Arcidiocesi di Fermo ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE “SS. Alessandro e Filippo” Concetti chiave per il corso di Metafisica-gnoseologia Dispensa per gli studenti Docente: Sac. Giordano Trapasso 1 Concetti chiave per il corso di metafisica-gnoseologia Significato di metafisica “Metafisica” non è un termine aristotelico: è nato in occasione della edizione delle opere di Aristotele fatta da Andronico di Rodi nel I sec. a. C. oppure è stato coniato dagli aristotelici. Aristotele usava l’espressione “filosofia prima” o “teologia”. La metafisica indaga: a. Le cause o i principi primi o supremi b. L’essere in quanto essere c. La sostanza d. Dio e la sostanza Ricerca delle cause prime a. Causa formale (forma o essenza delle cose: anima per gli animali, i rapporti formali per le figure geometriche, struttura per i diversi oggetti artistici …) b. Causa materiale (materia che costituisce le cose: ciò di cui è fatta una cosa, …) c. Causa efficiente o motrice da cui provengono il mutamento e il movimento delle cose (padre per un figlio, artista per l’opera d’arte, volontà per azioni, colpo per un corpo che si muove …) d. Causa finale (costituisce il fine o lo scopo delle cose e delle azioni, ciò in vista di cui o in funzione di cui una cosa è e diviene, il bene di ogni cosa) Le prime due cause bastano a spiegare l’essere da un punto di vista statico, le altre due lo considerano nel suo prodursi, nel suo svolgimento, nel suo divenire, nel suo corrompersi. 2 Significati dell’essere L’essere non può essere detto in maniera univoca, altrimenti dovrebbe essere unico, assolutamente identico a se stesso. Con gli Eleati, Zenone, Melisso si è raggiunta l’immobilizzazione del Tutto. Per Aristotele l’essere ha significato polivoco, si dà secondo un’originaria molteplicità di significati. L’essere non è univoco, ma neanche equivoco nella molteplicità delle sue forme. Tutti i molteplici significati fanno riferimento ad un unico principio. L’essere non si identifica con un genere, né con una specie, ma è concetto trans-generico e transspecifico. Anche se l’essere si dice e in molti modi, ha come riferimento unico la sostanza. Tutti i significati dell’essere sono detti in relazione alla sostanza. Dunque dire l’essere in quanto essere non significa esprimere un ens generalissimum, ma i molteplici significati dell’essere nella relazione che li lega formalmente e che ad ognuno conferisce significato di essere. In questa espressione si dà una dialettica tra unità e pluralità. a. L’essere si dice nel senso dell’accidente, è essere accidentale o casuale. È ciò che all’ente accade di essere, un puro accadere, un mero accidente (l’uomo è geometra …) b. All’essere accidentale si oppone l’essere per sé, ciò che è essenzialmente e non per altro. L’essere per sé per eccellenza è la sostanza c. L’essere è significato anche come vero. Ad esso si contrappone il non essere come falso. Si tratta dell’essere logico, dell’essere presupposto dal giudizio vero mentre l’essere come falso conduce al giudizio falso. Tale essere sussiste solo nella ragione e nella mente che pensa d. Abbiamo anche l’essere come atto e potenza. Tale significato si estende anche ai tre precedenti e si può estendere anche a tutte le categorie. L’essere accidentale non ha un suo corrispettivo non essere, mentre lo hanno gli altri tre significati. I significati primi e fondamentali dell’essere sono dati dalle figure delle categorie, dei significati in cui originariamente si divide l’essere, i significati originari ossia le supreme divisioni dell’essere. Le categorie sono i modi in cui originariamente l’essere è predicato, cioè detto, perché sono i modi fondamentali di essere degli enti. Esse sono: 1. Sostanza o essenza 3 2. Qualità 3. Quantità 4. Relazione 5. Azione o agire 6. Passione o patire 7. Dove o luogo 8. Quando o tempo 9. Avere 10. Giacere La molteplicità di significati si dà per ogni gruppo di significati. La questione della sostanza Tale questione risponde a due interrogativi: che cos’è la sostanza? E quanti tipi di sostanze esistono? Per rispondere alla prima domanda Aristotele è partito dalle sostanze sensibili. Per sostanza possono intendersi a diverso titolo: la forma, la materia, il composto di materia e forma. a. Sostanza è in un certo senso la forma, in quanto essa non è la figura esteriore, ma l’intima natura delle cose, il che cos’è o l’essenza intima delle medesime. Le cose sono conoscibili solo nella loro essenza e quando le definiamo facciamo riferimento ad essa b. Anche la materia può dirsi in un certo senso sostanza, perché senza di essa le essenze non avrebbero esistenza nel tempo e nello spazio. D’altra parte, se non ci fosse la forma, la materia non sarebbe nulla di determinato. c. La sostanza è il sinolo, la concreta unione di materia e forma, tale che la materia è fatta per ricevere la forma e la forma è fatta per essere ricevuta dalla materia. Tutte le cose concrete sono sinoli, unioni concrete di materia e forma. Ora, per comprendere cosa in maniera più appropriata sia sostanza, ricordiamo che: 1. Può chiamarsi sostanza solo ciò che non inerisce ad altro e non si predica di altro, ma è soggetto di inerenza e di predicazione di tutti gli altri modi di essere 4 2. È sostanza solamente un ente che può sussistere di per sé o separatamente dal resto, dotato di una forma di sussistenza autonoma 3. Può chiamarsi sostanza solo ciò che è alcunché di determinato: non può essere sostanza un attributo generale, né alcunché di universale o astratto 4. Sostanza deve essere qualcosa di intrinsecamente unitario, non un mero aggregato di parti o qualsiasi molteplicità organizzata 5. È sostanza solo ciò che è atto o in atto. Alla luce di questi requisiti, la materia possiede solo il primo dei requisiti, la forma e il sinolo possiedono tutti i requisiti. In sé e per natura sostanza per eccellenza è la forma, in rapporto a noi sostanza per eccellenza è il sinolo. Se quest’ultimo fosse in sé sostanza per eccellenza, le sostanze puramente spirituali non potrebbero essere tali. La forma aristotelica non è l’universale astratto, ma è l’immanente struttura ontologica della cosa. Atto e potenza interpretano il divenire, la sua dignità ontologica. L’atto ha assoluta priorità ontologica sulla materia. Si distinguono fin dall’antichità due forme fondamentali di metafisica: a. La metafisica come teologia perché considera l’essere più alto e perfetto dal quale dipendono tutti gli altri e le cose del mondo. In virtù del suo oggetto la metafisica ha la priorità su tutte le altre scienze b. La metafisica come ontologia che studia i caratteri fondamentali dell’essere che ogni essere ha e non può non avere. Essa ha come oggetto specifico la sostanza ed ha la priorità sulle altre scienze in quanto ognuna di esse studia la sostanza in qualcuna delle sue determinazioni (la fisica si dedica alla sostanza in movimento, la matematica alla sostanza come quantità …). Questo secondo tipo di metafisica a partire dal sec. XVII cominciò ad essere contrassegnata col nome di ontologia. Essa è avvertita più vicina all’esperienza e comincia ad essere considerata come l’esposizione ordinata e sistematica di quei caratteri fondamentali dell’essere che l’esperienza rivela in modo ripetuto e costante. Wolff (1659-1754) dette all’ontologia la forma sistematica che le garantì successo per un discreto tempo. Il pensiero comune possiede già in maniera confusa le nozioni che l’ontologia espone in maniera distinta e sistematica. Esiste una ontologia naturale costituita dalle confuse nozioni ontologiche volgari, dal complesso delle nozioni confuse che rispondono ai termini astratti coi quali esprimiamo i giudizi generali intorno all’essere e che acquistiamo con l’uso comune della facoltà della mente. Esiste poi un’ontologia artificiale o scientifica, che si distingue dalla prima come la logica si distingue dai procedimenti naturali 5 dell’intelletto. È una scienza dimostrativa il cui oggetto è costituito dalle determinazioni che appartengono a tutti gli enti, sia assolutamente sia sotto determinate condizioni. Entra così nell’ontologia un’esigenza descrittiva ed empirica per eliminare il contrasto tra l’apriorismo deduttivo della metafisica e l’esperienza. Wolff distingueva dall’ontologia tre discipline metafisiche speciali, la teologia, la psicologia e la fisica (di cui la cosmologia è una parte). A sua volta distingueva una psicologia empirica nella quale si stabiliscono in base all’esperienza i principi che possono rendere ragione di tutto ciò che può accadere nell’anima umana dalla psicologia razionale come scienza di tutte le cose che sono possibili nell’anima umana. Gli illuministi hanno apprezzato la metafisica wolffiana, stando alle seguenti parole di D’Alambert: “Poiché sia gli esseri spirituali sia quelli materiali hanno proprietà generali in comune, come l’esistenza, la possibilità, la durata, è giusto che questo ramo della filosofia, dal quale tutti gli altri rami prendono in parte i loro principi, si denomini ontologia, ossia scienza dell’essere o metafisica generale” (Discours preliminare &7). Si sostiene una metafisica creata più per noi, più vicina e attaccata alla terra, le cui applicazioni si estendano alle scienze naturali e ai diversi rami della matematica. Ogni scienza ha la sua metafisica, intesa come l’insieme dei principi generali su cui è costruita una determinata dottrina. Kant introduce un terzo significato di metafisica: essa è lo studio di quelle forme o principi conoscitivi, che per essere costitutivi della ragione umana, anzi di ogni ragione finita in generale, condizionano ogni sapere e ogni scienza; dal loro esame possono ricavarsi i principi generali di ogni scienza. La metafisica può essere il sistema della ragion pura, cioè l’intera conoscenza filosofica sia vera che apparente che deriva dalla ragion pura in connessione sistematica o l’intera filosofia della ragion pura compresa la critica. Egli si oppone alla metafisica dogmatica tradizionale ma mantiene l’ontologia secondo il significato critico-soggettivistico. La metafisica kantiana è una scienza dei concetti puri, che abbraccia le conoscenze che possono essere ottenute indipendentemente dall’esperienza, sul fondamento delle strutture razionali della mente umana. Dalla seconda metà del sec. XIX assistiamo ad un attacco nei confronti della metafisica: a. Agli occhi di Nietzsche la metafisica crea un oltre-mondo rispetto al mondo reale in cui è proiettato l’intero valore mentre quest’ultimo viene svilito. Con la sentenza “Dio è morto” egli vuole dichiarare la fine della tradizione ontoteologica dell’Occidente. Il superuomo deve mantenersi fedele alla terra e in virtù della volontà di potenza devono essere capovolti tutti i valori b. Per i neoempiristi o neopositivisti logici gli unici discorsi sensati sono le tautologie logicomatematiche o le proposizioni suscettibili di verifica fattuale. La proposizioni della metafisica sono senza senso, un insieme di pseudo questioni fondate su un cumulo di pseudo proposizioni costituite da un ammasso di pseudo concetti. Il metafisico non dice il falso, semplicemente non afferma nulla. Per gli autori più radicali essa è l’opposto della scienza, un errore o una malattia derivante da un uso scorretto del linguaggio. 6 c. Per Heidegger la metafisica occidentale si è concentrata sull’ente ed è stata espressione di oblio dell’essere. La metafisica pronuncia necessariamente e costantemente l’essere ma non lo porta al linguaggio, perché non lo pensa nella sua verità. Essa erra di ente in ente e in realtà si configura come una fisica. La metafisica è ontoteologia perché, indagando l’ente, approda a Dio come ente sommo. Nell’ente l’essere si svela ma anche si nasconde, e considerato in rapporto all’ente, l’essere, nella sua differenza ontologica, è ni-ente. La metafisica in quanto tale è il nichilismo autentico. Nietzsche ne è la conferma, in quanto anch’egli è interno alla tradizione metafisica, è al suo culmine. In lui rinveniamo una metafisica della volontà di potenza, un discorso che tende a oggettivare e manipolare l’ente, che continua a parlare in termini di valori. La metafisica non è comunque il frutto di una scelta umana, ma è il modo in cui l’essere stesso si è dato e si è sottratto nella storia del pensiero. L’oblio dell’essere, in senso proprio, è un essere abbandonati dall’essere. All’uomo non rimane che affidarsi ad un pensiero rammemorante e poetante in grado di prepararlo all’accoglimento dell’evento dell’essere, puramente imprevedibile e gratuito. D’altra parte egli riconferma il carattere primario dell’ontologia: “Il problema dell’essere tende non solo alla determinazione delle condizioni a priori della possibilità delle scienze che studiano l’ente in quanto ente così e così e che perciò si muovono già sempre in una comprensione dell’essere, ma bensì anche alla determinazione delle condizioni e delle possibilità delle ontologie che precedono e fondano le scienze ontiche (cioè empiriche)” (Essere e Tempo, & 3). Nel sec. XX ci sono tentativi di riabilitazione parziale della metafisica: a. Per Popper la metafisica non appartiene all’area della scienza perché non è falsificabile, ma le sue tesi sono razionalmente criticabili. Essa inoltre ha funzionato da supporto psicologico e da stimolo storico al lavoro scientifico. Dal punto di vista psicologico non c’è scienza senza la fede in idee che hanno una natura puramente speculativa, che determinano quali problemi esplicativi sceglieremo di affrontare e quali tipi di risposte potremo considerare idonee, soddisfacenti, accettabili. Storicamente la metafisica rappresenta la fonte da cui rampollano le teorie delle scienze empiriche. b. Alcuni filosofi analitici si concentrano sugli usi e le funzioni generali del discorso metafisico. Secondo i filosofi di Oxford il linguaggio è costituito da una serie di giochi linguistici diversificati e il significato di un enunciato non è costituito dal metodo della sua verifica, ma dall’uso che se ne fa. Per Wisdom la metafisica non è una descrizione scientifica dell’universo, ma è pur sempre una visione del mondo capace di evidenziare aspetti inediti della realtà. Le metafisiche tentano di forzare la rete semantica del linguaggio ordinario per esplorare nuove possibilità teoriche e offrire una nuova e più potente visione delle cose. c. Nell’epistemologia postpositivistica autori come Kuhn, Lakatos e Feyerabend ritengono che nei paradigmi e nei programmi di ricerca delle scienze sono all’opera determinati assunti teorici di natura metafisica e metodologica, che informano gli scienziati circa gli 7 elementi che costituiscono la realtà, o i problemi da affrontare, o le euristiche da seguire. Per Feyerabend la scienza di oggi può esistere e conservarsi come tale solo a patto di incorporare in se medesima la metafisica, cioè la disponibilità a contraddire se stessa e le proprie teorie. d. Il filone di filosofia analitica postempiristica riconsidera la metafisica come ontologia generale, come un’indagine volta allo studio di quei concetti che stanno alla base del nostro pensiero (essenza, identità, contingenza, necessità, …) e che vengono presupposti dalle più svariate discipline scientifiche. e. Movimenti come il neotomismo o la neoscolastica riprendono la metafisica e considerano la domanda intorno all’essere la questione essenziale della filosofia. 8 Analogia e partecipazione Il termina “analogia” è usato originariamente secondo due significati: - Uguaglianza di rapporti nell’uso matematico - Estensione probabile della conoscenza mediante l’uso di somiglianze generiche che si possono addurre tra situazioni diverse. Platone usa l’analogia per istituire rapporti tra diversi tipi di conoscenza: come l’essere sta al divenire, così l’intelligenza sta all’opinione: come l’intelligenza sta all’opinione così la scienza sta alla credenza e la dianoia (conoscenza discorsiva che ricava conclusioni da premesse) sta alla congettura. Anche Aristotele la usa nel senso di uguaglianza di rapporti e proporzione. La Scolastica ha fatto della parola un uso metafisico-teologico e l’ha utilizzata per distinguere e connettere l’essere di Dio e l’essere delle creature. Tale uso presuppone un concetto di Dio quale causa efficiente e finale della realtà finita, mediante il rapporto di “creazione”. Dio è l’essere necessario, che non può non essere, mentre le realtà finite costituiscono l’essere possibile, che potrebbe anche non essere, e perciò ha bisogno dell’essere necessario per sussistere. Per S. Tommaso l’essere delle creature è creato, finito, perché separabile dalla propria essenza mentre l’essere di Dio è identico con la propria essenza e dunque necessario. Questi due significati di essere, possibile e necessario, non sono univoci e neanche equivoci, ma analoghi: se permane una certa somiglianza, altrettanta e anche maggiore è la dissomiglianza. Tale rapporto permette di dire qualcosa di Dio per analogia, senza poterlo esaurire nel concetto, nel rispetto anche della theologia negativa. Possiamo attribuirgli qualità finite, ma impropriamente, in maniera ineffabile, via eminentiae. Dell’uomo e di Dio posso predicare la sapienza: nell’uomo si tratta di una perfezione distinta dalla sua essenza ed esistenza e fa comprendere ciò che vuole significare, mentre in Dio si tratta di una perfezione identica alla sua essenza e al suo essere ma lascia fuori di sé la cosa significata perché trascende i limiti dell’intendimento umano. Uno stesso termine può avere un diverso significato a seconda della realtà cui viene attribuito (analogia di attribuzione). Tommaso aggiunge l’analogia di proporzionalità che si riferisce all’analogicità di significato tra l’essere di Dio e l’essere delle creature, evidenziandone la somiglianza e rimarcandone la dissomiglianza legata alla trascendenza divina. Duns Scoto si oppose a tale distinzione tomista e, rifacendosi ad Aristotele, ripropone una nozione di essere comune a tutte le cose esistenti, a Dio come alle cose create. Tale nozione ritorna ad essere univoca per permettere di conoscere qualcosa di Dio e predicare di Lui alcuni attributi. Mentre nel tomismo la metafisica era suddivisa in scienza dell’essere creato (metafisica) e in 9 scienza dell’essere necessario (teologia), per Scoto la metafisica ritorna ad essere unica scienza dell’essere e la teologia si tramuta in scienza pratica, in scienza che guida l’uomo sulla via della salvezza. Nella filosofia moderna Locke nel Saggio sull’Intelletto Umano include l’analogia tra i quattro gradi dell’assenso: essa è l’unico aiuto di cui disponiamo per raggiungere una conoscenza probabile o degli esseri materiali finiti fuori di noi o degli esseri che non sono percepibili da noi o della maggior parte delle operazioni di natura che si celano alla diretta esperienza umana. Leibniz considerò l’analogia la grande regola della probabilità: ciò che non può essere attestato dall’esperienza può sembrare probabile a seconda di quanto sia concorde con la verità stabilita. In questo senso gli scienziati hanno fatto uso dell’analogia: Huygens, affidandosi ad essa, ritenne lo stato degli altri pianeti simile a quello della terra, salvo per le differenze prodotte dalla loro diversa distanza dal sole. Kant considera l’analogia su questa scia: è una forma di prova teoretica, l’identità del rapporto tra principi e conseguenze, tra cause ed effetti, in quanto ha luogo nonostante la differenza specifica delle cose e delle qualità in sé, che contengono il principio di conseguenze simili. Egli presenta tre analogie dell’esperienza: a. il principio della permanenza della sostanza, ossia “In ogni cangiamento dei fenomeni la sostanza permane e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce” b. il principio della serie temporale secondo la legge di causalità, ossia “Tutti i cangiamenti avvengono secondo la legge del nesso di causa – effetto” c. il principio della simultaneità secondo la legge dell’azione reciproca, ossia “Tutte le sostanze in quanto possono essere percepite nello spazio come simultanee, sono tra loro in azione reciproca universale”. Mentre in matematica le analogie sono formule che esprimono l’uguaglianza tra due rapporti quantitativi e sono dunque costitutive, in filosofia l’analogia è un’uguaglianza tra due rapporti qualitativi: se sono dati tre termini della proporzione, non è dato ipso facto il quarto termine, come in matematica, ma un certo rapporto con essi. Dunque le analogie diventano regole per cercare un termine nell’esperienza o segni per indicarlo. I tre principi menzionati da Kant non costituiscono gli oggetti di esperienza, ma valgono solo per scoprirli e situarli nell’ordine universale della natura. Tali principi sono a priori, certi in maniera indubitabile, ma privi di evidenza intuitiva. L’analogia rimane uguaglianza tra rapporti qualitativi, non più nel senso della Scolastica (rapporto tra diverse dimensioni dell’essere) ma nel senso che sono dati non oggetti, ma relazioni che permettono di scoprirli e ordinarli in unità. L’analogia è uno strumento fondamentale per estendere la conoscenza dei fenomeni naturali sulla guida delle loro connessioni determinanti. 