che appunto,
l’individuo non è costretto in alcun modo (nel senso proprio del
termine, che implica una qualche forma di esercizio della violenza) a
compiere un atto d’acquisto.
In realtà non è propriamente così che vanno le cose. La libera scelta del
consumatore presuppone, infatti, l’esistenza di un individuo
perfettamente razionale, le cui azioni sono dettate dal principio della
riduzione del rischio e della massimizzazione dell’utile. Tuttavia, la
1
razionalità del consumatore è un principio prettamente teorico: anni di
ricerca nel mondo dei consumi hanno dimostrato che, accanto alle
motivazioni razionali, ci sono una serie di altre motivazioni. È dagli
anni ’30 del secolo scorso (Lazarsfeld, 1934) che si indagano “le
motivazioni profonde comuni a tutti gli individui e in grado di influire
sugli atteggiamenti e sulle decisioni d’acquisto dei consumatori”
(Codeluppi, 2005, p. 214), su cui far leva nelle comunicazioni
pubblicitarie.
Ma se è vero che l’individuo è spinto da motivazioni di tipo diverso e
se è vero che le tecniche di marketing e di comunicazione negli anni si
sono basate proprio su queste motivazioni profonde, che poco hanno a
che fare con la sfera razionale e molto invece con le pulsioni che
provengono dall’inconscio, è anche vero che, mai come in questi tempi,
i consumatori, o almeno una parte di loro, hanno la possibilità di
esercitare, con piena consapevolezza, quella libertà di scelta di cui si
diceva.
Potere o poteri del consumatore?
Il potere o non potere del consumatore rappresenta un tema
estremamente dibattuto nella letteratura che si è occupata, in modo più
o meno diretto, di consumo. Se i seguaci della Scuola di Francoforte
(Adorno, 1975; Horkheimer, Adorno, 1966, Marcuse, 1999) hanno
messo l’accento sulla posizione di inferiorità del consumatore, vittima,
come si è già accennato, del sistema capitalistico e delle tecniche di
marketing e di comunicazione messe in atto dalle imprese per indurlo
ad acquistare beni e servizi di cui non ha bisogno, gli studiosi
contemporanei sono più propensi a teorizzare che l’atto di consumo
altro non sia che un modo per resistere e per emanciparsi dal sistema
(Firat, Dholakia, 1998, Desmond, 2003). In questa visione
postmoderma, il consumatore ha in realtà un grande potere che esercita
quotidianamente e che è in grado di riequilibrare le tensioni che
esistono sul mercato.
Denegri-Knott et al. (2006) delineano una mappa concettuale che
comprende tre modelli teorici, sviluppati dai differenti punti di vista
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secondo cui, in letteratura, è stato affrontato il tema del potere del
consumatore.
Il primo modello è quello più tradizionale, a cui si è già accennato,
legato alla teoria economica classica e neoclassica, che vede il
consumatore sovrano che compie le sue scelte di consumo sulla base di
un agire puramente razionale. A questa corrente, che ha il suo più
prestigioso esponente in Adam Smith (1776/1975), si ascrivono fra gli
altri tutti gli autori che riconoscono al consumatore il potere di
boicottare le imprese (Friedman e Friedman 1990, Friedman 1991,
1996), quelli che sottolineano la sua capacità massimizzare l’utile
rispetto al costo (Nelson, 2002) o, ancora, che mettono in luce la
crescita e le attività del movimento consumerista (Nicoulaud, 1987).
Tutti questi punti di vista partono dal presupposto comune che un
insieme di consumatori ben informati è in grado di contrastare il potere
del produttore. Il mercato viene visto come un campo di battaglia in cui
vince chi detiene il potere. Nell’ipotesi della sovranità del consumatore
è a quest’ultimo, e non al produttore, che si ascrive il potere, dato che è
nelle sue mani la possibilità di acquistare o non acquistare.
