CAPITOLO 2
IL VILLAGGIO
PLANETARIO
02_capitolo.indd 35
16/04/12 08:52
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
02_capitolo.indd 36
16/04/12 08:53
J
ohn A. Wheeler, il noto fisico americano, ha detto una volta che «noi siamo i
discendenti della palla di fuoco che diede
origine al presente stadio dell’Universo». Almeno, questa è l’opinione più diffusa in una cosmologia ancora alquanto mitologica. Sembra però fuor
di dubbio che la nascita delle stelle e dei pianeti sia stata
(e seguiti a essere) un evento drammatico come la nascita degli
animali e dell’uomo. I medici sanno che quando si nasce il nostro
corpo subisce tremende sollecitazioni meccaniche e traumi ambientali. Negli interventi ostetrici si può esercitare col forcipe una
trazione equivalente a 50 kg, pari a 15 volte il peso del bambino.
Nessun adulto potrebbe resistere a una corrispondente trazione
sulla testa di una tonnellata. Inoltre, per il brusco mutamento di
ambiente, le funzioni organiche del bambino si trasformano. Pare
sia molto più facile abituarsi a una vita da astronauta che nascere.
E nascere a fatica, in mezzo a mille tormenti e pericoli, si direbbe
una regola universale tanto per gli esseri viventi che per le cose
inanimate.
L’esempio più notevole, quasi a portata di mano, è la nostra
Luna con la sua superficie butterata di crateri e di «mari» ben visibili a occhio nudo. Anche tutti gli altri pianeti rocciosi e simili alla
Terra, come Mercurio, Venere e Marte, hanno subito nascendo le
medesime traversie e portano anch’essi i segni dei crateri scavati
dalla caduta di meteoriti. Se sulla Terra queste martellate originali
non si vedono più, è perché sono state cancellate dall’erosione
esercitata per centinaia di milioni d’anni dall’acqua e dai venti.
Tuttavia, si sono scoperte molte tracce di crateri più recenti detti
«astroblemi», cioè ferite stellari (dal greco astér, astro; e blema,
che significa colpo di freccia o ferita). Sono crateri dalla struttura
circolare e molto erosi, alcuni dei quali vennero prodotti 200 o 300
milioni d’anni fa, dalla caduta di grossi meteoriti. Esempi sono il
Manicouagan Lake e il Clearwater Lake nel Canada, che all’inizio
dovevano misurare un diametro di 65 e 32 km rispettivamente.
Ancora fresco e molto ben conservato è il famosissimo Meteor
Crater dell’Arizona, il quale ha un diametro di circa 1300 metri. Si
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 37
02_capitolo.indd 37
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
stima abbia un’età inferiore ai 100.000 anni, e venne scavato da
un meteorite che, secondo Ernst J. Opik, doveva avere una massa
di 2,6 milioni di tonnellate.
Meteoriti così grossi cadono una volta ogni 10.000 o 100.000
anni (che è appunto l’età del Meteor Crater), mentre quelli via via
più piccoli cadono molto più di frequente: si possono citare il bolide che il 10 agosto 1972 sfiorò da poco più di 50 km di altezza
alcune regioni degli Stati Uniti e del Canada, e venne fotografato
e ripreso con videocamere amatoriali da centinaia di persone, e
il meteorite roccioso che, frammentandosi prima della caduta, ha
prodotto numerosi piccoli crateri l’8 marzo del 1976 nella provincia orientale cinese di Kirin. Lincoln La Paz ha calcolato che un
meteorite potrebbe colpire un uomo una volta ogni 300 anni, ma
le cronache registrano soltanto 5 o 6 casi di «morte da meteorite»
in tutta la storia. Negli ultimi anni si sono avuti in media 4 casi
comprovati di cadute di meteoriti piccole o medie ogni anno, con
ritrovamento del campione e successivo studio e conservazione in
collezioni private o musei. ••1-2
Non c’è dubbio che, sebbene oggi lo spazio interplanetario sia
molto meno polveroso di quando i pianeti si formarono dalla nebulosa primitiva, esso sia ancora abbastanza ricco di detriti più o
meno antichi di ogni dimensione: da quelli asteroidali a polveri più
fini della cipria. I residui più vecchi sono stati quasi tutti spazzati
via dai pianeti nel corso di miliardi d’anni, mentre le collisioni fra
gli asteroidi, e le comete quando si avvicinano al Sole, immettono
nello spazio sempre nuovo materiale. La Terra nella sua orbita ne
38
02_capitolo.indd 38
••1 A sinistra, il Meteor
Crater in Arizona. Questo
cratere è uno dei meglio
conservati sul nostro
Pianeta, ha un diametro di
1,3 km e una profondità di
175 metri. È stato prodotto
da un meteorite grande
appena una trentina di
metri, caduto circa 35.000
anni fa. (NASA, M.WADHWA)
••2 A destra, frammento
di meteorite. I meteoriti
sono generalmente
residui del Sistema
solare primitivo. Qui
vediamo un frammento
del meteorite Tenham,
caduto in Australia nel
1879 frammentandosi
entro un’area di chilometri,
che viene classificato
come condrite. Per ragioni
espositive e di studio,
spesso i meteoriti vengono
tagliati in sottili sezioni in
modo da poter studiare la
struttura interna, come in
questo caso.
(J. TAYLOR, WIKIMEDIA COMMONS)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••3 Crateri meteoritici
sulla Luna. Il cratere
presso il bordo lunare
è intitolato a Guglielmo
Marconi (sopra
l’antenna), mentre i due
crateri maggiori sono
Chaplygin (al centro) e
Schliemann (in basso).
Questa impressionante
veduta è stata ripresa
dal finestrino del LEM, il
modulo di discesa in cui
gli astronauti dell’Apollo 13
si erano rifugiati, mentre
sorvolavano la faccia
nascosta della Luna. In
tale drammatica missione,
infatti, il modulo principale
dell’astronave era esploso
prima di raggiungere la
Luna, per cui gli astronauti
rinunciarono allo sbarco
lunare e riutilizzarono
invece il LEM come
«scialuppa di salvataggio»
per ritornare sul nostro
pianeta. (NASA ALSJ)
raccoglie qualcosa come 43 o 44 tonnellate al giorno, pari a circa
16.000 tonnellate ogni anno, compresi i residui di comete. Le dimensioni di un cratere dipendono dalla massa, dalle dimensioni, e
dalla velocità del meteorite. Più esattamente, siccome l’attrazione
gravitazionale dei corpi celesti varia a seconda della loro massa, e
dato che un meteorite può arrivare da qualsiasi direzione, lo stesso
meteorite può avere differenti velocità di impatto sui vari pianeti,
formando crateri di dimensioni diverse. Quando il meteorite penetra nel suolo crea una formidabile pressione, deformandolo come
un fluido. Gli strati del suolo, che prima erano piatti, vengono sospinti in alto e in fuori come i petali di un fiore che si apra. Non
appena formato, il cratere, oltre a un bordo che si innalza ripido,
mostra segni di rocce percosse e frantumate, e pieghe che altro
non sono se non deformazioni plastiche di masse rocciose stratificate, che prima erano disposte orizzontalmente.
Sulla Luna, o su un pianeta senza atmosfera o quasi come
Mercurio, simili catastrofi e collisioni avvengono (almeno nel caso
dell’impatto di grossi meteoriti) come esplosioni luminose, ma nel
più assoluto silenzio. ••3
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 39
02_capitolo.indd 39
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
I sismografi piazzati sulla Luna, e in seguito pure quelli depositati dai Viking su Marte, registrarono gli impatti anche di piccoli
meteoriti, come quelli piovuti sulla Luna dal primo gennaio 1973
al 13 luglio 1975. In quell’intervallo di 924 giorni si sono contati
815 impatti. In certi periodi i meteoriti sono piovuti più numerosi,
come nel giugno del 1975, quando, in una decina di giorni, si sono
contati 29 impatti.
In questo caso, si pensa che la Luna abbia incontrato nella sua
orbita una «nube» di meteoriti avente un diametro di circa 0,1
U.A. (U.A. è l’abbreviazione di Unità Astronomica, con la quale si
intende la distanza Terra-Sole, pari a circa 150 milioni di km. Viene usata come unità di distanza nel Sistema solare). Precisiamo
che una «nube» di meteoriti, non significa un qualcosa di molto
consistente, ma piuttosto una specie di sciame di moscerini, separati l’uno dall’altro anche da centinaia di chilometri. I 29 meteoriti
appartenenti a questa nube caduti sulla Luna si stima pesassero
in totale 320 kg, con una massa media di circa 11 kg.
A questo punto, viene spontaneo domandarsi cosa succederebbe se una nave spaziale con una sezione traversale di 1 km2
attraversasse una tale nube meteoritica, con una velocità rispetto
a questa di 20 km/s. Anche se la maggioranza dei meteoriti hanno una densità di appena 3 volte quella dell’acqua, è certo che
sarebbe pericoloso incontrare sassi di questa specie. Viaggiando
dentro la nube, però, ci sarebbe una probabilità di collisione solo
una volta ogni 9000 anni, e perciò non sembra necessario preoccuparsi di questo problema.
COME NACQUE (FORSE) IL SISTEMA SOLARE
Come abbiamo accennato, questi proiettili cosmici sono in maggioranza di origine recente e prodotti da collisioni di asteroidi situati specialmente fra Marte e Giove, oppure dalla disgregazione delle
comete. Quando i pianeti si formarono erano assai più numerosi…
e tutto ebbe inizio da una nebulosa ruotante costituita di gas e polveri, simile a quella che si vede anche con un piccolo telescopio
nella costellazione di Orione. A causa della rotazione, i gas e le polveri della nube si dispersero su un disco, con al centro una massa
che poi sarebbe diventata il Sole. Intanto, i granelli di polvere si
aggregavano via via in corpi sempre più grandi. Dapprima questi
aggregati erano simili a fiocchi di neve, ogni granellino essendo
avvolto di ghiacci e altri composti volatili; in seguito, o si dispersero evaporando, o riuscirono a condensarsi in corpi grossi come i
meteoriti, gli asteroidi e infine i pianeti. Ma perché tutti questi corpi
sono diversi sia per dimensioni che per aspetto e composizione?
40
02_capitolo.indd 40
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••4 L’origine del Sistema
solare. I modelli teorici che
descrivono la formazione del
Sole e dei pianeti ipotizzano
la condensazione di una
nube di polveri e gas, dotata
di moto rotatorio, in uno
sciame di corpi che, in
seguito a continui processi di
aggregazione, incrementano
via via la loro massa dando
origine ai pianeti. La
condensazione centrale,
essendo molto più massiccia,
è destinata a produrre nel suo
interno temperature di milioni
di gradi tali da innescare
reazioni nucleari, generando
così il nostro Sole.
Questo disegno rappresenta
uno scenario evolutivo
che è oggi confermato
dall’osservazione telescopica.
Infatti, in alcune regioni
della Via Lattea ricche di
formazione stellare, sono
stati scoperti numerosi dischi
protoplanetari (detti anche
proplìdi), al centro dei quali è
anche visibile la protostella in
formazione. (NASA IMAGES 113035)
Infatti, Mercurio, Venere, la Terra, Marte e gli asteroidi sono di tipo
«roccioso», mentre i pianeti detti «giganti», quali Giove, Saturno,
Urano e Nettuno, sono in prevalenza gassosi.
Il fatto è che, vicino alla massa centrale della nebulosa dove il
Sole si andava formando, la temperatura permetteva l’aggregazione di oggetti costituiti da elementi con altissimo punto di ebollizione come i metalli. Invece, più lontano e alla periferia della
nebulosa, dove, alla distanza di Plutone, la temperatura si abbassava fin oltre i -200 °C, intorno ai nuclei rocciosi di tipo terrestre si
potevano aggregare allo stato solido gli altri elementi volatili come
l’acqua, l’ammoniaca, il metano. ••4
Questi corpi diventarono tanto grossi da attrarre anche grandi
quantità di elementi volatili e leggeri come l’elio e l’idrogeno, che
finirono anzi per comporre la maggior parte della loro massa. Quella di Giove equivale a ben 317,9 masse terrestri, quella di Saturno
a 95, Urano a 14 e Nettuno a 17. Frattanto, la massa centrale di
gas caldi collassava sotto il proprio enorme peso, dando origine
al Sole, che a quel tempo era simile a una di quelle stelle dette T
Tauri, immerse in vaste nubi di polveri e gas, in gran parte espulsi
dalle stelle medesime, ancora in formazione e alla ricerca di un
equilibrio fra pressione interna e massa gravitante.
Cerchiamo di descrivere la nascita della Luna e della Terra. Le
indagini più recenti ci dicono che la composizione chimica dei
due corpi è più simile di quanto si pensasse, il che forse favorisce
l’ipotesi che la Luna sia nata accanto alla Terra, e non nella parte
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 41
02_capitolo.indd 41
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
del Sistema solare più vicina al Sole, per essere poi catturata dal
nostro pianeta. Quest’ultima era l’opinione di coloro che si basavano, appunto, su una composizione chimica della Luna più ricca
di elementi quali l’alluminio, il calcio, l’uranio della Terra e sulle
dimensioni medesime del nostro satellite. Infatti, il diametro della
Luna è circa la metà di quello della Terra, non per nulla si dice
che la Terra e la Luna formano piuttosto un pianeta doppio. Solo
Plutone ha anch’esso un satellite, Caronte, il cui diametro è circa
la metà del diametro del pianeta.
Ecco la sequenza di eventi che si suppone si sia verificata.
All’attuale distanza della Terra dal Sole, e all’interno della grande
nube originaria del sistema planetario, esisteva una piccola nube
in rapida rotazione, simile ad altre nubi secondarie poste nei punti
dove sarebbero nati gli altri pianeti. La nube del sistema TerraLuna, nel raccogliersi in un globo più denso, aveva lasciato indietro un inviluppo di elementi più leggeri, di polveri, meteoriti e gas,
i quali finirono per aggregarsi in un anello. Il tutto era avvolto da
una spessa atmosfera di idrogeno ed elio con piccole quantità di
acqua, metano e altri gas. In questo periodo, circa 4,5 miliardi di
42
02_capitolo.indd 42
••5 Ricerche geologiche
sulla Luna. La missione
Apollo 17 è stata l’ultima
delle esplorazioni umane
sul nostro satellite, con il
più complesso programma
scientifico. Qui vediamo il
geologo Schmitt, accanto
al lunar rover, sull’orlo del
cratere Shorty. Poco a sinistra
del rover, alla base di una
montagnola, si nota una
zona dove il terreno ha colore
rossiccio. Alcuni campioni
sono stati riportati sulla Terra
e al microscopio si è visto che
il colore rossastro è dovuto
a microsferule di sabbia
vetrificata. Questo indica la
presenza di attività vulcanica,
successiva alla formazione
dei primi crateri meteoritici.
(NASA APOLLO IMAGE GALLERY)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
anni fa, la Terra, o meglio, la proto-Terra, assomigliava a Saturno,
ma naturalmente non c’era nessuno che la potesse osservare: il
sistema planetario era come un’officina sovraccarica di fumi, polveri e detriti, e il Sole era ancora invisibile.
La complessa avventura della «gestazione» si sarebbe svolta in
un buio totale, se fra gas e polveri nebulari e tutto intorno alla Terra
non ci fosse stato un quasi ininterrotto lampeggiare di scariche
elettriche. Inoltre, un’infinità di proiettili piccoli e grandi squassava
la Terra, mentre dalla giovane crosta ribollente si levavano fontane
di lava. Intanto, il disco che circondava il nostro pianeta non era
più come un anello, ma si era raggruppato in numerose lune più
o meno grandi: qualcosa di simile alle numerose lune di Giove e
di Saturno.
Considerate tutte insieme queste lune dovevano avere una massa assommante allo 0,01% della massa della Terra, in confronto
a meno dello 0,001 per mille, dei satelliti dei pianeti giganti. La
conseguenza fu che le forze d’attrazione mareale esercitate dai
primitivi satelliti della Terra erano molto più forti. Ammettiamo dunque che a un certo stadio dello sviluppo esistessero diverse lune
terrestri. La più grossa fra esse, avrebbe «inghiottito» la maggior
parte degli altri satelliti. Quelli sopravvissuti e lasciati indietro sarebbero stati gradualmente eliminati dalle perturbazioni gravitazionali prodotte dalla luna maggiore. Questo è il risultato che si
ottiene dalla soluzione del problema più complesso della meccanica celeste, il cosiddetto «problema a molti corpi», problema
che si può risolvere numericamente grazie ai moderni calcolatori
elettronici. Oggi è possibile ricostruire al computer anche un altro
possibile scenario di formazione della Luna, che sta riscuotendo
un crescente consenso dagli esperti. La Terra primordiale appena
formata, inizialmente isolata, sarebbe stata colpita da un colossale asteroide. Tale asteroide avrebbe squarciato la Terra senza
distruggerla, disintegrandosi e proiettando un’enorme quantità di
materiale (di origine anche terrestre) in orbita attorno al nostro
Pianeta. Da questa grande massa di detriti si sarebbe poi rapidamente condensata la Luna. ••5
Le collisioni, le aggregazioni di materiale piccolo e grande che
aveva formato i pianeti come la Terra e un satellite come la Luna,
caratterizzarono anche il periodo immediatamente successivo alla
nascita. Ai bombardamenti di meteoriti che avevano fuso la superficie della Terra e della Luna fino a una profondità di alcune centinaia
di chilometri, qualcosa come 4 miliardi d’anni fa, ne seguirono altri
che sconvolsero di nuovo una crosta appena consolidata. Fu la
tempesta che butterò la Luna quasi come la vediamo oggi, e ne
rifuse le rocce più superficiali. Enormi crateri si riempirono di lave
e crearono quei mari, visibili anche a occhio nudo, quale il Mare
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 43
02_capitolo.indd 43
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Nectaris, Humorum e Crisium, che quindi avrebbero un’età di circa
4 miliardi d’anni. Analoga sorte toccò pure alla Terra, ma mentre
questa cancellò presto ogni traccia per l’azione erosiva della sua
atmosfera e specialmente per la sua plasticità derivata dal forte
calore interno, il nostro satellite, più piccolo, più freddo, più rigido
e senza atmosfera, ne ha fedelmente conservata tutta l’evidenza.
Circa 4 miliardi di anni fa avvenne dunque il secondo e ultimo grande bombardamento che colpì indiscriminatamente tutti
i pianeti più interni del Sistema solare con proiettili di cui non
sappiamo esattamente né il luogo di provenienza, né le perturbazioni che li spinsero verso il Sole, né la catastrofe che li produsse.