10 Nella logica e nella metodologia della scienza dell’800 si è stati abbastanza diffidenti verso l’analogia, considerata come un’estensione della generalizzazione induttiva al di là dei limiti nei quali essa offre garanzie di verità. Per J. Stuart Mill il ragionamento per analogia consiste nell’inferenza che ciò che è vero in un certo caso è anche vero in un caso in qualche modo simile ma non esattamente parallelo, cioè non simile in tutte le circostanze materiali. Un esempio di tale analogia può essere: “Siccome il pianeta terra è abitato, i pianeti sono abitati”. Tale modo di argomentare può accrescere in grado non determinabile e modesto la probabilità della conclusione, ma espone a molte fallacie. Nella logica e nella metodologia del ‘900 si è avuta minore diffidenza nei confronti della analogia considerata come uguaglianza di rapporti. Essa permette di creare “simboli” (cfr modelli meccanici) più o meno somiglianti con le situazioni reali, ed è considerata come condizione o elemento integrante nella costruzione delle ipotesi e nelle teorie scientifiche. La partecipazione è uno dei due concetti che Platone ha usato per definire il rapporto tra le cose sensibili e le idee: “Nient’altro rende bella una cosa se non la presenza o la partecipazione del bello in sé, quali siano la via o il modo nei quali presenza o partecipazione abbiano luogo” (Fedro, 100 d). L’altra categoria è dunque “presenza”. In un secondo tempo Platone ha inteso la partecipazione come imitazione: “A me pare che le Idee stiano come esemplari nella natura; e che gli altri oggetti somiglino ad esse e ne siano copie; e che questa partecipazione delle cose alle Idee non consiste in altro che nell’essere immagini di esse” (Parmenide, 132 d). Tale concetto ha un’importanza capitale nel pensiero di S. Tommaso perché, a suo parere, è il nome del principio di causalità: il partecipato è la causa e il partecipante è l’effetto. “Quando una cosa riceve in maniera parziale ciò che appartiene ad altri in maniera totale, si dice che ne è partecipe. Per esempio, si dice che l’uomo partecipa all’animalità, perché non esaurisce il concetto di animalità in tutta la sua estensione; per la stessa ragione si dice che Socrate partecipa all’umanità; parimenti si dice che la sostanza partecipa all’accidente e la materia alla forma in quanto la forma, sostanziale o accidentale, che, considerata in se stessa, è comune a molti, viene determinata a questo o a quell’oggetto particolare; similmente si dice che l’effetto partecipa alla causa, soprattutto quando non ne adegua il potere; un esempio di questa partecipazione si ha quando si dice che l’aria partecipa alla luce del sole” (Commentarius in Boetium De Hebdomadibus lec. 2, n. 24). Chiamare il rapporto di causalità con il nome di partecipazione significa istituire un nuovo tipo di rapporto, più stretto, più intimo, più profondo tra causa ed effetto. Sussiste una somiglianza tra causa ed effetto, in quanto l’effetto possiede la stessa qualità della causa, ma è mantenuta anche una differenza perché l’effetto possiede solo una parte della realtà della causa: “quando qualcosa riceve in parte ciò che a un altro appartiene universalmente, si dice che vi partecipa” (ibid.). La partecipazione fonda così la dottrina dell’analogia che sottolinea la somiglianza e dissomiglianza tra cause ed effetto, Dio e creature. Dio esaurisce il concetto dell’essere in tutta la sua estensione, è l’essere, mentre le creature hanno l’essere per partecipazione. Tutti gli enti che noi sperimentiamo non sono l’essere per essenza, ma 11 partecipano dell’essere. L’essere è perfezione di tutte le perfezioni, attualità di tutti gli atti, è infinito e non può comportarsi come i partecipanti che sono sempre finiti: “L’essere può venire partecipato dalle altre cose, ma non può esso stesso partecipare a nessuna cosa. Invece ciò che è, ossia l’ente, partecipa all’essere, non come il più comune partecipa al meno comune, ma partecipa all’essere come il concreto partecipa all’astratto” (ibid.). Il grado di partecipazione di un ente all’essere, che gli permette di distinguersi da un altro ente, è l’essenza: “Le cose non si distinguono le une dalle altre in ragione dell’essere, perché questo è comune a tutte. Se dunque differiscono realmente tra loro, bisogna o che l’essere stesso sia specificato da alcune differenze aggiunte, in maniera che cose diverse abbiano un essere specificatamente diverso, oppure che le cose differiscano perché lo stesso essere compete a nature specificatamente diverse. Il primo caso è impossibile, perché all’essere non si può far aggiunta in quel modo in cui si aggiunge la differenza specifica al genere. Bisognerà allora ammettere che le cose differiscano a cagione delle loro diverse nature o essenze, per le quali si acquista l’essere in modi diversi” (Contra Gentiles, I, c. 26). La partecipazione all’essere degli enti materiali e degli enti immateriali non avviene allo stesso modo: “Si deve considerare che ogni realtà partecipa dell’essere secondo la relazione che la lega al primo principio dell’essere. Ora, una cosa composta di materia e forma ha l’essere solamente in conseguenza della sua forma, dunque è tramite la sua forma che essa è in relazione con il primo principio dell’essere. Ma poiché in una cosa generata la materia preesiste alla forma dal punto di vista cronologico, ne deriva che quella data cosa non si trova sempre nell’accennata relazione con il principio primo dell’essere; e non si trova in tale relazione neppure in concomitanza con il suo essere materia, ma solamente dopo, al sopraggiungere della forma” (In De causis, prop. 25). D’altra parte tutte le forme limitano l’essere, quindi nessuna di esse si identifica con l’essere, ma ciascuna, distinguendosi dalle altre, è un modo particolare di partecipare all’essere. Con l’uso della categoria di partecipazione Tommaso risolve tutti gli enti nell’essere: “Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo. Per esempio, tutte le cose calde per partecipazione si riducono al fuoco il quale è caldo per essenza. Ora, dato che tutte le cose che sono partecipano all’essere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa essenza, ossia che la sua essenza sia l’essere stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa sufficientissima, degnissima e perfettissima di tutte le cose: da lui tutte le cose che esistono partecipano all’essere” (Commento al Vangelo di Giovanni, Prologo n. 5). 12 Atto di essere S. Tommaso assegna il ruolo di atto principale e primario non alla forma, ma all’essere, attualità di ogni atto e perfezione di ogni perfezione. Fra tutte le cose l’essere è la più perfetta, e l’essere sostanziale di una cosa è l’attualità di ogni forma esistente. Aristotele aveva applicato il rapporto di atto e potenza alle coppie materia – forma e sostanza – accidente. Tommaso aggiunge la coppia essenza – atto di essere. Negli enti finiti essenza ed essere non coincidono, a differenza di Dio che è l’esse ipsum subsistens. Come si realizza la composizione dell’essenza con l’essere, come può l’essenza attuarsi? Tale composizione è nuova, diversa da quella di materia e forma e sostanza e accidente, perché qui l’essenza svolge il ruolo di potenza rispetto all’essere. L’essenza riceve la perfezione dell’essere ma poi la limita; per questo nessun ente finito ha la perfezione infinita dell’essere. La composizione di essenza e atto di essere (essere ricevuto che attua l’essenza ma che si limita in essa) è profondamente diversa da quella di materia e forma: “Primo, perché la materia non è l’essenza stessa della cosa, altrimenti avremmo che tutte le forme sarebbero accidentali come ritenevano gli antichi naturalisti; la materia invece è una parte dell’essenza. Secondo, perché l’essere stesso (ipsum esse) non è l’atto proprio della materia, ma della sostanza tutta intera; infatti l’essere è l’atto di ciò che si può dire che è. Ma l’essere non si dice della materia, bensì del tutto. Perciò non si può dire della materia che essa sia, ma ciò che veramente esiste è la sostanza. Terzo, perché neppure la forma è l’essere (né delle cose materiali né di quelle immateriali) … Perciò, negli enti composti di materia e forma, né la materia né la forma si possono dire essenza ed essere. Tuttavia la forma si può dire ciò per cui la cosa è, in quanto è principio dell’essere; ma tutta quanta la sostanza è ciò che è (quod est) e l’essere è ciò per cui la sostanza si dice ente. Invece, nelle sostanze intellettuali o separate, che non sono composte di materia e forma ma nelle quali la stessa forma è sostanza sussistente, la forma è ciò che esiste; mentre l’essere è sia atto sia ciò per cui esiste la forma” (Contra Gentiles, II, c. 54). Tommaso risolve così il problema della creaturalità e finitezza degli angeli, senza comprometterne l’assoluta spiritualità. L’angelo non è composto di materia e forma, ma neanche si identifica con l’essere, ma si rapporta all’essere che è atto a mo’ di potenza. Dio è infinito e perfetto perché si identifica con l’essere. 13 Trascendentali dell’essere A partire dal sec. XIII con questo termine vengono indicate le proprietà comuni a tutte le cose, che perciò trascendono o eccedono la diversità dei generi in cui tutte le cose si distribuiscono. Sono proprietà fondamentali dell’ente che lo accompagnano sempre e dovunque, perciò appartengono a tutti gli enti. Già Aristotele aveva insegnato che l’unità, la verità e la bontà sono qualità che appartengono all’ente in quanto tale. L’unità, la verità e la bontà si riferiscono analogicamente a tutti gli enti, sia alle sostanze sia agli accidenti, sia alle realtà materiali sia a quelle immateriali. S. Tommaso li ha definiti come quelle proprietà che si aggiungono all’ente in quanto esprimono un modo di esso che non viene espresso dal nome dell’ente: ens, res, unum, aliquid, bonum, verum. In Tommaso tali proprietà si collocano in un ripensamento del concetto di essere in senso intensivo, come attualità di ogni atto e perfezione di tutte le perfezioni. Unità, verità e bontà diventano in modo eminente proprietà prima di tutto dell’esse ipsum subsistens. Dio diventa allora la misura di tutto ciò che possiede unità, bontà, verità. All’essere in quanto essere, e all’ente che ne è partecipe, competono di diritto tutte quelle proprietà che si possono “convertire” con esso, cioè quelle proprietà che sono coestensive con l’essere, anche se non hanno la medesima connotazione, per cui non si distinguono realmente dall’essere (ente), ma concettualmente. Riguardo i cinque trascendentali sopra elencati, l’Angelico insiste su unità, verità e bontà mentre considera res e aliquid semplici sinonimi di ens, più che proprietà dell’essere. Unità, verità e bontà aggiungono all’ente qualche cosa senza imporre restrizioni al suo contenuto. Sono aggiunte di ordine logico, cioè connotazioni come la negazione (essere indiviso), e la relazione (con l’intelletto nel caso della verità e con la volontà nel caso della bontà). Quindi l’essere (ente) è detto uno perché indiviso in se stesso, vero e buono perché conforme all’intelletto e alla volontà. La conformità come modalità dell’essere (ente) è possibile per l’esistenza dell’anima, che in certo qual modo è tutte le cose. Siccome l’anima è composta della facoltà appetitiva e di quella conoscitiva il termine bene esprime la conformità dell’essere (ente) alla facoltà appetitiva e il termine vero la conformità alla facoltà conoscitiva. Vista l’applicazione dei Trascendentali anche a Dio in essi si distinguono una misura e un misurato: l’essere uno, vero, buono per essenza e l’esserlo per partecipazione. Qualcuno ha considerato incompleto l’elenco di S. Tommaso. Mancano la bellezza, il valore e il sacro. Ma possono essere integrati, partendo dal presupposto che il trascendentale esprime una relazione dell’ente (essere) con se stesso e con le facoltà dell’anima e, d’altra parte, riconoscendo che l’anima possiede anche la facoltà estimativa, il sentimento, il timore. Dunque la bellezza scaturisce dalla relazione con il sentimento di ammirazione, il valore dalla relazione con la facoltà estimativa, il sacro dalla relazione con il timore. Sui trascendentali possono fondarsi la gnoseologia (il vero), l’etica (il bene), l’estetica (il bello), l’assiologia (il valore), la religione (il sacro); questo testimonia come non siano un semplice corollario nell’indagine sull’essere, ma vanno posti a fondamento metafisico. 14 Tale concetto è stato ripreso lungo la tradizione filosofica. In Kant il termine trascendentale assume un nuovo significato: “Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non degli oggetti, ma del nostro modo di conoscere gli oggetti, in quanto è possibile a priori”. Quindi trascendentale non è più ciò che è al di là di ogni esperienza, ma piuttosto ciò che antecede l’esperienza (a priori) pur non essendo destinato ad altro che a rendere possibile la semplice conoscenza empirica. Fichte con tale termine designa la dottrina della scienza per mostrare che tutti gli elementi del conoscere rientrano nell’Io, cioè nella coscienza: “Questa scienza non è trascendente, ma resta trascendentale nella sua più intima profondità. Essa spiega certo ogni coscienza come qualcosa che esiste indipendentemente da ogni coscienza, ma anche in questa spiegazione non dimentica di conformarsi alle sue proprie leggi, ed appena vi riflette sopra, quel termine indipendente diventa di nuovo un prodotto della propria facoltà di pensare, quindi qualcosa di dipendente dall’Io in quanto deve esistere per l’Io nel concetto dell’Io”. Anche per Schelling trascendentale è l’atto del sapere che assorbe l’oggetto come tale, è un sapere puramente soggettivo Nella filosofia contemporanea il concetto di trascendentale designa ciò che appartiene al soggetto o alla coscienza in quanto è condizione dell’oggetto e della realtà stessa. Nella coscienza soggettiva ci sono le condizioni di ogni realtà. 15 Trascendenza – immanenza Con il platonismo e il neoplatonismo la trascendenza indica lo stato o la condizione del Principio divino o dell’essere che è al di là di ogni cosa, di ogni esperienza umana (in quanto esperienza di cose) o dell’essere stesso. Platone aveva già detto che il Bene, principio supremo di tutto ciò che è, paragonabile al sole che fa vivere e rende visibili tutte le cose, è al di là della sostanza. Plotino ripete che l’Uno è al di là della sostanza, e anche al di là dell’essere. Di conseguenza è anche al di là della mente. Esso è trascendente rispetto a tutte le cose pur producendole e tenendole in essere lui stesso. Proclo ribadisce: “al di là di tutti i corpi c’è la sostanza dell’anima, al di là di tutte le anime, la natura intellegibile, al di là di tutte le sostanze intellegibili, c’è l’Uno”. La Scolastica classica, riconoscendo la analogicità dell’essere, non pone Dio al di là dell’essere stesso. Scoto Eriugena usa il termine “super essente” per indicare la trascendenza assoluta per cui Dio è al di sopra di tutte le determinazioni concepibili. La teologia negativa o mistica pone Dio al di là dell’essere fino a farne, rispetto all’essere, un “nulla”. Jaspers contrappone la trascendenza all’esistenza: la trascendenza è ciò che è al di là di ogni possibilità di esistenza, è l’essere che non si risolve mai nel possibile e che per l’uomo rimane impossibile da raggiungere. La Trascendenza si rivela sotto forma di cifra nelle situazioni limite e non può essere contrassegnata come divinità, pena il cadere nella superstizione. La cifra è il simbolo mediante il quale l’essere trascendente può essere presente all’esistenza umana senza tuttavia acquistare caratteri oggettivi e senza entrare a far parte dell’esistenza soggettiva. Una cosa, una persona, una dottrina, una poesia possono valere come simboli o cifre della Trascendenza, così come le situazioni limite. Ogni situazione incita e ostacola, è infida, insicura, limita e distrugge; le situazioni limite sono immutabili, definitive, incomprensibili. In esse l’uomo si trova come contro un muro contro cui urta senza speranza. Esse sono: l’esistere necessariamente in una situazione determinata, il non poter vivere senza lotta e dolore, il dover prendere su di sé la colpa, l’essere destinato alla morte. In tali situazioni si rivela in modo negativo la trascendenza. Nella filosofia contemporanea alcuni indirizzi realistici mantengono la trascendenza dell’essere rispetto alla coscienza e all’oggetto conoscitivo immanente. Abbiamo anche un secondo significato di trascendenza, intesa come un rapporto che non significa unità o identità dei suoi termini, ma ne garantisce bensì l’alterità. Possiamo individuare un tale rapporto nella contemplazione, così come è concepita da Plotino: essa è per colui che è andato al di là di tutto. S. Agostino dice: “Se troverai mutevole la tua natura, trascendi te stesso … Ricordati che nel trascendere te stesso, trascendi un’anima razionale e che pertanto devi mirare al punto da cui dipende ogni luce di ragione” (De vera religione, 39). 