Le applicazioni pratiche di questa forma di empowerment sono
perfettamente riscontrabili in quel tipo di consumo che viene definito
responsabile o etico (Bovone e Mora 2007, Mortara 2007) e che si
articola, per esempio, nella scelta di prodotti che provengono dal
commercio equo e solidale; nell’attuazione di azioni di boicottaggio nei
confronti delle imprese che non si comportano secondo dei principi di
etica o di responsabilità sociale (si pensi al boicottaggio di Nestlé, che
va avanti da trent’anni, alle azioni intraprese contro Coca Cola e
McDonald’s accusate di finanziare la guerra in Colombia e di
maltrattare i propri dipendenti, nonché di essere fra le principali
responsabili di uno dei mali del secolo: l’obesità infantile); ma anche
nel preferire aziende che dichiarano di essere socialmente responsabili
e che dimostrano di esserlo (Molteni, 2004). Si ascrive a questo
modello anche la rinnovata propensione al risparmio, testimoniata
dall’incremento del numero di punti vendita discount, non solo
alimentari (Indicod-Ecr, 2007); come pure la frequentazione dei
mercati rionali e degli outlet, che consentono al consumatore di
risparmiare notevolmente sugli acquisti, nonché il successo che
periodicamente riportano le vendite ai saldi (Fabris 2007).
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Il secondo modello è quello che individua delle aree di resistenza
culturale, da parte dei consumatori, nei confronti delle logiche
oppressive di mercato. In particolare, De Certeau (2001) riconosce nel
consumo una delle modalità con cui il cittadino può contrapporsi al
sistema. Egli teorizza il ruolo attivo dei consumatori e la possibilità che
hanno di opporsi effettivamente alle strategie delle imprese. Parecchi
autori mutuano da De Certeau la metafora del mercato come campo
della battaglia tra imprese e consumatori: si tratta di quelli che adottano
una visione postmoderna allo studio del consumatore, come fanno
Abercrombie (1994), Firat, Dholakia e Venkatesh (1995), e che
ritengono che il consumatore sia un individuo attivo e creativo che
riconosce il valore simbolico degli oggetti senza lasciarsi manipolare
dalle strategie di marketing delle aziende.
Secondo questo modello il potere del consumatore non è tanto quello di
contrapporsi al consumo e agli oggetti in quanto tali, ma piuttosto di
utilizzarli cambiandone il significato e adattandolo ai propri scopi.
Anche in questo caso non mancano le applicazioni pratiche. Si pensi al
fenomeno della counter advertising, una forma di comunicazione che
utilizza immagini e frasi pubblicitarie, ma ribaltandone il significato.
Tale tipo di comunicazione viene solitamente applicata per contrastare
la comunicazione di aziende o prodotti ritenuti dannosi (si pensi alle
multinazionali del tabacco). Ne esistono esempi legati al mondo della
moda, dell’alimentare e all’ambito farmaceutico (www.adbuster.org).
Questa forma di opposizione al potere delle imprese può assumere
anche delle modalità più estreme sotto l’aspetto di veri e propri
movimenti di resistenza e lotta nei confronti del massificato mondo del
consumo. Alcuni autori (Kozinets, Handelmann, 2004) hanno svolto
indagini empiriche sulle dinamiche interne ai gruppi di attivisti,
verificando la diffusione dell’idea che il sistema di consumo sia da
considerarsi un vero e proprio nemico, come pure il consumatore
medio, visto come una parte inscindibile dal sistema. Paradossalmente,
gli attivisti, da un lato si vedono come dei salvatori di questi inermi
consumatori, dall’altro considerano gli stessi come il nemico da
combattere.
Il terzo modello è quello che fa riferimento alla più ampia discussione
relativa alle modalità con cui gli scambi e le interazioni tra consumatori
e produttori contribuiscono a creare e a riprodurre il mercato. In
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quest’ottica non sono più validi i precedenti assunti: il consumatore non
è più sovrano e il mercato non è un campo di battaglia che vede
contrapposti consumatori e aziende produttive. In questo caso il potere
del consumatore risiede nella capacità di contribuire, liberamente, alle
logiche produttive.
Quest’ultima visione dell’empowerment del consumatore, oltre ad
essere meno conflittuale, sembra anche essere quella più diffusa. Il
modello della sovranità del consumatore attiene, infatti, a una fascia
ristretta di individui, quelli più legati a modi tradizionali di consumare.
Si tratta di individui che attuano le scelte di consumo sulla scorta di
motivazioni puramente razionali e che mal si adattano alla visione
contemporanea del consumatore postmoderno (Fabris 2003), ondivago,
eclettico alla ricerca di emozioni ed esperienze anche, e forse
soprattutto, nei luoghi di consumo (Codeluppi, 2000). Al contempo, il
modello di resistenza culturale presuppone una cultura “armata” del
consumatore e una propensione all’azione collettiva che, in Italia ad
esempio, non è ancora molto diffusa.
