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Sommario
Introduzione
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Parte Prima
IL CODICE DEL DESIDERIO
Capitolo 1
Il problema dell’“abbastanza buono”
Il pensiero razionale
53 cucine “abbastanza buone”
La T-shirt come commodity
Ecko: la credibilità che nasce dalla strada
La “proiettabilità” di Hello Kitty
The Hundreds
3
3
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7
11
15
19
Capitolo 2
L’uomo dal vestito grigio
La tensione fondamentale della vita moderna
Fuorilegge ed emarginati
La fine dell’omologazione
Rimbambita sarai tu!
Il piacere dell’identità
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21
22
25
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Capitolo 3
Il pensiero razionalizzatore
Dove trovare il codice del desiderio
L’interprete
Mangiate i popcorn
Vi ricordate la magia?
Inventare uno schema
35
35
38
40
41
45
Capitolo 4
Per noi stessi, non per gli altri
Un successo razionale
L’oggetto
Salienza e rilevanza
Un caso di successo non particolarmente razionale
Molteplicità di scelta
A chi raccontiamo le storie
“Vogliamo azioni”
51
51
53
58
60
62
64
68
Parte Seconda
MURKETING
Capitolo 5
Chuck Taylor era un venditore
Significati ufficiali
La nascita delle Timberland
Le radici del murketing: gli anni Ottanta
Scarpe rosa
Possedere un paio di Converse
All Star per masse
Capitolo 6
Ribellione: invenduta
Il consumatore militante
Una partita a polo in bicicletta
La misteriosa rinascita di PBR
L’avanguardia giovanile
Un brand di protesta
Le radici del murketing: gli anni Quaranta
Decifrare il messaggio
Inventare l’immagine
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Capitolo 7
Click
In tutti i salotti
Cose che il videoregistratore digitale non può tagliare
Nuovi pubblici
In tutte le tasche
Il deodorante come cultura
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117
121
123
126
130
Capitolo 8
Il più reale possibile
Che cosa ha capito Scion
La grande idea
Rendere tutto il più reale possibile
Ponti pericolanti
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135
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140
142
Capitolo 9
Murketing: il comune denominatore
La trovata pubblicitaria sconosciuta
Spiegare Red Bull
Murketing come minimo comune denominatore
Le radici del murketing: gli ultimi anni del XIX secolo
Gli interessanti effetti delle bevande energetiche
È tutta una questione di marketing
145
145
148
153
155
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161
Capitolo 10
La commercializzazione delle chiacchierate
Persuasori tutt’altro che occulti
Che cosa motiva gli agenti?
Persone magiche
Persone non magiche
L’effetto del “mero possesso”
Opinioni sincere
Più forte della persuasione
165
165
169
173
176
181
183
187
Capitolo 11
Brand underground
Una nuova forma culturale
Ragazzi alla moda
Quello che ho capito (finalmente) di Nike
The Hundreds, rivisitati
Un fischietto per i cani
La grammatica del branding
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191
194
196
201
204
208
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Parte Terza
STATUS SYMBOL INVISIBILI
Capitolo 12
L’etica del murketing
L’etica del consumatore
Fallire miseramente
Esternalità
Magliette sexy per i giovani
Altre giustificazioni razionali
217
217
219
222
225
229
Capitolo 13
Qual è il problema dei clienti Wal-Mart?
Usare i prodotti per parlare al potere
Artigianato punk
Il movimento del fai-da-te
Etica vs. estetica
Quale rivoluzione?
Limiti e potenzialità
233
233
237
240
244
246
248
Capitolo 14
Al di là della cosa in sé
Voi
Due forme di materialismo
Mettersi una benda sugli occhi
251
251
255
258
Fonti aggiuntive
265
Indice analitico
277
Ringraziamenti
291
L’autore
293
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A mamma e papà, e a Mick, Rick e TeriSu:
i miei primi influenzatori
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Introduzione
Immaginate di avere sete.
Non dovrebbe essere troppo difficile, è una situazione fisiologica che tutti hanno provato, in tutte le culture. È un segnale della
necessità di idratare il corpo, un’esigenza fondamentale dell’essere umano.