16 Nella filosofia contemporanea trascendente è stata chiamata, in senso attivo, la coscienza, o l’atto di conoscenza. Husserl distingue la percezione trascendente, che ha per oggetto la cosa e rispetto alla quale la cosa stessa è trascendente, dalla percezione immanente che ha per oggetto le stesse esperienze coscienti le quali sono immanenti alla percezione stessa. N. Hartmann così scrive: “La conoscenza non è un semplice atto di coscienza, come il rappresentare o il pensare, ma un atto trascendente. Un atto simile s’attacca al soggetto soltanto con una sua parte, con l’altra ne sporge fuori; con quest’ultima s’attacca all’esistente che, mediante esso, diviene oggetto. La conoscenza è relazione tra un soggetto e un oggetto esistente. In questa relazione l’atto trascende la coscienza”. Heidegger ha definito trascendente il rapporto tra l’uomo (Dasein, Esserci) e il mondo. “L’esserci che trascende non oltrepassa né un ostacolo anteposto al soggetto in modo tale da costringerlo a restare dapprima in se stesso (immanenza) né un fosso che lo separerebbe dall’oggetto. Da parte loro gli oggetti (gli enti che gli sono presenti) non sono ciò verso cui l’oltrepassamento si attua. Ciò che viene oltrepassato è proprio e unicamente l’ente stesso, cioè qualsiasi ente che possa essere svelato o svelarsi all’Esserci e quindi anche proprio quell’ente che l’Esserci è, in quanto esistendo, è se stesso” (Sull’essenza del fondamento, 1929, II). L’atto di trascendenza è quello per cui l’uomo, come ente nel mondo, si distingue dagli altri enti ed oggetti e si riconosce come se stesso. La trascendenza è il significato dell’essere nel mondo. “Colui che oltrepassa e quindi va oltre, deve come tale sentirsi situato nell’ente. L’Esserci, in quanto si sente tale, è incluso nell’ente in modo che, ricompreso in esso, viene da esso accordato a se stesso. La trascendenza è un progetto del mondo tale che colui che progetta è dominato dall’ente che trascende ed è già in accordo con esso. Con questo essere incluso dell’Esserci, connesso con la Trascendenza, l’Esserci ha preso base nell’ente, ha ottenuto il suo fondamento”. La trascendenza si appiattisce sugli oggetti trascesi, il progetto sul suo punto di partenza, il possibile sull’effettuale, il futuro sul passato. Tale ricaduta o appiattimento è chiamato deiezione o effettività. Sartre riprende tale concetto di trascendenza affermando che la coscienza (il per sé), trascendendo verso l’essere (in sé), si annulla per rivelare e affermare, attraverso di sé, l’essere stesso. Anche l’immanenza può avere diversi significati.: La presenza del fine dell’azione all’azione stessa o del risultato di un’operazione qualsiasi alla stessa operazione. Gli Scolastici parlavano così di un’azione immanente, cioè che rimane nell’agente, come l’intendere, il sentire, il volere. Essa è distinta dall’azione transitiva che è quella che dall’agente passa in una materia esterna, come il segare, lo scaldare … . Tale distinzione riprende quella che Aristotele aveva fatto tra movimento e attività nel libro IX della Metafisica. Il movimento è l’azione che ha il suo fine fuori di sé e l’attività è l’azione che ha in se stessa il suo fine. Per definire l’attività Aristotele riprende il verbo enyparchein, che significa inerire come parte essenziale o costitutiva. Spinoza adoperò l’aggettivo nello stesso senso applicandolo a Dio per dire che Dio è causa immanente, non già transitiva di tutte le cose, intendendo dire che Dio è causa delle cose che sono in Lui e che non c’è nulla fuori di Dio. I wolfiani, in particolare Baumgarten, 17 riprendono la distinzione aristotelica. L’immanenza dice il permanere, nell’agente, del fine, risultato o effetto di un’azione. Il secondo significato è quello in cui Kant adopera il corrispondente aggettivo chiamando immanenti i principi la cui applicazione si tiene in tutto e per tutto nei limiti dell’esperienza possibile, che sono perciò contrapposti ai principi trascendenti che sorpassano questi limiti. In questo senso l’immanenza significa la limitazione dell’uso di certi principi al dominio dell’esperienza possibile e la rinuncia ad estenderli al di là di esso. Un terzo significato si configura nell’idealismo post – kantiano. Scrive Fichte: “Nel sistema critico, la cosa è ciò che è posto nell’Io; nel dogmatico, ciò in cui l’Io stesso è posto, il criticismo è perciò immanente perché pone tutto nell’Io; il dogmatismo è trascendente perché va ancora oltre dell’Io” (Wissenschafslehre, 1794, I, &3, D). Questa terminologia, seguita anche da Schelling, dà all’aggettivo immanente la caratteristica del punto di vista assoluto, per il quale nulla c’è fuori dell’Io. E’ tuttavia evidente l’analogia di questo significato con quello spinoziano per il quale l’azione di Dio è immanente perché non va oltre Dio stesso. In questo senso l’immanenza è l’inclusione di tutta la realtà nell’Io (o Assoluto o Coscienza) e la negazione di ogni realtà al di fuori dell’Io. Nello stesso senso Gioberti parlava di pensiero immanente e insiste sull’immanenza il pensiero italiano tra le due guerre. I tre significati hanno in comune il concetto che immanente è ciò che, facendo parte della sostanza di una cosa, non sussiste fuori di essa. In questo senso si parla di “giustizia immanente” per indicare quella giustizia che è inerente alla successione stessa degli eventi o di “pericolo immanente” per indicare il pericolo proprio di una certa situazione. È stata introdotta anche l’espressione “filosofia dell’immanenza” da Wilhelm Schuppe (18361913), per indicare la prospettiva secondo la quale il mondo è nella coscienza, ma la coscienza non è quella individuale, bensì la coscienza in generale, cioè il contenuto comune delle coscienze individuali. Blondel ha introdotto invece il metodo dell’immanenza, un metodo di apologetica religiosa il quale tende a mostrare che il divino è in qualche modo immanente nell’uomo, almeno sotto forma di bisogno, di aspirazione o esigenza. Le Roy ha parlato di principio di immanenza esprimendolo nella forma che “tutto è interno a tutto, e che nel minimo dettaglio della natura o della scienza l’analisi ritrova tutta la natura e tutta la scienza”. Infine esiste anche la posizione dell’immanentismo, la dottrina che nega ogni realtà o essere al di fuori della coscienza o dell’autocoscienza. L’idealismo gnoseologico, quello romantico e tutte le forme di coscienzialismo sono dottrine immanentistiche. 18 L’essere Prima di tutto distinguiamo due usi del termine essere: L’uso predicativo per il quale si dice: Socrate è un uomo, la rosa è rossa L’uso esistenziale per il quale si dice: “C’è Socrate”, “C’è una rosa rossa” Platone, nel Parmenide (137c; 142b), distingue il senso dell’ipotesi “L’uno è uno” è “L’uno è”: nel secondo caso la copula esprime la partecipazione all’essere. Aristotele riprende la stessa differenza, tra l’è come terzo predicato e l’è come secondo predicato, tra l’è predicato per accidente (cfr. Omero è poeta) e l’è predicato per sé (Omero è), come differenza tra essere qualcosa ed essere assolutamente. La differenza tra questi due significati di essere rimane fissata nella tradizione filosofica dopo Aristotele. Dice S. Tommaso: “Essere ha due significati: in un modo significa l’atto di essere, in un altro significa la composizione della proposizione che l’uomo trova congiungendo il predicato con il soggetto” (De ente 1). Nella logica terministica medievale si distingueva il verbo essere come secondo costituente (secondo adiacens) della proposizione dal verbo essere che ricorre come terzo costituente (tertio adiacens), cioè in funzione predicativa o di copula. (Guglielmo di Ockam). Kant distingue la posizione predicativa o relativa, espressa dalla copula di un giudizio, e la posizione assoluta o esistenziale, con cui si pone l’esistenza della cosa. Nella filosofia moderna e contemporanea la distinzione è un luogo comune, anche se non viene sempre esplicitamente formulata. Il significato predicativo è stato declinato secondo tre dottrine fondamentali: Secondo la dottrina dell’inerenza, essere, nel rapporto predicativo, significa appartenere o inerire. “Socrate è uomo” significa che l’essenza uomo inerisce a Socrate; “la rosa è rossa” significa che la qualità rosso appartiene alla rosa. I rapporti di inerenza esprimibili col verbo essere sono chiariti e distinti grazie alla dottrina della sostanza di Aristotele: occorre tenere presenti i rapporti tra la sostanza e la sua essenza necessaria e la sostanza e le sue altre determinazioni categoriali o accidentali. Precisa Aristotele: “Sono cose diverse l’inerire, l’inerire necessariamente e la possibilità di inerire”. L’inerenza necessaria è quella dell’essenza necessaria, espressa dalla definizione, alla cosa di cui è l’essenza; mentre il semplice inerire o l’inerire possibile è riferimento alla cosa di una qualità o quantità o qualsiasi altra determinazione categoriale, non incluse nella definizione della cosa o puramente accidentali. Questa è la distinzione aristotelica tra l’essere necessario e l’essere accidentale: “In senso accidentale, noi diciamo che il giusto è musico, che l’uomo è musico e che il musico è uomo o diciamo che il musico costruisce quando capita che il 19 costruttore è un musico o che il musico è un costruttore: in tutti questi casi dire <<Questo è quello>> significa <<a questo capita quello>>”. All’opposto, l’inerenza necessaria o per sé non ha carattere accidentale e pur specificandosi secondo le categorie ha per suo fondamento privilegiato la sostanza. Dice sempre Aristotele: “Come l’è inerisce a tutte le cose però non allo stesso modo ma ad alcune in modo primario ad altre secondariamente; così il che cosa (l’essenza) inerisce assolutamente alla sostanza e solo in certo modo alle altre cose. Noi possiamo anche chiederci di una qualità che cosa essa sia, perciò anche una qualità è un esempio di essenza, ma non assolutamente. Così alcuni dicono che logicamente il non essere è: tuttavia non è semplicemente, ma solo come non essere: così è per la qualità”. Pertanto secondo Aristotele l’essere predicativo esprime l’inerenza al soggetto o della sua essenza necessaria o di determinazioni categoriali che, pur non facendo parte dell’essenza, dipendono da essa o di determinazioni accidentali. Questo significato dell’essere ha un suo senso privilegiato che è l’inerire sostanziale, cioè l’inerire dell’essenza necessaria, espressa dalla definizione, alla sostanza definita. “Socrate è animale bipede” è un caso di inerenza predicativa privilegiata se “animale bipede” è la definizione dell’uomo, perché è l’inerenza dell’essenza necessaria alla sostanza. Le altre determinazioni come “Socrate è filosofo” o “Socrate è in casa” costituiscono casi di inerenza secondaria o accidentale. In questo concetto predicativo, l’essere è ridotto a un unico tipo di rapporto, qualificato come appartenenza o inerenza e il privilegio viene accordato al rapporto di inerenza necessaria che intercorre tra la sostanza e l’essenza. La tradizione logica medievale conserva tale dottrina dell’inerenza, ed essa è in qualche modo ripresa anche da autori moderni. Scrive Leibniz: “Ogni vero predicato ha qualche fondamento nella natura delle cose, e quando una proposizione non è identica, cioè quando il predicato non è compreso espressamente nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente: è ciò che i filosofi chiamano in – esse, dicendo che il predicato è nel soggetto”. Allo stesso modo per Hegel il significato predicativo dell’essere è l’identità dell’individuale e dell’universale, cioè quella stessa relazione tra sostanza ed essenza in cui Aristotele vedeva il caso privilegiato del rapporto predicativo: “la copula è viene dalla natura del concetto, che è di essere identico con sé nel suo estrinsecarsi: l’individuale e l’universale sono, come suoi momenti, determinazioni che non possono essere isolate”. Il giudizio tende ad esprimere in modo mediato o riflesso l’unità del predicato col soggetto, cioè l’unità di un concetto unico che, attraverso il giudizio stesso, e più completamente attraverso il sillogismo, si articola nelle sue determinazioni necessarie. Alcuni hegeliani inglesi sostengono che l’essere predicativo significhi riferimento di un concetto al sistema totale della realtà, dunque il concetto è, nel giudizio, una qualifica essenziale della realtà universale. Secondo la dottrina dell’identità o supposizione, la copula significa l’identità dell’oggetto al quale si riferiscono o in luogo del quale stanno soggetto e predicato della proposizione. Nell’espressione “Socrate è bianco” la copula indicherebbe semplicemente che il soggetto Socrate e il predicato Bianco sono riferiti allo stesso soggetto esistente: che perciò può 20 essere qualificato con l’uno e con l’altro dei due termini. L’origine di tale dottrina è probabilmente nello logica stoica, nella quale è fondamentale il riferimento di ogni enunciato ad una situazione di fatto immediatamente presente. Ma essa si chiarisce pienamente nella logica del sec. XIII, in polemica con la teoria dell’inerenza: “Proposizioni come <<Socrate è un uomo>> o <<Socrate è un animale>> non significano che Socrate ha l’umanità o l’animalità. Né significano che l’umanità o l’animalità è in Socrate, né che l’uomo o l’animale è in Socrate, né che l’uomo o l’animale è una parte della sostanza o dell’essenza di Socrate o una parte del concetto o della sostanza di Socrate. Ma significano che Socrate è in realtà un uomo ed è in realtà un animale: non nel senso che Socrate sia questo predicato <<uomo>> o questo predicato <<animale>> ma nel senso che c’è qualcosa per la quale questi due predicati stanno; come quando accade che questi predicati stanno per Socrate” (Guglielmo di Ockam). Hobbes riprende la stessa dottrina: “La proposizione è un discorso che consta di due nomi congiunti, mediante il quale colui che parla intende dire che egli pensa che il secondo nome è un nome della stessa cosa della quale è nome il primo: o, che è lo stesso, che il primo nome è contenuto nel secondo. Per esempio, il discorso <<L’uomo è animale>> nel quale i due nomi sono congiunti dal verbo è, è una proposizione perché chi la enuncia intende dire che egli crede che il secondo nome <<animale>> è il nome della stessa cosa di cui è nome <<uomo>>. Stuart Mill riprende e rilancia tale dottrina, distinguendo le affermazioni “essenziali”, cioè generali, che non fanno altro che spiegare l’essenza nominale di una cosa dalle proposizioni “reali” le quali implicano sempre l’esistenza del soggetto cui si riferiscono. Nel caso di un soggetto non esistente, la proposizione non avrebbe nulla da asserire. L’aspetto qualificante di tale dottrina dell’identità o supposizione è il riferimento alla realtà immediatamente data o intuita. Nel nominalismo i logici hanno addirittura affermato la falsità di proposizioni tautologiche come “la chimera è chimera” quando in essa il soggetto sta per un oggetto inesistente. Il secondo aspetto qualificante è l’identità del riferimento oggettivo dei termini della proposizione: l’identità della cosa in luogo della quale stanno soggetto e predicato. Secondo la dottrina della relazione la copula è esprime una relazione tra termini, interpretata come oggettiva (in re) o soggettiva (istituita dal soggetto). L’interpretazione dell’Essere predicativo come di una relazione che sia atto od operazione del soggetto pensante ha come presupposto il principio cartesiano che l’oggetto immediato della conoscenza umana è solo l’idea. Proprio da questo punto di vista la proposizione appare come giudizio e comincia ad assumerne il nome: giacché il giudizio è per l’appunto l’atto con cui lo spirito sceglie o decide. Dice Cartesio: “Tra i miei pensieri, alcuni sono quasi le immagini delle cose e a questi soltanto conviene propriamente il nome di idea: come quando mi rappresento un uomo o una chimera o il cielo o un angelo o Dio stesso. Altri pensieri hanno, oltre che questa, altre forme; per es. quando voglio, temo, affermo, nego, concepisco bensì qualcosa come l’oggetto dell’azione del mio spirito, ma aggiungo anche, con questa azione, qualche altra cosa all’idea di quell’oggetto; e di questo genere di 21 pensieri, alcuni sono chiamati volontà o emozioni, altri giudizi”. Il giudizio è pertanto, secondo Cartesio, un’azione dello spirito per la quale si aggiunge qualcosa all’idea che si ha di un oggetto: è, in altri termini, un atto di unificazione o di sintesi. Questa nozione è chiaramente espressa nella Logica di Arnauld: “Quando dico <<Dio è giusto>>, Dio è il soggetto di questa proposizione, giusto è l’attributo; e la parola <<è>> segna l’azione del mio spirito che afferma, cioè che lega insieme le due idee di Dio e di giusto come convenienti l’una all’altra”. Locke, definendo la conoscenza come percezione del legame e della concordanza o della discordanza e del contrasto fra le nostre idee esprime la stessa tesi: “Tutto ciò che sappiamo o possiamo affermare nei riguardi di una qualunque idea sta in questo, che essa è, o non è, uguale a qualche altra; che sempre coesiste o non coesiste con qualche altra idea nello stesso soggetto; che ha questo o quel rapporto con qualche altra idea o che ha un’esistenza reale o fuori dello spirito”. Il verbo essere, anche nel suo uso esistenziale, non fa che esprimere relazioni: relazioni percepite dallo spirito, che hanno nel soggetto conoscente, anche se non solo in esso, la loro realtà. Kant, affermando che l’atto del giudizio, che è l’attività propria dell’intelletto, è la sintesi, esprime lo stesso concetto: “Intendo per sintesi, nel senso più generale di questa parola, l’atto di unire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità in una sola conoscenza”. L’idealismo muove su questo punto da Kant e attribuisce all’attività sintetica, al potere sintetico dello spirito, alla sintesi a priori un significato enfatico e creativo: esse continuano a mantenere il carattere soggettivo dell’attività sintetica che non può operare se non tra idee o rappresentazioni, cioè tra elementi o stati del medesimo soggetto. Il limite di questa impostazione sta nel fatto che un’asserzione qualsiasi mira a stabilire un rapporto, non già tra due idee, o rappresentazioni, o concetti, ma tra gli oggetti cui essi fanno riferimento. Quando si dice “Socrate è uomo” non si intende che sia uomo la rappresentazione Socrate ma l’individuo reale cui il nome si riferisce. L’interpretazione invece della relazione espressa dalla copula come oggettiva è stata presentata per la prima volta da De Morgan (Logica formale, 1847, cap. 3) e poi fatta propria dal fondatore della logica matematica, Boole. Per quest’ultimo la logica ha a che fare con due specie di relazioni, le relazioni tra le cose e le relazioni tra fatti o tra proposizioni. La relazione espressa dalla copula rimane la stessa in tutte le forme proposizionali non perché la sua natura sia espressa nella proposizione ma perché è stabilita per convenzione. La copula può allora esprimere una relazione qualsiasi. Essa è chiamata copula astratta. In generale oggi si distinguono una copula di appartenenza che designa il rapporto tra un individuo e una classe e una copula di inclusione che designa il rapporto tra una classe e un’altra classe. La caratteristica fondamentale di tale concezione dell’essere predicativo è la sua massima generalità: le altre interpretazioni della copula possono essere considerati come casi speciali di relazione. In tale concezione della copula la proposizione è funzione: per essa infatti il predicato diventa la funzione e il soggetto la variabile della funzione stessa. Il significato esistenziale dell’essere a sua volta si distingue nell’essere come esistenza in generale e nell’essere come esistenza privilegiata. 