Tuttavia, sappiamo che Giove e Saturno, ma soprattutto Giove, a
motivo della loro massa, sono quelli che dirigono il «traffico» del
sistema planetario, e, a seconda della direzione di marcia e della
velocità dei corpi che si avventurano nelle loro vicinanze, possono
scagliarli verso i pianeti più interni o addirittura al di fuori del Sistema solare. Quindi, è probabile che gli avvenimenti che coinvolsero
o addirittura scolpirono i pianeti «terrestri» e la Luna siano stati
determinati da Giove.
A questo punto si potrebbe concludere il già lungo paragrafo
dando per certo che il Sistema solare si sviluppò proprio come si
è accennato. Invece, dobbiamo sottolineare quel (forse) messo fra
parentesi nel titolo, perché la scienza persegue la verità fra mille
dubbi e correggendosi di continuo.
In realtà, sono state avanzate due critiche piuttosto serie all’ipotesi nebulare. La prima concerne il modo in cui il sistema planetario venne «ripulito» da polveri, detriti e gas non raccolti dai pianeti.
Finora si pensava che la «scopa» adatta fosse stata la materia
espulsa energicamente dal Sole sotto forma di «vento solare» all’inizio di quel suo stadio evolutivo detto T Tauri. Gli astronomi inglesi
M. J. Handbury e I. P. Williams hanno tuttavia calcolato che, pure
ammettendo che il Sole, in quel periodo, emettesse 10.000 miliardi di tonnellate di materia al secondo, come effettivamente fanno
certe stelle T Tauri, è difficile che sia stato in grado di «spazzare»
il Sistema solare e, quindi, è necessario che i teorici scoprano un
meccanismo diverso.
La seconda critica è stata avanzata dagli americani David C. Black
e Peter Bodenheimer. In un articolo apparso sull’«Astrophysical
Journal» (la più famosa rivista specializzata in astrofisica) essi sostengono che dal collasso di una nube interstellare non si può
formare una nebulosa solare, cioè un disco appiattito da cui poi
dovrebbero nascere i pianeti, conservando una massa principale
che darebbe origine al Sole. Infatti, a causa della rapida rotazione,
la nebulosa si trasformerebbe in una specie di ciambella quasi
vuota nel mezzo, senza nessuna possibilità che vi si possa formare
44
02_capitolo.indd 44
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
una stella come il Sole. Però queste previsioni sono contraddette
da osservazioni che mostrano l’esistenza di stelle ancora circondate da una nebulosa a forma di disco, molto più estesa della stella
e molto più fredda. La prima nebulosa proto planetaria è stata
scoperta attorno a una stella simile al Sole, Beta Pictoris, ed è stata osservata col telescopio da 3,6 metri dell’osservatorio europeo
dell’emisfero australe, occultando con uno schermo la luce della
stella. Il disco si estende fino a circa 400 volte la distanza TerraSole, circa 10 volte la distanza di Plutone dal Sole.
Poi numerose altre nebulose proto planetarie sono state osservate attorno a giovani stelle immerse nella grande nube di Orione,
che è una vera e propria fabbrica di stelle neonate. Queste ultime
sono state osservate col telescopio spaziale Hubble in orbita attorno alla Terra. ••6
••6 Dischi protoplanetari
nella nebulosa di Orione.
Chiamati anche proplidi,
sono sistemi planetari
in formazione, grandi
circa come il nostro
Sistema solare. Si nota la
condensazione centrale,
destinata a generare una
stella come nel disco più
a destra. L’immagine è del
Telescopio Spaziale. (O’DELL,
RICE UNIVERSITY, NASA, ESA)
Sembra dunque molto probabile che i sistemi planetari si formino insieme alla loro stella in una nebulosa proto planetaria simile
a quella ipotizzata da Kant e da Laplace.
Si può dire che nel Sistema solare tutti i personaggi siano importanti, dai pianeti alle polveri interplanetarie. E oggi che lo spazio è
diventato la nuova frontiera dell’umanità, è come se lo stesso sistema planetario acquistasse una nuova vita, inaugurasse un nuovo
teatro. È difficile enumerare tutti i personaggi del Sistema solare.
Gli antichi ne conoscevano solo sette, ma sono molti di più. Infatti,
oltre ai 9 pianeti (o meglio 8, come ora vedremo), ci sono molti
pianetini, alcuni grandi come Plutone. Mentre all’interno del Sistema solare si trovano i piccoli pianeti rocciosi (Mercurio, Venere,
Terra e Marte, le cui densità medie vanno da 5,5 volte a 3,94 volte
la densità dell’acqua), dopo la fascia degli asteroidi incontriamo
i pianeti giganti (Giove poco più denso dell’acqua, 1,314, Saturno addirittura meno denso dell’acqua, 0,71,Urano e Nettuno con
densità rispettivamente 1,3 e 1,64).
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 45
02_capitolo.indd 45
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Infine ecco Plutone. Il suo diametro è circa la metà di Mercurio,
ha densità 1,75, ma un’orbita fortemente inclinata sull’eclittica e
anche marcatamente ellittica, tanto che interseca l’orbita di Nettuno e fra il 1970 e il 1999 era più vicino al Sole di Nettuno e
tornerà a esserlo nel 2231. Per queste sue stranezze si pensava
che Plutone potesse essere stato un satellite di Nettuno strappato
al suo pianeta dalle perturbazioni planetarie.
Ma dopo la scoperta dell’esistenza di un’altra fascia di pianetini oltre l’orbita di Plutone fra cui qualcuno anche più grande di
Plutone, si è ritenuto più corretto declassarlo ad asteroide, capostipite di questa famiglia di trans plutoniani, detti «plutini». Fino
a oggi si sono scoperti 120 satelliti, ma è certo che ne esistono
ancora tanti, attorno a Giove e agli altri pianeti più esterni: non si
vedono perché troppo piccoli, e occorrerà andarli a cercare con
le sonde spaziali.
Poi vengono gli asteroidi, detti anche pianetini, che fra grandi,
piccoli e piccolissimi formano una popolazione di parecchi milioni.
Se ne conoscono tre famiglie. La prima è quella della fascia situata
fa Marte e Giove, di cui l’asteroide più grande è Cerere, con un
diametro di 933 km. ••7
Altre due fasce sono state scoperte grazie alle sonde spaziali:
una è quella dei «plutini», ai confini del Sistema solare, accennata
poco sopra, e un’altra è detta dei NEO, – Near Earth Objects –
oggetti vicini alla Terra, perché orbitano attorno al Sole circa alla
stessa distanza a cui orbita il nostro pianeta.
Ancora più numerosi i meteoriti, le comete, senza dire delle
polveri che riempiono lo spazio interplanetario e che di continuo
finiscono nel Sole (e anche sulla Terra come «stelle filanti») e di
continuo vengono sostituite da altre polveri perdute dalle comete
o da polveri provenienti dallo spazio interstellare. Inoltre, il Sistema
46
02_capitolo.indd 46
••7 Le dimensioni dei
pianeti. Il Sole è rappresentato
in proporzione e risulta così
grande che soltanto una sua
parte limitatissima è visibile
sulla sinistra, mentre le enormi
distanze interplanetarie non si
possono riportate in scala.
I quattro pianeti vicini al
Sole sono piccoli e rocciosi, i
quattro successivi sono grandi
e gassosi; tra i due gruppi si
trova la fascia degli asteroidi,
che contiene il pianetino
Cerere. Un’altra fascia di
asteroidi si trova oltre Nettuno.
Secondo le definizioni
approvate dall’Unione
Astronomica Internazionale nel
2006, i pianeti propriamente
detti sono 8, poiché Plutone
è stato declassato al ruolo di
pianetino o «pianeta nano»
(in inglese: dwarf planet).
Recentemente sono stati
individuati 3 nuovi pianetini
oltre Plutone, che sono
riportati nel disegno. In futuro
è possibile che nuove scoperte
costringano a rivedere
ulteriormente il quadro
complessivo del Sistema
solare, secondo le definizioni
degli organismi internazionali.
(ADATTATO DA IAU - INTERNATIONAL
ASTRONOMICAL UNION)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
solare è permeato di tenuissimi gas, di raggi cosmici che potremmo chiamare «nostrani» perché di origine solare e planetaria, e
raggi cosmici di origine galattica. Abbiamo campi magnetici planetari, interplanetari e solari, nonché dei venti solari e stellari: ossia, un continuo flusso di particelle di origine solare e stellare che
spazza tutto il sistema planetario, a volte a raffiche, come quando
il Sole è perturbato da qualche tempesta.
Sono tutti personaggi principali, attivi e importanti, simili e diversissimi l’uno dall’altro. Sono attivi per la loro influenza gravitazionale anche pianeti e satelliti, come Mercurio e la Luna, considerati
«morti» perché, specialmente in conseguenza della loro massa
più che della loro composizione chimica, hanno avuto una «vita
geologica» più breve di quella della Terra, e non perché siano nati
prima degli altri pianeti e poi siano morti di «vecchiaia».
Oggi si sa che il Sole e i pianeti sono nati all’incirca contemporaneamente, ma una volta si riteneva che i pianeti si fossero formati
in epoche diverse, e che fossero abitati da creature evolute più
o meno di noi terrestri, in accordo con l’evoluzione fisica dei loro
rispettivi pianeti.
La diversa età dei pianeti era un’ipotesi fondata sulle idee di
Laplace, il famoso astronomo, fisico e matematico francese, circa
l’origine del Sistema solare. Laplace suggeriva che, siccome i pianeti girano intorno al Sole nella medesima direzione e quasi nello
stesso piano, Sole e pianeti nacquero da un’estesa nube di gas
caldo in rotazione. Come il gas si contraeva, la velocità di rotazione
aumentava, producendo per forza centrifuga il distacco del bordo
più esterno: un anello che, spezzandosi, finiva per condensarsi in
un pianeta, oppure originava una moltitudine di asteroidi simili a
quelli presenti fra le attuali orbite di Marte e Giove. Dato che all’epoca di Laplace non si conoscevano Nettuno e Plutone, il pianeta
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 47
02_capitolo.indd 47
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
più lontano era Urano, che perciò doveva essere pure il più vecchio. Poi il distacco di un altro anello aveva creato Saturno e così
via fino a Mercurio, l’ultimogenito.
INCOMINCIAMO DA GAIA: LA TERRA
È ormai molto tempo che gli scienziati non hanno più bisogno di
chiamare in causa il soprannaturale per spiegare certi fenomeni,
come l’origine della rotazione terrestre e dello stesso Sistema solare. Se Newton aveva pensato che a mettere in moto la macchina
del Sistema solare fosse stato il dito di Dio e così pure a regolarne
di tanto in tanto il meccanismo, in seguito la conoscenza delle
nebulose e ipotesi come quelle di Laplace esclusero ogni spinta
iniziale e altri interventi posteriori.
Bisogna riconoscere che questa indipendenza dal soprannaturale è stata una specie di rivoluzione o evoluzione intellettuale
che iniziò con Copernico e Galileo, e ha fatto grandi passi in
tutti i campi; tra cui i più importanti, dopo quello astronomico e
fisico, sono stati compiuti da Charles Lyell nella geologia, e dal
suo amico Charles Darwin nella biologia. Il primo, pubblicando
nel 1830 i Principi della geologia, dimostrò che la storia della
Terra è una storia naturale, regolata da comuni leggi fisiche e da
processi, che, oggi come ieri, sono i medesimi: basta comprenderli per ricostruire la storia geologica del passato. E così fece
anche Darwin, che avendo escluso il soprannaturale dalla storia
della Terra, dimostrò che tutti gli organismi, compresa la specie
umana, debbono la loro esistenza a processi naturali e non a
interventi divini.
Nel 1774, l’astronomo inglese Nevil Maskelyne notò che un
pendolo vicino alla parete di una grossa montagna non cadeva
perpendicolarmente, ma subiva una lieve deviazione. Ciò indicava
che l’attrazione della massa della montagna, per quanto minima
rispetto a quella della Terra, non era trascurabile. Siccome la massa della montagna si poteva stimare in base alle sue dimensioni
e composizione, misurando la deviazione del pendolo, Maskelyne
ne dedusse la massa relativa della Terra. Poco tempo dopo, Henry Cavendish, anch’egli inglese, la misurò con un altro metodo,
ottenendo, dopo ripetuti esperimenti, che la Terra ha una massa
di 5,98 per 1027 grammi. Si sarà notato che abbiamo parlato di
massa e non di peso. Il peso infatti è il prodotto della massa per
l’accelerazione di gravità, e quindi se sulla superficie della Terra si
può parlare indifferentemente di massa o di peso perché tutti i corpi sono soggetti alla medesima accelerazione di gravità terrestre,
nello spazio invece occorre parlare di massa. In altre parole, il peso
48
02_capitolo.indd 48
••8 La Terra fotografata
dalla navicella Apollo 8
durante il suo viaggio
di ritorno dalla Luna.
Fu in occasione della
missione Apollo 8, nel
dicembre 1968, che per
la prima volta gli occhi
umani videro la Terra
rimpicciolire in lontananza
nello spazio. Fino ad
allora – e come tuttora
avviene con la Stazione
Spaziale – gli astronauti
si erano limitati a orbitare
a poche centinaia di
chilometri d’altezza,
vedendo scorrere sotto di
sé i mari e le montagne,
un po’ come dai finestrini
di un aereo. La traiettoria
dell’Apollo 8 tracciò
invece un’inedita rotta
interplanetaria intorno
alla Luna, portando per la
prima volta tre uomini nei
pressi di un altro corpo
celeste. (NASA/JSC)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
è relativo al corpo di cui si subisce l’accelerazione gravitazionale.
Così, se noi sulla Terra pesiamo 70 kg, sulla Luna, che ha gravità 6
volte minore, peseremmo circa 12 kg, su Marte 27, su Giove 177,
nello spazio interplanetario quasi niente. ••8
Le più recenti notizie ci danno un’immagine della Terra alquanto
diversa da quanto impariamo a scuola. L’inglese Desmond KingHele e altri, analizzando il moto dei satelliti artificiali, hanno trovato
che la Terra ha una leggera forma «a pera», accentuata dal fatto
che il Polo Nord presenta una specie di protuberanza alta 44,7
metri rispetto al Polo Sud e 18,9 metri rispetto allo sferoide medio,
mentre la depressione al Polo Sud risulta in questo caso di 25,8
metri. Tuttavia, se fosse possibile tagliare la Terra trasversalmente
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 49
02_capitolo.indd 49
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
lungo l’equatore, ci si accorgerebbe che ha la sezione simile a
quella di una patata.
Totalmente cambiato, anzi capovolto, è oggi il vecchio concetto
di una Terra statica con continenti e bacini oceanici permanenti
da miliardi d’anni. La nuova tettonica globale (cioè, il ramo della
geologia che studia l’evoluzione e la trasformazione della superficie terrestre) parla di continenti in movimento e di bacini oceanici
che si aprono o si chiudono. Circa l’interno della Terra, tutti i nuovi
strumenti sismici hanno rivelato dettagli, prima inosservabili, sulla
natura del nucleo. Ora sembra si possa affermare che al centro del
globo esista un nucleo solido con densità 13,5 volte maggiore di
quella dell’acqua, e un raggio di 1216 chilometri. Esso sarebbe circondato da una zona di transizione di 500 chilometri di spessore, a
sua volta circondato da un nucleo esterno liquido con uno spessore
di 1700 chilometri. Attorno al nucleo liquido esterno, abbiamo il
mantello, spesso 2900 chilometri e formato di rocce solide. Arriva
fino a 40 chilometri sotto i continenti e 10 sotto gli oceani. Quest’ultimo strato sottile è quello che costituisce la crosta terrestre, e si
distingue in litosfera e idrosfera, la quale, fra mari e oceani, copre
i tre quarti della superficie del globo. Poi vengono vari strati atmosferici, che rarefacendosi via via si estendono nello spazio per oltre
2000 chilometri, con una massa complessiva stimata a 5,6 milioni
di miliardi di tonnellate, dei quali circa il 75% si trova nella troposfera che giunge fino ai quindici chilometri di quota.
Al di sopra di tutto, e tutto avvolgente, c’è la magnetosfera. Che la
Terra si comporti come un magnete lo sappiamo fin dal 1600, per
merito del medico e fisico inglese William Gilbert. Attualmente, il
Polo Nord Magnetico si trova a 100° di longitudine Ovest e circa 70°
50
02_capitolo.indd 50
••9 La magnetosfera in
laboratorio. Le fasce di Van
Allen sono state riprodotte
in laboratorio per mezzo di
un propulsore al plasma,
entro una camera stagna
al centro di ricerca Lewis di
Cleveland. Si vede anche
un tecnico che osserva
il fenomeno dall’esterno
attraverso un oblò. (NASA
ELECTRIC PROPULSION LAB)
••10 A destra: un’aurora
vista dall’orbita. Le luci
colorate sono emesse dagli
atomi di ossigeno, colpiti
dalle particelle energetiche
provenienti da una tempesta
solare. Sul bordo sinistro
dell’immagine si nota lo
Space Shuttle. (NASA)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
di latitudine Nord, all’estremità settentrionale del Canada; e il Polo
Sud Magnetico non lontano dalla costa dell’Antartide. Tra i due Poli si
incurvano le linee di forza del campo magnetico. Nel 1957, un fisico
dilettante, il greco Nicolas Christofilos, fece l’ipotesi che le particelle
cariche, come gli atomi ionizzati (cioè privi di uno o più elettroni) e gli
elettroni presenti nello spazio e provenienti specialmente dal Sole,
venivano intrappolate dal campo magnetico terrestre disponendosi
a spirale lungo le sue linee di forza. Sarebbero queste particelle che,
incontrandosi con quelle dell’alta atmosfera in prossimità dei Poli,
danno origine al fenomeno delle aurore boreali. ••9-10
L’ipotesi di Christofilos venne confermata dalla scoperta nel
1958 delle fasce di Van Allen, dal nome del fisico statunitense
James A. Van Allen. In seguito, si è visto che queste fasce sono
regioni magnetosferiche dove la concentrazione delle particelle è
massima. La prima si trova a una distanza di 4830 km dalla superficie della Terra, a 18.000 la seconda, con una fascia intermedia
più sottile a circa 13.000 chilometri. La magnetosfera dunque,
creata dal magnetismo terrestre, che a sua volta si pensa sia un
prodotto di moti turbolenti instaurati dalla rotazione della Terra nel
suo nucleo liquido, è come una trappola per le particelle cariche
espulse dal Sole e per i raggi cosmici.