Ma riflettete su ciò di cui avete bisogno quando avete sete. Basta
entrare in un supermercato o anche solo nel mini-market di una
stazione di servizio per trovarsi davanti a una possibilità di scelta
enorme; tutti conosciamo l’incredibile varietà di offerte che ci mette
a disposizione la società consumistica di oggi. Che cosa volete? Di
che cosa avete esattamente sete?
Nel dicembre 2001 andai a Miami Beach, dove il cielo è azzurro
e fa caldo. Ero lì per seguire l’operazione di marketing della bibita
energetica Red Bull. All’epoca, l’azienda proprietaria di Red Bull
stava iniziando a introdurre il prodotto, e più in generale il concetto di bibite energetiche, sul mercato americano. In altre parole,
Red Bull offriva una nuova risposta alla domanda: “Che cosa volete bere quando avete sete?”.
Quell’iniziativa per me non aveva alcun senso. L’operazione di
marketing prevedeva che un gruppetto di appassionati di kiteboard (sport acquatico estremo che si pratica con una piccola tavola da surf e un aquilone, n.d.t.) attraversasse i 140 chilometri di
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XII 冷 Murketing
oceano che separano l’isola di Key West dalla spiaggia cubana di
Varadero. Io vivevo a New Orleans, e cominciavo proprio allora a
vedere le prime lattine di Red Bull nei bar del quartiere francese.
Che cos’era quella bibita, e per chi era stata pensata? Per gli atleti
o per chi frequenta i bar? Perché non c’erano spot pubblicitari che
dessero una risposta chiara? Come se il tutto non fosse già abbastanza misterioso, questa regata di kiteboard – che immaginavo finalizzata a ottenere la massima risonanza possibile – sembrava
circondata dal segreto: ero l’unico giornalista presente, e non c’erano né spettatori né cartelli o manifesti che potessero attirarli.
Credevo che l’idea stessa di vendere un prodotto implicasse una
presentazione accattivante delle ragioni che ne consigliano l’acquisto, del perché avremmo dovuto bere questo nuovo prodotto
per placare la nostra sete. Invece, il marketing di Red Bull sembrava così “oscuro” (murky) che ho coniato una parola nuova per descriverlo: murketing.
Si è poi scoperto che il murketing di Red Bull funzionava benissimo. Negli anni successivi al mio viaggio a Miami Beach, questi
prodotti sono diventati molto popolari: fino ad allora sconosciute
negli Stati Uniti, le bibite energetiche costituiscono attualmente
una categoria merceologica da 3,7 miliardi di dollari, in cui sono
presenti centinaia di brand, guidati da Red Bull. Come è accaduto?
Non mi riferisco in senso descrittivo all’estensione di un brand o
di un prodotto da un gruppo di consumatori all’altro, fino a quando non diventa noto quasi a tutti. Mi riferisco a livello individuale.
Tutti noi abbiamo una nostra sete, reale e metaforica. Come decidiamo quali bevande la soddisferanno e quali no? Come viene
condizionata quella decisione dall’industria della persuasione
commerciale e dai miliardi di dollari che spende per influenzarci?
E come è cambiata la relazione tra noi e quei professionisti del
“branding” rispetto, mettiamo, all’epoca in cui nessuno sapeva ancora che cosa fosse Red Bull?
Ecco qual è l’argomento di questo libro: il dialogo segreto tra ciò
che acquistiamo e ciò che siamo, e come esso si sta modificando.
Uso il termine dialogo perché quello di cui sto parlando non è
un processo unidirezionale. Non riguarda semplicemente gli elementi intrinseci, supponiamo, di Red Bull. Non concerne semplicemente i componenti di un prodotto o ciò che dovrebbe fare. Né
riguarda solo un’immagine di marca che viene inventata da alcuni
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Introduzione 冷 XIII
esperti per essere poi imposta alle masse, che la recepiscono tale e
quale. Ogni prodotto o brand che ha successo sul mercato deve la
sua affermazione a noi: perché un numero sufficiente di consumatori ha deciso che aveva valore o significato e ha scelto di acquistarlo. Perché c’è stato un dialogo tra consumatore e oggetto di
consumo.