22 L’essere può significare in primo luogo l’esistenza in generale. Tale significato è indeterminato ma specificabile o definibile in base a un criterio qualsiasi. Per questo Aristotele dice che l’essere si dice in molti modi e che si può perfino dire che il non essere non è. In secondo luogo l’essere può significare l’esistenza privilegiata o primaria, cioè l’esistenza nella sua modalità primaria e fondamentale, dalla quale dipendono tutte le sue manifestazioni determinabili. L’essere si dice in molti modi, ma uno solo è il suo significato primario e fondamentale. Questo è il punto di vista di Aristotele. Il significato ultimo e fondamentale a cui devono essere ricondotti i molteplici significati dell’essere costituisce il cosiddetto problema dell’essere, il problema del significato primario dell’essere, di quel significato unico e semplice che si presume l’essere abbia ma che rimane più o meno nascosto nella molteplicità dei suoi aspetti apparenti. La ricerca metafisica, nella sua impostazione classica, si concentra su questo problema. Il significato primario dell’essere è quello che esprime più chiaramente l’esistenzialità dell’essere e che per gli altri significati, ad esso riconducibili, può essere fondamento o principio. Platone, nel Sofista, ci parla della “battaglia dei giganti” nella quale, di fronte ai giganti, o “figli della terra” che affermano che ogni realtà è corpo, stanno gli dei, che affermano l’incorporeità dell’essere e lo riducono alle sue forme ideali. Un significato dell’essere non è difatti sufficientemente stabilito dal carattere di corporeità o dalla negazione di tale carattere: giacché un essere che si ritenga corporeo può avere gli stessi caratteri formali di un essere che si ritenga incorporeo. È ben vero che i caratteri formali dell’essere, quelli che si mettono in evidenza come soluzione del problema dell’essere, cioè come determinazione del significato primario dell’essere, sono costantemente ricavati dalla considerazione di una sfera particolare dell’essere, o almeno di un gruppo di enti o di un ente che in qualche modo si privilegia e si pone come esemplare. Ma è pur vero che in ogni caso si può ottenere una risposta al problema dell’essere solo se tra i caratteri della sfera o del gruppo o dell’ente considerato, si sceglie quello suscettibile di generalizzazione, cioè adatto ad essere riferito anche alle altre sfere o gruppi o enti. In questo senso Platone obiettava ai materialisti che essi devono dire che cosa c’è di comune fra le cose corporee e quelle incorporee, posto che si dica che entrambe sono. Ma se nel problema dell’essere si scorge la ricerca di un significato primario formale – cioè generalizzabile – dell’essere stesso, si può dire che ogni soluzione del problema non fa che privilegiare, cioè assumere come primaria e fondamentale, una modalità determinata dell’essere. Ora, poiché le modalità secondo cui l’essere può essere enunciato o asserito sono tre, cioè la necessità, la possibilità e l’assertorietà, tre pure sono in teoria le possibili soluzioni del problema dell’essere. Essendo l’assertorietà riconducibile alla necessità, possiamo riscontrare due soluzioni fondamentali. Per la prima di esse, l’essere primario è la necessità. Tale interpretazione è prevalente nella metafisica classica. Per Parmenide l’essere è e non può non essere: la necessità consiste nel non poter non essere, che 23 rispetto al tempo è eternità, rispetto al molteplice è unità, rispetto al divenire è immutabilità. Anche Aristotele privilegia il significato della necessità. Il principio di contraddizione, da lui posto a fondamento della filosofia prima, cioè della scienza dell’essere in quanto essere, è da lui inteso come il principio che postula la necessità dell’essere e che si realizza nella sostanza. Dice Aristotele: “Se la verità ha un significato, necessariamente chi dice uomo dice animale bipede: giacché questo significa uomo. Ma se questo è necessario, non è possibile che l’uomo non sia animale bipede: la necessità significa infatti proprio questo, che è impossibile che l’essere non sia”. L’aspetto per cui è necessario che un essere sia (che è il solo aspetto per cui l’essere è oggetto di scienza giacché dell’essere accidentale non c’è scienza) è la sostanza dell’essere. Dice sempre Aristotele: “Uno solo è il significato dell’essere e questo è la sostanza di esso. Indicare la sostanza di una cosa non è altro che indicare l’essere proprio di essa”. La sostanza è il senso primario e fondamentale dell’essere a cui tutti gli altri suoi significati possono essere ricondotti. Ogni distinta o distinguibile determinazione dell’essere è un aspetto o manifestazione della sostanza. Il significato prevalente della necessità rimane oltre Aristotele, con gli attributi che esso reca con sé, come immutabilità, eternità, unità, etc. Anche quando tali attributi sono riferiti non più alla struttura formale dell’essere ma ad un ente privilegiato, e cioè non a tutte le sostanze ma alla sostanza più alta che è Dio, la derivazione delle altre sostanze da questa o la loro partecipazione ad essa è stata intesa come derivazione e partecipazione della necessità e dei suoi attributi. La metafisica di S. Tommaso non è una semplice riedizione della metafisica di Parmenide, perché il suo concetto dell’essere è totalmente diverso da quello del filosofo di Elea. Mentre il primo ha un concetto univoco e monistico (che esclude il divenire e la partecipazione), il secondo ha un concetto analogico e pluralistico, che riconosce la creazione e la partecipazione. Per Tommaso i significati dell’essere sono: l’essere come essenza della cosa, l’essere come atto dell’essenza (il vivere è l’atto dell’anima), l’essere come copula. A proposito dell’essere come atto dell’ente o dell’essenza egli distingue tra esse commune o esse universale e esse absolutum o esse divinum. Il primo designa un minimo di realtà indispensabile a tutte le cose per uscire dalle tenebre del nulla e appartenere all’ordine degli enti. Il secondo termine esprime l’intensità massima di realtà, tale per cui vi è racchiusa ogni perfezione. Egli precisa questo di fronte a chi obietta che non è corretto definire Dio come essere e identificare la sua essenza con l’essere e ribadisce che c’è il concetto di essere comune, il concetto più astratto di tutti, che è indifferente a tutte le aggiunte perché suscettibile di qualsiasi aggiunta, e il concetto di essere specialissimo che già include tutte le determinazioni e perciò esclude ogni aggiunta. Nella seconda accezione di essere possiamo definire Dio come essere e identificare la sua essenza con l’essere stesso: “L’espressione <<qualche cosa cui non si può aggiungere niente>> si può intendere in due maniere. Prima maniera: qualche cosa che (positivamente) di sua natura importi l’esclusione di aggiunte (o determinazioni) … Seconda maniera: qualche 24 cosa che non riceva aggiunte o determinazioni perché di suo non le include (né le esclude) … Essere senza aggiunte nella prima maniera è proprio dell’essere divino; invece essere senza aggiunte nella seconda maniera è proprio dell’essere comune” (S. Th I, q.3, a.4, ad.1). Mentre l’esse commune è un’astrazione, la massima di tutte le astrazioni, che riguarda quel minimo di realtà che è comune a tutte le cose, l’esse divinum, invece, detto anche esse ipsum, è concretissimo e individualissimo, in quanto abbraccia tutte le determinazioni: “Ciò che è comune a molte cose non è nulla fuori di esse se non per astrazione … Quindi se Dio fosse l’essere comune, egli non avrebbe alcuna esistenza reale, ma soltanto nell’intelletto (che lo pensa). Ora, abbiamo visto in precedenza che Dio è una realtà che non esiste solo nella nostra mente, ma nella natura delle cose; perciò non può essere l’essere comune di tutte le cose” (Contra Gentiles I, c.26, n.241). “Dio è qualche cosa di determinato in se stesso, altrimenti non si potrebbero escludere da lui le condizioni degli altri enti … Il nome di Dio <<Colui che è>> designa l’essere assoluto … e significa una specie di pelago infinito della sostanza, come se fosse senza confini” (I Sent., I, d.8, q.4, a.1; I, d.8, a.1, ad.4). Tommaso menziona poi altre divisioni del concetto di essere, che coincidono quasi sempre con le divisioni dell’ente: essere sostanziale ed essere accidentale, essere per essenza ed essere per partecipazione, essere assoluto ed essere relativo, essere in atto ed essere in potenza, essere infinito ed essere finito. Egli aggiunge anche una divisione in esse naturae ed esse gratiae: “C’è un doppio essere: l’essere di natura e l’essere di grazia. La prima creazione è avvenuta quando le creature sono state prodotte <<ex nihilo>> da Dio nel loro <<esse naturae>>. La creatura era allora nuova ma è stata invecchiata dal peccato … E’ stata perciò necessaria una nuova creazione per la quale le creature sarebbero state prodotte nel loro <<esse gratiae>>, e anche questa è una creazione <<ex nihilo>>” (In Ep. II ad Cor., 5,17, lect. 4). L’originalità di Tommaso è nella sua proposta del concetto intensivo di essere: cioè l’essere è inteso non come perfezione comune, ma come perfezione assoluta, non come perfezione minima cui si possono aggiungere tutte le altre perfezioni, e neppure semplicemente come perfezione somma (come Platone ha concepito la bellezza, Plotino l’unità, Dionigi l’Areopagita la bontà), bensì come perfezione piena e intensissima che racchiude tutte le altre. Egli evidenzia così: a. il primato dell’atto di essere, in quanto a differenza della forma che è atto ma non può sussistere per conto proprio, l’atto di essere può sussistere per conto proprio perché è atto per essenza: “L’atto primo è l’essere sussistente per conto proprio. Perciò ogni cosa riceve l’ultimo completamento mediante la partecipazione all’essere. Quindi l’essere è il completamento di ogni forma. Infatti la forma arriva alla completezza solo quando ha l’essere, e ha l’essere solo quando è in atto. Sicché non esiste nessuna forma se non mediate l’essere. Per questo affermo che l’essere sostanziale di ogni cosa non è un accidente, ma è l’attualità di ogni forma esistente, tanto dotata quanto priva di materia” (Quodlib., XII, q.5, a.1). Primo nell’ordine dell’attualità, l’essere diviene anche la sorgente di tutto ciò che in qualche modo è in atto, e quindi la sorgente e la causa di 25 tutti gli enti, che partecipano all’atto di essere: “Tra le cose l’essere è la più perfetta perché verso tutte sta in rapporto di atto. Niente infatti ha l’attualità se non in quanto è; perciò l’essere stesso è l’attualità di tutte le cose, anche delle stesse forme” (I, q.4, a.1, ad.3). b) pregnanza singolarissima dell’essere, ossia l’essere non è soltanto perfezione somma ma è anche il ricettacolo di tutte le perfezioni, per cui tutte le costellazioni di perfezioni che riempiono l’universo non sono altro che irradiazioni della stessa e unica perfezione dell’essere: “Tra tutte le cose l’essere è la più perfetta. Ciò risulta dal fatto che l’atto è sempre più perfetto della potenza. Ora qualsiasi forma particolare si trova in atto solo se le si aggiunge l’essere. Infatti l’umanità o l’igneità possono considerarsi come esistenti o nella potenza della materia o nella capacità dell’agente, oppure nella mente: ma ciò che possiede l’essere diviene attualmente esistente. Conseguentemente ciò che chiamo essere è l’attualità di ogni atto e quindi la perfezione di qualsiasi perfezione” (De Pot., q.7, a.2, ad.9). E ancora: “Ogni nobiltà di qualsiasi cosa appartiene a essa in forza dell’essere; poiché sarebbe nulla la nobiltà che viene all’uomo dalla sapienza, se per essa non fosse effettivamente sapiente; e così delle altre perfezioni. Pertanto il grado di nobiltà di una cosa corrisponde al grado di nobiltà con cui possiede l’essere, poiché si dice che è più o meno nobile secondo che il suo essere si restringe più o meno a qualche grado speciale di nobiltà. Quindi se vi è qualcuno cui appartenga tutta la virtù dell’essere, non può mancargli nessuna nobiltà che trovasi negli altri” (Contra Gentiles, I, c.28, n.260). E ancora: “L’essere è più nobile di qualsiasi altro elemento che lo accompagni. Perciò, in assoluto, l’essere è più nobile anche del conoscere, supposto che si possa pensare il conoscere facendo astrazione dall’essere. E quindi ciò che è più perfetto nell’essere in sede assoluta, è più nobile di qualsiasi altra cosa che sia più perfetta solamente in rapporto a qualche altro aspetto che accompagna l’essere” (I Sent., d.17, q.1, a.2, ad 3). Pertanto l’essere è veramente la perfezione assoluta e la radice di ogni altra perfezione. L’essere è ciò che vi è di più perfetto nella realtà, anzi è il completamento di tutte le altre perfezioni che così non diventano altro che aspetti dell’essere, ed è la sorgente di tutti gli enti, che non sono altro che partecipazioni dell’essere. L’eccellenza dell’essere risulta proprio dal fatto che, mentre nessun’altra perfezione e nessun ente è concepibile senza che partecipi all’essere, questo si può pensare in assoluta autonomia, come a sé stante, come sussistente, come solitario senza che per questo nulla perda della sua ricchezza, della sua pienezza, della sua intensità c) l’intimità dell’essere, ossia l’essere è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondo. L’essere penetra nelle cose fino a toccare le zone più recondite, fino a raggiungere le fibre più segrete. Tutta la trama che costituisce l’ente, tutto il suo sviluppo e la sua espansione provengono dall’essere e vanno verso l’essere: “Tra tutte le cose l’essere è quella che più intimamente e immediatamente conviene agli enti; perciò, avendo la materia l’essere in atto mediante la forma, è necessario che la forma, dando l’essere alla materia, si unisca a essa più intimamente di qualsiasi altro elemento” (De Anima, a.9). E ancora: “Pertanto nell’ente 26 l’elemento più intimo è l’essere; dopo l’essere (in ordine di intimità) viene la forma, per la cui mediazione la cosa è in possesso dell’essere; infine viene la materia, che pur costituendo il fondamento della cosa, si trova tuttavia più distante dall’essere della cosa di qualsiasi altro elemento” (De natura accidentis, c.1, n.468). L’essere non solo rappresenta la sorgente di tutti gli enti, ma costituisce anche il loro traguardo finale. L’essere è il fine di ogni azione, ogni azione e ogni movimento sono ordinati in qualche modo all’essere sia per la sua conservazione nella specie o nell’individuo, oppure perché esso venga acquistato di nuovo. L’essere è l’ultimo atto verso cui tende qualsiasi divenire; in quanto il divenire naturale tende verso ciò che naturalmente si desidera, occorre che l’essere sia l’atto ultimo cui anela ogni cosa. Tommaso ripercorre anche le tappe del percorso storico – filosofico che conduce alla scoperta dell’essere: 1) i Presocratici furono piuttosto grossolani perché ritenevano che non esistessero altro che corpi sensibili. Essi accettavano il moto solo sotto certi aspetti accidentali, come la rarefazione o la condensazione, l’associazione o la dissociazione. Per tali trasformazioni accidentali indicarono l’amicizia, la lite, l’intelligenza o altre cose del genere 2) Platone e Aristotele distinsero razionalmente la forma sostanziale dalla materia che ritenevano increata; e capirono che nei corpi avvengono delle trasformazioni di forme sostanziali. Di tali trasformazioni stabilirono delle cause universali, cioè il circolo obliquo per Aristotele e le Idee per Platone. Tuttavia entrambi hanno considerato l’ente sotto un aspetto particolare, o in quanto appartenente a una determinata specie o in quanto determinato dai suoi accidenti. Quindi costoro assegnarono alle cose solamente delle cause efficienti particolari 3) la scoperta del principio unico e universale di tutte le cose, l’essere, ed è la via percorsa da S. Tommaso: “Essendo necessario che esista un principio primo semplicissimo, il suo modo di essere non va concepito come qualcosa che partecipi dell’essere, bensì come quello dell’essere sussistente stesso. E poiché l’essere sussistente non può essere che uno solo, ne consegue che tutte le altre cose che traggono origine da esso, esistano come partecipanti all’essere. Occorre pertanto una risoluzione comune per tutte le forme di divenire (accidentale, sostanziale, esistenziale), dato che tutte implicano nel loro concetto due elementi, l’essenza e l’essere. E quindi oltre al modo di divenire della materia col sopraggiungere della forma, occorre riconoscere in precedenza un’altra origine delle cose, grazie alla quale l’essere viene dato a tutto l’universo reale dall’ente primo, che si identifica con l’essere” (Sub. Sep., c.9, n.94). S. Agostino aveva notato che Dio ha scelto l’essere come suo nome proprio, ma non ha sviluppato la densità semantica del concetto di essere. Tommaso ha scrutato l’ente non solo sotto qualche aspetto particolare ma in quanto ente, cioè partecipe della perfezione dell’essere. Egli ha così colto il valore singolarissimo dell’essere, cioè che è solo l’essere a fare dell’ente qualcosa di reale, di attuale, che è solo l’essere a conferire attualità, nobiltà, perfezione e dinamismo all’ente. Avicenna esprime così il significato primario dell’essere come necessità: “se una cosa non è necessaria in rapporto a se stessa, bisogna che sia possibile in rapporto a se 27 stessa, ma necessaria rispetto a una cosa diversa” (Met. II, 1,2). Ciò che è possibile ha bisogno di un’altra cosa che lo faccia esistere in atto. Ciò che esiste in atto esiste sempre necessariamente, anche se talvolta la necessità gli deriva da altro (cfr. gli enti finiti). Nel mondo moderno il concetto dell’essere come necessità trova le sue riaffermazioni principali in Spinoza e in Hegel. Spinoza ha concepito l’essere di Dio nella necessità: egli è necessariamente e opera secondo la necessità della propria natura, e l’essere delle cose è necessario in quanto modi dell’unica sostanza, in quanto derivano necessariamente dalla sostanza divina (Ethica I,8, scol. II). Ed Hegel ha espresso lo stesso concetto nel suo aforisma famoso che è alla base della sua filosofia: “Ciò che è razionale è reale; ciò che è reale è razionale”. La razionalità del reale è la sua necessità per la quale esso, nelle sue determinazioni fondamentali, non può essere che quello che è. Perciò Hegel dice che “intendere ciò che è è il compito della filosofia poiché ciò che è, è la ragione” (Prefazione della Filosofia del diritto). Perciò, ancora, non c’è un dover essere, un ideale, una perfezione che sia diversa dall’essere e nel cui nome si sia autorizzati a criticare e a dar lezioni all’essere stesso: “Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente e la ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa e in questa non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione, che non si è liberata e non si è fatta concetto” (ibid.). In altre parole solo per una falsa astrazione si distingue ciò che dovrebbe essere da ciò che è, la razionalità dall’essere reale: il che vuol dire che l’Essere reale è tutto quel che deve essere e che la sua modalità, il suo senso primario, è questa necessità. D’altronde l’intera filosofia di Hegel è diretta appunto a mostrare la necessità delle determinazioni dell’Essere: cioè a mostrare come l’Essere è, nella sua realtà, tutto ciò che deve essere. La necessità rimane il carattere primario dell’essere in concezioni filosofiche disparate. Quando Fichte dice che l’essere e l’attività dell’Io sono la medesima cosa, egli riconosce come carattere essenziale di questa attività la necessità con cui essa pone se stessa e il non io. Che l’Essere si concepisca come Coscienza o come Materia, non fa differenza: le determinazioni qualitative non influiscono sulla sua determinazione formale primaria. L’Assoluto degli idealisti (Green, Bradley etc.) come la materia dei materialisti sono entrambi Essere necessario. Necessaria è la Storia di cui parla Croce, come necessario è l’Atto Puro di cui parla Gentile: “La necessità dell’essere coincide con la libertà dello spirito” (Teoria generale, XII, & 20). Lo stesso Rosmini, che aveva posto l’idea dell’essere intesa come “essere possibile”, a fondamento della conoscenza umana, vede nella necessità e nell’universo i caratteri primari dell’Essere. E Husserl afferma con molta energia la necessità di quell’essere che egli riconosce come primario, cioè dell’essere come coscienza: “Alla tesi del mondo, che è accidentale, si contrappone la tesi del mio puro io e del vivere dell’io, che è necessaria e indubitabile. Ogni data cosa, anche se è presente in carne e ossa, può non essere; ma un’esperienza vissuta data in 28 carne ed ossa non può non essere. Questa è la legge essenziale che definisce questa necessità e quella accidentalità” (Ideen, I, &46). Un teorema fondamentale di questa concezione dell’essere necessario è l’identificazione di essere e razionalità assunta da Hegel come principio della sua filosofia. Talvolta questa identificazione è stata intesa come immanentismo intendendosi con questa parola l’immanenza dell’essere nella coscienza. Per quanto anche questa sia una tesi hegeliana, non ha tuttavia nulla a che fare con l’altra. Quella fu espressa per la prima volta da Parmenide che, appunto in questo senso, identificò l’essere con il pensare. Certamente in Parmenide questa tesi non ha nulla a che spartire con l’immanentismo, in quanto la nozione di coscienza non era ancora comparsa: essa esprimeva soltanto il carattere razionale della necessità ontologica e il fatto che il pensiero è coestensivo all’essere. Aristotele confermava questo carattere affermando che la determinazione fondamentale della sostanza è l’essenza necessaria, che è la ragion d’essere della cosa. E Rosmini considerava l’Essere possibile come la forma stessa della ragione. Il teorema dell’identificazione essere-razionalità esprime la necessità dell’essere e postula un corrispondente concetto della ragione in generale. Anche assumendo come significato primario dell’Essere l’effettualità (N. Hartmann), quest’ultima è riconducibile alla necessità. Ciò che è realmente possibile è anche