Questa trappola magnetica non ha sempre le stesse dimensioni.
Per esempio, si restringe e si allunga sotto il «soffio» del vento solare. Inoltre, mentre dal lato diurno forma una semisfera di raggio
pari a 60.000 km, dalla parte notturna si estende a grandissima
distanza come la coda di una cometa. Analoghe trappole magnetiche sono state scoperte anche intorno a Mercurio e a Giove, il
quale ha un campo magnetico 10 volte più forte del nostro, che è
di soli 0,3 gauss, capace di emettere radioonde di grande intensità
e perfino raggi cosmici. Ma è una radiosorgente anche la Terra.
L’hanno scoperto i satelliti artificiali IMP 6 (Interplanetary Monitoring Platform) e il RAE 2 (Radio Astronomy Explorer) rilevando
le onde prodotte dagli elettroni della magnetosfera e riflesse nello
spazio interplanetario dalla sottostante ionosfera.
Prima di lasciare la Terra mi sembra importante sottolineare
quello che è il suo aspetto principale: il suo dinamismo quasi vitale dalle profondità del nucleo ai limiti della magnetosfera, dove
il vento solare, incontrandola, forma come una risacca. E che dire
di questo suolo dove poggiamo i piedi, e degli oceani e dell’atmosfera? Se la Terra ha grandi bacini d’acqua e grandi masse d’aria,
mentre mancano su altri corpi come Mercurio e la Luna, ciò è
dipeso dalla massa e dalla temperatura del nostro pianeta. Una
massa minore e una temperatura più elevata avrebbero provocato
l’evaporazione degli oceani e assottigliato l’atmosfera, favorendo la
fuga nello spazio dei gas che la compongono.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 51
02_capitolo.indd 51
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Ma bisogna aggiungere che alla formazione del suolo, del mare
e dell’atmosfera quali noi oggi li possiamo conoscere ha contribuito in misura rilevante anche l’evoluzione della vita, specie quella
vegetale e quella dei microorganismi. Per questo, non pochi ecologi pensano che la materia vivente, l’aria, gli oceani, il suolo formino
quasi un solo organismo: quello di Gaia, come i Greci chiamavano
la madre Terra divinizzandola e umanizzandola così da eliminare
la barriera tra vivente e non vivente.
LA LUNA E LE LUNE, MERCURIO, VENERE E MARTE
Che cosa abbiamo imparato dalle esplorazioni lunari? Durante le
sei spedizioni Apollo avvenute dal luglio del 1969 al dicembre del
1972 sono stati raccolti 382 chili di rocce distribuiti a vari istituti
in tutto il mondo. Con le loro sonde artificiali Luna 16, 20 e 24 i
Sovietici hanno riportato sulla Terra qualche centinaio di grammi
di materiale. ••11
Da queste rocce e da altre ricerche si è dedotto quanto già
abbiamo accennato, cioè che la Luna ha un’età di circa 4,6 miliardi d’anni, e che da questa data e per 5 o 600 milioni d’anni i
bombardamenti meteoritici le hanno dato quell’aspetto generale
e definitivo per cui ci sembra di vedere nella sua «faccia» delle
figure come di uomo o di donna. Formazioni molto più giovani
sono invece crateri quali Copernico e Tycho, prodotti dalla caduta
sporadica di qualche meteorite o grosso nucleo cometario.
I sismometri piazzati dagli astronauti hanno dimostrato che è
quasi una tomba: l’energia totale liberata dai terremoti lunari in
un anno è infatti equivalente a quella di un chilogrammo di tritolo in confronto ai 5 milioni di tonnellate nel caso dei terremoti
terrestri durante lo stesso periodo. Si è constatato che l’impatto
di un oggetto quale il modulo lunare fa risuonare il nostro satellite
come una campana, indicando che l’interno della Luna è per lo
più costituito da una grande massa fredda, con al centro, forse, un
nucleo liquido relativamente piccolo. La superficie lunare è polverosa e poco conduttiva. Scendendo in profondità la temperatura
dovrebbe raggiungere 1500 °C verso i 1000 chilometri: questa è
la regione dove i dati sismici indicano delle rocce allo stato liquido,
e la sorgente dei deboli terremoti lunari.
Tutti gli esami compiuti sulle rocce hanno escluso ogni traccia di
vita e di molecole organiche. La maggior parte del carbonio trovato
si ritiene di origine meteoritica o depositato dal vento solare. Perciò
le ricerche biologiche ora sono dirette soprattutto verso Marte e le
altre lune del sistema planetario… in attesa di esplorare gli altri
sistemi della nostra Galassia.
52
02_capitolo.indd 52
••11 La Luna come la
vediamo nel cielo nelle
notti di plenilunio. Sono
indicate le località raggiunte
dalle sonde americane e
sovietiche. I Surveyor (in
giallo) furono sonde USA
destinate a preparare i
successivi sbarchi umani.
Le sei missioni del progetto
Apollo (in verde) portarono
poi complessivamente
12 astronauti a esplorare
il suolo lunare. Da parte
sua, l’URSS mandò ben
8 stazioni automatiche
Lunik (in rosso), anche con
ritorno dei campioni sulla
Terra. (NASA/GSFC)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 53
02_capitolo.indd 53
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
È noto che noi possiamo vedere solo una faccia della Luna, perché la forte attrazione gravitazionale della Terra ne ha rallentato il
periodo di rotazione fino a farlo coincidere con quello di rivoluzione
e costringere pertanto la Luna a rivolgere sempre la stessa faccia
verso la Terra. Abbiamo potuto vedere l’altra faccia della Luna solo
nel 1959 quando la sonda sovietica Luna 3 circumnavigò la Luna
e ci inviò le immagini della faccia nascosta. ••12
Eccoci dunque alle altre lune. La sonda Galileo che ha esplorato il
sistema di Giove e dei suoi satelliti ne ha contati almeno 63 fra vecchi
e nuovi. lo, il primo dei quattro satelliti scoperti da Galileo Galilei intorno a Giove e il più vicino alla superficie del pianeta dopo Amaltea, è
forse anche il più interessante. Sembra possegga un’atmosfera carica
di neve di metano, una ionosfera con nubi di sodio molto estese (tanto che la sua superficie potrebbe essere coperta di sale), e una specie
di nube di idrogeno che si estende a forma di tubo per quasi un terzo
della sua orbita. È l’unico satellite ad avere vulcani attivi. ••13
Procedendo verso l’esterno del Sistema solare incontriamo Saturno e i suoi satelliti. La sonda Cassini, che ha esplorato il sistema
54
02_capitolo.indd 54
••12 La faccia nascosta
della Luna fu svelata per
la prima volta nel 1959
della sonda sovietica Luna
3. Qui la vediamo ripresa
dalla sonda interplanetaria
Galileo, partita verso Giove
nel 1990. L’area scura al
centro è il Mare Orientale.
(NASA)
••13 Il satellite Io passa
davanti a Giove. Notare
la superficie butterata di
vulcani, il bordo di Giove
a sinistra nella figura e un
pennacchio vulcanico sul
bordo destro di Io. (NASA)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••14 Il suolo di Titano.
Il modulo di discesa
Huygens si è posato su
questo lontano corpo
celeste il 14 gennaio 2005,
dopo essersi staccato dalla
sonda Cassini al termine
di un lungo viaggio fino a
Saturno. La panoramica
verticale a sinistra è
stata ripresa dal livello
del terreno, rivelatosi la
spiaggia fangosa di un lago
di metano, sollevando la
visuale fino all’orizzonte.
Per confronto, l’immagine
è qui affiancata da
un’analoga veduta del
suolo lunare ripresa da una
missione Apollo. I colori
sono quelli reali. (ESA, NASA,
JPL, ARIZONA UNIVERSITY)
di Saturno ne ha contati 18. Però lo scopo principale del viaggio
di Cassini è stato quello di portare «in groppa» la sonda Huygens
e inviarla verso il più grande satellite di Saturno, Titano, dopo Tritone la più grossa luna del Sistema solare, che col suo diametro
di 5150 km supera Mercurio e ha un’atmosfera ricca di molecole
organiche, 25 volte più densa di quella di Marte.
La Cassini è partita il 15 ottobre 1997 per arrivare nei dintorni
di Saturno nel luglio 2004, dopo quasi sette anni di viaggio. Per
Natale 2004 la Huygens ha lasciato la Cassini e si è avviata verso
Titano, che ha raggiunto il 14 gennaio 2005 ed è scesa sulla superficie del satellite frenata da più paracadute. ••14
Durante la discesa ha inviato immagini del suolo in cui si vedevano scorrere fiumi, probabilmente formati da metano liquido,
dato che a quelle temperature di circa -200 gradi centigradi non
poteva trattarsi di acqua. Il terreno era bagnato come dopo una
pioggia recente.
Nonostante la sua temperatura super refrigerata non è escluso che esistano zone vulcaniche e quindi abbastanza calde da
alimentare forme di vita. Quella di Titano, a parte la temperatura,
sarebbe un’atmosfera non molto dissimile dall’atmosfera primitiva
della Terra.
Forse un giorno un’altra sonda riuscirà a portare sulla Terra campioni di quel liquido e dirci se in esso ci sono almeno dei batteri, e
se la vita può nascere anche in un liquido diverso dall’acqua. ••15
Se Titano è la sesta luna di Saturno, Giapeto, l’ottavo satellite
scoperto da Giovanni Domenico Cassini nel 1671, è detto «dai due
volti», perché ha la straordinaria caratteristica di apparire 6 volte
più luminoso quando si trova a Ovest, invece che a Est di Saturno.
Si stima che abbia un diametro di circa 1500 km, e, a meno che
non abbia una forma irregolare, uno dei suoi emisferi deve essere
molto più riflettente dell’altro. Sempre a proposito delle lune, l’11a
luna di Saturno ha la particolarità di viaggiare in strettissima coppia con Giano (la 10a luna scoperta nel 1966 dal francese Audouin
Dollfus) dal quale dista meno di 8000 km. Sebbene una collisione
sia improbabile, esse possono influenzare reciprocamente le loro
orbite.
Satelliti estremamente interessanti sono quelli che orbitano intorno a Urano. Prima delle missioni interplanetarie si conoscevano solo 5 di essi, i più grandi: Titania, Oberon, Umbriel, Ariel e il
più piccolo Miranda, con diametri fra 1580 km per Titania e 484
km per Miranda. La sonda Voyager 2 ne scoprì altri 10 nel 1986.
Altri ancora sono stati scoperti col 5m di Monte Palomar e oggi
ne conosciamo 28. Eccetto Miranda, il più vicino alla superficie
del pianeta, gli altri hanno orbite regolarissime e quasi circolari,
giacenti su un piano pressoché coincidente con quello equatoriale
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 55
02_capitolo.indd 55
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
di Urano. Queste lune girano nel senso di rotazione del pianeta,
formando un sistema di satelliti ancora più regolare di quelli di
Giove e Saturno.
Nettuno ha due satelliti principali, Tritone e Nereide, dal diametro rispettivamente di 2707 km e 340 km. Altri 6 sono stati scoperti
da Voyager 2 nel 1989. Oggi se ne conoscono almeno 13.
Di forma notevolmente irregolare sono i satelliti di Marte, Phobos e Deimos. Il primo misura 20 x 23 x 28 chilometri, e il secondo
10 x 12 x 16. In fotografia assomigliano a due patate, e sono butterati di crateri e di solchi. Inoltre, il loro colore è quello più «nero» di
tutti i membri del Sistema solare. Non si sa nulla sulla loro origine,
e poco sulla loro composizione, che si suppone sia basaltica e
cioè di rocce vulcaniche ricche di ferro e magnesio, oppure come
quella di certi meteoriti chiamati condriti carboniose. ••16
Anche il piccolo Plutone, declassato ad asteroide, ha un satellite, Caronte, che ha un diametro di 1186 km, circa la metà di
quello di Plutone, 2390 km, per cui più che di un pianeta col suo
satellite si dovrebbe parlare di un pianeta doppio. Lo stesso, come
abbiamo già osservato, vale per il sistema Terra-Luna.
56
02_capitolo.indd 56
••15 Titano e gli anelli di
Saturno. Il colore rossastro
del satellite Titano è dovuto
alla sua atmosfera, mentre
gli anelli di Saturno in primo
piano sono composti di
particelle di ghiaccio.
(NASA, CASSINI)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••16 Phobos, uno dei
due satelliti di Marte.
L’immagine è stata ripresa
dal Mars Reconnissance
Orbiter. Si notano le striature
provocate dal rotolamento
di detriti sulla superficie
di questo piccolo satellite.
(NASA, JPL, UNIVERSITY OF ARIZONA)
Dalle varie lune del Sistema solare a Mercurio, il passo è meno
grande di quanto sembri. Non soltanto perché 4 dei satelliti del
Sistema solare sono più grossi di Mercurio, e cioè Tritone (satellite
di Nettuno), Titano, Ganimede e Callisto, ma anche perché c’è chi
pensa che Mercurio sia stato un tempo un satellite di Venere. Il che,
a parte altre ragioni, spiegherebbe il fatto che lo stesso Mercurio
non ha satelliti. Inoltre, un motivo più importante in favore di questa
ipotesi potrebbe essere la distribuzione asimmetrica dei crateri sulla sua superficie, un po’ come la Luna. Ritorneremo in seguito su
questo argomento.
Fino al 1965 si credeva che Mercurio rivolgesse sempre lo stesso
emisfero al Sole, poi in quell’anno Gordon H. Pettengill e Rolf Bhucanam Dyce, col radar di Arecibo, scoprirono che invece ruotava in
quasi 59 giorni e non in sincronia col suo periodo orbitale di 88 giorni. Un professore dell’Università di Padova, Giuseppe Colombo, fece
subito notare che 59 giorni corrispondevano all’incirca a due terzi del
periodo di rivoluzione, e ciò non era dovuto a una coincidenza fortuita, ma a una precisa causa fisica: l’azione gravitazionale del Sole su
un piccolo rigonfiamento nella regione equatoriale del pianeta.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 57
02_capitolo.indd 57
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
La NASA, l’Agenzia Spaziale Americana, deve anche a Colombo se il Mariner 10, lanciato all’esplorazione di Venere e Mercurio, ha avuto un successo maggiore del previsto. Con tale lancio
la NASA sperimentava per la seconda volta, dopo il Pioneer 10
diretto a Giove, la tecnica del «Rimpallo Gravitazionale». Ossia,
senza maggior spesa di carburante, e servendosi dell’attrazione
gravitazionale di Venere come di una fionda, con un solo satellite
si esploravano prima Venere e poi Mercurio. Colombo suggerì
che si sarebbe potuto fare ancora meglio, se il Mariner avesse incrociato Mercurio in modo da entrare in un’orbita di «risonanza»
con quella del pianeta, invece di immettersi in una delle tante
orbite circumsolari. In altre parole, occorreva far girare il Mariner
intorno al Sole in un periodo di 176 giorni, il doppio di quelli
impiegati da Mercurio, perché la sonda lo ritrovasse puntualmente ogni volta che questo completava due orbite. Perciò, non
un incontro singolo con Mercurio, ma ripetuti quanto si voleva,
pagando solo il prezzo del carburante per le piccole correzioni di
rotta e di assetto.
In effetti, ci sono stati tre incontri del Mariner 10 con Mercurio:
il 29 marzo e il 21 settembre del 1974, e poi il 13 marzo 1975,
con un intervallo di 176 giorni l’uno dall’altro, pari a tre rotazioni di
58
02_capitolo.indd 58
••17 Il pianeta
Mercurio ripreso a colori
dalla sonda Messenger
nel gennaio 2008.
Il suolo del pianeta è per
certi versi simile a quello
della Luna. (NASA)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
Mercurio su se stesso. Questo significa che il pianeta presentava
lo stesso emisfero rivolto verso il Sole a ogni incontro col Mariner,
che per questa ragione ha sempre fotografato la stessa metà del
pianeta: quella illuminata, mentre l’altra rimaneva avvolta nella
notte. Si è trovato che Mercurio è disseminato di crateri forse più
della Luna, e ricoperto da uno strato anche più alto di «terriccio»
e di polveri. Esso presenta pure delle caratteristiche non lunari,
come, per esempio, una strana regione a 30° di longitudine Ovest
e 25° di latitudine Sud, ricca di formazioni collinari, come tagliate e
cosparse di materiale levigato. In complesso, però, non si vedono
tracce di erosione. Comunque, tale apparenza lunare, anche se
preannunciata dalle osservazioni telescopiche di Audouin Dollfus,
è stata una sorpresa, considerata la densità di Mercurio che si
aggira sui 5,5 grammi per centimetro cubo in confronto ai 3,3
della Luna. Ne deriva che Mercurio, come la Terra, deve avere un
nucleo di ferro e nichel. Ma allora, come è possibile che due corpi
così differenti all’interno siano così simili in superficie? Sorpresa
non minore, è stata la scoperta del campo magnetico di Mercurio
(che ammonta ad appena 1/100 di quello della Terra) con relativa
magnetosfera e «risacca» del vento solare ai suoi limiti esterni.
Abbiamo già detto, a proposito della magnetosfera del nostro pianeta, che per il suo formarsi si credono necessarie due condizioni:
un nucleo liquido e una rotazione planetaria abbastanza rapida da
instaurarvi turbolenza e vortici. Siccome sappiamo che Mercurio
ruota molto lentamente, non si capisce quale sia il meccanismo
causa della formazione della sua magnetosfera. ••17
A proposito dei crateri, invece, vale la pena ricordare un contributo alla vecchia polemica sull’origine dei crateri lunari. Per dire il
vero, gli scienziati non hanno mai escluso che la Luna, Mercurio,
Venere, la Terra e Marte (chiamati anche generalmente «pianeti
terrestri») siano passati attraverso un periodo di vulcanismo diffuso. Tale periodo si farebbe risalire a circa 3,5 miliardi d’anni
fa. Ma l’americano Robert G. Strom, un planetologo del Lunar
and Pianetary Laboratory di Tucson, Arizona, sostenne di aver
scoperto un altro periodo vulcanico avvenuto 500 milioni d’anni
prima, ossia pressappoco 4 miliardi d’anni fa. Ciò indicherebbe
un’associazione fra vulcanismo primitivo e formazione del nucleo
di un pianeta. Così, se è vero che molti crateri primari sparsi nelle pianure mercuriane e simili ai crateri lunari vennero prodotti
dall’impatto dei meteoriti, e quelli secondari dai materiali di ricaduta, non tutti si possono spiegare allo stesso modo. Il numero
e la distribuzione dei crateri in alcune regioni della Luna non si
accordano con la distribuzione dei crateri in altre regioni circostanti: secondo Strom, queste pianure su Mercurio e la Luna vennero prodotte dal vulcanismo primitivo, non dagli impatti. Ana-
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 59
02_capitolo.indd 59
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
loghi processi vulcanici potrebbero essere accaduti anche sulla
Terra, Venere e Marte. Certo, sulla Terra, a motivo dell’erosione
e dell’attività endogena che ha trasformato i continenti e creato
le montagne, è scomparsa ogni traccia di rocce più antiche di
3,8 miliardi d’anni. Dell’infanzia della Terra non resta più nulla, è
perduta per sempre. Ecco perché è così interessante e importante ritrovare queste tracce e stabilire con la maggiore precisione
possibile quali furono nei dettagli la natura, il tempo, il modo delle
fasi di formazione sia dei pianeti più simili e vicini alla Terra, sia di
quelli più dissimili e lontani.