Uso l’aggettivo segreto perché quel dialogo si svolge con modalità tutt’altro che esplicite. È complesso, sottile, e a volte fuorviante. E dico che sta cambiando perché negli anni successivi al mio
viaggio a Miami Beach, dove mi sono chiesto per la prima volta come decidiamo di soddisfare la nostra sete, reale e metaforica, quel
dialogo segreto è diventato più misterioso che mai.
All’epoca i meccanismi del marketing rappresentavano un argomento completamente nuovo per me. Mi occupavo di pubblicità per la rivista on line Slate, ma unicamente dal punto di vista
dei consumatori, per cui consideravo gli spot pubblicitari più
un’estensione della cultura popolare che un vero e proprio business. Il mio articolo su Red Bull è stata la prima di tante analisi del
successo di un prodotto o di un brand, riferite sia agli acquirenti
sia ai venditori. E ho scoperto che era un momento particolarmente interessante per cominciare a prendere in esame la relazione
tra l’industria della persuasione commerciale e noi consumatori.
Di lì a poco, l’avanzata costante del progresso che stava ridisegnando da anni i media e la tecnologia si è trasformata in una corsa, grazie alla rapida ascesa di strumenti elettronici e innovazioni
come il videoregistratore digitale TiVo, l’iPod, telefoni cellulari
sempre più sofisticati, YouTube, Facebook, e così via. Il panorama
sembrava modificarsi di giorno in giorno.
All’inizio del 2004 tenevo al riguardo una rubrica settimanale
sul New York Times Magazine, intitolata “Consumed”. Come avveniva quando scrivevo per Slate, la mia prospettiva era ancora centrata sui consumatori, ma dedicavo molta più attenzione alla persuasione commerciale, oltre che agli esperti di marketing e agli
osservatori della cultura consumistica, e a ciò che avevano da dire
sulle dinamiche in cambiamento.
Stando a molti di loro, il nuovo panorama non aveva modificato
solo il business della persuasione commerciale; aveva cambiato
anche noi. Noi consumatori eravamo diventati radicalmente diversi da quelli delle generazioni precedenti. I docili cittadini del no-
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XIV 冷 Murketing
stro paese, dipinti come “recettori passivi” degli spot televisivi,
prendevano la pubblicità come un ordine: dopo la ripetuta esposizione a un determinato spot da 30 secondi, il consumatore del
passato andava disciplinatamente “come un automa ad acquistare
il prodotto reclamizzato”, come diceva un guru delle nuove tecnologie.
Ma proprio all’inizio del XXI secolo, come sosteneva questa
scuola di pensiero, era comparso un “nuovo consumatore”. Quando iniziai a tenere la rubrica “Consumed”, questa nuova creatura
intelligente aveva a disposizione tutte le possibili tecnologie, dalle
apparecchiature che bloccano la pubblicità a media alternativi: un
armamentario che ha creato i presupposti per quello che gli esperti dei trend amano definire “un cambiamento di paradigma”. “I
consumatori non marciano più all’unisono” dichiarava un celebre
studioso. “Siamo immuni dalla pubblicità” annunciavano altri. Lo
sciocco “mass market” era stato relegato in secondo piano da individui pensanti: “I consumatori stanno fuggendo dalla massa”. In
qualche modo eravamo diventati tutti più o meno impermeabili al
marketing, ai brand e ai loghi commerciali; riuscivamo a non farci
condizionare dalla persuasione commerciale. Era come se le componenti fondamentali della cognizione umana venissero ricostituite, migliorate, e sostituite con la stessa rapidità dell’ultima versione del BlackBerry.
L’unico problema di questa teoria era la sua relativa incongruenza con la realtà del mercato di cui scrivevo quasi tutte le settimane
sul Times Magazine. Questo contrasto – tra le teorie che sentivo
esporre e il comportamento che vedevo concretamente – è la ragione che mi ha indotto a scrivere questo libro. Sono arrivato a considerare la mitologia del “nuovo consumatore” controproducente,
sia per le aziende sia, soprattutto, per tutti noi.
Penso che effettivamente ci sia un cambiamento in corso e che
possa incidere su tutto, dal nostro senso di individualità al modo
in cui definiamo la comunità (e a come bilanciamo questi due
concetti contrastanti). Ma se volete capirlo veramente, dovete partire dalla comprensione di ciò che non cambierà. È il punto da cui
partire per scoprire il dialogo segreto tra ciò che acquistiamo e ciò
che siamo.