realmente effettuale (essere così e non altrimenti), ciò che è realmente effettuale è anche realmente necessario, ciò che è realmente possibile è anche realmente necessario. Il primato dell’assertorietà non ha un significato diverso dal primato della necessità. La concezione dell’essere primario come possibilità è stata per la prima volta formulata da Platone. Essa è presentata dal medesimo come rispondente a due esigenze fondamentali: in primo luogo a quella che si renda conto perché si dice che sono sia le cose corporee sia quelle incorporee (Sofista, 247d); e in secondo luogo che si tenga conto del fatto che l’essere è o può essere conosciuto. La prima esigenza esclude che la materialità o l’immaterialità possano entrare nella definizione dell’Essere. La seconda esclude che possano entrare nella definizione dell’Essere determinazioni necessarie (che l’essere sia necessariamente immobile o necessariamente in movimento …). Posto ciò Platone afferma che l’essere non è altro che possibilità (dynamis) e che pertanto si deve dire che è qualsiasi cosa si trovi in possesso di una qualsiasi possibilità o di fare o di subire, da parte di qualche altra cosa, anche insignificante, una azione anche minima e anche per una sola volta (ibid., 247e). Tale significato di possibilità non ha nulla a che fare con la potenza di Aristotele, che è tale solo nei confronti dell’atto. Per Platone l’essere primario è possibilità, e possibilità sono i rapporti reali tra gli enti: questi non si mescolano tutti insieme, né evitano assolutamente di mescolarsi ma presentano determinate possibilità di rapporti. Ciò avviene per le lettere dell’alfabeto e per i suoni, che alcuni possono mescolarsi e altri no, così avviene anche per tutte le cose: sicché è compito della filosofia non già enunciare la 29 tesi universale della necessità o dell’impossibilità della comunicazione, ma studiare in particolare quali sono le cose che possono unirsi tra loro e quali no. Questa concezione non dà luogo ad una metafisica simmetrica e opposta a quella che interpreta l’essere come necessità. Non dà luogo ad alcuna metafisica. Questo è il suo tratto caratteristico. Difatti, se l’essere è possibilità, esso non ha determinazioni univoche necessitanti. Non è necessario che esso sia uno e non molti, immutabile e non mutevole, immobile e non in movimento, eterno e non temporale, etc. Di due determinazioni opposte o contraddittorie non è necessario che una gli appartenga e l’altra no: entrambe possono appartenergli in determinate ma diverse condizioni. Non è possibile, quindi, elencare, una volta per sempre, le determinazioni univoche dell’essere. Platone aveva raggiunto questa conclusione nel Parmenide: in questo dialogo si mostra che l’essere non è uno o molti, ma uno e molti assieme, nel senso che può essere uno come può essere molti (144e); e che lo stesso vale per le altre sue determinazioni eventuali. La sconcertante chiusura di questo dialogo è che “l’uno, sia o non sia, esso stesso e le altre cose,rispetto a se stesso e tra loro, tutte, e in tutto, sono e non sono, appaiono e non appaiono” (166c). queste parole riconoscono la possibilità di determinazioni opposte dell’Essere ed escludono che esso possa dirsi “uno” o “molti” o anche semplicemente essere in un senso unico e assoluto. Da questo punto di vista la metafisica come elenco delle determinazioni univoche ed assolute dell’essere è manifestamente un non senso. In questa concezione dell’essere come possibilità sono impossibili formulazioni sistematiche corrispondenti a quelle della metafisica classica. Questa concezione tende ad affacciarsi ogniqualvolta la determinazione delle caratteristiche universali e necessarie dell’essere tende a cedere il posto alla ricerca empirica: quest’ultima è ricerca di possibilità, non di determinazioni necessarie. Da questo punto di vista possiamo dire che la tradizione empiristica della filosofia è l’erede e la rappresentante maggiore di questa concezione dell’essere come possibilità. Una possibilità può essere determinata unicamente sulla base dell’esperienza, cioè dell’osservazione dei fatti, mai per via puramente razionale o a priori. Attribuire all’essere il significato della possibilità significa aprire la via ad indagini specifiche, dirette a determinare, in ogni caso, di quale possibilità si tratti. Gli Stoici vedevano il significato dell’essere nella possibilità di agire o di subire un’azione e perciò chiamavano enti solamente i corpi. Tale principio li indirizzò verso il materialismo, ma non costituì per essi la base di un empirismo coerente. L’empirismo invece si affaccia tutte le volte che compare la negazione del teorema fondamentale della riducibilità dell’essere a predicato. Sul finire della Scolastica Ockham formulava la tesi che l’essere o il non essere si può attingere solo con una “conoscenza intuitiva” che è la stessa esperienza; in tal modo affermava l’irriducibilità dell’essere a una determinazione concettuale e il suo significato di possibilità. “Alla questione se la cosa esista, si può rispondere solo quando si conosca se la cosa esiste: il che accade se si conosce una proposizione nella quale l’essere esistenziale sia predicato del soggetto. Ora una tale proposizione dubitabile … in nessun modo si può conoscere con evidenza, se la cosa significata dal soggetto non si conosce intuitivamente ed in sé; per esempio, se essa non è 30 percepita da un senso particolare o se non è un intellegibile non sensibile che sia visto dall’intelletto in modo analogo a quello in cui la facoltà visiva esterna vede l’oggetto visibile. Sicché nessuno può conoscere con evidenza che il bianco è o può essere se non ha visto un qualche oggetto bianco; e sebbene io possa credere a coloro che mi raccontano che c’è il leone o il leopardo e così via, non conosco tuttavia con evidenza queste cose”, precisa Ockam. In queste parole il senso primario dell’essere è posto nella possibilità dell’esperienza. Egli riconosce la necessità solo alle proposizioni condizionali (se l’uomo è, l’uomo è un animale ragionevole), mentre nega che una qualsiasi proposizione affermativa possa essere necessaria. Tutte le proposizioni affermative sono contingenti, condizionate all’esistenza empirica dell’ente di cui si predica qualcosa. L’essere non può essere ridotto a un predicato, ma è una possibilità che può essere espressa solo da una proposizione contingente. La modalità primaria dell’essere è la possibilità. L’empirismo classico del ‘600‘700 si attiene a questa stessa modalità. Locke contrappone la certezza delle proposizioni universali, che però non riguardano la realtà, alla contingenza delle proposizioni particolari che concernono l’esistenza: “Le proposizioni universali, della cui verità o falsità possiamo avere una conoscenza certa, non riguardano l’esistenza; le affermazioni o negazioni particolari, che non sarebbero certe se venissero rese generali, si riferiscono soltanto all’esistenza, dichiarando esse soltanto l’accidentale unione o separazione delle idee in cose esistenti, idee che, nella loro natura astratta, non hanno tra loro nessuna unione o ripugnanza conosciuta” (Saggio sull’intelletto umano, IV, 9, 1). Pertanto, con la sola eccezione dell’esistenza di Dio, conosciuta attraverso la dimostrazione, cioè attraverso il rapporto che essa ha con altre esistenze, l’esistenza è conosciuta, secondo Locke, in modo contingente e immediato, attraverso un rapporto diretto con l’oggetto: rapporto che è intuizione nel caso dell’esistenza del proprio io, sensazione nel caso dell’esistenza delle cose. Ciò esclude che l’esistenza sia un predicato o che comunque possa essere ridotta a una determinazione concettuale: “Non essendovi nessuna connessione necessaria di qualsiasi altra esistenza, tranne quella di Dio, con l’esistenza di alcun uomo particolare, ne consegue che nessuno in particolare può conoscere l’esistenza di un altro essere se non quando, operando questo su di lui, fa in modo di essere da lui percepito. Il fatto che si abbia l’idea di una cosa nella nostra mente non dimostra l’esistenza di quella cosa più che il ritratto di un uomo faccia testimonianza dell’essere egli nel mondo o che le visioni di un sogno costituiscano di per sé una storia veridica” (ibid., IV, 11, 1). Questo concetto della sensazione come organo della conoscenza di ciò che esiste non è altro che il vecchio concetto stoico della rappresentazione catalettica: che è quella che deriva da un ente sussistente ed è impressa e marcata da esso in modo da essere conforme con esso. La dottrina equivale a definire l’essere delle cose come possibilità del manifestarsi di esse alla percezione o della percezione medesima. La concezione dell’essere come possibilità viene ripresa dalla filosofia tedesca del ‘700, in particolare da Wolff, che dice: “Ente è ciò che può esistere e conseguentemente la cui esistenza non ripugna”. Ma poiché ciò che può esistere è possibile, ciò che è possibile è l’ente. Ma che cosa significa l’essere possibile? Wolff 31 riprende un concetto che risale a Duns Scoto e si trova già formulato in Leibniz: “possibile è ciò che non implica contraddizione, vale a dire ciò che non è impossibile” (Theodicea, II, &224). Da questo punto di vista, la possibilità era definita come semplice assenza dell’impossibilità, cioè come necessità negativa. La concezione dell’essere in termini di possibilità era pertanto, in questa dottrina, una semplice apparenza. Kant ha, con molta fermezza, visto che cosa si nascondeva dietro a questa apparenza: “Il gioco di prestigio per cui la possibilità logica del concetto (che non si contraddice) si scambia con la possibilità trascendentale delle cose (per cui al concetto corrisponde un oggetto) può gabbare e contentare soltanto gli inesperti”. La possibilità reale è invece quella data in una intuizione sensibile, cioè dall’esperienza attuale o possibile (Critica della Ragion Pura, Analitica dei principi, cap. III). Per conseguenza “essere non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa … Se io dico Dio è o c’è un Dio, non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il concetto in sé con tutti i suoi predicati e l’oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi devono avere esattamente lo stesso contenuto e però nulla si può aggiungere di più al concetto che esprime semplicemente la possibilità quando ne penso l’oggetto come dato con l’espressione <<Egli è>>” (ibid., L’Ideale della Ragion Pura, sez. IV). Da questo punto di vista risulta chiaro il carattere limitato e condizionale di ogni possibilità o essere, e pertanto il carattere fittizio o fantastico di una “possibilità assoluta”, cioè di una possibilità che valga sotto ogni aspetto. Nella filosofia contemporanea fanno riferimento a questa interpretazione dell’essere le seguenti dottrine: a. le teorie che nella matematica, nella fisica e in generale nella scienza definiscono l’esistenza come modo d’essere particolare, per esempio come assenza di contraddizione o possibilità di costruzione o possibilità di verificazione. È così evidente la modalità non necessaria dell’essere; b. le forme dell’empirismo che riconoscono l’essere soltanto agli oggetti di esperienza possibile. La possibilità della sperimentazione e dell’osservazione definisce in questo caso il significato dell’essere; c. le teorie filosofiche che affermano il primato della possibilità. Tali teorie trovano un precedente nella filosofia di Kierkegaard che per primo ha proposto una interpretazione dell’esistenza umana in termini di possibilità. Dall’altro lato lo stesso punto di vista si può riconoscere in qualche aspetto della fenomenologia di Husserl e nelle dottrine che si rifanno ad essa. Per quanto quest’ultimo privilegi l’essere della coscienza e lo ritenga, a differenza della realtà delle cose, necessario, l’analisi fenomenologica è per lui un’analisi di possibilità: per essa, come ha detto Heidegger, la possibilità sta più in alto della realtà. Scrive Husserl: “Il fatto che una natura, che un mondo della cultura e degli uomini, con le loro forme sociali etc, esistano per me significa che le esperienze corrispondenti mi sono possibili, cioè che, indipendentemente dalla mia esperienza reale di questi oggetti, io posso a ogni istante realizzarli e svilupparli in un certo stile sintetico. Questo significa poi che altri modi di coscienza che corrispondono a queste esperienze come atti di pensiero indistinto, etc., sono possibili per me e che la possibilità di essere confermate o invalidate per mezzo di esperienza di un tipo che è stabilito in anticipo, è inerente a questi atti” (Meditazioni Cartesiane, &37). Come risulta da 32 queste parole l’analisi fenomenologica è un’analisi in termini di possibilità, il che vuol dire: la possibilità è il significato primario che essa attribuisce all’essere. Troviamo la stessa concezione in Heidegger: “L’esserci, in quanto comprensione, progetta il suo essere in possibilità” (Essere e Tempo, &32). In realtà tutte le analisi di Heidegger hanno per loro tema le possibilità dell’Esserci le quali costituiscono il tema dell’Analitica esistenziale. Allo stesso modo, per Jaspers, le possibilità oggettive costituiscono l’esistenza stessa (Philosophia, &18). Sartre afferma che “il possibile è una struttura del per sé, cioè della coscienza” (L’essere e il Nulla, p. 34). Per Sartre da questa struttura si distingue l’essere in sé, cioè l’essere del fenomeno che non sarebbe né possibile né necessario, ma semplicemente esistente. Senonché Sartre attribuisce a questo stesso essere il carattere della contingenza e non ritiene possibile una analisi dell’essere in sé se non a partire dall’essere per sé, cioè dalla coscienza: ritorna evidente il primato della possibilità. La riflessione novecentesca sull’essere è stata condizionata dalla critica neopositivistica alla metafisica (che ha operato da freno inibitorio) e dalla ripresa heideggeriana della Seinsfrage (la questione dell’essere). 1. Se i neokantiani hanno scorto nell’idea di essere una nozione arcaica di natura pre-critica e pre-trascendentale (cfr Cassirer), i neopositivisti (Schlik, Carnap, Neurath, Reichembach …) l’hanno considerata uno dei tanti pseudoconcetti che popolano la metafisica (principio, Dio, non-ente …), denunciandone gli equivochi linguistici e semantici, dovuti al fatto che la maggior parte dei metafisici, fin dall’antichità, si è lasciata trarre in inganno dalla forma verbale, cioè predicativa, della parola “essere”, così da formulare pseudo proposizioni come “io sono” o “Dio è”. 2. All’opposto, Heidegger ha insistito invece, fin da Essere e Tempo (1927), sulla necessaria ed esplicita riproposizione del problema dell’essere: “Abbiamo oggi una risposta alla domanda intorno a ciò che propriamente intendiamo con la parola “essente”? Per nulla. È dunque necessario riproporre il problema del senso dell’essere” (Essere e Tempo, p.50). Fra le tesi di fondo che hanno ispirato la sua complessa e tortuosa meditazione evidenziamo: a. l’essere non è l’ente o un ente (neppure l’ente supremo) ma ciò che entifica l’ente e lo rende accessibile. L’essere è la radura, l’accadere di un’apertura o di una illuminazione all’interno della quale gli enti diventano visibili. È la tesi della differenza ontologica b. l’essere non è una statica presenza o una stabile struttura, ma uno storico accadere, cioè un evento che si dà, di volta in volta, in impronte destinali diverse. È la teoria dell’Ereignis (evento) c. uomo ed essere sono strettamente congiunti, anzi coessenziali, poiché se l’uomo è in quanto appartiene all’essere, quest’ultimo, a sua volta, è di per se stesso riferito all’uomo, poiché soltanto presso il Dasein l’essere può essere come essere 33 d. l’evento con cui l’essere si consegna all’uomo ha la forma di un accadere linguistico che si concretizza nel binomio chiamata – ascolto e. l’essere è la storia dell’essere, in quanto esso non è mai qualcosa di diverso dal suo specifico modo di darsi epocale: “C’è essere ogni volta soltanto in questa o in quella impronta destinale: Physis, Logos, En, Idea, Energheia, sostanzialità, oggettività, soggettività, volontà, volontà di potenza, volontà di volontà” (Identità e Differenza, p.32). f. la storia dell’essere coincide con l’oblio dell’essere, ossia con la metafisica e la sua storia g. la metafisica, intesa come quel pensiero che crede di parlare dell’essere mentre, in realtà, sta parlando dell’ente, è, in quanto tale, il nichilismo autentico h. l’oblio dell’essere, che raggiunge il suo culmine nella tecnica, non è dovuto a un errore o a una dimenticanza umani, ma all’accadere dell’essere stesso, il cui presentarsi nell’ente coincide con il suo assentarsi in se medesimo i. il superamento della metafisica e del nichilismo non dipendono da una decisione dell’uomo, ma dal destino dell’essere. Dal pensiero di Heidegger evinciamo che quanto più la nozione di essere si impone, tanto più essa si svela insoddisfacente. Come mostra la cancellatura cruciforme del termine Sein (che allude alla necessità di difendersi dal modo di pensare metafisico) e il passaggio dalla questione dell’essere (Seinsfrage, che è la maniera in cui la metafisica pone il problema dell’ente, scambiato per essere) alla Frage nach dem Sein (che è invece il problema dell’essere come tale). Infatti “la parola Sein, come ogni altra parola, attraversata con il particolare approccio etimologico di cui Heidegger si serve, si rivela senza fondo o senza possibile fondamento: si frammenta e si inabissa in se stessa, in qualche modo si cancella. Non è più afferrabile in un concetto, non si può indicarla, tenerla a distanza. Così, nel secondo Heidegger, al vocabolario di Essere e Tempo, nuovo ma ancora abbastanza interno alla tradizione filosofica, viene sostituendosi un vocabolario in abituale, fatto di parole per dir così sperimentali e aperte, difficilmente traducibili” (P. A. Rovatti). In altri termini, poiché l’essere si dà solo in un intreccio sfuggente di luce ed ombra, presenza e assenza, se non si vuole correre il pericolo di entificare l’essere, di esso, secondo Heidegger, non si può più discorrere per giudizi affermativi e definizioni concettuali rigorose, ma solo per negazioni, analogie, costellazioni metaforiche ecc. Dopo Heidegger diverse filosofie, nonostante l’interdizione neopositivistica, sono tornate a parlare dell’essere. Ne ricordiamo alcune. 1. L’eterologia di Levinas. In Totalità e Infinito (1961) Levinas accusa il pensiero tradizionale sull’essere di aver ingabbiato il molteplice e il diverso nell’ambito di una totalità unitaria soffocatrice di ogni alterità e trascendenza: “La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo” (ibid., 41). Rifiutandosi di ridurre la filosofia a egologia, cioè a un tautologico gioco del Medesimo (avente la sua figura 34 primordiale nell’Uno parmenideo), il nostro autore elabora una prospettiva volta a fare, di essa, una enterologia, ossia un tipo di indagine che scorge, nel rapporto con l’Altro, la struttura stessa della realtà: “L’Essere si produce come multiplo e come scisso in Medesimo e in Altro. Questa è la sua struttura ultima. È società, e quindi tempo” (ibid., 277). In Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974), che raccoglie il frutto più maturo delle sue ricerche, egli distingue tra l’Essere (o l’essenza) e l’altrimenti che essere (o al di là dell’essenza). Il primo coincide con l’evento dell’essere e si identifica con l’interesse, ovvero con quel conatus essendi che fa tutt’uno con la lotta infernale degli egoismi. Il secondo coincide con il trascendimento dell’essere autocentrico e si identifica con l’apertura all’alterità e alla fratellanza. L’altrimenti che essere si identifica a sua volta con l’orizzonte di Dio e della religione. Alla vecchia ontologia del conflitto e della violenza, che per fare dell’uomo il custode dell’essere lo ha distolto dalla responsabilità di farsi custode dei propri fratelli, Levinas oppone l’etica come nuova filosofia prima. Ne segue che la “metafisica” alla quale egli si appella è, in realtà, una “post-metafisica”, mentre l’ontologia di cui egli parla coincide, di fatto, con la metafisica. 