Nel nostro villaggio planetario, Venere è il pianeta più vicino e più
nascosto. Sempre avvolto di nubi, non fa scorgere nemmeno un
briciolo della sua «pelle». Per saperne qualcosa, occorre sondarla
con le onde radar, e fino al 1961 non si sapeva nemmeno quale
fosse il suo periodo di rotazione: chi diceva un giorno, chi 4, chi
225. Quando nel ‘62 i grandi radar americani e sovietici riuscirono
a stabilire che Venere, rispetto alle stelle, ruota in un periodo di
243,16 giorni e in senso retrogrado (da Est a Ovest, contrario a
quello di rivoluzione), non fu un risultato facilmente accettato. ••18
Si era perplessi, perché tre rotazioni di Venere, equivalenti a
circa 730 giorni, risultano in «risonanza» con due rivoluzioni della
Terra. È come se la Terra, o meglio, le sue forze mareali, le medesime che obbligano la Luna a «guardarci» sempre con la stessa
faccia, riuscisse a controllare anche Venere in modo da obbligarla
a presentarci lo stesso emisfero ogni volta che si avvicina a noi,
cioè a ogni congiunzione inferiore. Si ha una congiunzione inferiore quando Terra, Venere e Sole sono allineati, con Venere fra la
Terra e il Sole, e fase di Venere «nuova». Si parla invece di congiunzione superiore quando i tre corpi sono allineati, con il Sole
fra la Terra e Venere, la quale è in fase «piena». Altri suppongono
che a far ruotare Venere così lentamente, invece dell’attrazione
terrestre, sia stato l’impatto di una piccola luna che si muoveva in
un’orbita retrograda.
Comunque sia, la lentissima rotazione di Venere è un fatto incontestabile. Dalla combinazione del moto di rivoluzione di Venere intorno al Sole con un periodo di 225 giorni, e dal moto di rotazione retrogrado pari a 243,16 giorni, consegue che il periodo di
rotazione sinodico (ossia, rispetto al Sole) è di 117 giorni terrestri,
con 58,5 giorni d luce e 58,5 di buio. Se le nubi non nascondessero il cielo, una mitica salamandra vedrebbe il Sole spostarsi di
appena 3° durante 24 ore, e, naturalmente, da Ovest a Est. Inoltre
Venere non ha stagioni perché il suo asse è inclinato soltanto di
3°. Se Venere è una «tardona», al contrario sono veloci le nuvole
più alte che la ricoprono: possono raggiungere i 100 metri al secondo, e fanno un giro completo intorno al pianeta in un periodo
60
02_capitolo.indd 60
••18 Fotografia di
Venere, realizzata in luce
visibile e ultravioletta
dal Mariner 10 nel
1974. Il pianeta appare
interamente avvolto da
una coltre di nubi.
(NASA/JPL, M. MALMER)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
di 4 giorni. Era questa rotazione della coltre di nubi che confondeva gli astronomi
e li rendeva così incerti sulla vera durata
del periodo di rotazione.
La temperatura su Venere è elevatissima: un vero inferno, e, a volerla visitare, ci vorrebbe un batiscafo, adattato al
fuoco, oltre che alle alte pressioni. Infatti, se la temperatura alla quota delle
nubi più alte è di -40 °C; al suolo arriva
a circa +480 °C, con una pressione di
93 kg/cm2, pari ad altrettante atmosfere.
La composizione dell’aria consiste per il
97% di anidride carbonica e per il 3%
di azoto, ossigeno e argon in proporzioni non ancora fissate. Inutile aggiungere
che con questo calore, capace di liquefare il piombo e lo zinco, sulla superficie di
Venere non c’è traccia di acqua allo stato
liquido. Tuttavia questa superficie si comporta in un certo senso proprio come l’acqua sulla Terra, in quanto reagisce con
l’anidride carbonica dell’atmosfera. Tale
fenomeno avviene anche sulla Terra, ma
con estrema lentezza a causa della bassa
temperatura; su Venere, al contrario, le
reazioni sono rapide e in base a esse si
riesce a spiegare la presenza nelle nubi
venusiane di vari acidi, compreso l’acido solforico e l’acido cloridrico, scoperti
fin dal 1967 dai francesi Pierre e Janine
Connes per mezzo dell’analisi spettrografica e dall’americano William S. Benedict.
Quindi se su Venere piove, è pioggia all’acido solforico e il nostro batiscafo dovrebbe essere attrezzato anche contro la corrosione.
Ma perché su Venere fa tanto caldo? Perché funziona come una
serra. Se l’80% della radiazione solare viene riflessa nello spazio,
le nubi assorbono la percentuale rimanente tanto nell’infrarosso
che nell’ultravioletto. La superficie si riscalda, ma le radiazioni infrarosse rimangono intrappolate dall’atmosfera. Il meccanismo è
lo stesso che si verifica in una macchina lasciata al Sole con i
finestrini chiusi: la luce entra liberamente e viene riemessa; ma le
radiazioni infrarosse a cui il vetro è meno trasparente vengono intrappolate e dopo poco l’interno della macchina diventa un forno.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 61
02_capitolo.indd 61
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Ancora in tema di radiazioni, domandiamoci quanta luce solare arriva al suolo. Le sonde sovietiche Venera 9 e 10, atterrate in
pieno giorno venusiano rispettivamente il 22 e il 25 ottobre 1975,
a una distanza di 2200 chilometri l’una dall’altra, trovarono un
ambiente meno crepuscolare di quello sperimentato in ore più
mattutine, dalla Venera 8 nel 1972. Forse, è dipeso anche dalle
condizioni meteorologiche: un cielo di nubi più alto e diradato. Per
avere un’idea più precisa, la Venera 8 aveva misurato un illuminamento sui 2-300 lux col Sole mattutino basso sull’orizzonte. Per
illuminamento si intende la luce ricevuta per unità di superficie. Si
misura in lux, che equivale a una candela a 1 metro di distanza.
Con opportuni calcoli si deduceva che col Sole allo Zenit, si poteva
arrivare a 2000 lux, da paragonare ai 100.000 lux presenti quando il Sole estivo brilla sulla Terra, e al chiaro di Luna equivalente
soltanto a un quarto di lux.
Le foto scattate da Venera 9 e 10 hanno mostrato in una località
un panorama uniforme di rocce tagliate ad angoli acuti e come
prodotte dallo spezzarsi di rocce fortemente stratificate e, altrove,
rocce più arrotondate e «vecchie». Le ultime due sonde di questa
serie, Venera 13 e 14, hanno trasmesso sulla Terra straordinarie
panoramiche a colori del suolo venusiano. Da queste foto e dalle
ricerche radar sembra si possa concludere che si tratta di un’attività tettonica d’origine interna, e probabilmente vulcanica. ••19
Il radiotelescopio di Arecibo in coppia con un’antenna da 30
metri posta a circa 11 chilometri di distanza nell’agosto del 1975
ha ottenuto dei segnali radar, che, convertiti in immagini, ci hanno
mostrato una vasta regione compresa fra 46° e 75° di latitudine
Nord, e circa 80° di longitudine, una sorta di grande bacino forse
di origine meteoritica. Invece, altre zone di colore chiaro, in particolare una battezzata Maxwell, si direbbero quasi sicuramente di
natura tettonica, con effusioni laviche. Sembra pure di intravedere
alcune serie di catene montuose. «Sulla Luna non c’è nulla di
simile», dicono gli scienziati R. B. Dyce e G. H. Pettengill. Anzi,
aggiungono che le indicazioni di un’attività tettonica sono così va62
02_capitolo.indd 62
••19 Il suolo di Venere,
ripreso dalla sonda
sovietica Venera 13
nel 1982. Si scorgono
in primo piano la base
dentata della sonda, il
coperchio semicircolare
della telecamera caduto sul
terreno e un’asticella per
la calibrazione dei colori.
Il paesaggio venusiano
mostra dei lastroni di roccia
vulcanica che si perdono
in lontananza. In questa
ripresa, che è una strisciata
grandangolare, l’orizzonte
si trova in alto negli angoli a
sinistra e a destra.
(ROSCOSMOS E NASA)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••20 Il pianeta Marte.
Il caratteristico colore rosso
è dovuto alle rocce e a
polveri rossastre molto fini.
Nelle antiche mappe di
Marte comparivano «mari»
e «canali», ma si trattava di
impressioni visive e illusioni
ottiche riportate nelle prime
osservazioni telescopiche.
Anche se di queste primitive
denominazioni rimane
traccia nella nomenclatura
marziana, oggi sappiamo
che sulla superficie di Marte
non c’è acqua allo stato
liquido, ma c’è ghiaccio
nelle calotte polari.
(NASA/HST)
ste «da sollevare qualche dubbio anche sull’origine meteoritica del
grande bacino». Ricorderete gli analoghi ripensamenti di Strom
riguardo le pianure di Mercurio e della Luna.
Altrettanto importante dell’esplorazione delle sonde sovietiche
su Venere è stata quella dei Viking americani atterrati su Marte, dopo i memorabili sorvoli e l’immissione in orbita dei Mariner.
Fu specialmente il Mariner 9 che, arrivato su Marte durante una
tempesta di sabbia durata diverse settimane, non appena la polvere prese a diradare, ci rivelò un mondo tutto diverso da quello
osservato da Terra e dai precedenti Mariner. Nell’opinione dello
scienziato americano Harold Masursky, l’aspetto globale di Marte
rammentava l’immagine che noi ci facciamo della Terra all’epoca
di Pangea, cioè di quell’ipotetica massa continentale unica dalla
quale si sarebbero distaccati i continenti attuali. ••20
In breve, si vide che oltre che di crateri, Marte era ricco di poderosi vulcani, in particolare nell’emisfero settentrionale. Uno di
questi, «Olympus Mons» (Nix Olimpica) coi suoi 26 km di altezza
e 5 o 600 chilometri di diametro, è il più alto che si conosca sia
su Marte che sugli altri pianeti. Si videro lunghissimi e larghissimi
canyon che non hanno nulla a che vedere con i famosi «canali
d’irrigazione» marziani, ma indicherebbero (anche se altri scien-
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 63
02_capitolo.indd 63
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
ziati, come Ernst J. Opik sono di diverso parere) che effettivamente su Marte ci sarebbero stati dei fiumi e un’atmosfera e un
clima più umido e caldo. Nel giugno e nell’agosto del 1976 sono
arrivati i Viking 1 e 2, i quali, dopo un periodo di esplorazione in
orbita, hanno sganciato le capsule di atterraggio il 20 luglio nella
regione di «Chryse Planitia» (22,27° di latitudine Nord e 48,00°
di longitudine Ovest), e il 3 settembre a «Utopia Planitia» (40,97°
latitudine Nord, 225,67° longitudine Ovest), con lo scopo principale di rintracciare eventuali forme di vita. La parte dei Viking
rimasta in orbita serviva da collegamento con la Terra e svolgeva importanti ricerche, fra cui l’analisi della calotta polare, della
conformazione del suolo, della forma di Marte, della costituzione
dell’atmosfera. ••21
Vale la pena di riferire le difficoltà tecniche e di programmazione superate dagli ingegneri e dagli scienziati. A parte un atterraggio «morbido» per non danneggiare gli strumenti, si doveva
scegliere un luogo, basso, umido e caldo, relativamente alla rigida
temperatura di Marte che al suolo, in media, è di 23 °C sotto zero.
Queste tre condizioni, considerate le più adatte per qualche forma
di vita marziana, erano però anche piuttosto contraddittorie. Infatti, se vicino all’equatore marziano era facile trovare luoghi bassi
e caldi, quelli presumibilmente più umidi si trovano al margine
delle calotte polari. Infine, questi luoghi dovevano essere anche
64
02_capitolo.indd 64
••21 I pianeti Mercurio,
Venere e Marte, a
confronto con la Terra. Le
dimensioni sono in scala.
(WWW.FERLUGA.NET)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
molto bassi, in modo che vi dominasse una pressione superiore
ai 6,1 millibar: necessaria per trovare possibili pozze d’acqua allo
stato liquido. È una pressione, che, sulla Terra, si riscontra a circa
35 km di altezza, e su Marte a 3 km sotto il livello medio della
superficie.
A «Chryse Planitia», la pressione è risultata di 7,7 millibar, il che
farebbe presumere che si trovi a circa 5 chilometri sotto il livello
medio marziano, mentre la temperatura oscillava da un minimo
di -90°C, a un massimo di -10°C, con venti deboli di pochi metri
al secondo. In altre regioni, come al di sopra dei grandi vulcani,
si sono osservate formazioni di nubi trasportate dal vento a 200
chilometri l’ora. Sono nuvole in genere piuttosto tenui e stagionali,
in quanto sembra si formino soltanto in primavera e in estate. A
questo proposito, il Viking 1 è atterrato quando sull’emisfero settentrionale l’estate era cominciata da una decina di giorni, e corrispondeva al 361° giorno dell’anno marziano, che ha una durata di
668,6 giorni marziani, pari a 686,97 giorni terrestri.
Dopo l’atterraggio sono cominciate subito le «giornate lavorative»
del Lander, la capsula-laboratorio; giornate che i tecnici hanno chiamato SOL dalla frase Surface Operation Lander (attività del Lander
sulla superficie). SOL 0 è stata chiamata la prima giornata, iniziata
alle ore 4,13 pomeridiane (tempo locale), mentre SOL 1 è iniziata
alla mezzanotte lungo la longitudine 48,01° Ovest. L’attività del laboratorio è proseguita fino a SOL 43, corrispondente al nostro 1° settembre, quando è stata ridotta, in attesa dell’atterraggio del Viking 2.
Il panorama di Marte è un deserto rossastro disseminato di pietre di ogni dimensione, e anche il cielo è più o meno «rugginoso»
in relazione alla quantità di polveri sollevate dal vento. È un suolo
polveroso che i «bracci» dei Viking hanno scavato con facilità, ma
è anche consistente. Le rocce hanno una composizione chimica
basaltica, mentre mancherebbero i graniti. I gas atmosferici sono
formati da anidride carbonica per il 95%, azoto 2-3%, argon intorno all’1%, e poi tracce di ossigeno, monossido di carbonio o altri
gas inerti.
Anche il Viking 2 è atterrato in una «foresta» di rocce, a un livello più basso di quello di «Chryse Planitia». Contrariamente alle
aspettative, si tratta di una regione piatta e simile alla precedente,
diversa da come appariva dalle capsule rimaste in orbita, che, abbracciando un panorama più ampio, avevano notato inconfondibili
segni di crateri formatisi per impatto o vulcanismo e terreni fluviali.
Gli strumenti in orbita hanno potuto stabilire che le calotte polari nella stagione estiva sono costituite in gran parte di ghiaccio
e d’acqua, essendo evaporate le nevi invernali di anidride carbonica, e che Marte, pur rimanendo un pianeta arido, contiene
racchiusa nei minerali più acqua di quanto si ritenesse. Inoltre si è
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 65
02_capitolo.indd 65
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
visto che le calotte polari sono formate da strati di ghiaccio e strati
di polveri accumulati l’uno sull’altro per uno spessore di diversi
chilometri, e che subiscono caratteristiche erosioni. Le polveri, in
cui sono parzialmente affondati i piedi dei Lander, contengono
percentuali di materiale magnetico, forse soprattutto magnetite,
che è un ossido di ferro.
Va aggiunta qualche informazione sui vulcani e sulla costituzione interna di Marte e Venere. Si pensa che la maggior parte
dei vulcani marziani siano spenti da miliardi d’anni. I sismografi
hanno avvertito appena una o due deboli scosse, la qual cosa concorda con l’ipotesi di un pianeta ormai geologicamente inattivo da
moltissimo tempo. Lo dimostra anche l’assenza di rocce bianche
come il nostro granito e la presenza di vulcani ma non di montagne: queste si crede risultino da compressioni della crosta di un
pianeta, quelli da fuoriuscite di magma. Ciò si spiega con quanto
dicevamo che Marte è un pianeta rimasto per sempre con la crosta
unita come quella di Pangea, perché il suo «motore» interno non
avrebbe avuto la forza di spezzare i continenti.
Venere, con una massa e una densità quasi uguali a quelle del
nostro pianeta, è probabile abbia la medesima struttura e composizione interna. La mancanza di una magnetosfera è spiegabile
con la sua lenta rotazione. Marte, più piccolo e meno denso (3,9
grammi per centimetro cubo, in confronto ai 5,4 di Mercurio, 5,2
di Venere, 5,5 della Terra), deve essere composto soprattutto di
silicati pur non mancando di un nucleo di ferro. Però, siccome
Marte ruota più rapidamente della Terra, e tuttavia non ha magnetosfera, dovrebbe avere un nucleo di ferro ormai solido oppure
troppo piccolo.
Da quelle lontane «giornate lavorative» del Lander nell’estate
del 1976, l’esperimento più atteso, quello biologico, malgrado anche le recenti esplorazioni, non ha dato finora risultati conclusivi. A
causa dell’assenza di piogge da miliardi d’anni, Marte si è rivelato
un mondo che ha subito pochi mutamenti nel corso dei millenni.
Da questo si può inferire che si trovi anche in uno stato prebiologico permanente; ciò significa che la sua esplorazione ci dà l’opportunità inestimabile di studiare i fenomeni che trasformano la
materia inerte in materia vivente. Nei laboratori terrestri abbiamo
avuto la prova che certi microbi sopravvivono in un ambiente che
simula quello marziano. Perciò, i Lander hanno condotto e condurranno ancora delicati esperimenti di metabolismo, respirazione, fotosintesi su vari campioni di terreno.