La Parte prima del libro è perciò dedicata a quello che chiamo “il
codice del desiderio”. Per decifrarlo bisogna fare una serie di cose.
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La prima è capire perché i simboli contano per noi, come si creano simboli significativi (inclusi i loghi commerciali) e come spesso partecipiamo a questa creazione di significato, anche quando ci
dichiariamo immuni da essi. La seconda è rendersi conto che nel
XXI secolo siamo ancora alle prese con l’eterno dilemma tra volerci sentire degli individui e voler far parte di qualche cosa che va al
di là di noi stessi, e che cerchiamo tutti il modo di risolvere questa
tensione fondamentale della vita moderna. La terza è capire che il
desiderio – anzi il bisogno – di risolvere questa tensione è al centro delle storie che raccontiamo su noi stessi. La quarta è chiarire a
chi raccontiamo quelle storie (perché non si tratta semplicemente
di voler far colpo sugli altri).
Nonostante l’avvento del “nuovo consumatore”, si continua a
dire che gli americani sono “ossessionati” dai consumi o dallo
shopping. Non penso che sia vero. Consumiamo certamente molto, ma per poterci definire ossessionati dai consumi dovremmo
pensare seriamente alle ragioni per cui acquistiamo ciò che acquistiamo. Nonostante tutti i progressi tecnologici che abbiamo a disposizione, non lo facciamo ancora molto spesso. Perciò, decifrare
il codice del desiderio ci aiuta a vedere più chiaramente il nostro
comportamento. Potrebbe anche aiutarci a modificarlo.
Quando gli esperti di marketing parlavano della nascita di un nuovo consumatore si riferivano in realtà alla reinvenzione del loro business. Molti celebri guru amano dichiarare che il business della pubblicità, come ha detto recentemente uno di loro, “è in via di estinzione”. Queste persone si riferiscono alla fine della pubblicità “tradizionale”: un funzionario di una grande azienda escogita un nuovo slogan o un nuovo jingle per una bibita o per qualche altro prodotto, gli
spot pubblicitari compaiono ripetutamente sui mass media, il 90%
del pubblico recepisce il messaggio e attiva i “felici motori consumistici” del passato correndo ad acquistare Coca-Cola, il dentifricio Scope o il modello A di Ford. Ci viene detto che una delle ragioni per cui
questo schema non funziona più è che al nuovo consumatore non
interessa ciò che dicono gli spot su chi ha vinto la Sfida Pepsi o su ciò
che raccomandano quattro dentisti su cinque. Lo dimostra il calo
delle vendite di alcuni antichi e celebri brand e l’elevato tasso di insuccesso del lancio dei nuovi prodotti.
Il commercio, le aziende e la stampa tradizionale hanno appoggiato questo punto di vista. Grazie “all’aumento vertiginoso delle
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informazioni a disposizione degli acquirenti”, scriveva il New
Yorker, “la fedeltà a una marca è in rapido declino” e “il cliente è sovrano”. Anche The Economist sottolineava la figura di clienti super
informati che avevano acquisito “una forza senza precedenti” nei
rapporti con i persuasori commerciali, e citava in tono di approvazione la dichiarazione di un celebre pubblicitario: “Per la prima
volta nella storia, è il consumatore che comanda”. Advertising Age
informava pacatamente i propri lettori che, grazie “al potere dell’opinione pubblica”, negli ultimi tempi i consumatori avevano ottenuto “una sempre maggiore influenza nel determinare il successo
di qualunque prodotto”. In effetti, è il consumatore che decide.
È naturale concludere che il business pubblicitario si sta evolvendo insieme al panorama dei nuovi media. Ma queste trionfali
affermazioni vanno ben oltre: dopotutto, il mercato dei beni di
consumo contribuisce a influenzare tutto quanto, dall’economia
alla cultura popolare. Da che cosa si vede che il consumatore “comanda” e “decide” con modalità nuove e senza precedenti? Dai
saldi delle carte di credito più bassi? Dalla ridotta presenza di abiti
firmati per le strade delle grandi città e nei centri commerciali?