2. Gadamer si ispira ad Heidegger ma procede oltre il suo maestro. Egli afferma: “L’essere, che può venir compreso, è linguaggio” (Verità e Metodo, 1960, 542). Egli non intende solo evidenziare, tautologicamente, come all’uomo risulti intellegibile ciò che è strutturato come linguaggio, ma intende dire, più profondamente, che l’Essere è linguaggio e come tale può venire esperito e compreso, ossia che tutte le forme di vita sono linguaggio e risultano comprensibili come linguaggio. Heidegger si era spinto fino ad affermare che il linguaggio, in particolare il linguaggio dei poeti come Holderlin, è la casa dell’essere. Il linguaggio, per Gadamer, è la sede del manifestarsi dell’Essere, il luogo e l’orizzonte entro il quale soltanto possiamo incontrare noi stessi e le cose del mondo, senza alcuna possibilità di trascenderne i confini, in quanto ogni presunto rifiuto di esso è destinato a muoversi all’interno del linguaggio stesso. Questa identificazione dell’essere con il linguaggio, che in altri autori tende a risolversi in una dissoluzione dell’Essere nel linguaggio (si pensi alla fagocitazione del reale per opera del simbolico in Lacan o alla rivendicazione pantestualista del primato della scrittura in Derrida) si configura, nel nostro autore, come la condizione stessa dell’ermeneutica. Infatti, dire che l’essere è linguaggio significa dire che l’essere in generale e l’essere umano in particolare – che sussiste concretamente sotto forma di discorsi, libri, opere d’arte etc. – è interpretazione. Un’interpretazione che al pari del gioco del mondo, risulta sempre aperta e mai conclusa. Luigi Pareyson con la sua ontologia dell’inesauribile si inserisce su questa scia affermando: “La risposta alla domanda <<che cosa è l’Essere?>> non consiste in una definizione oggettiva, esplicita e compiuta, ma in un’interpretazione personale e continuamente approfondibile: il discorso sull’essere è interpretativo, e come tale indiretto e interminabile” (Esistenza e persona, 20). 3. Gianni Vattimo sviluppa l’ermeneutica in senso nichilistico e approda a un pensiero debole strutturato nei termini di una ontologia dell’attualità. Rifacendosi ad Heidegger, egli 35 contesta la concezione della realtà come struttura massiccia, stabile, eterna, facendosi portavoce di una radicale storicizzazione ed eventualizzazione dell’Essere, basata sulla persuasione secondo cui l’Essere è nient’altro che l’insieme delle aperture epocali in cui le varie umanità storiche fanno esperienza del mondo: “Non si dà Essere se non come evento, come accadere di orizzonti storico-linguistici entro cui gli enti ci divengono accessibili, l’Essere è solo questo accadere e il suo tramandarsi”. Tale Essere, ermeneuticamente prospettato come trasmissione, e invio, viene spogliato dei tratti forti (unità, assolutezza, etc.) della tradizione metafisica e qualificato con i tratti deboli e postmoderni della pluralità, della temporalità e della finitezza. Da ciò la vocazione tendenzialmente etica dell’ontologia antifondazionalista di Vattimo, per il quale l’indebolimento dell’Essere si configura come destino e come compito al tempo stesso: “L’Essere non è più forte, l’Essere ha il destino di indebolirsi, e io, se voglio corrispondere a questo destino, devo fare molto, moltissimo, per ridurre il dominio di quelle categorie metafisiche che sempre, di nuovo, ritornano nella nostra cultura, nevroticamente, nostalgicamente”. 4. Emanuele Severino opta invece per un ritorno a Parmenide. Egli giudica contraddittorio il divenire: il divenire non esiste e l’essere, ogni ente e tutto l’essere, è eterno, un perenne e statico nunc che non conosce né passato né futuro: “la verità è l’apparire dell’eternità di ogni ente – di ogni cosa, gesto, istante, sfumatura, situazione” (La tendenza fondamentale del nostro tempo, 184). Ciò che l’Occidente nel suo nichilismo inconscio sente come evidenza originaria – la realtà del divenire e il niente dell’ente – è solo follia estrema, ossia il parto deleterio di una volontà di potenza che trova, nell’Apparato tecnologico, la sua manifestazione conclusiva. 5. Nel ‘900 continuano a sussistere seguaci della metafisica classica, che concepiscono la filosofia come scienza dell’essere in quanto essere (o dell’ente in quanto ente) e la interpretano come un tipo di discorso argomentativo che si interroga sull’essere in generale, per poi pervenire a quell’Esse Ipsum (Dio) che coincide con la causa trascendente di ogni realtà. 6. Anche la filosofia analitica ultimamente si è soffermata sull’essere e sui suoi modi (sostanza, accidente, etc.). 7. Luigi Pareyson elabora una ontologia della libertà in cui identifica l’essere con la libertà. L’essere è liberta: è in quanto, di fronte alla possibilità del nulla, si è scelto ab aeterno in maniera definitiva. L’essere è scelta libera di sé, è la forza con cui si è scelto. Tale ontologia si misura, nella concezione di Dio, con il problema del negativo. Anche Dio è libertà: Egli è in quanto, dall’eternità, di fronte alla possibilità radicale del nulla assoluto, Egli ha scelto di essere. In tal senso l’origine del negativo risiede in Dio, o, più precisamente, in quel “Dio prima di Dio” (per intendere la libertà originaria dell’Assoluto) che, nell’atto di voler essere, istituisce inevitabilmente, insieme alla realtà del bene, la possibilità del male (sia pure a titolo di possibilità non scelta e non voluta). Ciò non dovrebbe comportare alcune 36 demonizzazione o satanizzazione della divinità, perché tale possibilità è vinta in eterno. Infatti, pur essendo il presupposto ontologico del male, Dio non ne è l’autore (poiché il male si identifica proprio con ciò che egli non vuole e non fa). Il vero autore del negativo, cioè l’essere che ridesta il male dormiente in Dio, facendolo passare dalla possibilità alla realtà, è l’uomo: “La negazione, nata già vinta dalla libertà divina, solo dalla libertà umana può trarre nuova vita e vigore nuovo” (Filosofia della libertà, 26). 37 Dio Due sono le qualifiche fondamentali che i filosofi, e non solo, hanno attribuito e attribuiscono a Dio: quella di Causa, per la quale Dio è principio che rende possibile il mondo o l’essere in generale. quella di Bene, per la quale Dio è la fonte o il garante di tutto ciò che di eccellente c’è nel mondo, e soprattutto nel mondo umano. Si tratta di qualifiche assai generiche che acquistano un senso preciso solo nell’ambito delle particolari filosofie che le adoperano. In secondo luogo la divinità può essere concepita come partecipabile da più enti, sia come propria di un ente solo e poiché, d’altro canto, si possono ammettere varie vie di accesso dell’uomo a Dio, si possono assumere altri due modi per distinguere le concezioni di Dio, e cioè rispetto al rapporto con se stesso, e cioè con la sua divinità, rispetto agli accessi possibili dell’uomo a Dio. Questi quattro modi di distinguere le concezioni di Dio storicamente emerse nella storia della filosofia occidentale ci permettono di seguire con sufficiente fedeltà le articolazioni storiche del concetto di Dio, e i punti su cui si basano anche le maggiori contrapposizioni polemiche. 1. Dio e il mondo. L’essere causa è l’aspetto fondamentale di Dio: le forme di ateismo storicamente configuratesi negano proprio la causalità come qualifica di Dio. È anche vero che tale causalità divina è stata intesa almeno in tre modi diversi. a. Dio come creatore dell’ordine del mondo. Questa concezione è probabilmente la più antica nella storia della filosofia; il primo ad enunciarla fu Anassagora che considerò l’Intelletto (il nous) come la divinità che ordina il mondo. Il carattere creatore dell’Intelletto si riconosce dal fatto che questo autore negava l’esistenza di un destino necessitante; ciò rimanda alla considerazione dell’Intelletto stesso come causa libera, quindi creatrice. Ma non si tratta in questo caso di una creazione dal nulla. Similmente possiamo dire della dottrina del Demiurgo platonico, l’Artefice del mondo, la cui potenza creatrice è però limitata dal modello che egli imita e che è il mondo delle Idee, o sostanze, o verità eterne, e dalla materia (chora) che preesiste alla sua attività plasmatrice e anche resiste ad essa per il suo carattere di necessità. Le caratteristiche della divinità platonica sono, oltre la potenza superiore ma non illimitata, l’intelligenza e la bontà. Quest’ultima fa della creazione un atto 38 libero, che ha in vista la moltiplicazione del bene: “Ma se questo mondo è bello e l’Artefice è buono, è evidente che Egli ha guardato all’esemplare eterno; e se, invece, l’Artefice non è tale, ciò che non è neppure permesso a qualcuno di dire, ha guardato all’esemplare generato. Ma è evidente a tutti che Egli guardò all’esemplare eterno: infatti l’universo è la più bella delle cose che sono state generate, e l’Artefice è la migliore delle cause. Se, pertanto, l’Universo è stato generato così, fu realizzato dall’Artefice guardando a ciò che si comprende con la ragione e con l’intelligenza e che è sempre allo stesso modo … Egli (l’Artefice) era buono e in un buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Essendo dunque lungi dall’invidia, Egli volle che tutte le cose diventassero il più possibile simili a Lui. E chi ammettesse questo principio della generazione del mondo come principale, accettandolo da uomini saggi, l’ammetterebbe assai rettamente. Infatti Dio, volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendo quanto era visibile e che non stava in quiete, ma si muoveva confusamente e disordinatamente, lo portò dal disordine all’ordine, giudicando questo totalmente migliore di quello. Infatti non è lecito a chi è ottimo di fare se non ciò che è bellissimo” (Timeo 29 a.e-30 a). Negli ultimi dialoghi Platone insiste sul concetto di Dio come Primo Motore e Guida di tutte le cose che si muovono: “Ma il volgere sempre se stesso da sé, forse, non è possibile a nessuno, tranne a chi è la guida di tutte le cose che a loro volta si muovono; ma a costui non è lecito muovere ora in un modo e poi di nuovo in modo contrario” (Politico 269 e). Da tale concetto muove anche Aristotele per la sua teologia. Costui definisce Dio come il primo motore al quale necessariamente ricondurre la catena dei movimenti e la prima causa alla quale ricondurre le serie causali compresa quella delle cause finali. Dio in quanto causa finale è il creatore dell’ordine del mondo: “Tutte le cose sono ordinate l’una rispetto all’altra, ma non tutte allo stesso modo: i pesci, gli uccelli, le piante hanno ordine diverso. Tuttavia nessuna cosa sta rispetto a un’altra come se nulla avesse a che fare con l’altra, ma tutte sono coordinate a un unico essere. Questo è, per esempio, ciò che accade in una casa dove gli uomini liberi non possono fare ciò che a loro piace ma tutto o, almeno, la maggior parte delle cose, avviene secondo un ordine; mentre gli schiavi e gli animali solo per poco contribuiscono al benessere comune e molto fanno per caso” (Metafisica, XII, 10, 1075 a 12). E ancora, il bene di un esercito consiste “insieme nel suo ordine e nel suo comandante, ma specialmente in quest’ultimo: giacché egli non è il risultato dell’ordine, ma piuttosto l’ordine dipende da lui” (ibid., 1075 a 13). Dio è quindi il comandante di un esercito o il capo di una casa: colui che produce e mantiene l’ordine che costituisce la bontà dell’insieme. Aristotele ripropone la stessa dottrina platonica al di fuori del mito teogonico. Egli chiarisce e determina maggiormente alcune caratteristiche che Platone aveva già riconosciuto alla divinità. Prima di tutto, Dio non solo è il primo motore, ma è motore immobile, eterno e separato dalle cose sensibili, senza grandezza, indivisibile e senza parti, dotato della potenza necessaria a muovere il mondo per un tempo infinito: “Da quanto abbiamo detto risulta quindi con evidenza che esiste una sostanza eterna e immobile e separata dagli esseri sensibili, e noi abbiamo anche 39 dimostrato che questa sostanza non può avere grandezza alcuna, ma è priva di parti e indivisibile (essa, infatti, produce il movimento per tutta l’infinità del tempo, mentre nessuna cosa che sia finita possiede un potere infinito, e perciò, dato che ogni grandezza non potrebbe essere se non o infinita o finita, questa sostanza non potrebbe possedere una grandezza finita; ma d’altra parte non potrebbe avere neppure una grandezza infinita, poiché non esiste assolutamente alcuna grandezza che sia infinita); ma noi abbiamo anche dimostrato che una tale sostanza non è soggetta a passione e ad alterazione, giacché tutti gli altri movimenti sono posteriori a quello locale” (ibid., XII, 7, 1073 a). Platone aveva detto che Dio è intelletto, Aristotele precisa che è pensiero di pensiero, intelletto che è sempre in atto e che per oggetto la realtà più alta ed eccellente, cioè se stesso: “E’ questo, dunque, il principio da cui dipendono il cielo e la natura. Ed esso è una vita simile a quella che, per breve tempo, è per noi la migliore. Esso è, invero, eternamente in questo stato (cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere (e per questo motivo il ridestarsi, il provare una sensazione, il pensare sono atti molto piacevoli, e in grazia di questi atti anche speranze e ricordi arrecano piacere). E il pensiero, nella sua essenza, ha per oggetto ciò che, nella propria essenza, è ottimo, e quanto più esso è autenticamente se stesso, tanto più ha come suo oggetto ciò che è ottimo nel modo più autentico. L’intelletto pensa se stesso per partecipazione dell’intellegibile, giacché esso stesso diventa intellegibile venendo a contatto col suo oggetto, e pensandolo, di modo che intelletto ed intellegibile vengono ad identificarsi … l’atto della contemplazione è cosa piacevole e buona al massimo grado … Se, pertanto, Dio è sempre in quello stato di beatitudine in cui veniamo a trovarci solo qualvolta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore, essa è oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio è, appunto, in tale stato! Ed è sua proprietà la vita, perché l’atto dell’intelletto è vita, ed egli è appunto quest’atto, e l’atto divino, nella sua essenza, è vita ottima ed eterna. Noi affermiamo, allora, che Dio è un essere vivente, sicché a Dio appartengono vita e durata continua ed eterna: tutto questo, appunto, è Dio!” (ibid., XII, 7, 1072 b). Nell’uomo, l’intelletto può sonnecchiare e avere per oggetto cose inferiori a se stesso: l’intelletto divino è al di sopra di queste eventualità. Aristotele, nell’interpretazione del divenire, distingue tra potenza e atto, ribadendo il primato dell’atto. La potenza non è ancora atto, ed è grazie e in vista dell’atto. Dio è allora atto puro, cioè attualità assolutamente priva di materia o di potenzialità: “Il primo motore, dunque, è un essere necessariamente esistente e, in quanto la sua esistenza è necessaria, si identifica col bene e, sotto questo profilo, è principio … Esso è, invero, eternamente in questo stato (cosa impossibile per noi!), poiché il suo atto è anche piacere … c’è qualcosa che produce il movimento senza essere, esso stesso, mosso ed essendo in atto, non è possibile che questo qualcosa sia mai altrimenti da come è” (ibid., XII, 7, 1072 b). Aristotele fonda così in maniera più rigorosa e filosofica l’incorporeità dell’Intelligenza divina. Egli ha poi chiarito il concetto della beatitudine divina: “Dio prova sempre un piacere semplice ed unico perché l’attività (cui il piacere si accompagna) non consiste soltanto nel movimento ma anche nell’immobilità e il piacere si trova piuttosto nel riposo che nel movimento” (Etica 40 Nicomachea, VII, 14, 1154 b 26). Infine, in quanto perfetto, Dio è autosufficiente; a differenza dell’uomo, non ha bisogno di amici: “La causa ne è che a noi il bene viene da altro ma Egli è a se stesso il suo bene” (Etica Eudemia, VII, 12, 1245 b 17). La struttura sostanziale dell’universo è, per Aristotele come per Platone, al di là dei limiti della creazione divina. Aristotele, rispetto a Platone, abbandona l’immagine della divinità che assume come modello della sua azione creatrice il mondo delle sostanze eterne ma la struttura sostanziale dell’universo è, per entrambi, eterna, cioè insuscettibile di principio e di fine. Solo la cosa individuale composta di materia e forma è suscettibile di nascita e morte, mentre la sostanza, che è forma o ragion d’essere, o quella che è materia, non nasce né perisce. Dio è eterno perché è sostanza, e ogni sostanza è eterna: l’unica differenza tra Dio e le sostanze finite è nella perfezione della vita, non nella realtà o nell’essere, perché nessuna sostanza è più o meno sostanza di un’altra. Dio è solamente causa finale del mondo, è principio del movimento solo in quanto è oggetto di attrazione per tutta la realtà. Egli non ha nessun rapporto di tipo transitivo con le altre sostanze. A tale nozione di Dio come creatore dell’ordine del mondo si possono ricondurre le concezioni di Dio che nel mondo moderno tendono a riconoscere una limitazione dei poteri della divinità e ad escludere da essa i caratteri dell’assoluto e dell’infinito. Ritroviamo ciò nella concezione di Dio di alcuni autori illuministi, ed in Voltaire: “Ogni opera che ci mostra i mezzi ed un fine, rivela un artefice: dunque questo universo composto di mezzi ognuno dei quali ha il suo fine, rivela un artefice potentissimo ed intelligentissimo” (Dictionnaire philosophique, art. Dieu). Ma la qualifica di artefice è poi anche la sola che, per costui, si può attribuire a Dio. Egli si rifiuta di ammettere un qualsiasi intervento di Dio nell’uomo e nel mondo morale. Dio è soltanto l’autore dell’ordine del mondo; il bene e il male non sono comandi divini, ma attributi di ciò che è utile o dannoso alla società. Nell’800 J. Stuart Mill sosteneva che l’esperienza del mondo conduce all’idea di un creatore del mondo inteso come un Dio finito, limitato nella sua potenza dalla materia e dalla forma che ha adoperato (Three essays on Religion, 1874). Anche Peirce, più recentemente, ha riproposto un concetto analogo di Dio: egli non lo considera in senso proprio onnisciente e onnipotente, egli non lo definisce come l’Assoluto, ma come la parte di un sistema la cui funzione non è dissimile da quella delle altre parti più piccole e perciò dalla nostra. Dio ha un ambiente, esiste nel tempo e opera nella storia come noi stessi. Egli perciò sfugge alla statica intemporalità del perfetto assoluto, all’estraneità rispetto a tutto ciò che è umano (A Pluralistic Universe, 1909). Rispetto a Platone ed Aristotele, a Dio vengono attribuiti da questi autori anglosassoni maggiori caratteri umani; rimane l’idea di fondo di una potenza divina limitata da certe strutture sostanziali. b. Dio come natura del mondo. Sotto questa dicitura possiamo raggruppare tutte le concezioni di Dio che ammettono un suo intrinseco, sostanziale ed essenziale rapporto col mondo, sicché il mondo sia inteso come la continuazione o il prolungamento della vita di Dio. Tracce di questa idea sono presenti anche nella concezione di cui sopra: Platone chiama il mondo “il Dio generato” (Timeo, 34 b)e Aristotele riporta con approvazione la 41 credenza comune che i corpi celesti siano dèi e che il divino abbraccia l’intera natura (Metafisica, XII, 8, 1074 b 2). Ma questa connessione diventa più stretta ed essenziale nella concezione designata col nome di panteismo. In essa il legame che avvince il mondo a Dio e Dio al mondo è necessario: Dio non sarebbe tale senza il mondo così come il mondo non sarebbe tale senza Dio. Ciò non implica la perfetta identità e coincidenza tra Dio e mondo; o meglio tale identità o coincidenza si verifica solo nel senso che va dal mondo a Dio, non in quello che va da Dio al mondo. In altri termini, il mondo non è tutto Dio: esso è incluso nella vita divina come suo elemento necessario ma non la esaurisce. L’esigenza affacciata dal cosiddetto panenteismo è in