L’esplorazione di Marte è proseguita attivamente, in vista della
grande avventura del secolo XXI: sbarco di astronauti sul pianeta
rosso. Fra le varie sonde che sono scese sul suolo di Marte dopo i
Viking ricordiamo il Pathfinder atterrato nel luglio 1997 in una zona
66
02_capitolo.indd 66
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••22 Il rover
Opportunity su Marte, al
bordo del cratere Victoria
nel 2006. L’immagine
è stata ripresa dallo
stesso Opportunity, qui
sovrapposto con un
fotomontaggio. (NASA)
ricca di antiche rocce, che sembrano simili al meteorite ALH84001
proveniente da Marte e che potrebbe contenere un fossile di batterio; il Mars Global Surveyor che ha compiuto centinaia di orbite attorno a Marte inviandoci un gran numero di immagini della superficie
marziana in cui si vedono dettagli di 1,5 metri, mentre i dettagli più
piccoli visti dai Viking sono di 4 metri; la sonda 2001 Mars Odyssey
in orbita attorno a Marte che aveva rilevato la presenza di ghiaccio;
la sonda Phoenix, atterrata al polo nord di Marte il 25 maggio 2007,
che ha prelevato un campione del suolo, e i suoi strumenti lo hanno
esaminato e provato la presenza di acqua, che si ritiene essenziale
per qualsiasi forma di vita.
Le esplorazioni più complesse sono state compiute dalle due
sonde gemelle Spirit e Opportunity, giunte in luoghi differenti di
Marte nel gennaio 2004. Si tratta di veicoli a 6 ruote dotati di intelligenza artificiale, capaci di analizzare il terreno e di evitare gli
ostacoli anche senza istruzioni dalla Terra, che hanno viaggiato
sul pianeta rosso per molti chilometri. Spirit ha raggiunto la vetta
di una collina marziana, mentre Opportunity ha esplorato numerosi crateri e nel 2012 non ha ancora concluso la sua onorata
attività. ••22
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 67
02_capitolo.indd 67
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
GLI ASTEROIDI E LE AVVENTUROSE COMETE
Nella sua Enciclopedia delle Scienze Filosofiche, G. W. F. Hegel
scrive che «colui che erra è pur sempre spirito», e perciò superiore
a tutte le meraviglie della natura. Succedeva, però, che fidandosi
troppo dello spirito e tenendo in nessun conto l’esperienza, incorresse in grossi errori. È noto, per esempio, che nella Discussione
filosofica sulle orbite dei pianeti dimostrava con orgogliosa sicurezza che non potevano esistere più di 7 pianeti. E ciò, otto mesi dopo
la scoperta di Cerere fatta da Giuseppe Piazzi la notte dal 1° al 2°
gennaio del 1801. Quando, poi, si trovarono anche Pallade, Giunone e Vesta, pur riconoscendo l’esistenza degli asteroidi, Hegel
proclamò che le leggi che regolavano l’ordine dei pianeti esigevano
la loro suddivisione in tre gruppi: il primo formato dai quattro pianeti interni con soltanto la Terra provvista di un satellite; il secondo
formato dai soli asteroidi, il terzo costituito dagli altri pianeti con
molti satelliti o anelli come Saturno. Quando l’americano Asaph
Hall, nel 1877, scoprì le due lune di Marte, Hegel era morto da 46
anni e non poté inventare un altro schema adattabile alla realtà.
L’intuito scientifico che mancava a Hegel, invece non difettava
in Giovanni Keplero, sebbene anch’egli fosse alquanto malato di
pitagoriche stramberie; e dopo Keplero, in uomini come Christian
Freiherr von Wolf, Johann Heinrich Lambert, e specialmente Johann Daniel Titius che enunciò la famosa legge, conosciuta come
Legge Titius-Bode, perché fu Johann Bode a pubblicizzarla. Keplero si era accorto che nel succedersi delle distanze planetarie,
quella fra Marte e Giove era troppo grande rispetto alle altre, e per
ristabilire «l’armonia» pensò che bisognava metterci un pianeta. Il
posto preciso a 2,8 U.A. lo trovò Titius, rappresentando con una
serie di numeri le distanze dei pianeti dal Sole, misurate in base alla
distanza Terra-Sole. Per esempio, aggiungendo 0,4 ai numeri della
serie 0; 0,3; 0,6; 1,2; 2,4; 4,8; 9,6; 19,2; 38,4… si ottiene 0,4; 0,7;
1,0; 1,6; 2,8; 5,2; 10,0; 19,6; 38,8: valori che si accordano con le
distanze vere fino a Urano, ma non per Nettuno e Plutone, a meno
che non si salti da Urano a Plutone, trascurando Nettuno.
Come si vede, è una «legge» per modo di dire, nonostante possa
esprimere delle relazioni non ancora ben comprese. Tuttavia, specie dopo che William Herschel aveva scoperto casualmente Urano
nel 1781, alla distanza media di 19,2 U.A. (non troppo diversa da
quella di 19,6 di Titius-Bode), questa legge era ritenuta valida e
meritevole di controllo. Fu così che, organizzata dal barone ungherese Franz Xavier von Zach, incominciò la caccia a questo corpo
celeste che si nascondeva a 2,8 U.A. Vinse, come abbiamo detto,
Giuseppe Piazzi, che non partecipava alla gara: Von Zach gli aveva
spedito l’invito, ma Piazzi non aveva ricevuto la lettera, e quando
68
02_capitolo.indd 68
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••23 L’asteroide Eros.
La sua orbita incrocia
quella della Terra e quindi
Eros rappresenta una
potenziale minaccia per
il nostro Pianeta. Questo
asteroide, lungo 33 km, è
stato raggiunto nel 2000
dalla sonda Near. (NASA)
scoprì Cerere, osservava il cielo per
compilare un catalogo stellare.
L’importanza di Cerere non consiste
soltanto nella scoperta di oggetti fino
allora sconosciuti come gli asteroidi (o
pianetini, come vengono anche chiamati per le loro esigue dimensioni), o
nella conferma della strana legge di
Titius- Bode, ma nel contributo dato
in quell’occasione da un grandissimo
matematico, Karl Friedrich Gauss, allora ventiquattrenne. Le osservazioni
di Piazzi erano state sufficienti a stabilire che l’orbita di Cerere era quasi
circolare, situata a circa 2,8 U.A., e
non allungata come quella di una cometa: quindi si trattava proprio del «pianeta mancante». Però, a causa del cattivo tempo, le
osservazioni avevano dovuto essere interrotte, e risultavano insufficienti per il calcolo dell’orbita completa. Era quasi come dire che
Cerere era stato trovato e subito perso. In realtà, i dati disponibili
non bastavano per i vecchi metodi matematici, tanto è vero che
Gauss ne inventò uno nuovo: quello dei «minimi quadrati», che gli
permise di calcolare l’orbita intera con sole 3 osservazioni.
Dopo i primi quattro e più grossi asteroidi di forma sferica – Cerere, 1000 km di diametro; Pallade, 545; Vesta, 525; Giunone, 230
(ma sembra si debbano annoverare fra i «grandi» anche Davida che
avrebbe un diametro di 285 km ed Eunomia di 260) – ne sono state
trovate alcune altre migliaia di forma irregolare. In tutto si crede
siano milioni, e naturalmente quelli più piccoli sono i più numerosi.
Piuttosto, si è constatato che non tutti circolano fra Marte e Giove,
nella cosiddetta fascia degli asteroidi, in quanto ve ne sono molti
altri che orbitano più lontano o più vicino. Fra i più interessanti, è il
gruppo degli EGA (Earth-Grazing Asteroids), asteroidi che sfiorano
la Terra, ma possono sfiorare e cadere anche su Marte e Venere.
Uno interessantissimo è stato scoperto il 7 gennaio 1976 dall’americana Eleanor Helin col telescopio di Monte Palomar. Si tratta
dell’asteroide denominato 1976 AA, e la sua particolarità consiste
nel fatto che gran parte della sua orbita si trova all’interno di quella
della Terra e si avvicina a quella di Venere. Esso conferma l’esistenza di un’altra fascia di asteroidi orbitanti attorno al Sole circa alla
stessa distanza a cui orbita la Terra e che perciò sono stati chiamati
NEO, acronimo di tre parole inglesi, Near Orbiting Objects. ••23
Ci sono gruppi di ricercatori, sia della NASA che dell’ESA, come
pure di vari osservatori astronomici, che si dedicano allo studio dei
NEO, sia per determinarne accuratamente le orbite, e scoprirne
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 69
02_capitolo.indd 69
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
altri, sia per valutare l’eventuale rischio che qualcuno di questi
cada sulla Terra con effetti devastanti, equiparabili all’esplosione
di diverse testate nucleari. Vari metodi sono stati individuati per
proteggersi da tale rischio. Oltre alla possibilità di distruggere l’oggetto pericoloso lanciandovi contro una carica nucleare, si pensa
di avvicinarlo con una grossa astronave che con la sua attrazione
gravitazionale potrebbe trascinarlo su un’orbita meno pericolosa,
oppure farci atterrare sopra un’astronave che con i suoi motori
potrebbe fargli cambiare leggermente orbita, quanto basta per evitare l’impatto. Sembrano scenari da fantascienza, e in effetti negli
ultimi anni il cinema ci ha ricamato sopra, basti pensare a colossal
hollywoodiani come Deep Impact e Armageddon. Ma il rischio di
impatto non è una fantasia. Uno di questi asteroidi in rotta di collisione, chiamato Apofis, dal nome di un dio egizio che significa
«Il distruttore», senza l’intervento umano si schianterebbe quasi
certamente sulla Terra nel 2036.
Una terza famiglia di asteroidi è stata scoperta con sonde sensibili all’infrarosso, nelle gelide regioni oltre Plutone ed è responsabile del declassamento di Plutone da pianeta ad asteroide, capostipite della famiglia dei «plutini», come abbiamo già accennato.
Uno dei principali risultati ottenuti da quando si studiano le caratteristiche fisiche oltre che orbitali degli asteroidi è la loro suddivisione in due tipi, a seconda della composizione delle loro superfici:
quelli formati da ferro e silicati, e quelli composti di carbonio. Questo fatto ci dovrebbe illuminare circa le loro origini, ma le opinioni
sono contrastanti. C’è chi sostiene la vecchia teoria dell’esplosione
di un pianeta, o della collisione fra una decina di pianetini delle
dimensioni di Cerere, e chi vede negli attuali asteroidi quanto resta
di una popolazione molto più numerosa di corpi formatisi all’inizio
del Sistema solare. Non riuscendo a unirsi in un solo pianeta per
le forze mareali esercitate da Giove, avrebbero ripreso a frammentarsi e a costituire la più formidabile santabarbara di proiettili che
bombardarono i pianeti più interni all’epoca della loro nascita. Sia
che si tratti di frammenti o di resti di corpi primordiali, tranne i
maggiori che sono all’incirca sferici, per lo più gli asteroidi hanno
forma irregolare.
Abbiamo poc’anzi affermato che Piazzi e Von Zach si accorsero
che Cerere non era una cometa, perché aveva un’orbita quasi
circolare e non allungata. Infatti l’ellitticità a volte pronunciatissima
del loro cammino è una delle principali caratteristiche delle comete, che ne denuncia anche l’età, in quanto si considerano giovani
le comete che vengono da molto lontano, al di là di Plutone, e forse
vedono il Sole da vicino per la prima volta. Tuttavia questo non è
sempre vero, dato che vi sono comete che hanno preso dimora
stabile nelle regioni più interne del Sistema solare, hanno orbite
70
02_capitolo.indd 70
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••24 La cometa di Halley
nel passaggio del 1986.
poco allungate e invecchiando hanno perso tutto il materiale volatile che circondava il loro nucleo, così da diventare asteroidi, o
essere in procinto di diventarlo.
Scoprire comete non è difficile e non richiede sempre grossi
strumenti. Non di rado basta perfino un semplice binocolo. Quel
che occorre è soprattutto l’abitudine a osservare il cielo, controllare sulle carte il campo stellare, tanta pazienza e tanta fortuna. Il
più grande scopritore di comete è stato Jean-Louis Pons (17611831), che era un semplice portiere all’Osservatorio di Marsiglia.
Ne scoprì 37, compresa la cometa che porta il nome di Encke,
perché fu questi a calcolarne l’orbita. Oggi, il record di scopritori
di comete lo detengono i Giapponesi, fra i quali si può ricordare
Hiroaki Mori che la notte del 5 ottobre del 1975 ha scoperto due
comete nello spazio di 70 minuti. Vi sono degli anni ricchi, come
il 1973, quando su 28 comete osservate, si sono trovate 9 comete
nuove; e anni poveri come il 1971 con una sola cometa. Questi
corpi celesti un tempo temuti, perché si credeva annunziassero
sventure di ogni genere, nell’Ottocento fruttavano un premio ai loro
scopritori e oggi sono diventati quasi un hobby.
Il primo passo importante nello studio delle comete lo fece Tycho Brahe, il grande astronomo danese. Osservando il cammino
della cometa del 1577, comprese che essa non costituiva un fenomeno sublunare, ma passava attraverso quelle sfere cristalline
che a quei tempi si pensava servissero a sostenere e far muovere
i pianeti. Dunque, le sfere cristalline non esistevano, e le comete
viaggiavano anche fra le dimore dei beati. La cometa del 1680
diede occasione a Newton di applicare la sua legge gravitazionale
per calcolarne l’orbita. Lo stesso metodo servì due anni dopo a
Edmund Halley per determinare l’orbita della cometa del 1682,
identificarla con quella delle comete apparse nel 1607, 1531 e
1456, e «predire con sicurezza che sarebbe ritornata nel 1758».
Il che avvenne proprio il giorno di Natale di quell’anno, quando
la individuò Georg Palitzch, un astronomo dilettante di Dresda. È
difficile rendersi conto del clamore suscitato fra gli scienziati dalla
verifica puntuale della predizione di Halley. Fu una delle cause
determinanti del discredito degli astrologi e dei maghi. ••24
Le comete non si presentano sempre con lo stesso aspetto, anche se il più consueto è quello che ne ha determinato il nome derivato dal greco kométes, chiomato. Altri le chiamavano «stelle che
fumano», e i Cinesi «scope del cielo». In generale, le più vistose
permettono di intravedere un nucleo quasi puntiforme e brillante,
circondato da una coma da cui si sviluppa, ma non sempre, una
coda di gas e polveri, oppure più code. La cometa di Chéseaux
del 1744, detta «il pavone delle comete», dispiegava non meno
di 6 code.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 71
02_capitolo.indd 71
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Le forti variazioni di luminosità in rapporto alla distanza dal Sole
suggeriscono che la luce delle comete dipende da quella solare.
Infatti, alla distanza di Giove e Saturno, dove la temperatura dello spazio è inferiore ai 100 K, una cometa è ridotta a un nucleo
solido che riflette semplicemente la luce solare come farebbe un
asteroide. Ma avvicinandosi al Sole, il calore la mette in subbuglio,
e il nucleo prende lentamente a sublimare formando un inviluppo
gassoso, la coma, che per eccitazione da parte dei fotoni solari
emette luce fluorescente.
Se potessimo vedere da vicino una cometa quando si trova all’altezza dell’orbita di Saturno, questa ci sembrerebbe una
montagna di ghiaccio sporchissimo e appena rilucente, mentre ai
grandi telescopi posti sulla Terra appare come una stellina di 16a
magnitudine, cioè 10.000 volte più debole di una stella appena
visibile a occhio nudo. Questi nuclei cometari ghiacciati, dai quali
non si è ancora sviluppata una coma, possono variare da qualche
centinaio di metri di diametro a qualche decina di chilometri. Si è
calcolato che la cometa di Encke abbia un nucleo di 1,7 km di diametro e una massa di 3000 milioni di tonnellate. La cometa di Halley è 6 volte più grande, avendo un diametro di una decina di km
e una massa di 800.000 milioni di tonnellate. La cometa record è
la Humason, molto più grande di quella di Halley, misurando 41
km di diametro con una massa di 37.500 miliardi di tonnellate. Ci
vorrebbero 8 miliardi di comete Halley per fare un pianeta come il
nostro, oppure 160 milioni di comete Humason.
Avvicinandosi al Sole, queste montagne di ghiaccio si trasformano, si complicano, si espandono enormemente nello spazio,
anche se con una costante parsimonia di mezzi. Infatti, meno di
un milionesimo della massa di una cometa fluisce a ogni istante
nella sua coma e nella sua coda. Eppure, il 99,9% della luminosità
di una cometa pienamente sviluppata proviene proprio da queste
sue componenti, mentre lo 0,1% deriva dal nucleo che le ha generate. Naturalmente, questo avviene non solo perché il nucleo,
essendo così minuscolo e compatto, espone soltanto una piccola
area alla luce del Sole, ma anche perché si limita a riflettere la
luce solare, mentre i gas che si sviluppano nella coma e nella coda
possono emettere anche luce propria fluorescente.
Tale trasformazione da un nucleo a una cometa con tanto di coda
si verifica per un tratto breve dell’orbita cometaria e per il tempo
altrettanto breve che impiega a percorrerlo, come una fuggevole
estate: pochi mesi trascorsi nelle vicinanze del Sole e dei pianeti
più interni, in confronto agli anni, ai secoli e spesso alle decine di
migliaia d’anni che trascorrono oltre Urano e Nettuno. È il caso della
cometa di Halley, avente un periodo di 77 anni, o della Kohoutek,
che si spinge ai confini del Sistema solare con un periodo di ol72
02_capitolo.indd 72
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••25 La cometa Hale-Bopp.
Si vedono bene le componenti
che formano la spettacolare
coda. Vi è una componente
gassosa, strutturata in
molteplici filamenti, che
segue il campo magnetico
interplanetario emettendo una
luce azzurrognola. La coda
di pulviscolo forma invece
una scia leggermente arcuata
lungo l’orbita cometaria
e riflette la luce solare con
un colore giallastro.
Entrambe le code si dipartono
dal nucleo, che è avvolto
nell’alone della chioma.
(WIKIMEDIA COMMONS)
tre 70.000 anni. Per contro la Encke
ha un’orbita che non arriva a quella di
Giove e un periodo di tre anni e quattro
mesi, il più breve tra quelli conosciuti.