Dal venir meno delle mode, dei trend e delle manie consumistiche? Dal calo della pubblicità? Dal ridimensionamento delle discariche? Dal boicottaggio più esteso e più efficace di prodotti nocivi
alla salute o eticamente sospetti? Dall’incremento del tasso di risparmio? Forse. Ma naturalmente non siamo in presenza di nessuno di questi fenomeni. Anzi, una cosa che è realmente accaduta
tra il 2000 e il 2006 – proprio mentre si diceva che il nuovo consumatore aveva assunto un dominio senza precedenti sulle aziende americane – è il fortissimo incremento dei profitti realizzati
dalle aziende della classifica Fortune 500; in effetti, le aziende di
questa celebre classifica che producono beni di consumo hanno
visto più che raddoppiare i loro profitti. E questo nonostante il fatto che i salari reali di moltissimi americani fossero, ad andar bene,
fermi. Proprio nello stesso periodo, il tasso di risparmio è stato negativo per la prima volta dai tempi della Grande Depressione.
Nel frattempo, il numero dei messaggi pubblicitari a cui siamo
esposti continua a crescere, come la quantità di immondizia che
produciamo. E a un livello più personale: avete osservato una
qualche diminuzione del numero di volte in cui acquistate qualche cosa che vi piace moltissimo, per poi pentirvene o dimenticar-
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la in fondo a un armadio? Vi ritrovate costantemente a contemplare le scelte illimitate e in continuo divenire che vi sono offerte riguardo a che cosa bere, che cosa indossare, che cosa guidare, e che
cosa comprare. È letteralmente impossibile riuscire a provare tutto quanto. Siate onesti: mentre vi aggirate per questo mondo stracolmo di marche, sentite veramente di “avere il controllo”?
La verità è che l’industria della persuasione commerciale, pur
cercando chiaramente di affrontare il cambiamento, è tutt’altro che
sulla via d’estinzione. Si sta solo adattando. C’è in corso un cambiamento che concerne entrambe le parti del dialogo tra consumatore
e prodotto consumato. Ciò che sta cambiando davvero è ciò che ho
notato per la prima volta quando dovevo scrivere quell’articolo su
Red Bull: siamo entrati nell’era del murketing.
Il murketing, combinazione delle parole murky (oscuro, tenebroso, ma anche confuso, indefinito, poco chiaro, n.d.t.) e marketing, si
divide in due parti: la prima fa riferimento alle tattiche sempre più
sofisticate degli esperti del settore, che fanno venir meno il confine
tra i canali di branding e la vita quotidiana. Gli esempi sono molteplici: i tentativi di inserire la presenza di prodotti e citazioni del
brand nei film di successo, nei videogiochi più popolari, nei fumetti, e anche nei video che girano su Internet. Spot delle trasmissioni
televisive reclamizzati sulle confezioni delle uova. Manifesti pubblicitari con la scritta “Ce l’avete il latte?” per esaltare la bontà dei
biscotti. Le caffetterie Dunkin’ Donuts che reclutano teenager disposti a farsi tatuare temporaneamente sulla fronte il logo della catena. Turner Broadcasting che ingaggia ex studenti di arte perché
creino sfavillanti installazioni luminose in diverse città, uno spettacolo che a Boston ha suscitato un certo imbarazzo quando alcuni
poliziotti hanno scambiato questi strumenti di marketing per delle
bombe. Nissan che recluta artisti di strada per trasformare i propri
manifesti pubblicitari in graffiti aziendali. Toyota che finanzia feste
in locali underground. E, naturalmente, Red Bull che sponsorizza
una regata di kiteboard verso un paese sottoposto a un severo embargo da parte degli Stati Uniti.
E così via. Il risultato è che mentre il marketing tradizionale ha
sempre avuto i suoi limiti, il murketing sembra non averne affatto. Viviamo dunque in un mondo definito da un numero maggiore, non minore, di messaggi commerciali.
Ma questa è solo una parte della storia. L’altra metà di ciò che si-
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gnifica il murketing si trova dal lato del consumatore. Certo, noi
diciamo ai sondaggisti e agli amici che siamo stufi di essere bombardati dalla pubblicità, che siamo indifferenti a quei loghi senza
senso, che non ne possiamo più di questo materialismo. Se il nostro comportamento fosse coerente con le nostre parole, la rubrica
“Consumed” non sarebbe durata nemmeno sei mesi. In realtà,
uno dei cambiamenti più significativi che ho osservato negli anni
in cui mi sono occupato principalmente del comportamento dei
consumatori è qualcosa che va ben oltre la tendenza degli uomini
a trarre piacere dagli acquisti.
