NOIR NELLA STORIA 1 ARISTOTELE E I VELENI DI ATENE Margaret Doody Titolo originale: Aristotle and the poison in Athens Traduzione di Rosalia Coci © 2004 Margaret Doody © 2004 Sellerio Editore, Palermo © 2013 Edizione speciale per il Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A. Pubblicato su licenza di Sellerio Editore, Palermo Gruppo Editoriale L’Espresso S.p.A. Via C. Colombo 98 - 00147 Roma la Repubblica Direttore Responsabile: Ezio Mauro Reg. Trib. Roma n. 16064 del 13/10/1975 L’Espresso Direttore Responsabile: Bruno Manfellotto Reg. Trib. Roma n. 4822 del 16/09/1955 Design di copertina: Marco Sauro per Cromografica Roma s.r.l. Impaginazione: Cromografica Roma s.r.l. LA BIBLIOTECA DI REPUBBLICA-L’ESPRESSO Capitolo I Agenti e meccanismi «Si celebra un processo all’Areopago», disse Aristotele. «Sono convinto che potrebbe farti piacere andarci. Un caso di ferimento premeditato – potrebbe essere interessante. A dire il vero, apparentemente è solo il caso di due cittadini che hanno fatto a pugni in un bordello per una concubina». «A essere sincero, non è abbastanza interessante», dissi – con un’espressione poco felice. In realtà non mi andava di pensare al tribunale più antico e più importante di Atene, dopo la mia esperienza all’Areopago qualche anno prima. Era vero, però, che questo pasto rappresentava una buona scusa. Eravamo seduti a cena nel mio andron, la stanza più bella della casa; questo ambiente riservato agli uomini fungeva da sala da pranzo, come si conviene quando si hanno ospiti estranei alla famiglia. Sin da bambino avevo considerato questo luogo la nostra “stanza migliore”. Tuttavia, mi rendevo conto adesso che il mio andron appariva misero, con la pittura sui muri scheggiata e sbiadita. Su una delle pareti c’era una piccola crepa. Le gambe di alcuni tavoli erano vistosamente coperte di polvere, e altri piccoli segnali rivelavano l’assenza in casa di domestici di vista acuta. Adesso che pensavo seriamente di sposarmi, i difetti della mia amministrazione domestica erano più evidenti – e più irritanti. Mi resi conto – troppo tardi – che non avrei dovuto invitare il Maestro del Liceo a casa mia per 3 cenare con me. In questo periodo, la tarda primavera precedente al mio straordinario viaggio in Oriente, la moglie di Aristotele, Pitia, non era stata molto bene. Perciò, offrirgli un pasto mi era sembrato un gesto gentile. La donna era semplicemente in attesa di un bambino, ma le cose non procedevano bene come ci si aspettava, e Aristotele era un po’ preoccupato. La mia intenzione era quella di tirarlo su di morale. Avevo anche invitato, com’era doveroso, Teofrastos, il braccio destro del Maestro. Che fortuna che quell’uomo austero e pignolo avesse rifiutato! Egli si trovava entro le mura della città, ma in visita ad un altro ex studente. Il mio invito era scaturito d’impulso, senza che ne parlassi a casa. E ora pagavo per essermi scordato che l’assenza di mia madre aveva privato la cucina del suo capitano. Mia madre Eunice, figlia di Diogitone, si era trasferita nella nostra fattoria per qualche giorno, ricavandone il beneficio di un po’ d’aria pura (e l’opportunità di controllare il comportamento di tutta la servitù e le provviste). Vedova da circa tre anni, sapeva essere benevolmente arrendevole, o esprimere benevolmente le sue lagnanze, ma sapeva anche incutere timore. Mio padre Nichiarco, di famiglia nobile benché non delle più facoltose, era riuscito a spendere una gran quantità di denaro prima di morire, in età relativamente giovane; la nostra famiglia si trovava in condizioni finanziarie più precarie di quanto avrei desiderato. Pertanto, era un peccato che la famiglia di mia madre, oltre ad essere aristocraticamente fiera della propria discendenza diretta dal fondatore di Atene, Eretteo, non fosse anche benestante. Ovviamente, tutti ad Atene – eccetto gli stranieri come Aristotele – discendono da Eretteo, oppure da Teseo o da Oreste. Non tutti, però, sono in grado di tracciare la propria genealogia in maniera così esatta – cosa di cui la famiglia di mia madre si vanta – o di ereditare la capacità di addomesticare i serpenti. Era una vera disdetta che il loro ramo di una famiglia così insigne avesse tralasciato di fornirmi qualche parente maschio influente. 4 Mia madre non ha mai tentato (per quanto ne so) di addomesticare dei serpenti, ma sarebbe in grado di farlo, se proprio fosse costretta. È senza dubbio capace di tenere in riga la servitù di casa. Ad ogni modo, ieri aveva portato con sé in campagna i nostri due schiavi migliori – me n’ero accorto troppo tardi. E io non avevo alcuna attitudine alla gestione della casa, benché in quel periodo, in cui pensavo al matrimonio, mi fosse balenato in mente che avrei dovuto cominciare ad interessarmi di più alla nostra famiglia. Tali buoni propositi non avevano ancora prodotto alcun frutto, almeno non questa sera. Non solo mi ero scordato di fare spese, ma non avevo nemmeno specificamente ordinato di farle. Eravamo alla mercé di quanto la casa aveva da offrire, secondo il