L’empowerment discorsivo (Denegri-Knott et al., 2006, p. 960)
comprende tutte le forme di cooperazione del consumatore che vanno
dalla logica del prosumer (Toffler, 1987) - che trova ampia
applicazione nel campo dello sviluppo dei prodotti tecnologici e di
intrattenimento come i videogame - alle più recenti applicazioni
all’interno, per esempio, delle brand community.
In particolare, la logica del prosumer prevede la partecipazione del
consumatore alle fasi di creazione di prodotti e servizi lungo tutta la
catena produttiva: in quest’ottica l’empowerment è inevitabilmente
connesso al concetto di collaborazione tra gli attori del mercato. In
risposta alle nuove esigenze dei consumatori che, dimostrando un
interesse reale per le pratiche di consumo, non si accontentano più di
ricevere un prodotto o un servizio “finito”, le aziende sono costrette a
mettere a disposizione degli acquirenti gli strumenti per personalizzare,
rifinire o completare ciò che hanno acquistato, arrivando addirittura a
consentire loro di rivenderlo. Si pensi al successo di punti venditi come
Home Depot, Brico e Castorama - che soddisfano la frangia di
consumatori propensi al fare del bricolage, più che un hobby, un modo
di vivere – o, ancora, al fenomeno Ikea, il colosso svedese che ha
rivoluzionato il modo di arredare le case andando incontro alle esigenze
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di creatività e personalizzazione, oltre che di risparmio, dei giovani e
delle giovani coppie1.
In un’ottica di marketing, il nuovo potere del consumatore contribuisce
anche a cambiare la valutazione di successo di un prodotto, che non
dipende più soltanto dalle sue performance e dall’eventuale valore
aggiunto attribuitogli dal potere della marca, o dall’investimento in
comunicazione, ma anche dalle possibilità che offre all’acquirente di
manipolarlo (Denegri-Knott et al 2006, p. 956), nell’ottica di una coproduzione cooperativa.
Infine, dal concetto di co-coperazione non si può prescindere se si
prendono in considerazione i casi di empowerment del consumatore
che sono legati a Internet.
Potere del consumatore e Internet
Le potenzialità del web, soprattutto nella logica del Web 2.0 (Prati,
2007), ovvero dell’utilizzo di nuovi strumenti che consentono la
partecipazione attiva degli utenti che intervengono e creano nuovi
contenuti, sono molteplici. Un primo effetto è la libera circolazione dei
dati indipendentemente dal sito da cui sono scaricati, o dall’individuo
che li origina, che permette agli utenti di acquisire, trasferire e
condividere informazioni nella logica dell’open-source (Guadagni e De
Tommaso, 2007). Questo ha un immediato effetto sulle pratiche di
consumo (Harrison, et. al. 2006) utilizzabili sia nella fase pre-acquisto
che nel post vendita.
Inoltre, la logica del Web 2.0 ha dato origine al proliferare di blog attualmente ne nascono circa 120 mila al giorno (Prati, 2007b) - che
sono una chiara testimonianza della volontà partecipativa
dell’individuo; come pure al successo di YouTube, dovuto al contributo
1
Un caveat a questo punto pare necessario: non è tutto oro quello che luccica! Se è vero infatti
che esistono frange di consumatori effettivamente convinti di poter affermare il loro potere
attraverso il trasporto, l’assemblaggio e la personalizzazione estrema del loro mobilio - e in
questo senso Ikea ha saputo cogliere un trend importante della società post-moderna - è
altrettanto vero che questo ha consentito all’azienda un notevole risparmio nella gestione del
magazzino (che tiene i pezzi non assemblati e quindi che occupano meno spazio), nel personale
(molto è basato sul libero servizio e recentemente anche sulla libera progettazione) e,
complessivamente, nel servizio offerto che è talvolta minimale.