Questo cambiamento è particolarmente visibile in molti dei
giovani che ho incontrato e con cui ho trascorso del tempo mentre
scrivevo i miei articoli su Red Bull, sull’improbabile rinascita della
birra Pabst Blue Ribbon, o sul lancio di un nuovo modello di Toyota rivolto ai membri della Generazione Y. Spesso e volentieri, questi giovani intelligenti e creativi erano ben felici di informarmi
della loro impermeabilità alla persuasione commerciale, di farmi
sapere che non si lasciavano condizionare dalla pubblicità, come
amavano dire gli esperti. Nel contempo, essi avevano un ruolo attivo e decisivo nel portare al successo determinati prodotti e determinati brand. E cosa ancor più sorprendente, molti stavano lanciando un proprio brand e sviluppando loro prodotti. Stavano facendo qualcosa di nuovo, che però non consisteva esattamente nel
rifiutare i brand. Consisteva piuttosto nel reinventarli, o addirittura nel rivitalizzarli.
Erano l’avanguardia di un vasto movimento di appropriazione
della cultura commerciale. Sempre più persone, di tutte le età, partecipano in svariati modi a nuove forme di marketing, dall’impegnarsi con le aziende alla promozione di qualche nuovo prodotto
attraverso il passaparola o alla creazione di spot pubblicitari “fatti
in casa” per noti brand di largo consumo. Il moderno rapporto tra
consumatore e prodotto consumato – quello che io chiamo murketing – non viene definito dal rifiuto, ma dall’aperta complicità.
È un dato di fatto che dobbiamo interiorizzare se vogliamo capire come sta evolvendo la cultura del consumatore, e come può
evolvere in futuro. Questo è l’argomento dell’ultimo capitolo: come la futura evoluzione della cultura del consumatore potrebbe
influenzare le aziende, le comunità e gli individui, ed esserne a
sua volta condizionata.
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“Non sono un gran consumatore”.
Me lo dicono in continuazione. Mi rendo conto che nessuno
vuole autodefinirsi “un consumatore”, perché suona piuttosto superficiale. Eppure, dopo che ha esibito le necessarie credenziali di
non-consumatore, la persona con cui sto parlando esprime di solito un’opinione su un prodotto o su un brand di cui ho scritto recentemente. Se è qualcosa che non acquisterebbe, il mio interlocutore si chiede come mai qualcun altro potrebbe acquistarlo; se è
qualcosa che ha già acquistato, mi assicura che non ne ho capito la
qualità, il design o l’eccellenza.
Ovviamente, siamo tutti consumatori. E probabilmente pensiamo tutti di essere più abili e sofisticati degli altri. In un sondaggio
del tutto informale, il 77% degli intervistati ha detto di essere un
consumatore più consapevole degli altri; il 61% ha detto che la propria conoscenza delle tecniche di persuasione è superiore alla media; e il 66% ha detto di essere un pensatore più critico del gruppo
dei suoi pari. Se queste valutazioni sono esatte, significa che la maggior parte delle persone è più intelligente delle altre. Evidentemente,
moltissime persone si sbagliano. Ciò detto, alcuni di noi devono essere pensatori più critici degli altri. E qui devo ammettere una cosa.
Pur avendo lavorato anni come giornalista specializzato nel marketing e nell’analisi dei trend di consumo, e pur avendo visto tante cose che non collimavano con quello che dicevano gli addetti ai lavori
sulla difficoltà di vendere qualunque prodotto, io stesso ero ancora
convinto di essere diverso. Ma c’è stato un episodio che mi ha indotto finalmente a rivedere le mie presunte conoscenze sui consumatori, sui pubblicitari, e anche su me stesso. È stata la notizia dell’acquisizione di Converse da parte di Nike.