Non tutte le comete sviluppano una
coda, ma in generale è sempre per
azione del calore solare che si formano le scie di polveri e di gas. Le scie di
polveri sono prodotte dalla pressione
esercitata dai fotoni solari che spingono i granelli fuori dalla coma e selettivamente, a seconda delle dimensioni,
e in composizione con il moto orbitale, li distribuiscono nella caratteristica
forma a ventaglio in direzione opposta
al Sole. Le code formate da gas hanno
struttura assai più complessa. Come
nella coma, i gas risplendono soprattutto per fluorescenza, ma fanno assumere alle code una forma diritta,
mentre all’interno sviluppano moti rapidi e turbolenze, che la pressione di
radiazione è troppo debole per giustificare; le code gassose dunque hanno forma allungata e sono costituite in
massima parte di ioni, ossia di molecole che per azione della luce solare
hanno perduto elettroni, trasformandosi da molecole neutre in molecole
cariche positivamente. ••25
Il meccanismo che sviluppa e modifica le code di gas è stato
compreso soltanto negli anni Cinquanta del secolo scorso, con la
scoperta del «vento solare», a cui si è accennato più volte. Questo
è costituito da un fiume di particelle cariche (protoni ed elettroni) che, insieme ai campi magnetici cui tali particelle rimangono
legate, vengono espulse in continuazione dal Sole, ma con maggiore intensità durante le tempeste solari. Sono le particelle che
nella nostra atmosfera producono le Aurore Boreali, e fenomeni
analoghi anche nelle atmosfere cometarie. In particolare, secondo
Ludwig F. B. Biermann e Fred Whipple, avviene che gli elettroni
ad alta energia del vento solare, unitamente alla radiazione elettromagnetica, ionizzano le molecole della coma. Allora il turbinio dei
campi magnetici funziona come un rastrello che separa gli ioni da
molecole e atomi non ionizzati. Mentre questi ultimi vengono lasciati dove si trovano, gli ioni subiscono un’accelerazione di alcune
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 73
02_capitolo.indd 73
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
decine di chilometri al secondo. È per questo che nelle code gassose si osservano variazioni e spostamenti di gas che percorrono
milioni di chilometri, nello spazio di mezz’ora.
Ecco perché le comete sono state chiamate anche «barometri
interplanetari»: perché rivelano la «febbre» del Sole e il cammino
percorso dal vento solare. Ed ecco perché, riassumendo, si può
affermare che se da un lato le code di polveri assomigliano al fenomeno della Luce zodiacale, la quale effettivamente non è altro
che una nube di polveri cometarie e asteroidali in orbita solare,
dall’altro le code sono il luogo di interazioni simili a quelle che
danno origine alle aurore boreali.
Avvicinandosi al Sole può darsi che alla cometa non succeda
niente di straordinario, oltre una maggiore perdita di polveri e gas.
Però può anche darsi che essa si spezzi, come è successo alla
brillantissima cometa West, il cui nucleo, nel marzo del 1966, si è
suddiviso in 4 parti: un caso piuttosto raro (il precedente avvenne
alla cometa Brooks 2, nel 1889) che dimostra a un tempo sia la
costituzione dei nuclei, che il destino delle comete e la durata della
loro vita. Queste e altre osservazioni condussero a fine Ottocento
all’ipotesi delle comete simili a un «banco di ghiaia» e di polveri
come quelle delle meteore, ricoperte di gas ghiacciati.
È opportuno ricordare a questo punto il contributo dato da due
italiani alla comprensione della natura chimico-fisica delle comete.
Fu nel 1860, quando l’astrofisica era appena nata e ancora pochi
credevano nelle sue possibilità, che Giambattista Donati rilevò i
primi spettri cometari e individuò alcuni degli elementi di cui erano
composte le comete. A Giovanni Schiaparelli va il merito di aver
dimostrato nel 1866 una stretta relazione fra meteore e comete,
provando che le meteore di agosto seguivano la medesima orbita della cometa Tuttle del 1862. Perciò, le celebri «lacrime di
San Lorenzo» altro non sono che le polveri perdute dalla suddetta cometa, ne percorrono la medesima orbita, e quando la Terra
incrocia quest’orbita, le polveri bruciano non appena penetrano
negli strati più alti della nostra atmosfera e ne eccitano le molecole
dando luogo alla striscia luminosa erroneamente chiamata «stella
cadente». Analogamente, le stelle cadenti che vediamo negli altri
mesi dell’anno sono le polveri di altre comete.
Il modello «banco di ghiaia» è stato criticato, perché se da un
lato poteva spiegare l’accendersi delle comete che si avvicinano
al Sole, d’altra parte non spiegava la lunga vita di alcune di esse, e
in particolare la grande quantità di gas sfuggenti da certi nuclei. In
altre parole, occorreva un modello che comprendesse una maggiore quantità di sostanze volatili. Per esempio, la Encke è stata
osservata per oltre 50 rivoluzioni, ma dal materiale abbandonato
lungo il cammino, come le stelle filanti che si vedono a giugno
74
02_capitolo.indd 74
••26 Il nucleo della
cometa Hartley 2,
fotografato dalla sonda
Epoxy nel 2010. (NASA/JPL)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
e a novembre, Whipple ha dimostrato che deve aver compiuto
almeno 1500 rivoluzioni. Se fosse costituita da un banco di ghiaia
e polveri rivestite di ghiaccio, non avrebbe potuto campare tanto
a lungo. ••26
È stato da queste e da altre considerazioni che lo stesso Whipple
ha proposto il modello «iceberg sporco»: una montagna di ghiacci
di metano, ammoniaca e acqua, letteralmente disseminata o mescolata a minerali, come polveri di ferro, nichel, magnesio, silicio
e altri elementi.
La teoria spiega anche certe perturbazioni rilevate nel cammino
di alcune comete; non causate dagli altri pianeti e dovute a effetti
«non-gravitazionali», come una specie di «effetto-razzo». Lo sfuggire dei gas dalla parte esposta al Sole di una cometa tende ad allontanarla in direzione contraria. Supponendo che la cometa ruoti
come tutti i corpi celesti, la rotazione introduce una componente
nella propulsione lungo l’orbita. Quando la rotazione ha direzione
opposta al moto di rivoluzione, frena la velocità orbitale e la cometa
prende a scendere verso il Sole, come pare succeda alla cometa
Encke. Avviene il contrario quando la cometa ruota nella stessa
direzione del moto di rivoluzione.
Chiarito il funzionamento e la composizione di questi corpi celesti, occorre chiedersi: qual è l’origine delle comete? Un tempo
si pensava fossero fenomeni meteorologici e limitati alla Terra. Poi
si passò all’opinione contraria e si disse che erano visitatrici forestiere provenienti dagli spazi interstellari dove ritornavano, tranne
quelle che si avventuravano troppo vicino a Giove e agli altri grossi
pianeti. Con la loro forza d’attrazione ciascuno di essi aveva aggiunto una famiglia di comete a quella dei rispettivi satelliti. Oggi,
non si crede molto alla origine interstellare delle comete, perché
non se ne è trovata nemmeno una che abbia un’orbita sicuramente iperbolica. I dati orbitali ci dicono invece che appartengono tutte
al Sistema solare, anche se nate nella sua più lontana periferia.
Così si ritiene plausibile l’ipotesi di Jan Hendrik Oort di una fascia
di comete estesa fino ai confini del Sistema solare e costituita dai
resti della nebulosa primitiva: blocchi di molecole ghiacciate e polveri, cioè nuclei cometari.
Alle maggiori distanze si muovono a velocità dell’ordine di 100
metri al secondo, alcune addirittura come oscure lumache intorno
a un Sole ridotto a un puntino luminoso che quasi non le trattiene
più. In queste condizioni, basta un nulla, una perturbazione leggera di una stella vicina o l’attrazione combinata di Giove e degli altri
pianeti, per alterare la loro velocità e direzione, costringendole a
un lunghissimo e avventuroso pellegrinaggio verso il Sole. Se questa ipotesi è vera, lo sapremo fra qualche anno quando varie sonde
spaziali potranno ripetere l’impresa della sonda Giotto – che come
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 75
02_capitolo.indd 75
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
••27 Il nucleo della
cometa di Halley,
fotografato dalla sonda
europea Giotto nel 1986.
Si vedono i getti di gas e di
pulviscolo che fuoriescono
da crateri o avvallamenti.
(ESA)
vedremo è andata a guardare da vicino la cometa di Halley durante il passaggio del 1986 – e addirittura potranno scendere su una
cometa dandoci la possibilità di conoscere un pezzetto di quella
nebulosa da cui è nato il Sole e tutto il suo sistema planetario.
Il passaggio della cometa di Halley nel 1986 fu un’occasione
unica per studiare questa famosa cometa con tutti i mezzi che la
tecnologia ci mette oggi a disposizione, e in particolare la tecnologia spaziale.
L’URSS mandò due sonde, Vega 1 e Vega 2 a girare attorno
alla cometa affinché potessero inviarci delle immagini. Vega 1 è
passata a 8890 km dal nucleo, Vega 2 è arrivata un po’ più vicina,
a 8030 km dal nucleo.
Anche il Giappone ha inviato due sonde, Sakigake (pioniere) e
Suisei (cometa). La prima passò a quasi 7 milioni di km dal nucleo,
la seconda a 151.000 km.
L’Agenzia spaziale europea (ESA) registrò un grande successo
con la sonda Giotto, che passò a soli 596 km dal nucleo e riuscì
a riprenderne e inviare splendide immagini fino a una distanza di
soli 1372 km dal nucleo prima che la camera fosse messa fuori
uso dal bombardamento delle particelle. La sonda fu chiamata
Giotto perché la cometa al suo passaggio del 1301 fu dipinta dal
celebre pittore nella sua Annunciazione nella cappella degli Scrovegni a Padova.
La Giotto ci ha mostrato un nucleo a forma di patata, lungo 15
76
02_capitolo.indd 76
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
km e largo 8, di colore molto scuro, come catrame. Nella chioma
la molecola più abbondante è quella dell’acqua, ma ci sono anche
molecole di anidride carbonica, metano e ammoniaca. ••27
Il prossimo passaggio avverrà nel 2061, mentre i passaggi considerati certi sono avvenuti nel 240, 164, 87 e 12 a.C, nel 66, 141,
218, 295, 374, 451, 530, 607, 684, 760, 837, 912, 989, 1066,
1145, 1222, 1301, 1378, 1456, 1531, 1607, 1682, 1759, 1835,
1910.
Si può dire che la cometa di Halley ha assistito a gran parte della
storia umana.
I PIANETI DI GHIACCIO: I QUATTRO GRANDI
Giove è un pianeta così grosso, che se per assurdo il Sole svanisse,
la Terra e tutti gli altri pianeti sarebbero costretti a girargli intorno.
Giove viaggia intorno al Sole a una distanza media di 778,3 milioni di chilometri e percorre la sua orbita in 11 anni, 10 mesi e 17
giorni alla velocità media di circa 13 km al secondo.
In confronto, la velocità della Terra è più che doppia: 30 km al
secondo. La massa di Giove è due volte e mezzo la massa degli
altri pianeti messi insieme, o quasi 318 volte quella della Terra. La
sua composizione chimica è molto simile alla composizione del
Sole, ma non la sua struttura, che del resto non assomiglia neppure a quella dei pianeti più interni, detti anche terrestri. Infatti,
Giove è quasi del tutto liquido, tranne un nucleo solido relativamente piccolo. Più in dettaglio, si deduce che al di sopra di questo
nucleo di composizione terrestre e con un diametro di circa 9000
km, vi è uno strato alto 40.000 km di idrogeno metallico liquido,
ricoperto da uno strato di idrogeno molecolare di 24.000 km. Il
tutto ancora avvolto da un migliaio di chilometri di atmosfera altrettanto complessa, composta, dal basso verso l’alto da cristalli di
ghiaccio, cristalli di idrosolfuro di ammonio e cristalli di ammoniaca, sotto un tetto di nuvole di idrogeno gassoso. A questo livello
la temperatura si aggira sui -140, -150 °C, mentre a 5000 km di
profondità si superano i 2000 °C e l’idrogeno diventa sempre più
denso. Scendendo a 24.000 km, sotto una pressione di 3 milioni
di atmosfere e a una temperatura di 11.000 °C, incomincia la
regione dell’idrogeno metallico, un tipo di idrogeno che in piccole
quantità si è ottenuto pure in laboratorio e che non è propriamente solido, ma si può assimilare a una sorta di melma, ottima
conduttrice di energia elettrica. Nel nocciolo di Giove si stima che
la pressione raggiunga 40 milioni di atmosfere, mentre la temperatura deve aggirarsi sui 30.000 °C, troppo pochi perché possano
innescarsi reazioni nucleari come sul Sole. Vi è chi dice che Giove
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 77
02_capitolo.indd 77
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
è quasi una stella: in realtà per diventarlo dovrebbe essere almeno
70 volte più grosso. ••28
Fin qui non abbiamo parlato di una superficie solida come quella dei pianeti simili alla Terra; infatti Giove non ha una crosta, ma è
tutto liquido fino al nucleo. Questa affermazione è suffragata dalla
maggiore e migliore quantità di dati di osservazione e dal calcolo
teorico.
Grazie alla sua grossa massa Giove esercita una forte attrazione
gravitazionale sulle comete e gli asteroidi e qualcuno ogni tanto
precipita sul pianeta. Particolarmente interessante è stato l’impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9 nel 1994. Questa cometa aveva di strano di essere in orbita attorno a Giove e non direttamente
intorno al Sole. L’attrazione del pianeta causò la frammentazione
del nucleo, e dalle osservazioni dell’orbita si poteva prevedere che
sarebbe caduta su Giove nel luglio 1994.
L’impatto coi 21 frammenti del nucleo avvenne effettivamente
fra il 16 e il 22 luglio di quell’anno e fu osservato dal telescopio
spaziale Hubble, dal satellite Rosat e dalla sonda Galileo diretta
verso Giove. Per la prima volta si è potuto osservare «in diretta» le
fasi dell’evento.
Quando il primo frammento A colpì l’emisfero sud di Giove fu osservata una palla di fuoco e un getto che si innalzò fino a circa 1000
km. La massima liberazione d’energia fu sprigionata dall’impatto
del frammento G, ed è stata stimata pari a 6 milioni di megaton.
Le cicatrici dei vari impatti erano delle macchie scure e restarono visibili per parecchi mesi. Un altro impatto notevole, rivelato
dalla cicatrice, è avvenuto nel luglio 2009.
Tornando alla struttura e la composizione interna di tutti i corpi
celesti, dagli asteroidi alla Terra, al Sole, va detto in effetti che si
ricavano dalla loro massa e forma, dai fenomeni che producono e
dalla composizione della superficie visibile (solida, liquida o gassosa che sia), nonché da teorie e ipotesi, comprese quelle più generali concernenti la nascita di questi corpi dalla nebulosa primitiva di
cui abbiamo parlato. Abbiamo intitolato questo paragrafo ai «pianeti ghiacciati», riferendoci ai quattro giganti (Giove, Saturno, Urano
e Nettuno) che occupano le orbite più esterne del nostro Sistema
solare. Abbiamo detto che su Giove alla profondità di 5000 km la
temperatura oltrepassa i 2000 °C per arrivare fino a 30.000 °C man
mano che si sprofonda. In effetti potevamo definirli anche gassosi
o semiliquidi, ma con il termine «ghiacciati» abbiamo voluto sottolineare il fatto che alla loro distanza dal Sole la condizione principale
che li ha resi quali sono, ricchi di elementi volatili come l’idrogeno
e l’elio, piuttosto che di minerali, è stata proprio la temperatura.
Giove è bellissimo a vedersi anche a occhio nudo. Sebbene
5,25 volte meno luminoso di Venere, perché questa al suo mas78
02_capitolo.indd 78
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••28 Il pianeta Giove con
tre dei suoi satelliti. Sono
visibili i satelliti Io (davanti a
Giove), Europa (a destra) e
Callisto (in basso), mentre
sul pianeta si può notare a
sinistra la grande macchia
rossa. La foto è stata fatta
dal Voyager 1 nel 1979.
(NASA/JPL)
simo raggiunge una magnitudine -4,3 e Giove -2,5, può persino
proiettare un’ombra dietro gli oggetti, come si è constatato frequentemente anche con Venere. Il celebre astronomo francese
di fine Ottocento Camille Flammarion, afferma di aver osservato
varie volte l’ombra di Venere, e una volta anche quella di Giove,
mentre camminava lungo un corridoio esterno, davanti a un muro
bianco. Molto note e facili da individuare, anche con un piccolo
telescopio, le fasce scure intervallate dalle zone chiare che contraddistinguono, insieme alla famosa grande macchia rossa, l’atmosfera gioviana. Che questa macchia sia un immenso uragano,
che da almeno tre secoli (e cioè da quando fu visto per la prima
volta da Gian Domenico Cassini nel 1665) imperversa nella regione subtropicale di Giove, ormai è ammesso quasi da tutti. Tuttavia
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 79
02_capitolo.indd 79
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
esistono altre macchie rosse più piccole e meno durevoli, come
quella scoperta dal Pioneer 10 e non più rilevata l’anno seguente
dal Pioneer 11. ••29
Non si può non rammentare la storica esplorazione di queste
due sonde americane, che, il 4 dicembre 1973 e il 3 dicembre
1974, hanno sorvolato il più grosso dei pianeti, rispettivamente
da una distanza di 131.400 e di 46.400 km, con due traiettorie
di lancio che hanno costituito esse stesse una delle più belle imprese della tecnica astronautica. Infatti, non si trattava di studiare
soltanto Giove e il suo ambiente, ma di scoprire se le sonde si potevano avvicinare abbastanza per sfruttarne l’energia gravitazionale
rimanendo «vive», e proseguire oltre i confini del Sistema solare,
all’esplorazione di Saturno e degli altri pianeti.
Occorre sapere che, senza l’aiuto di Giove, nemmeno i più potenti razzi vettori oggi disponibili dagli Stati Uniti o da altre potenze
sarebbero capaci di scagliare una nave spaziale fuori dal Sistema
solare. Perciò, si è imitata la natura, e in particolare le comete,
che vengono catturate o respinte da Giove nello spazio interstellare, a seconda di come gli si avvicinano. La manovra sembrerà
strana, se si pensa che una sonda diretta verso un corpo celeste,
prima viene accelerata dalla sua forza gravitazionale, poi, una
volta compiuto il sorpasso, subisce una decelerazione all’incirca
della stessa misura. Questo sarebbe del tutto vero, se il pianeta
fosse un oggetto stazionario. Invece si muove lungo la sua orbita,
col risultato che quando la sonda sorpassa il pianeta, contemporaneamente il pianeta si allontana dalla sonda. Ne deriva un
piccolo incremento di accelerazione, che permette alla sonda di
uscire dal Sistema solare, oppure, in determinati casi, di trovarsi
all’appuntamento con altri pianeti. Così, a differenza del Pioneer
10 che incontrò Giove andando in senso antiorario, passandogli
da destra a sinistra e sul piano dell’equatore, prima di involarsi
verso le orbite dei pianeti più esterni e oltre il Sistema solare in
direzione di Aldebaran, il Pioneer 11 ha sorpassato Giove in senso
orario passando prima sotto il Polo Sud e poi sopra il Polo Nord,
iniziando, per la spinta di Giove, un viaggio alto sull’eclittica, che,
dopo averlo ricondotto verso il Sole, lo ha portato a esplorare Saturno il 5 settembre 1979.