6
spontaneo degli utenti e al loro desiderio di condividere i propri video
amatoriali (e non), liberi o protetti da copyright (nonostante questo sia
vietato dal regolamento, ma le verifiche avvengono solo ex-post), il
tutto nel nome della libera circolazione dell’informazione. Nell’ottica
del potere del consumatore, è particolarmente interessante il fatto che
sono proprio gli utenti che decretano la famosa classifica dei video più
visti: è il pubblico che inserisce il materiale da vedere ed è sempre il
pubblico a decidere cosa vedere.
Un altro esempio d’eccellenza è costituito da Myspace.com, il popolare
sito di social networking e comunità virtuale (esiste anche nella
versione .it) che consente ai propri iscritti di creare profili personali
specifici, nell’intento di trovare e comunicare con vecchie e nuove
amicizie. MySpace è una comunità internazionale costruita attorno a
una rete user-submitted di amici che contiene profili personali, blog,
gruppi, foto, musica e video; ha acquisito grande popolarità
specialmente nei paesi di lingua inglese ed è stato utilizzato, non solo
dai singoli utenti nell’ottica di trovare nuovi amici e condividere
esperienze, ma anche da gruppi musicali che sono stati lanciati dalla
community.
Infine, come non citare Wikipedia l’«enciclopedia online, a contenuto
libero, redatta in modo collaborativo da volontari e sostenuta dalla
Wikimedia Foundation, un'organizzazione non-profit» (AA.VV.,
2007). L’obiettivo che Wikipedia si è posta nel momento della sua
fondazione, nel 2001, è quello di fornire conoscenza nel maggior
numero possibile di lingue (circa 250 lingue differenti, di cui circa 180
attive) su argomenti che vanno da quelli di una tradizionale
enciclopedia, a temi tipici degli almanacchi, degli atlanti geografici e
dell’attualità. Si tratta di un sito molto visitato e rappresenta l’esempio
perfetto della modalità collaborativa: chiunque, infatti, può inserire una
voce o correggerne una esistente, utilizzando un sistema di modifica e
pubblicazione aperto. Il modello di sviluppo seguito è, infatti, di tipo
wiki, ovvero tipico di un sito web che consente liberamente di
aggiungere contenuto, come avviene in un forum, ma anche di
modificare il contenuto esistente e ovviamente, come tutti i sistemi
aperti, è soggetto a vandalismi e imprecisioni.
Come si può notare, la rete offre ampie possibilità alla logica
dell’empowerment collaborativo e ha contribuito notevolmente anche
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ad ampliare le possibilità dei consumatori di mostrare il loro interesse
nei confronti delle pratiche di consumo. A partire dalla partecipazione a
forum e a newsgroup relativi a prodotti e al modo migliore di
utilizzarli, per arrivare al mantenimento in vita di un prodotto ritirato
dal mercato e non più supportato dall’azienda, si pensi al ben
documentato caso del Newton della Apple (Muniz A. M. Jr., Hope J.
S., 2005), gli esempi sono molteplici.
Si pensi, per esempio, al ruolo attivo del consumatore nell’ambito delle
comunità di marca che si esplica nel controllo di variabili
tradizionalmente appannaggio delle imprese come il significato della
marca stessa. Alcuni autori hanno introdotto il concetto di “brand
hijack” (Wipperfürth 2005) per definire il fenomeno; lo “scippamento”
della marca avviene quando i consumatori si appropriano della marca,
sottraendola ai loro legittimi proprietari, gli uomini di marketing,
usurpandone il controllo. Wipperfürth identifica due livelli di
intervento: il primo, quasi casuale, avviene quando i consumatori, veri
fanatici della marca spesso appartenenti a specifiche subculture, si
appropriano della sua ideologia e della sua personalità in maniera del
tutto indipendente e incontrollabile dall’azienda.
Il secondo livello, invece, presuppone una forma di cooperazione con il
management aziendale che incoraggia gli appartenenti alle tribù a
creare nuovi significati per la marca (un po’ quello che ha fatto
Salomon, in occasione dell’immissione sul mercato di un nuovo tipo di
attacco per snowboard che si è rivelato inadeguato, quando ha richiesto
il contributo degli snowboarders per mettere a punto uno strumento più
efficace). L’impegno del consumatore, quindi, si articola in modi
diversi che vanno dal rafforzare la mitologia della marca attraverso lo
story telling (Muniz A. M. Jr., C. O’Guinn T. C. 2001), che
contribuisce all’arricchimento dell’immaginario di marca (Semprini,
1993, Mortara e Sinisi, V. 2005), alla passione nei confronti di un
prodotto di culto come Nutella che ha costretto Ferrero a dar vita alla
community MyNutella.com per contrastare il sorgere di comunità
spontanee che sfuggivano totalmente al controllo dell’azienda (Cova
and Pace 2005, 2006).