realtà propria di tutte le forme di panteismo storico. La caratteristica del panteismo si può esprimere dicendo che esso non stabilisce alcuna differenza tra la causalità divina e la causalità naturale. Nell’interno del panteismo si possono distinguere tre modi principali di connettere il mondo e Dio: a. il mondo è emanazione di Dio b. il mondo è la manifestazione o la rivelazione di Dio c. il mondo è la realizzazione di Dio. Primo e secondo modo, come secondo e terzo, spesso sono connessi mentre non si trovano insieme il primo e il terzo. Il panteismo ha raggiunto per la prima volta una forma compiuta nella dottrina degli Stoici. Diogene Laerzio ci riferisce che costoro chiamavano mondo lo stesso Dio che è la qualità propria di ogni sostanza, immortale e ingenerato, creatore dell’ordine universale, e che secondo i cicli dei tempi consuma in sé tutta la realtà e di nuovo da sé la genera. Dio pervade tutto l’universo e prende vari nomi a seconda delle materie diverse in cui penetra. Tali autori ritenevano pure che Dio è corpo perché solo il corpo può essere causa, cioè agire: tale dottrina ritorna in Tertulliano e in Hobbes. Il riconoscimento della causalità di Dio nel mondo rende in questo caso Dio stesso partecipe della condizione generale della causalità mondana, cioè della corporeità. I precedenti di questa dottrina potrebbero essere rinvenuti nella dottrina del Logos o Fuoco divino che pervade tutto di Eraclito e nella identificazione operata da Senofonte di Colofone di Dio con l’Uno e col Tutto. Ma la più matura espressione del panteismo si deve scorgere nel neoplatonismo, in particolare in Plotino. Egli elabora, sia pure in forma immaginifica, quella nozione di emanazione che doveva diventare indispensabile al panteismo, permettendo di intendere il modo in cui da Dio deriva un mondo che non si stacca da Dio. In virtù di questa nozione, il rapporto tra Dio e il mondo viene così chiarito: a. il mondo deriva da Dio necessariamente, come necessariamente emana il profumo dal corpo odoroso e la luce dalla sua sorgente b. per questo legame di necessità, il mondo è parte o aspetto di Dio sebbene sia una parte diminuita o inferiore di lui, giacché il profumo o la luce che si allontanano dalla propria sorgente sono inferiori alla sorgente stessa c. Dio è superiore al mondo per quanto sia identico con esso nella misura in cui possiede ordine, perfezione e bellezza. Questi sono i caratteri che Plotino attribuisce a Dio. Dio è l’Uno in confronto dei molti che da lui emanano: “Egli è la potenza di tutto; è al di sopra della vita e causa della vita; l’attività della vita, che è tutto, non è la realtà prima, ma deriva dall’Uno come da una sorgente” (Enneadi, III, 8, 10). Dall’Uno emana in primo luogo l’Intelligenza nella quale risiedono le strutture sostanziali dell’essere e che perciò 42 Plotino identifica con l’essere stesso; e in secondo luogo l’Anima, che pervade e governa il mondo (ibid., V, 1, 6). Il mondo, emanato dall’Intelligenza e governato dall’Anima, è copia perfetta della divinità emanatrice ed è eterno e incorruttibile come il modello (ibid., V, 8, 12). Il mondo è un dio beato che basta a se stesso (ibid., III, 5, 5). La nozione dell’emanazione, per la quale l’essere generato esiste necessariamente insieme col suo generatore e non è separato da lui se non dalla propria alterità, fa del mondo una parte integrante di Dio e di Dio, come origine unica del processo emanativo, qualcosa di superiore al mondo e inesprimibile nei termini del mondo stesso. Dio, propriamente, non è né l’essere o la sostanza, né la vita né l’intelligenza, perché è superiore a queste cose: esse, tuttavia, come sue emanazioni, fanno parte di lui. Proclo conia le parole apposite: “Dio è super-sostanziale, super-vitale e super-intelligente” (Elementatio Thelogica, 115). Esse ritornano agli inizi della Scolastica cristiana in Scoto Eriugena per il quale Dio non è sostanza ma super-sostanza, non è verità ma super-verità etc. Ma, nel contempo, il mondo è Dio stesso, o meglio, come precisa questo autore, manifestazione di Dio, o teofania. Il processo della teofania va da Dio al Verbo, dal Verbo al mondo, e dal mondo ritorna a Dio. Dio è sopra tutte le cose e in tutte; egli solo è la sostanza di tutte le cose perché egli solo è; e pur essendo tutto in tutte, non cessa di essere tutto al di fuori di tutte. Il tratto caratteristico della divinità, in queste concezioni, è la sua supersostanzialità, il suo essere al di sopra dell’essere e di ogni specie di realtà. Dio, già in Plotino, appare accessibile solo ad uno slancio eccezionale o soprannaturale, cioè all’estasi mistica (Enneadi VI, 7, 35). Dio non può essere oggetto di una scienza positiva, che ne determini la natura, ma solo di una teologia negativa la quale aiuti a comprendere determinando ciò che Egli non è. Il concetto di teologia negativa, presente in Proclo (Theologia platonica II, 10-11) viene diffuso nella filosofia cristiana dallo Pseudo Dionigi Areopagita con la sua Theologia mistica. Il concetto di Dio come super-sostanza emanante, l’ascesa mistica culminante con l’estasi e la teologia negativa, sono i tre aspetti fondamentali del concetto panteistico di Dio come comprendente in sé il mondo e identico con la sua ultima natura. Una qualsiasi di queste determinazioni, quando fa la sua apparizione storica, in genere coimplica anche le altre due. Teologia negativa e misticismo furono le caratteristiche del panteismo di Amalrico di Bène e di Davide di Dinant nel sec. XII, che hanno definito Dio l’essenza o forma delle cose (il primo) o la materia delle cose stesse. E gli stessi tratti compaiono nella mistica di Maestro Eckhart nel sec. XIV, per il quale Dio è un’Essenza super-essenziale e un Nulla super-essente, sicché di Lui non si può dir nulla tranne che è una quiete deserta, mentre al tempo stesso bisogna riconoscerlo come la vera essenza delle creature: “Se Dio per un momento si distogliesse da loro, esse si ridurrebbero al nulla” (Deutsche Mystiker, ed. Pfeiffer, II, p 136). Giordano Bruno a sua volta utilizza la tesi neo-platonica e mistica della trascendenza e inconoscibilità di Dio, per limitarsi a considerare Dio come natura. Come natura, Dio è la causa e il principio del mondo: causa nel senso di determinare le cose che costituiscono il mondo, rimanendo distinto da esse; principio nel senso di entrare a costituire l’essere stesso delle cose naturali (De la causa, II). In ogni caso, non si distingue 43 dalla natura: “La natura o è Dio stesso o è la virtù divina che si manifesta nelle cose stesse” (Summa termino rum metaphisicorum, in Opp. Lat. IV, 101). E quasi contemporaneamente Jakob Boehme considerava Dio da un lato come “un nulla eterno” (Mysterium magnum, I,2), dall’altro come la radice stessa del mondo naturale, che non è stato creato dal nulla ma da Dio stesso e non è altro che la rivelazione o l’esplicazione dell’essenza divina (De tribus principiis, 7, 23). Non hanno un significato molto diverso le formule con cui Schelling nel sec. XIX ha espresso il concetto di Dio dal punto di vista della sua filosofia della natura. Dio è l’unità, l’identità o l’indifferenza dello spirito e della natura, della libertà e della necessità, della consapevolezza e dell’inconscio (Werke, I, III, pp. 578 ss.). Questa identità o indifferenza non è altro che l’identità panteistica tra il mondo e Dio: “Dio e l’universo sono una sola cosa o sono aspetti distinti di un’unica e stessa cosa. Dio e l’universo considerato dal lato dell’identità ed è il tutto perché è tutto il reale, fuori di cui non c’è nulla” (ibid., I, IV, 128). La concezione schellinghiana implica la nozione che il mondo non solo è la rivelazione di Dio, ma anche la sua realizzazione. Questo concetto è di origine spinoziana, deriva dal razionalismo geometrizzante di Spinoza. Dio si identifica non già col mondo, ma con l’ordine del mondo, e precisamente con l’ordine razionale, geometricamente esplicabile, del mondo stesso: “Nulla c’è di contingente nelle cose, ma tutto è dalla necessità della natura divina determinato ad esistere e ad operare in un certo modo” (Ethica I, 29). Per quanto si possa distinguere tra natura naturante che è Dio e natura naturata che sono le cose derivanti da Dio, in realtà la natura non è che l’ordine necessario delle cose e quest’ordine è Dio: “Comunque concepiamo la natura o sotto l’attributo dell’estensione o sotto l’attributo del pensiero o sotto qualsiasi altro, sempre troveremo un solo e medesimo ordine, una sola e medesima connessione di cause, cioè di una sola e medesima realtà” (ibid. II, 7, scol.). Dio non è dunque per Spinoza l’unità ineffabile dalla quale scaturiscono le cose per emanazione, né la Causa creatrice dell’ordine, ma l’ordine stesso nella sua necessità. La derivazione necessaria delle cose del mondo l’una dall’altra, secondo l’ideale della razionalità geometrica, è la stessa realizzazione di Dio. Il Romanticismo fa suo ed esplicita questo assunto spinoziano, per il quale nella necessità razionale del mondo si rivela e simultaneamente si realizza Dio. Hegel insiste sulla necessità della rivelazione di Dio: “Quando nella religione si piglia sul serio la parola <<Dio>>, anche da lui, che è il contenuto e il principio della religione, può e deve cominciare la determinazione del pensiero; e se a Dio si nega la Rivelazione non resterebbe altro contenuto da attribuirgli che l’invidia. Ma se la parola Spirito deve avere un senso, essa significa la rivelazione di sé” (Enciclopedia dello Spirito, & 564). Se Dio non si rivelasse, sarebbe un Dio invidioso. Tale rivelazione è anche la realizzazione di Dio come l’autocoscienza di sé che egli raggiunge nell’uomo: “Dio è Dio solo in quanto sa se stesso; il suo saper se stesso è inoltre la sua autocoscienza nell’uomo e il sapere che l’uomo ha di Dio che progredisce fino al sapersi dell’uomo in Dio” (ibid.). Da questo punto di vista la distinzione della “Essenza eterna” dalla sua manifestazione è uno stadio provvisorio, che viene superato dal ritorno della manifestazione all’essenza eterna e dalla realizzazione della loro unità. Hegel distingue tre 44 momenti del concetto di Dio: “in ciascuno dei quali il contenuto assoluto si rappresenta: a) come contenuto eterno che resta in possesso di sé nella sua manifestazione; b) come distinzione dell’essenza eterna dalla sua manifestazione la quale, mediante questa distinzione, diventa il mondo della apparenza in cui entra il contenuto; c) come infinito ritorno e conciliazione del mondo estraniato con l’essenza eterna, come il tornare di questa dall’apparizione all’unità della sua pienezza” (ibid., &566). La realtà piena di Dio consiste nel riconoscersi realizzato nel mondo e attraverso il mondo. Tale pensiero contrassegna anche il panteismo contemporaneo. Bergson identifica Dio con lo sforzo creatore della vita (Le due fonti della religione e della morale, 235), cioè col movimento per cui la vita procede al di là delle sue forme statiche e definite, verso la creazione di nuove forme più perfette. Dall’amore mistico per l’umanità, che è la punta avanzata dello slancio vitale, egli si attende il rinnovamento della medesima e la ripresa della funzione essenziale dell’universo, che è una “macchina per fare gli dei” (ibid., 234). Tale espressione è molto significativa in quanto esprime bene la credenza che attende dal mondo la realizzazione di Dio. In altri filosofi ritornano le vecchie formule come quella del mondo come “corpo di Dio”, ma ritornano col nuovo significato che solo incorporandosi Dio si realizza come tale. Dice Alexander: “Dio è l’intero mondo in quanto possiede la qualità della deità. Di questo essere, l’intero mondo è il corpo, la deità è lo spirito. Ma il possessore della Deità non è reale ma ideale: come un esistente reale Dio è il mondo infinito nel suo nisus verso la deità, o, per adottare una frase di Leibniz, in quanto è gravido della deità” (Space, Time and Deity, II, 535). È dunque al mondo che spetta partorire Dio; o fuor di metafora è sulla via dell’evoluzione naturale che apparirà ad un certo punto quella qualità della deità che troverà sostanza in un certo numero di esseri. Questo stesso rapporto tra Dio e il mondo è stato espresso da Whitehead con le seguenti antitesi: “E’ vero che Dio è permanente e il mondo fluente, sia che il mondo è permanente e Dio è fluente. E’ vero che Dio è uno e il mondo molti, sia che il mondo è uno e Dio molti. È vero sia che il mondo, in confronto di Dio, è eminentemente reale, sia che Dio, in confronto col mondo, è eminentemente reale. È vero sia che il mondo è immanente in Dio, sia che Dio è immanente nel mondo. È vero sia che Dio trascende il mondo, sia che il mondo trascende Dio. È vero sia che Dio crea il mondo, sia che il mondo crea Dio” (Process and Reality, 527-528). Queste antitesi significano che, se Dio attende dal mondo la sua realizzazione, il mondo attende da Dio la sua unità: “Il mondo è la molteplicità delle attualità finite che cercano una perfetta unità. Né Dio né il mondo raggiungono un completamento statico. Entrambi sono nella morsa dell’ultimo fondamento metafisico, l’avanzamento creativo verso il nuovo. Ognuno di essi, sia Dio che il mondo, è lo strumento della novità dell’altro” (ibid., 529). Anche per il vecchio panteismo il mondo, come emanazione o rivelazione di Dio, condizionava in qualche modo la realtà stessa di Dio: “Dio non c’era prima di creare tutte le cose”, afferma Scoto Eriugena (De divisione naturae, I, 72), difendendo la coeternità del mondo e di Dio. E difatti che cosa sarebbe un corpo odoroso che non emanasse profumo o una luce che non spandesse all’intorno i suoi raggi? La nozione stessa di emanazione fa del mondo, e in generale di 45 tutto ciò che viene emanato da Dio, parte integrante di Dio e condizione della sua realtà. Tuttavia solo nel mondo moderno, e a cominciare dal Romanticismo (che ha fatto tesoro della lezione di Spinoza) si afferma esplicitamente che Dio è, in qualche modo, la creazione del mondo. Talvolta, come in Hegel, Dio è già reale nel mondo, in tutte le determinazioni del mondo, perché è lo spirito stesso, cioè la razionalità autocosciente, che si realizza in esso come tale. Talaltra, Dio è il termine del processo evolutivo, la fase nella quale tale processo raggiunge l’unità o la perfezione. In ogni caso, il panteismo contemporaneo ha invertito il punto di vista tradizionale: non è Dio che dà corpo, sostanza o realtà al mondo, ma è il mondo che dà corpo, sostanza o realtà a Dio. c. Dio come creatore. Per la concezione di Dio come causa creante, Dio non è soltanto il primo Motore e la causa prima del divenire e dell’ordine del mondo, ma anche l’autore della struttura sostanziale del mondo stesso. Tale struttura, costituita dalle sostanze, forme o ragioni ultime delle cose, non è coeterna con Lui (come invece nella concezione classica) ma da Lui stesso prodotta. Ed è prodotta non per via di un processo necessario ma con una causalità libera per la quale il mondo si stacca da Dio nell’atto stesso di derivare da Lui il suo essere. Dall’altro lato, in questa concezione, Dio non è più il super-essere, ma l’essere stesso da cui ogni altro essere deriva. Le caratteristiche della divinità derivano, in questa concezione, dalla nozione di creazione, nel suo significato proprio e specifico. Questo significato è stato elaborato solo attraverso il tentativo di distinguerlo polemicamente dall’ordinazione e dall’emanazione. Le parole che in ebraico, greco e latino significano creare hanno, come nelle lingue moderne, un senso generico per il quale possono riferirsi indifferentemente all’opera di un artefice come a quella di un creatore; solo attraverso l’elaborazione filosofica la nozione arriva perciò a configurarsi nelle sue caratteristiche. Essa inizia con Filone di Alessandria (sec. I d.C.), il quale attraverso l’interpretazione allegorica dell’A.T., definì il concetto di Dio talvolta in polemica con le dottrine elaborate dalla filosofia greca, talvolta in dipendenza da esse. Per primo egli affermò che Dio ha tratto il mondo “dal non essere all’essere” (De vita Mosis, III,8) e che egli è stato non solo il Demiurgo, ma anche veramente il fondatore del mondo stesso (De somniis, I,13). Ma neppure egli intese troppo rigorosamente questo concetto, giacché a volte assimila la creazione all’imposizione dell’ordine ad una materia disordinata ed amorfa (L’erede delle cose divine, 32). Più chiaramente la nozione di Dio creatore si viene determinando nella polemica cristiana contro gli Gnostici: Ireneo, per esempio, afferma che Dio non ha bisogno di intermediari per la creazione (Adversus haereses II, 1, 1). A sua volta Lattanzio negava che Dio avesse bisogno, nella creazione, di una materia preesistente (Istituzioni divine, II,9). Contro l’emanatismo Origene affermava che Dio non può essere considerato né come il tutto né come una parte del tutto perché il suo essere è omogeneo, assoluto e indivisibile (Contra Celsum, I,23) ed è superiore alla stessa sostanza giacché non ne partecipa: si partecipa di Dio ma Dio non partecipa di nulla (De Principiis VI,64). Inoltre l’unicità di Dio, sulla quale i filosofi cristiani insistono, sia per la polemica contro il politeismo pagano, sia per eliminare dalla nozione di Trinità ogni appiglio ad una molteplicità di divinità, li porta 46 ad accentuare il distacco di Dio dal mondo: giacché se Dio, in qualunque maniera, partecipasse del mondo, parteciperebbe altresì della molteplicità e della diversità che lo costituiscono. Per lo stesso motivo viene accentuata l’eternità, cioè la immutabilità di Dio, di fronte alla mutevolezza e temporalità del mondo. Per Agostino Dio, in quanto è l’Essere, è il fondamento di tutto ciò che è, il creatore di tutto. Difatti la mutevolezza del mondo che ci sta intorno dimostra che esso non è l’essere: ha dovuto dunque essere creato da un Essere eterno (Confessioni, XI,4). Prima della creazione non c’era tempo e non c’era neppure un “prima”: non ha senso perciò domandarsi che cosa Dio facesse “allora”. L’eternità è al di sopra di ogni tempo e in Dio nulla è il passato e nulla è il futuro. Il tempo è stato creato insieme con il mondo (ibid., XI,13). Nel sec. XI Anselmo riassumeva nel Monologhion i risultati di un lavoro già secolare, chiarendo i caratteri della creazione dal nulla come “un salto dal nulla a qualche cosa” (n.8) e insistendo sull’impossibilità di ammettere che la materia o altra realtà qualsiasi preesista all’opera della creazione divina. Le cose sono solo per partecipazione all’essere; il che vuol dire che derivano la loro esistenza unicamente da Dio (n.7). Egli ammetteva nella mente divina il modello o l’idea delle cose prodotte: ma anch’esso, pur precedendo la creazione del mondo, è stato creato da Dio (n.11). Contravveniva invece ad uno dei caratteri di Dio creatore (la libertà di creare) la dottrina di Abelardo secondo la quale la creazione è un atto necessario di Dio, cioè un atto che non può non aver luogo dato che Dio non può non volere il bene e che la creazione è un bene (Theologia cristiana, V, P.L., 178, col. 1325). La caratteristica fondamentale della dottrina della causa creante è che Dio, per essa, è l’essere da cui dipende ogni altro essere. Ma solo attraverso il neoplatonismo arabo si fece strada il corollario implicito in questa concezione e si raggiunse la determinazione di un attributo che doveva poi, nei limiti di essa, rimanere primo e fondamentale; la necessità dell’essere divino. Difatti, se le cose del mondo traggono il loro essere da Dio, Dio invece non lo trae che da se stesso: cioè Dio è l’essere per natura o per essenza sua, mentre le cose hanno l’essere per partecipazione o per derivazione da Dio. Si viene così a determinare una scissione nell’essere: da un lato l’essere di Dio, ossia l’essere per sé, l’essere necessario, dall’altro l’essere delle creature, ossia l’essere per partecipazione, l’essere possibile. La distinzione fu introdotta da Al Farabi (sec. IX); da Avicenna (sec. XI) fu fatta prevalere nella Scolastica araba e cristiana, per la quale divenne uno dei principi fondamentali. Avicenna interpreta il rapporto tra necessità e possibilità nei termini del rapporto aristotelico tra forma e materia. La forma, come esistenza in atto, è necessità, la materia è possibilità. Ciò che non è necessario di per sé è necessariamente composto di potenza e di atto, quindi non è semplice. Tale è l’essere delle creature. Invece l’essere che è necessario di per sé è assolutamente semplice, privo di possibilità e di materia; è Dio (Metaphisica II, 1,3). La distinzione tra essere necessario ed essere possibile e la definizione di Dio come essere necessario venivano introdotte nella Scolastica cristiana da Guglielmo di Alvernia (De Trinitate, 7); e furono il fondamento della teologia di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo affronta la questione di Dio secondo questo ordine: in primo luogo, 47 studia ciò che di Dio è già accessibile alla ragione, senza il soccorso della Rivelazione: esistenza, natura, attributi e operazioni di Dio; successivamente passa a studiare quanto di Dio è diventato manifesto attraverso la Rivelazione. Ecco come egli stesso schematizza la trattazione della seconda questione della Summa: “L’indagine intorno a Dio comprenderà tre parti. Considereremo: primo, le questioni spettanti la divina essenza; secondo, quelle riguardanti la distinzione delle persone; terzo, quelle che riguardano la derivazione delle creature da Dio. Intorno all’essenza divina poi dobbiamo considerare: primo, se Dio esista; secondo, come Egli sia o, meglio, come non sia; terzo, studiare le cose spettanti alla sua operazione, cioè la scienza, la volontà e la potenza” (Summa I, q. 2, prol.). Alcuni interpreti distinguono quindi nel nostro autore una teologia naturale da una teologia dogmatica. Pur vivendo in un clima di profonda religiosità, Tommaso non ignora che, quanto meno in passato, ci sono stati degli atei e che la posizione dell’ateismo ha dalla sua qualche argomento che merita di essere preso in considerazione. Tutte le obiezioni contro l’esistenza di Dio si possono ridurre alle seguenti: il fenomeno del male, la possibilità di spiegare tutto con la scienza e con la libertà umana. Scrive Tommaso: “Sembra che Dio non esista. Infatti: 1) nel nome Dio si intende affermare un bene infinito. Dunque se Dio esistesse non dovrebbe esserci più il male. Viceversa nel mondo c’è il male. Dunque, Dio non esiste. 