La sonda Galileo della NASA, lanciata il 18 ottobre 1989, è stata
la prima dedicata in particolare allo studio di Giove e della sua
numerosa famiglia. Il 7 dicembre 1995 la sonda entrò in orbita
attorno al pianeta. 147 giorni prima, il 13 luglio, era stato liberato
il modulo di discesa nell’atmosfera di Giove. La sonda è stata distrutta nell’atmosfera di Giove il 21 settembre 2000 dopo 14 anni
di attività nel corso dei quali ha studiato i frammenti della cometa
Shoemaker-Levi 9, ha analizzato l’atmosfera gioviana rivelando la
80
02_capitolo.indd 80
••29 La macchia rossa
di Giove. (NASA/B.JOHNSSON)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
presenza di venti a più di 600 km/ora, ha fornito preziosi dati sulla
geologia, la mineralogia, i campi magnetici dei 4 satelliti maggiori
scoperti da Galileo nel 1610, Io, Europa, Ganimede e Callisto. Particolarmente importante è stata la scoperta di un grande oceano
sotto la superficie ghiacciata di Europa. Il che fa supporre che lì si
possa forse trovare qualche forma di vita primitiva. ••30
Prima dell’incontro con Giove dei Pioneer, Van Allen, lo scopritore delle fasce di radiazione che circondano la Terra, aveva
avvertito che di Giove non si sapeva molto, ma che la radiazione
che lo avvolgeva poteva essere tanto forte da mettere fuori uso
tutti i circuiti e gli strumenti anche molto prima del sorvolo. Perciò
i tecnici avevano dovuto risolvere tanti problemi, per proteggere
non soltanto la parte elettronica, ma anche gli isolanti intorno ai fili:
il vetro ordinario, infatti, esposto alla radiazione sarebbe diventato
opaco, mentre i consueti isolanti dei fili si sarebbero polverizzati.
Mentre il Pioneer 10 si avvicinava ci fu un momento in cui sembrò
che non potesse farcela.
Fortunatamente i Pioneer 10 e 11 sono sopravvissuti e seguitarono a trasmettere per molti anni. Si è così scoperto che le particelle intrappolate dal campo magnetico gioviano producono delle
fasce di radiazione da 10.000 a 1 milione di volte più forti di quelle
della Terra, e formano una specie di disco appiattito con un diametro di 6,4 milioni di km, inclinato di 15° rispetto all’asse di rotazione
del pianeta. Ne risulta che il disco di particelle intrappolate oscilla
in su e in giù di circa 30° a ogni rotazione, che dura 10 ore. Il campo magnetico di Giove è di polarità opposta a quello della Terra e
10 volte più intenso. Mediante il Pioneer 10, che nel febbraio del
1976 sorpassò l’orbita di Saturno, si è accertato che la «coda magnetica» di Giove si allunga ben oltre Saturno, e si innalza a circa
6° sopra il piano dell’orbita di Giove.
Siccome il vento solare soffia radialmente dal Sole (a una velocità di circa 500 km/s) la coda dovrebbe giacere per lo più sul
piano orbitale gioviano. Tuttavia, si è visto che il vento solare è
molto turbolento almeno fino all’orbita di Saturno, il che spiega
come la coda magnetica, o parte di essa, venga soffiata anche
in alto, dove il Pioneer 10 l’ha incontrata. Cosa succede quando
Saturno si imbatte nella coda magnetica di Giove? Questo fenomeno avviene una volta ogni 20 anni, quando Giove e Saturno si
trovano allineati dalla stessa parte rispetto al Sole, come accadde
nell’aprile del 1981.
Riguardo alle possibilità di vita su Giove è fuor di dubbio che
nella sua atmosfera esistono molecole da cui potrebbe nascere la
vita: si tratta comunque di una eventualità poco probabile, specialmente se si considerano le correnti di gas che salgono e scendono
producendo formidabili tempeste come la grande macchia rossa.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 81
02_capitolo.indd 81
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
È evidente che questo ambiente turbinoso è poco adatto sia allo
sviluppo che al mantenimento di forme di vita, per quanto semplici
e primitive.
I programmi di studio per mezzo di sonde spaziali si stanno
ora occupando dei maggiori tra i satelliti di Giove: è infatti probabile che essi stiano ancora orbitando vicino alle regioni in cui si
formarono, e offrano la possibilità di esaminare esemplari locali
della nebulosa primitiva. Al contrario le lune più piccole si ritiene
siano «vagabonde interplanetarie», catturate dai pianeti cui ora
appartengono, in qualche periodo più o meno lontano della loro
esistenza. Si tenta inoltre di risolvere il problema del modo in cui
lo, una delle quattro grosse lune di Giove, agisca quasi da interruttore nelle emissioni radio del pianeta, oltre ad accertare l’intensità alle varie lunghezze d’onda delle radioemissioni di Saturno, di
Urano e di Nettuno, senza dimenticare quelle della Terra, specie
in associazione con le aurore boreali.
Nota a tutti è la vicenda di Galileo che il 25 luglio 1610 osservando Saturno con il suo piccolo cannocchiale a 32 ingrandimenti
notò che aveva un aspetto singolare, come se avesse «gli orecchioni»; egli comunicò questo fatto insolito e misterioso ai colleghi
astronomi con un messaggio cifrato, secondo l’usanza dei tempi
per rivendicare la priorità delle scoperte scientifiche. Il messaggio consisteva di 37 lettere SMAISMRMILMEPOETALEVMIBUNENUGTTAVIRAS, e naturalmente nessuno lo comprese finché
Galileo non ne rivelò il significato nel novembre 1610: Altissimum
planetam tergeminum observavi (ho osservato che il pianeta più
lontano è tricorporeo).
Il mistero venne risolto nel 1655 da Christian Huygens, mediante
un telescopio lungo 7 metri, con lenti lavorate secondo un metodo
migliore, e i consigli e l’esperienza del grande filosofo Benedetto
Spinoza, il quale, come si sa, per tirare avanti faceva anche l’ottico.
Egli poté vedere che ciò che aveva dato l’impressione di un oggetto
tricorporeo era l’anello che circondava Saturno. Quando esso si
presentava di taglio diventava per la sua sottigliezza invisibile, e
quando si inclinava dava a Saturno aspetti impossibili a determinarsi coi piccoli e imperfetti cannocchiali del tempo di Galileo.
Nel 1656, Huygens scoprì anche Titano, la più grossa luna di
Saturno e del Sistema solare dopo Tritone. Così, in quell’anno, si
conoscevano 6 pianeti (compresa la Terra) e 6 satelliti (compresa
la Luna). A Huygens questo numero e questa simmetria parvero
un fatto tanto straordinario che venne preso, si direbbe, da una
crisi di misticismo, tanto frequente anche fra gli scienziati più razionali, oltre che tra i filosofi alla «Hegel». Egli affermò dunque che
«non ci possono essere altri pianeti né satelliti».
Venne però smentito alcuni anni dopo da Giovanni Domenico
82
02_capitolo.indd 82
••30 Il satellite Europa.
(NASA/GALILEO)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••31 Gli anelli di Saturno
in controluce. Il puntino
fra gli anelli è la Terra,
lontanissima. (NASA/JPL)
Cassini, il quale dal 1671 al 1684 scoprì altri 4 satelliti di Saturno:
Giapeto, Rea, Dione e Teti; e inoltre, nel 1675, si accorse che l’anello di Saturno era diviso in due, e quindi bisognava parlare di anelli
e non di un anello solo. Questi anelli sono composti da miliardi di
pezzi di ghiaccio grossi come un pugno o fino a qualche metro di
diametro, e perciò Saturno è stato anche chiamato «il pianeta con
un miliardo di lune». Certo, per accorgersi che Saturno ha più di
un anello occorre un telescopio di almeno 15 cm di diametro, che
permetta di distinguere anche quattro o cinque delle sue 11 lune,
insieme ad alcuni particolari della superficie di Saturno, come le
fasce e il colore della regione equatoriale, più biancastra delle regioni polari. A questo proposito è interessante riportare una curiosa
notizia tratta dal volume Music of the Spheres, di Guy Murchie, che
scrive: «Uno dei grandi misteri connessi con Saturno è il problema
ancora irrisolto di come gli antichi Maori della Nuova Zelanda conoscessero gli anelli, perché in effetti, se ne parla in una loro leggenda
molto più antica di Galileo». Forse che in un passato perduto, una
civiltà scomparsa, quella del «continente perduto di Mu», di cui i
Maori sarebbero i discendenti, conoscesse l’uso degli specchi concavi parabolici, o, in altre parole, del telescopio? Non è certo facile
cercare una risposta razionale per questa domanda.
Un problema complesso è quello concernente l’origine e formazione degli anelli. Vi è chi si attiene più o meno strettamente all’opinione dell’astronomo francese Édouard Albert Roche, secondo cui
essi sono nati dai resti di un satellite di Saturno accostatosi troppo
al pianeta e distrutto da quelle stesse forze mareali che agiscono
fra la Terra e la Luna e, in misura minore, fra il Sole e la Terra. Però,
non si capisce come un satellite si sia potuto formare troppo vicino
a Saturno e poi venirne distrutto; oppure, come si sia potuto avvicinare tanto da oltrepassare quel limite, detto «limite di Roche»
dove le forze mareali di Saturno, o di qualsiasi altro pianeta, sono
tanto forti da distruggere un altro corpo di non sufficiente densità
o coesione. ••31
Altri condividono invece l’opinione di Opik. Egli sostiene che gli
anelli di Saturno sono il resto della nubecola che formò il pianeta,
le cui forze mareali impedirono a questi residui situati all’interno del
limite di Roche di riunirsi in un corpo unico formando un satellite.
Ma come è possibile che quella miriade di «chicchi di grandine» che costituisce gli anelli abbia potuto mantenersi in un’orbita
quasi circolare senza disperdersi per perturbazioni di vario genere
che avrebbero dovuto farli cadere prima o poi su Saturno come i
satelliti artificiali in orbita terrestre finiscono sempre per ricadere
sulla Terra? Ciò vuol dire che gli anelli non sono un fenomeno che
risale all’origine di Saturno, ma dovrebbero essere un fenomeno
molto più recente e forse prodotto dall’incontro di un asteroide o
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 83
02_capitolo.indd 83
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
di un satellite con Saturno; oppure derivare dal materiale perduto
da qualche satellite di Saturno eroso dai meteoriti.
Recentemente si è poi scoperto che anche Giove, Urano e Nettuno hanno un sistema di anelli, sebbene molto meno cospicuo
di quello di Saturno. Per finire con Saturno, sembra che sia costituito da un nucleo di materiale roccioso, come Giove. Nei calcoli
dei teorici, dovrebbe avere un diametro di 20.000 km, ed essere
avviluppato da uno strato di ghiaccio alto 5000 km e un altro di
idrogeno metallico di 8000 km, il tutto ricoperto da 37.000 km di
idrogeno molecolare, sul quale infine galleggiano nubi di idrogeno,
elio, metano, ammoniaca. Sono questi gas che danno a Saturno il
suo colore giallastro, anzi «giallo plombé», tanto caratteristico da
essere entrato nella letteratura medica: è un’eredità astrologica di
quando si credeva che esistesse un’affinità fra il piombo e il pianeta Saturno, perciò anche oggi i medici chiamano «saturnismo»
le intossicazioni da piombo. In realtà, il piombo nelle nuvole di
Saturno non c’è, e i suoi colori sono dovuti probabilmente a cristalli
ammoniacali con tracce di metalli alcalini. ••32
Se possiamo dire che i pianeti più esterni formano la famiglia dei
pianeti di ghiaccio, dobbiamo però ammettere che si tratta di una
famiglia alquanto eterogenea. Già fra Giove e Saturno esistono notevoli differenze, che non riguardano soltanto gli anelli di quest’ultimo, ma anche la massa e il moto. Infatti, non soltanto Saturno
è notevolmente più piccolo di Giove, equivalendo quest’ultimo a
317,9 masse terrestri contro le 95,2 del primo; ma anche il periodo
di rotazione è diverso, in quanto il giorno di Saturno è di 10h 14m, in
confronto alle 9h 50m 30s di Giove. Sebbene le differenze fra i due
più grossi pianeti del sistema siano tante e molto significative, tuttavia ancora più straordinarie si stanno rivelando le differenze fra
Giove e Saturno da una parte, e Urano e Nettuno dall’altra. Urano
fu scoperto per caso il 13 marzo 1781 da William Herschel che a
quell’epoca era un astrofilo, un dilettante di astronomia quasi sconosciuto. Da principio, Herschel pensò di vedere nel suo telescopio una cometa, poi altre osservazioni rivelarono che si trattava di
un nuovo pianeta. La cosa strana è che, pur essendo molto debole
(magnitudine 5,7), è però visibile a occhio nudo, e quindi fa meraviglia che per tanti millenni astrologi e astronomi non lo abbiano
individuato, scambiandolo per una stella. L’esistenza di Nettuno,
visibile soltanto al telescopio, venne invece dedotta e calcolata in
base a perturbazioni nel moto di Urano, prima che il pianeta venisse osservato direttamente. Fu un’altra conferma della validità della
teoria della gravitazione newtoniana. I calcoli e le previsioni sulla
posizione di Nettuno furono eseguiti quasi contemporaneamente
dall’astronomo inglese John Couch Adams e dal francese UrbainJean-Joseph Le Verrier, il quale nel 1846 comunicò i risultati a
84
02_capitolo.indd 84
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
••32 Il pianeta Saturno
proietta la sua ombra sugli
anelli. Il globo gassoso del
pianeta è avvolto da fasce
nuvolose delicatamente
colorate. Gli anelli, costituiti
da minuscoli frammenti
ghiacciati, hanno una
struttura complessa con
molteplici suddivisioni
parzialmente trasparenti,
che a loro volta proiettano
un’ombra azzurrata
sull’emisfero inferiore del
pianeta. (NASA CASSINI)
un allievo tedesco, Johann Gottfried Galle, perché cercasse nella
regione di cielo indicata. Il pianeta venne scoperto quasi subito, il
23 settembre di quello stesso anno. In realtà, la storia è molto più
complicata: se Adams non avesse avuto un direttore che gli tenne
per mesi i risultati nel cassetto, è probabile che l’onore della scoperta di Nettuno sarebbe andata più a lui che a Le Verrier, grande
astronomo e matematico, ma anche antipaticissimo.
Quando Le Verrier fece questi calcoli aveva 33 o 34 anni; lo occuparono per undici mesi, nei quali riempì di numeri più di 10.000
pagine, concludendo: «Si possono giustificare tutte le perturbazioni
di Urano mediante l’azione di un pianeta avente una massa molto
vicina a quella di Urano e di cui la longitudine eliocentrica al 1°
gennaio 1847 sarà all’incirca 325°». In seguito, in una memoria del
31 agosto 1846 precisò meglio questa longitudine: 326°32 . Galle,
ricevuta a Berlino l’informazione, trovò una stella di 8a magnitudine
a 327°24 , uno scarto minore di due lune piene rispetto alla posizione prevista. Era Nettuno. Il nome fu suggerito da Le Verrier forse
per il suo colore verdastro che ricordava il mare e il suo antico dio.
Le ricerche più recenti hanno dimostrato che Urano, pur avendo la stessa massa stimata in precedenza, è risultato più grande, e
perciò ha una densità di 1,3 volte quella dell’acqua, vicina alla densità di Saturno, che è l’unico pianeta con densità minore dell’ac-
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 85
02_capitolo.indd 85
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
qua. Si sa, infatti, che era molto difficile
misurare il diametro di Urano per i suoi
contorni molto sfumati, e quindi si davano
misure varianti tra i 48.000 e i 51.000 km,
mentre le ultime stime danno 53.440 km.
La sorpresa più grossa tuttavia ci è venuta da osservazioni eseguite da un aereo
d’alta quota in occasione dell’occultazione di una stella (SAO 150 687) da parte
del pianeta. Questa stella è stata brevemente occultata due volte dai corpi vicini
a Urano, che hanno tutta l’apparenza di
anelli come quelli di Saturno. Andando
dall’interno verso l’esterno troviamo U2R,
con raggio da 37.000 a 39.500 km, U6R
con raggio di 41.850 km, U5R con raggio
di 42.240 km, U4R con raggio di 42.580
km. Altri anelli sono stati scoperti da Voyager 2 e sono indicati dalle lettere greche
a, b, h, g, d, l ed e con raggi compresi
fra 44.730 e 51.160 km. Secondo James
Elliot dell’Università Cornell, che ha fatto
queste osservazioni, gli anelli più interni
formerebbero una banda larga 7000 km.
Ciascuno degli anelli più interni avrebbe
un’ampiezza di una decina di km mentre
quello più esterno arriverebbe a 100 km.
Questo sarebbe il più spesso o più denso,
dato che occultava circa il 90% della luce
della stella (in confronto al 50% occultata
da ciascuno degli altri anelli), e sarebbe
anche asimmetrico, per ragioni che non
sappiamo, ma forse dipendenti dal fatto
che l’anello non giace sullo stesso piano
degli altri.
Un’altra caratteristica ben nota di Urano è l’inclinazione del suo
equatore quasi ad angolo retto (98°) rispetto all’eclittica, tanto che
sembra ruzzolare piuttosto che ruotare su se stesso. Ebbene, fino
a oggi si credeva che questa rotazione avvenisse in circa 10 ore e
tre quarti, cioè una rotazione veloce che doveva appiattire Urano
(tenuto conto della densità) quasi alla stessa maniera di Giove e
Saturno. Al contrario nuovi metodi di misura ci danno un pianeta
perfettamente rotondo. Le osservazioni di Voyager 2 danno invece
un periodo di 17 ore e 12 minuti. Un fatto analogo è vero anche
per Nettuno. ••33-34
86
02_capitolo.indd 86
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
Come si vede, la Terra, Marte, Urano e Nettuno hanno all’incirca
lo stesso periodo di rotazione, e tutti e quattro sono composti di
elementi condensabili, rocce e ghiaccio, in contrasto con Giove e
Saturno, fatti soprattutto di idrogeno e ruotanti con velocità doppia.