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Conclusioni
Samuelson (1947/1973) affermava che il consumatore è un re, dal
momento che grazie al denaro, o meglio, al modo di usarlo, può
ottenere che le cose vengano fatte secondo i suoi desideri. Ma la
questione vera a cui si deve rispondere è: i bisogni e i desideri del
consumatore che sono il motore delle sue scelte d’acquisto, quanto
sono liberi nel loro insorgere e quanto invece sono indotti dall’esterno?
In questo risiede il punto cruciale dell’empowerment del consumatore:
se si tratta di un reale potere o se, invece, non è altro che l’ennesimo
trucco esercitato dalle imprese per circuire l’individuo.
Si sarebbe portati a propendere per la prima delle due ipotesi, anche
tenuto conto dei numerosi, e sicuramente non esaustivi, esempi che
sono stati citati e che tendono a confermare come il ruolo del
consumatore nel processo di consumo sia divenuto da meramente
passivo, ad, almeno in parte, attivo. Infatti, forse per la prima volta
nella storia, il consumatore ha gli strumenti per esercitare un potere che
non si limita ad essere il potere d’acquisto, circoscritto all’ultima fase
del ciclo produzione/consumo, ma che interviene addirittura nella fase
di ideazione del prodotto/servizio. Mai come in questi tempi, infatti, gli
individui hanno accesso alle informazioni e hanno a disposizione
strumenti sia tecnici, sia culturali per agire sul mercato.
Alla luce delle diverse prospettive teoriche citate, sembra che esistano
nella società contemporanea diverse vie attraverso le quali il “nuovo
consumatore” può esercitare il potere da poco acquisito e che la scelta
della strada da seguire e del rapporto più o meno conflittuale o,
piuttosto, collaborativo, dipenda dal sistema di valori dei singoli oltre
che dalle risorse materiali o culturali di cui loro dispongono.
E proprio le ultime parole della frase precedente inducono a concludere
con un importante caveat o, se si preferisce, con la considerazione che
esistono dei limiti concreti all’empowerment del consumatore. Il
fenomeno, infatti, in tutte le sue diverse accezioni, presuppone delle
risorse materiali e culturali che, anche in quest’era di accentuata
globalizzazione e progressiva omogeneizzazione della popolazione del
pianeta, non sono equamente di diffuse.
Da un lato, infatti, esistono interi popoli che si affacciano solo ora alla
modernità e sono caratterizzati da condizioni economiche di sussistenza
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oltre che dall’impossibilità di accedere ai quei mezzi di comunicazione
che sembrano indispensabili per esercitare il “consumer power” in tutte
le sue forme. D’altro lato, anche nelle aree più evolute, esistono sacche
di popolazione che appaiono “tagliate fuori” dal fenomeno che stiamo
considerando e probabilmente resteranno tali ancora per uno o due
generazioni (si pensi solo ai recenti immigrati - legittimi o clandestini
che siano - in Europa o negli Stati Uniti).
A fianco dei consumatori “empowered” esistono quindi anche
consumatori che restano ai margini della società contemporanea, anche
da questo punto di vista, e non è detto assolutamente che i primi siano
numericamente prevalenti.
Alla luce di quanto considerato appare probabile che:
a) come è già avvenuto per le attività che implicano fatica fisica e
rischi alla salute e all’incolumità dei lavoratori, anche le
tecniche di marketing di vecchio stile (quelle che considerano il
consumatore come un “oggetto” passivo da manipolare,
convincere e spingere all’acquisto a tutti i costi) migreranno
verso i paesi in via di sviluppo;
b) nei paesi pienamente sviluppati, le imprese che producono beni
e servizi (specie di prima necessità) portino avanti almeno due
diverse strategie e si presentino, ad alcuni come “illuminate”,
“aperte” e collaborative e ad altri con la loro vecchia immagine
di onnipotente e dittatoriale protagonista del processo di
consumo.
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