Come giornalista economico, ho un grandissimo rispetto di
Nike, una delle aziende di maggior successo del capitalismo moderno. Come consumatore, bèh, devo dire che sono meno entusiasta. Per me, il celebre logo di Nike è sempre stato il simbolo della
manipolazione, un richiamo per i creduloni che prendono alla lettera lo slogan “Just Do It”. È sempre stato, a mio giudizio, un
brand per follower. Per contro, ho sempre considerato, fin dalla
mia adolescenza negli anni Ottanta, le scarpe All Star Chuck Taylor di Converse un mito, e ne sono tuttora un grandissimo estimatore. Il brand Converse era il contraltare di sostanza al brand “tutto immagine” di Nike. Lo indossavano i miei eroi rock alternativi,
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da Joey Ramone a Kurt Cobain. Per questo ho trovato quell’acquisizione sconfortante, e non ero l’unico: poco tempo dopo l’annuncio dell’operazione, il Washington Post ha intervistato vari anarchici e studenti universitari delusi che avevano giurato di non indossare mai più un paio di All Star.
Ma perché provavo un sentimento così forte per un brand di
scarpe da ginnastica, o per qualunque brand? So perché non mi
piaceva il logo di Nike. Se avessi indossato un paio di Air Force 1,
mi sarei sentito una specie di zombie del marchio. Ma quello che
improvvisamente non riuscivo a giustificare era la forte convinzione di poter proiettare la mia individualità attraverso qualche altro
brand.
Perciò, quando dico che questo libro è stato ispirato dalla discrepanza tra ciò che dicono gli esperti e il modo in cui ci comportiamo realmente, devo includere anche me stesso.
Poco tempo dopo questa mia illuminazione sulle All Star, i ricercatori del Baylor College of Medicine hanno effettuato un esperimento interessante. Hanno rivisitato uno degli eterni dilemmi
della nostra epoca: Coca-Cola o Pepsi?
In una delle prime serie di test hanno sostanzialmente ricreato
la celebre “Sfida Pepsi”, un notissimo blind test. Hanno rilevato
una lieve preferenza per la Pepsi, basata unicamente sul gusto;
ma era talmente lieve che si trattava praticamente di un pareggio;
in sostanza, quando le due bevande si confrontavano unicamente
in base alle loro qualità sensoriali intrinseche, erano più o meno
alla pari. Questo ha senso, dato che (come hanno osservato i ricercatori del Baylor College) gli ingredienti sono molto simili. I test
successivi includevano tuttavia un altro elemento: “l’informazione
culturale”.
In questo caso, l’informazione culturale era il brand. I partecipanti al test dovevano scegliere tra una bibita chiaramente identificata da una marca (Coca-Cola in alcuni casi e Pepsi in altri) e una
bibita senza etichetta. In questo test, Pepsi veniva equiparata alla
sua sconosciuta concorrente, mentre Coca-Cola era nettamente
preferita rispetto al misterioso rivale. Evidentemente, il brand Coca-Cola aveva qualcosa che il brand Pepsi non aveva: qualcosa che
piaceva alla gente. (In entrambi i casi, ai partecipanti si diceva che
la bibita senza etichetta poteva essere una Coca-Cola o una Pepsi;
in realtà, la bibita etichettata era in competizione con se stessa.
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Dunque, la bibita Coca-Cola “identificata” ha avuto la meglio sulla
Coca-Cola “anonima”). Eppure, metà dei partecipanti all’esperimento aveva dichiarato inizialmente una certa preferenza per Pepsi. E secondo l’interpretazione che questi ricercatori hanno dato
dello scanning celebrale effettuato nel corso degli esperimenti,
l’aggiunta di informazioni culturali (rappresentate dal brand Coca-Cola) all’esperimento “coinvolge” altre zone del cervello – là dove si intrecciano i concetti più complicati del sé e dei ricordi – nel
processo decisionale. È questo che ha fatto cambiare idea ai partecipanti al test. “La conoscenza del brand”, concludevano i ricercatori, “aveva un effetto decisivo sulle loro preferenze comportamentali”.
Dunque possiamo dire tutto ciò che vogliamo sulla nostra impermeabilità ai brand, ma il nostro comportamento dice un’altra
cosa. Ecco perché mi sono convinto che non ci sia nulla da guadagnare nel considerarci semplicemente immuni ai brand. Ma potrebbe esserci qualcosa da guadagnare nel capire perché non lo
siamo.
Ed è qui che inizia la storia.