Questi fatti sono forse dipesi dalla massa e dalla forza gravitazionale
dei due ultimi, i quali, attraendo materiale dalla nebulosa primitiva,
anche da molto lontano, hanno incrementato sia la massa che il
momento angolare, acquistando l’attuale rapida rotazione. Sembrerebbe dunque di poter distinguere i pianeti del Sistema solare
in due categorie: terrestri, per il loro periodo di rotazione non troppo
dissimile da quello della Terra e la costituzione di elementi condensabili, e gioviani, per la loro più rapida rotazione con conseguente
schiacciamento polare e costituzione di elementi volatili. Alcuni Autori preferiscono tuttavia ripartire i pianeti in: terrestri (da Mercurio
a Marte), gioviani (Giove e Saturno) e uraniani (Urano e Nettuno).
In realtà, la maggiorazione dei diametri di Urano e Nettuno e quindi
la loro minore densità, rende difficile mantenere questa distinzione,
in quanto presuppone negli uraniani proprio una densità maggiore
di quelli gioviani, ma minore dei pianeti terrestri, con conseguenti
differenze di composizione chimica e processi evolutivi.
••33 Urano con i suoi
anelli e satelliti. In questa
ripresa all’infrarosso,
effettuata dal Telescopio
Spaziale, si nota la presenza
di anelli multipli e di
numerosi satelliti. Urano è
orientato verticalmente in
ragione della particolare
inclinazione dell’asse di
rotazione, che è pari a 98
gradi. (NASA JPL STSCI)
••34 Nettuno e Tritone
in controluce. Tritone
si vede in basso
a sinistra. (NASA VOYAGER2)
PLUTONE: SI CREDEVA GRANDE E INVECE È PICCINO
Con questi discorsi non si è voluto confondere il lettore più di quanto
non sia confuso l’astronomo. Non si può negare che ne sappiamo
molto più di prima e anche molto più di 80 anni fa, quando si era
all’inizio di quella nuova branca dell’astrofisica costituita dalla radioastronomia (cioè lo studio dei corpi celesti per mezzo della misura
delle loro emissioni radio, invece che della sola radiazione visibile,
quella che chiamiamo luce), e poi soprattutto dalle ricerche spaziali.
Ma moltissimi problemi restano da risolvere e novità da scoprire,
come dimostrano le ultime notizie su Plutone, detto romanticamente per la sua collocazione ai confini del Sistema solare «la scolta
delle tenebre». Al contrario di ciò che accadde per Urano e Nettuno,
più misure si fanno più si è costretti a diminuire Plutone, tanto che
oggi si crede sia più piccolo della nostra Luna. Dopo la scoperta di
Nettuno ci si accorse che questo pianeta non bastava a spiegare le
perturbazioni di Urano, che continuava a deviare dalla sua orbita
in una misura che, nei calcoli di allora, richiedeva la presenza di
un pianeta con una massa 6,6 volte maggiore di quella della Terra.
Ora si dubita di tale valutazione, ma nei primi anni del Novecento molti astronomi, fra cui Aimable-Jean-Baptiste Gaillot, William
Henry Pickering e Percival Lowell (il convinto assertore dei «canali»
di Marte), calcolarono la posizione di questo pianeta, che Lowell
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 87
02_capitolo.indd 87
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
stesso si diede a cercare con passione. Pickering l’aveva designato
come pianeta 0, e pensava che fosse il primo di una serie di almeno
7 nuovi pianeti oltre Nettuno. Lowell lo chiamava pianeta X, e del
pianeta calcolato da Pickering pensava che fosse «assolutamente
giusto averlo designato con lo 0, perché non è proprio niente».
Le ricerche non diedero risultati validi che 13 anni dopo la morte
di Lowell, per merito e fortuna di un giovane astronomo di 23 anni,
Clyde W. Tombaugh, che scoprì il nono pianeta del Sistema solare,
non lontano dalla posizione predetta da Lowell e Pickering. In realtà è stato accertato che Plutone era già stato fotografato, senza
riconoscerlo, per ben 16 volte in vari Osservatori: 5 volte prima
della morte di Lowell, 4 nel 1919, 2 nel 1921, 1925 e 1927, e una
nel 1929. Preciseremo che le osservazioni del 1919 vennero fatte
su richiesta di Pickering, il quale per quell’anno aveva di nuovo
pronosticato la posizione di un pianeta transnettuniano, questa
volta in base a studi sulle perturbazioni di Nettuno e non di Urano.
Però non si riconobbe la debolissima immagine di Plutone sulle
lastre, si pensò che fossero difetti dell’emulsione, e così Pickering
perse l’occasione di diventare lo scopritore di Plutone.
Come avvenne la scoperta? Tombaugh, in un articolo intitolato
Reminiscenze sulla scoperta di Plutone, racconta che nell’autunno del 1929 aveva cominciato a lavorare per 6 o 7 ore al giorno per
esaminare delle lastre fotografiche con uno strumento chiamato
comparatore di immagini: una specie di microscopio che permette
di vedere, in rapida successione, ora l’una ora l’altra di due lastre
riproducenti la stessa regione stellare, ma prese in epoche diverse. L’occhio non avverte l’alternarsi delle immagini, se non nel
caso in cui, fra tutti quei punti che occupano sulle lastre un luogo
praticamente identico, ve ne sia qualcuno che abbia mutato, pur
di pochissimo, la sua posizione; quel punto, che è solitamente un
pianeta, risalta sullo sfondo e richiama l’attenzione dell’osservatore. Le lastre con i campi stellari nei Pesci e nell’Ariete contenevano
qualcosa come 50.000 stelle ciascuna, oltre a centinaia di immagini di galassie spirali; le lastre della parte occidentale dei Gemelli
e orientale del Toro riproducevano circa 400.000 stelle ciascuna e
occorreva molta più attenzione e più tempo per esaminarle. In febbraio, terminate le «superaffollate» fotografie del Toro, incominciò
l’osservazione di quelle della regione orientale dei Gemelli, dove le
stelle erano un po’ meno numerose. Queste fotografie erano state
realizzate alla fine di gennaio, e Tombaugh scelse tre lastre, del
21, 23 e 29 di gennaio, centrate su e Geminorum. La prima venne
scartata perché le immagini non erano buone, le altre furono esaminate iniziando dalla zona a Sud-Est. Alle 4 pomeridiane del 18
febbraio, due gradi a Est di e, «Improvvisamente colsi un oggetto
di 15a magnitudine che occhieggiava sullo sfondo. A distanza di
88
02_capitolo.indd 88
••35 Immagini di
Plutone, ai limiti delle
capacità strumentali del
Telescopio Spaziale. Si
nota il movimento dei
satelliti attorno a Plutone
in un intervallo di 3 giorni,
tra il 15 e il 18 maggio
2005. La sonda New
Horizons, partita nel 2006,
raggiungerà Plutone nel
luglio 2015. (NASA)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
appena 3,5 millimetri, un altro oggetto della stessa magnitudine si
comportava in modo simile, ma alternativamente rispetto all’altro,
via via che attraverso l’oculare del microscopio si vedeva la prima
o la seconda lastra. Eccolo, dissi a me stesso». ••35
Pieno d’eccitazione, riprese la lastra del 21 gennaio, cercando di ricavarne qualcosa; e, infatti, poté individuare la medesima
immagine spostata di un millimetro rispetto alla posizione del 23
gennaio. Ciò significava che non si trattava di una coppia di stelle
variabili, perché l’oggetto si muoveva in senso retrogrado di circa
70 secondi di arco al giorno. Tombaugh fece controllare le lastre
agli altri colleghi e al direttore Vesto Melvin Slipher. C’era un’aria
d’entusiasmo. «Guardammo fuori della finestra. Il cielo era nuvoloso, nessuna possibilità di prendere una lastra quella notte. Slipher
ordinò di non fare alcun annuncio finché non si fosse ottenuta
conferma da altre osservazioni nelle settimane successive… La
notte successiva, il 19 febbraio, era bel tempo e si poté prendere
un’altra lastra della regione di e Geminorum, con un’ora di esposizione. Sviluppai la lastra e la misi ad asciugare, per ricominciare
la mattina dopo l’esame al comparatore d’immagini e confrontarla
con una lastra precedente. Sebbene fossero trascorse tre settimane, la nuova immagine si trovò subito a circa un centimetro a Ovest
della posizione del 29 gennaio…»
Col passare delle settimane, il moto dell’oggetto confermò perfettamente che si trattava dell’atteso pianeta transnettuniano. Venne deciso di annunciare la scoperta il 13 marzo 1930, che era il
75° anniversario della nascita di Percival Lowell e la data della scoperta di Urano 149 anni prima. Nella tarda notte del 12, Slipher
mandò un telegramma all’Osservatorio di Harvard perché ne venisse data comunicazione ufficiale. Da questo momento incominciò il problema di come chiamarlo. Fra i nomi suggeriti c’erano
Lowell, Minerva, Chronos e Postumus, visto che era stato scoperto
dopo la morte di Lowell. Un tale commentò che battezzare il nuovo
pianeta era diventato nella regione di Boston uno dei più favoriti sport al coperto (indoor sport). Chi doveva scegliere era però
Slipher, il direttore dell’Osservatorio di Flagstaff, che decise con i
collaboratori di nominarlo Plutone, e contrassegnarlo col simbolo
«P»: un monogramma che conteneva le iniziali di Percival Lowell
¯
e riconosceva anche il contributo di William Pickering, in quanto le
due iniziali potevano anche voler dire Pickering e Lowell.
Ambedue avevano usato differenti metodi matematici per la ricerca di Plutone e dedotto orbite diverse. Tuttavia, la posizione di
Plutone, quando venne trovato, si discostava solo di uno o due gradi
dalle orbite calcolate sia da Pickering che da Lowell. Piuttosto, col
passare degli anni, ci si accorse che il pianeta si rivelava all’osservazione con una massa troppo piccola per spiegare le perturbazioni di
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 89
02_capitolo.indd 89
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Urano. Fra parentesi, un problema simile riguarda anche Nettuno,
in quanto oggi si riconosce che i calcoli laboriosi e le deduzioni sia di
Adams che di Le Verrier hanno parecchi punti oscuri; sicché anche
in quell’occasione fu più la fortuna che il calcolo a far rintracciare il
pianeta. Però, il caso di Plutone è ancora più straordinario.
Fu il noto astronomo e matematico Ernst W. Brown che, riesaminando i calcoli di Lowell, concluse che nonostante i metodi analitici
di Lowell fossero corretti, i risultati ottenuti, rivelatisi quasi in accordo
con la posizione dove venne scoperto Plutone, furono semplicemente un caso. Infatti, i valori che Lowell aveva trovato per la distanza,
la massa e l’eccentricità di Plutone dipendevano sostanzialmente
da tre gruppi di osservazioni fatte prima del 1783 e piene di errori.
Prima di dare le più recenti misure della massa di Plutone, ricorderemo che la sua orbita è la più eccentrica (0,25) ossia quella che
più si scosta dal cerchio e la più inclinata rispetto all’eclittica (17°).
Plutone la percorre in 249 anni, e segna attualmente i confini del
Sistema solare sebbene le orbite delle comete si estendano anche
molto più lontano. A causa dell’eccentricità di questa orbita, la distanza di Plutone dal Sole varia da un massimo di 49,4 U.A., pari a
7 miliardi 400 milioni di km all’afelio, a un minimo perielico di 31,6
U.A., pari a 4 miliardi 700 milioni di km. Ricordiamo che afelio e
perielio indicano rispettivamente i due punti dell’orbita in cui il pianeta si trova alla massima e alla minima distanza dal Sole. L’inclinazione dell’orbita fa sì che il perielio cada leggermente all’interno
dell’orbita di Nettuno, quando viene proiettata sul piano dell’eclittica. Tuttavia, nello spazio le orbite non si incrociano. Nei periodi in
cui Plutone si avvicina al Sole e raggiunge il perielio (l’ultima volta è
successo nel 1989), il pianeta apparirà di mezza magnitudine più
splendente che al tempo della sua scoperta, quando si trovava a
una distanza media dal Sole. Cioè, avrà una magnitudine di 14,9,
troppo debole per essere individuato con un piccolo telescopio,
specie se non si conosce l’esatta posizione. Gerard Peter Kuiper nel
1952-53 mostrò che la luminosità di Plutone varia di circa il 10%
in un periodo di 6 giorni e 9 ore, che è il suo periodo di rotazione. Il
diametro trovato da Kuiper confrontando il disco apparente del pianeta con le immagini di piccoli dischi luminosi proiettati nel campo
del telescopio, e tenendo conto degli effetti atmosferici e strumentali, corrispondeva a un diametro di 5760 km, o al 45% di quello
terrestre. Questo diametro e la magnitudine apparente del pianeta
fecero stimare una albedo pari a 0,14 (si tenga presente che l’albedo è il potere riflettente di una superficie, eguale a 1 quando tutta
la luce ricevuta viene completamente riflessa, un buon esempio
è uno specchio; ed è eguale a zero quando tutta la luce ricevuta
viene assorbita, un esempio è una superficie coperta di carbone).
Ci si accorse subito che il diametro osservato non si accordava
90
02_capitolo.indd 90
••36 Oltre Plutone:
pianetini e asteroidi nel
Sistema solare. In questa
tavola originale sono
riportati i 5 pianetini –
definiti dalle convenzioni
internazionali – insieme
ai maggiori asteroidi, con
i loro eventuali satelliti e
con i dettagli superficiali
conosciuti. Se confrontati
con la Terra e la Luna, tutti
i pianetini e gli asteroidi
sono molto piccoli, incluso
Plutone. Le distanze dal
Sole sono misurate in unità
astronomiche (1 AU = 150
milioni di km, pari al raggio
medio dell’orbita terrestre).
Il pianetino più vicino è
Cerere, che appartiene alla
fascia asteroidale tra Marte
e Giove. Gli altri pianetini
sono Plutone, Haumea,
Makemake ed Eris,
tutti oltre Nettuno nella
cosiddetta fascia di Kuiper.
L’asteroide più distante
è Sedna, dieci volte più
lontano di Plutone.
(WWW.FERLUGA.NET)
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53
con la massa di Plutone dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno, anche se nel frattempo queste ultime erano state rivalutate,
così da richiedere una massa dell’80 o 90% di quella della Terra, e
non più quasi 7 masse terrestri come pensava Lowell. Però, anche
con questa massa molto diminuita, se il diametro era quello trovato
da Kuiper, la densità di Plutone doveva essere 9,3 volte maggiore di
quella del nostro pianeta, per cui ci si trovava di fronte a queste 3
alternative: o era sbagliato il diametro; o era sbagliata la massa dedotta dalle perturbazioni o il pianeta aveva una densità eccezionale.
Scartata la terza possibilità, che avrebbe richiesto per Plutone
una densità troppo alta per un pianeta, oggi si ritiene che siano probabili le altre due. In particolare, si tende a riconoscere che la massa
dedotta dalle perturbazioni di Urano e Nettuno è troppo grande, e
quindi le predizioni quasi precise di Lowell e Pickering furono dovute al caso.
Inoltre, ci sono novità per la prima ipotesi. In effetti, l’osservazione che Plutone è coperto di metano ghiacciato significa che
esso riflette la luce solare in maniera più efficiente che se fosse
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
Il villaggio planetario 91
02_capitolo.indd 91
16/04/12 08:53
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
di roccia nuda, e che la sua albedo non è 0,14 come assumeva
Kuiper, ma più alta. In altri termini, questo significa che più alto
è il potere riflettente della sua superficie, minore è la sua area, e
quindi (assumendo che sia composto di elementi volatili come gli
altri pianeti esterni) minore la sua massa.
Se l’albedo di Plutone è 0,4, il diametro sarà all’incirca di 3300
km, mentre un’albedo pari a 0,6, implicherebbe un diametro di soli
2800 km. Osservazioni fatte col telescopio spaziale Hubble danno
un diametro ancora più piccolo, 2390 km. Così, questo pianeta
sarebbe più piccolo della Luna, e la sua densità di appena 1,75 g/
cm3, in confronto ai 5,5 della densità della Terra. Vogliamo riportare
le parole di Dale P. Cruikshank, l’astronomo che, coi suoi colleghi dell’Università delle Hawaii, ha condotto le ricerche suddette:
«Questa densità, insieme a un diametro quasi come quello della
Luna, fa derivare una massa pari a qualche millesimo di quella
della Terra: molto minore di quanto sarebbe richiesto dai moti misurabili di Urano o Nettuno. Se è così, è evidente che la scoperta di
Plutone da parte di Tombaugh è stata più il risultato di un’intuizione
che una previsione fondata sulla dinamica planetaria».
A questo punto, veniva spontaneo chiedersi se esistono altri
pianeti al di là di Plutone. Già Ian Oort aveva supposto che oltre
Plutone ci fosse una regione, detta appunto la nube di Oort popolata da numerosi asteroidi che trascinati dentro il Sistema solare
dalle perturbazioni dei pianeti maggiori avrebbero dato origine alle
comete, e che si estenderebbe fino 100.000 Unità Astronomiche.
Più interna ci sarebbe la fascia di Kuiper, fra 35 e 1000 UA. Oggi
si sono scoperti all’interno di questa fascia, con le sonde per infrarosso, numerosi pianetini, che come abbiamo già accennato hanno convinto gli astronomi a ritenere Plutone il capostipite di questa
famiglia di asteroidi piuttosto che un pianeta a tutti gli effetti.
Già ci si era chiesti se l’eccentricità dell’orbita di Plutone, e
la sua forte inclinazione sul piano dell’eclittica, oltre alle piccole
dimensioni non rendevano dubbio il suo stato di pianeta. Si era
notata la somiglianza di Plutone con Tritone, uno dei due satelliti
di Nettuno. È stato per questo che Raymond Arthur Lyttleton ha
avanzato l’ipotesi che una volta Tritone e Plutone fossero satelliti
nettuniani, entrambi orbitanti nel senso di rotazione del pianeta. A
un certo punto, Plutone e Tritone si avvicinarono troppo l’un l’altro,
con una duplice conseguenza: Tritone invertì la sua direzione di
moto, mentre Plutone venne espulso dal sistema di Nettuno.
Ma, naturalmente, c’è anche chi sostiene sia avvenuto il contrario: Tritone e Plutone sarebbero stati originalmente due piccoli
pianeti indipendenti, vicini a Nettuno, che finì per catturare Tritone
facendolo diventare un suo satellite… ••36
92
02_capitolo.indd 92
CAPITOLO 2
16/04/12 08:53