giudizio dell’unico servitore rimasto, lo schiavo più inefficiente. Quanto offriva la casa per la serata alla fine fu una minestra molto brodosa e tiepida, del pane secco, tre minuscoli pesci essiccati accompagnati da un po’ di sedano (sorprendentemente floscio per la vecchiaia), e per finire qualche noce e dei fichi secchi. Era tarda primavera, l’estate era prossima, e certo non ci si poteva ancora aspettare la frutta migliore, ma sicuramente si sarebbe potuto offrire qualcosa di meglio di questi fichi dall’aria polverosa, e di qualche noce decrepita che aveva visto giorni di gran lunga migliori. Inoltre, anche solo portare questo modesto pasto nell’andron richiese una quantità di tempo esorbitante. Se solo quei due schiavi che erano andati alla fattoria a prendere provviste fresche fossero tornati in tempo per la cena! L’unico servitore rimasto non aveva mai considerato i lavori di cucina il suo forte. Il vino fu servito da una vecchia brocca scheggiata, in due coppe alquanto scompagnate. «Me la passerò meglio», dissi, «quando avrò più schiavi. Ci serve più aiuto in casa. Come vorrei che la cena si cucinasse e si servisse da sola!». «Non sei il primo a desiderare una cosa simile», commentò Aristotele. «Ricordi cosa dice Omero nell’Iliade, quando descrive il dio Efesto al lavoro nella sua casa di bronzo? Efesto forgiò venti tripodi progettati per correre 5 ovunque su delle ruote d’oro, in modo da poter entrare e uscire da soli dal grande salone degli dei ad una sua semplice richiesta: “meraviglia a vedersi”.1 Senza dubbio Omero pensava che sarebbe stato grandioso avere degli oggetti che si muovessero da soli, che agissero spontaneamente! È per questo che concesse quel dono agli dei». «Ci risparmierebbe sicuramente un mondo pieno di seccature», osservai. «Oh, sì – sarebbe un mondo completamente diverso! Se le spolette al telaio facessero avanti e indietro da sole, o se i plettri sapessero suonare la cetra per conto loro – diamine, allora gli artigiani non avrebbero bisogno di operai, e nessun padrone avrebbe bisogno di uno schiavo. La schiavitù scomparirebbe. Il mondo sarebbe totalmente mutato». «Ma questo non accadrà. Tutti noi abbiamo bisogno di schiavi come nostri strumenti. E, dopo tutto, in Omero gli oggetti sono frutto di un’invenzione – non sono belli e fatti. In realtà non vediamo i tripodi magici, ma solo il muscoloso e claudicante Efesto tutto sudato tra il fragore delle sue incudini. Un aspetto ben misero per incontrare la dea Teti quando viene a trovarlo!». «Osservazione acuta e garbata». «Quei tripodi che si muovono da soli», continuai, «non sono interessanti come gli altri oggetti dotati di movimento autonomo che forgiò Efesto. Le statue d’oro in forma di fanciulle». «Giustissimo. E lì ha superato se stesso, come tu suggerisci, perché quelle domestiche d’oro hanno una mente, oltre ad essere in grado di muoversi da sole: avevano mente nel petto, e avevano voce e forza.2 «Creare oggetti che sanno pensare e parlare mi sembra più prodigioso che creare oggetti dotati solo di movimento. Creature davvero divine. Per quanto, quelle deliziose fanciulle di metallo sono solo un sostegno per la sua debolezza. Vegliano sui suoi passi malfermi sorreggendolo ognuna ad un fianco». 6 «È quasi triste», osservai oziosamente. «Le fanciulle di metallo non potevano essere altrettanto belle di quelle di carne. Forse il dio zoppicante le creò perché viveva con la dorata Afrodite, e lei lo ignorava». «Come sei brillante stasera, Stefanos», scherzò Aristotele. «Come dici tu, Omero ci descrive il dio claudicante affaticato e sudato in maniera molto colorita. La sua abilità nel creare servitori dotati di movimento, e persino queste schiave di metallo che comprendono il linguaggio umano, non gli ha procurato né riposo, né felicità». «Ma per noi è impossibile – noi non siamo dei. Dobbiamo fare affidamento su domestici e schiavi». «È proprio vero. Sebbene nel corso del tempo ci siamo evoluti in tutte le arti meccaniche e abbiamo inventato congegni nuovi, continuiamo ad avere bisogno di strumenti capaci di una forma rudimentale di pensiero. E sono gli schiavi a fornirceli. Beni utili, strumenti vivi, non di metallo, ma di carne e sangue, che mettono in pratica la volontà del padrone. Gli schiavi sono i meccanismi migliori, attivi e versatili, sotto il controllo di qualcun altro. Animali e uomini sono gli unici veri automata, le uniche creature che si muovono davvero da sole, di loro volontà. Con “dotati di movimento autonomo”, però, noi di solito intendiamo esseri che si muovono per loro scelta e volontà. In questo senso gli schiavi non sono dotati di un vero e proprio “movimento autonomo”, poiché noi li possediamo come possediamo una zappa o una lampada – o come Efesto possiede i suoi tripodi. Solo gli uomini liberi possono muoversi davvero in maniera autonoma». «A meno che non si annoverino tra quelli oggetti come quei piccoli burattini con cui qualcuno mette su degli spettacoli. Io li adoravo quando ero bambino – credevo davvero che potessero muoversi». 7