2) Ciò che può essere compiuto da un ristretto numero di cause, non si vede perché debba compiersi da cause più numerose. Ora tutti i fenomeni che avvengono nel mondo potrebbero essere prodotti da altre cause, nella supposizione che Dio non esistesse: poiché quelli naturali si riportano, come a loro principio, alla natura, quelli volontari alla ragione o volontà umana. Nessuna necessità, quindi, della esistenza di Dio” (I, q. 2, a. 3, obb. 1-2). Come suo stile, il nostro autore non replica immediatamente alle obiezioni, ma prima si preoccupa di far vedere che, nonostante tutte le difficoltà degli atei, ci sono argomenti molto solidi e decisivi a favore dell’esistenza di Dio. Così riesce a liquidare, quanto meno indirettamente, le loro obiezioni. Tra gli innumerevoli argomenti che già la filosofia greca e successivamente la filosofia cristiana aveva imbastito per dimostrare l’esistenza di Dio, il Dottore angelico ricorda il celebre argomento con cui S. Anselmo aveva preteso di dimostrare l’esistenza di Dio muovendo dalla sua essenza, intesa come “ciò di cui non si può pensare nulla di più grande” (id quo maius cogitari nequit). Egli disapprova l’argomento anselmiano e fa vedere che la via che pretende di discendere dall’essenza divina fino all’esistenza non è percorribile, per il semplice fatto che prima di provare l’esistenza di Dio la nostra mente non può avere che una definizione nominale e non reale di Dio; e in secondo luogo perché anche supposto che noi avessimo un concetto reale di Dio, si tratterebbe sempre di un concetto essenzialmente negativo, perché Dio non è tanto colui di cui non si può pensare nulla di maggiore, quanto semplicemente colui che non si può pensare affatto: “Dico dunque che questa proposizione Dio esiste in se stessa è di per sé evidente, perché il predicato si identifica col soggetto; Dio, infatti, come si vedrà in seguito, è il suo stesso essere: ma siccome noi ignoriamo l’essenza di Dio, per noi non è evidente, ma necessita di essere dimostrata per mezzo di quelle cose che sono a noi più note, ancorché di 48 per sé siano meno evidenti, cioè mediante gli effetti” (I, q. 2, a. 1). Perciò, visto che non abbiamo nessuna intuizione di Dio, né della sua essenza, né della sua esistenza, per provare la sua esistenza occorre procedere a posteriori, prendendo in esame i fenomeni che ci circondano (compreso l’uomo) e verificare se questi, per essere spiegati esaustivamente, non esigano l’esistenza di Dio. Nella Summa Tommaso allarga fino a cinque gli argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, che nelle altre opere non superano mai il numero di quattro. L’esistenza di Dio può essere provata partendo da cinque fenomeni noti a noi tutti: il divenire o movimento, le cause seconde, la contingenza, i gradi di perfezione, l’ordine dell’universo. Nessuno di questi fenomeni è originario e incausato, bensì ognuno è originato e causato, manifestando una dipendenza e una carenza ontologica. Di qui sorge la necessità di ricercare la loro causa. La ricerca, che non vuole essere un regressus ad infinitum, si conclude sempre necessariamente con l’approdo a Dio. La struttura delle cinque vie è uniforme e semplice. Essa consiste di quattro momenti: 1. Si attira l’attenzione su un determinato fenomeno di contingenza 2. Si evidenzia il carattere relativo, dipendente, contingente, causato di ogni singolo fenomeno 3. Si mostra che la realtà effettiva, attuale, di un fenomeno contingente non si può spiegare facendo intervenire una serie infinita di fenomeni contingenti 4. Si conclude dicendo che l’unica spiegazione plausibile del contingente è Dio, motore immobile, causa incausata, essere necessario, sommamente perfetto, intelligenza ordinatrice suprema. Passiamo alle cinque vie. Prima via: “La prima e la più evidente si desume dal moto. È certo infatti e consta ai sensi, che alcune cose mutano in questo mondo. Ora tutto ciò che muta o diviene è mutato da altri … Se dunque ciò da cui deriva il mutamento muta a sua volta, sarà necessario che anch’esso sia mutato da un terzo e questo da un quarto, ma in ciò non si può procedere all’infinito … Dunque è necessario arrivare a una prima ragione del mutamento che non muti affatto: e questo è ciò che tutti gli uomini intendono per Dio” (I, q. 2, a. 3). L’argomento parte dal moto e, constatando che ciò che si muove è mosso da altri, giunge al Motore immobile. Il moto di cui qui si parla non è il moto locale bensì il moto sostanziale ed entitativo, cioè il divenire. Seconda via: “Vediamo nelle cose che cadono sotto i sensi un ordine di cause efficienti; tuttavia non si vede né è possibile che una cosa sia causa efficiente di se stessa poiché, se così fosse, una cosa dovrebbe essere prima di se stessa, il che è impossibile. Ma non è possibile che nelle cause efficienti si proceda all’infinito … Dunque è necessario porre una prima causa efficiente che tutti chiamano Dio” (I, q. 2, a. 3). L’argomento parte dalle cause seconde e, constatando che ogni causa seconda, strumentale, è a sua volta causata, approda a Dio come Causa prima incausata. La serie di cause seconde cui qui ci si riferisce non è una serie di cause dipendenti tra loro accidentalmente, che può essere più o meno lunga e persino indefinita, bensì di cause collegate necessariamente in vista dell’effetto (per es. la falce, il manico, la mano, il corpo per la falciatura del fieno … ). 49 Terza via: “Tra le cose (di questo mondo) noi ne troviamo di quelle che possono essere e non essere; infatti alcune cose nascono e finiscono, il che vuole dire che possono essere e non essere. Ora, è impossibile che tutte le cose di tale natura siano sempre state, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva. Se dunque tutte le cose (esistenti in natura sono tali che) possono non esistere, in un dato momento niente ci fu nella realtà. Ma se questo è vero, anche ora non esisterebbe niente, perché ciò che non esiste non comincia a esistere se non per qualche cosa che è. Dunque, se non c’era ente alcuno, è impossibile che qualche cosa cominciasse ad esistere, e così anche ora non ci sarebbe niente, il che è evidentemente falso. Dunque non tutti gli enti sono contingenti, ma nella realtà occorre che ci sia qualcosa di necessario … Dunque bisogna concludere all’esistenza di un essere che sia di per se stesso necessario, e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio” (ibid., a. 3). Si parte dalla contingenza e, percorrendo la via del possibile, si constata che il possibile riceve l’essere dal necessario e si giunge a Dio come essere necessario. Abbiamo a che fare con la necessità nell’ordine dell’essere, e non in quello dell’essenza. Quarta via: nelle cose si riscontrano diversi gradi di perfezione: le cose sono più o meno buone, più o meno vere, più o meno belle … “Ma il grado maggiore o minore si attribuisce alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno ad alcunché di sommo e di assoluto … Vi è dunque un qualche cosa che è massimamente vero, massimamente buono, massimamente bello, e di conseguenza qualche cosa che è il supremo ente … E questo chiamiamo Dio” (ibid.). Si parte dalla constatazione di diversi gradi di perfezione e si percorre la via secondo la quale la perfezione è partecipata dal Massimo. Il riferimento è alle perfezioni semplici, non alle perfezioni miste. Quinta via: “Noi osserviamo che alcune cose prive di conoscenza, cioè i corpi fisici, tuttavia operano per un fine, come risulta dal fatto che esse operano sempre o quasi sempre allo stesso modo per conseguire la perfezione; donde appare che non a caso, ma per una predisposizione, raggiungono il loro fine. Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e quest’essere chiamiamo Dio” (ibid.). Si parte dalla constatazione di un mondo ordinato e si procede avendo presente che l’ordine richiede sempre intelligenza per approdare all’Intelligenza Suprema ordinatrice. Qui il riferimento non va solo agli esseri materiali (acqua, aria) ma anche agli esseri viventi privi di intelligenza (i fiori, le piante) nelle cui operazioni il finalismo è quanto mai palese. Le cinque vie non sono legate a nessuna teoria cosmologica particolare: i fenomeni che sono presi in considerazione e i principi che sono invocati non sono legati né a Platone, né ad Aristotele, né a Tolomeo etc., ma appartengono all’esperienza ordinaria, e i principi della causalità e dell’assurdità di un regressus ad infinitum non sono legati a nessuna scienza e a nessuna visione cosmologica, ma sono principi primi della metafisica. Il 50 principio di causalità non va inteso come mera successione e concatenazione necessaria di eventi, come accade nella filosofia e nella scienza moderna con Hume, che non a caso li confuta, e con Kant. Esso è comunicazione della propria perfezione da parte della causa all’effetto, è comunicazione di essere e non mera successione (è la comunicazione di realtà che avviene dal melo alla mela, dalla mucca al vitellino, e non la successione che si verifica dal lampo al tuono). Tale principio ha valore assoluto come il principio di non contraddizione e funge da validissimo supporto alle argomentazioni di Tommaso. Il pensiero moderno e contemporaneo ha cercato di esplorare anche altre vie che partono dall’uomo, anziché dal cosmo (cfr. Pascal). Dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio percorrendo le cinque vie, il Dottore Angelico replica agli argomenti degli atei. 1. Costoro direbbero: “Se uno dei due contrari è infinito, l’altro sarebbe totalmente distrutto. Ma col termine Dio si intende un bene infinito; dunque, se Dio ci fosse non ci sarebbe il male; e invece il male nel mondo c’è; dunque Dio non esiste” (I, q. 2, a. 3, ob. 1). A tale argomento che fa forza sull’esistenza del male risponde così: “Come dice S. Agostino: <<Dio, essendo sommamente buono, non permetterebbe in nessun modo che nelle sue opere ci fosse del male, se non fosse tanto potente e tanto buono, da saper trarre il bene anche dal male>>. Sicché appartiene all’infinità bontà di Dio il permettere che vi siano dei mali per trarne dei beni” (I, q. 2, a. 3, ad 1). Sembra una replica troppo secca e troppo comoda. In queste parole egli ha ridotto la sua critica all’osso e affronta più analiticamente la questione della natura e delle cause del male nella Quaestio disputata de malo. Nel mondo classico l’unico filosofo che si è posto seriamente il problema del male è Plotino, definendolo come privazione o mancanza di bene. Per lui la materia è la causa della carenza di bene. S. Agostino ha fatto suo il concetto plotiniano del male come privatio boni ma si rifiutò di identificare il male con la materia perché tra Plotino e Agostino c’è appunto la teologia della creazione. Anche la materia è creata da Dio e, in quanto tale, è necessariamente e intrinsecamente buona, perché Dio, Sommo Bene, non può creare che cose buone. Approfondendo la natura del male, Agostino rileva che esso non può essere una sostanza, perché l’essere, per quanto in piccolo grado, in virtù della creazione, è un bene in sé. Il male consiste essenzialmente nel disordine, ossia nell’allontanamento da Dio, nella aversio a Deo e nella conversio ad creaturas: allontanamento dal Sommo Bene per attaccarsi a beni inferiori. Di tale disordine causa esclusiva è il libero arbitrio. A monte di ogni male sta il disordine morale della volontà: dal disordine morale discende anche il disordine materiale, cioè il male fisico. Tommaso ha vissuto con meno angoscia il mistero dell’esistenza del male, ma ha scrutato attentamente tale problema. Il male si può presentare sotto due forme: come mancanza di un elemento naturale (fisico) o come mancanza di un ordinamento al fine proprio, liberamente voluta da una creatura razionale. Nel secondo caso abbiamo la colpa (malum culpae), nel primo abbiamo la pena o male fisico (malum penae) che nelle sue forme come la corruzione, il dolore, la morte è conseguenza della colpa o del peccato. Per lui il male non può essere preso necessariamente come argomento contro l’esistenza di Dio come pretendono gli 51 atei. Oltre alla risposta che abbiamo incontrato il nostro autore aggiunge che è conveniente che esistano gradi inferiori di creature, nei quali le perfezioni create sono contenute più limitatamente, solo per un periodo di tempo o con la possibilità di non giungere alla loro debita pienezza. È errato pensare che Dio dovrebbe aver fatto solo i gradi più perfetti di essere, dando per es. ai mortali l’immortalità, agli imperfetti la perfezione, ai mobili l’immobilità: “Nulla vincola la Provvidenza di Dio a concedere a un ente particolare tanta bontà quanta a tutto l’universo, o a dare una cosa situata in un grado inferiore la perfezione propria di un grado superiore” (De divinis nominibus, VIII, lect. 4). E aggiunge: “Dio e la natura, così come qualunque causa agente, fanno il meglio nell’insieme, non il meglio in ogni parte, ma in ordine al tutto … Ed è meglio e più perfetto che in tutta l’universalità delle creature siano contenuti degli enti che possano declinare dal bene, e che perciò a volte lo facciano. Questo, Dio non lo impedisce, poiché non è proprio della Provvidenza distruggere la natura, bensì conservarla” (I, q. 48, a. 2, ad 3). Un universo ideale senza corruzioni naturali, con corpi immortali, nel quale gli animali non morissero né lottassero tra loro, nel quale non ci fossero convulsioni naturali, sarebbe teoricamente possibile, ma non sarebbe effettivamente l’universo migliore, perché includerebbe, assolutamente parlando, meno perfezioni di un universo che contempli anche la presenza di imperfezioni. Infatti, la presenza di esseri corruttibili, oltre a quella dei puri spiriti, conferisce all’universo maggiore ricchezza di contenuto di quella che avrebbe se esistessero solo angeli: “Un universo nel quale non ci fosse alcun male non conterrebbe tanta bontà come questo universo, poiché non ci sarebbero in esso tante nature buone come in questo, in cui esistono alcune nature buone alle quali non aderisce il male, e altre alle quali aderisce. Ed è meglio che esistano entrambe le creature piuttosto che una sola di esse” (I Sent., d. 44, q. 1, a. 2, ad 5). In linea con Agostino egli afferma che “se si sottraesse il male a qualche parte dell’universo, la sua perfezione sminuirebbe notevolmente, poiché la sua bellezza sorge dall’ordinata congiunzione dei beni e dei mali, dato che i mali provengono da certi beni deficienti e tuttavia da essi procedono altri beni per la provvidenza divina, così come l’interposizione di silenzi rende più piacevole la melodia” (Contra Gentiles, III, c. 71). Il bene e il male fanno parte del piano universale voluto da Dio: ciò non implica che Dio stesso sia causa del male. Infatti una causa può dare origine al male o perché è causa a sua volta difettosa, o perché dispone di una materia difettosa, o perché è capace di trarre da un difetto parziale un bene maggiore. Dio, ossia la causa prima, si può dire causa del male soltanto nel terzo senso, perché nel suo operare non presuppone nessuna materia né ha in sé difetto alcuno, poiché è pienezza dell’essere. È poi prerogativa della libertà finita essere fallibile: proprio in quanto finita può decadere dall’orizzonte del bene assoluto e infinito e può lasciarsi catturare e rinchiudere dentro i confini di beni finiti (del proprio essere o di altre cose). Il male morale consiste proprio nel preferire beni particolari al Bene universale. Neppure il male morale, per quanto grave, scompagina e infrange l’ordine universale. Infatti, nell’atto moralmente cattivo, anche nei casi in cui si agisce formalmente contro il bene divino, non si arriva mai a un’opposizione frontale 52 all’ordo universalis, poiché in questo caso la volontà sarebbe cattiva per natura e tenderebbe al male in se stesso, e così si trasformerebbe nel contrario di Dio e nel male per essenza, il che è assolutamente impossibile: “in quanto la volontà tende naturalmente al bene conosciuto come al proprio oggetto e al proprio fine, è impossibile che una qualche sostanza intellettuale abbia una volontà malvagia secondo natura a meno che il suo intelletto non erri circa il giudizio sul bene … è impossibile però che vi sia un intelletto che venga meno per sua natura nel giudizio del vero. Perciò è impossibile che vi sia una qualche sostanza intellettuale che abbia una volontà naturalmente malvagia” (Contra Gentiles, III, c. 107). Il male morale si costituisce dunque non nella natura della volontà che è naturalmente buona, bensì nell’atto della scelta, cioè nel libero arbitrio. Il peccato, ossia il male morale, altro non è che riporre la propria felicità in qualche cosa che non può dare la vera felicità; è una forma di “idolatria”, un mettere qualche bene finito al posto di Dio, come se fosse Dio. Una tale deficienza della volontà, impossibile in universali, è purtroppo possibile in particulari: “Ogni mente razionale naturalmente desidera la felicità in modo indeterminato e universale, e riguardo a questo non può venir meno; ma nel particolare non c’è un determinato movimento della volontà della creatura a cercare la felicità in questo o in quello. E così nel desiderare la felicità qualcuno può peccare, se la cerca dove non deve cercarla, come colui che cerca nei piaceri la felicità; e lo stesso è rispetto a tutti gli altri beni finiti” (De veritate, q. 24, a. 7, a. 6). Quando la creatura pecca perde la beatitudine che consiste nell’unione con Dio, e fallisce così la piena realizzazione della sua capacità infinita, ma non perde né il proprio essere né una parziale realizzazione di sé. Perdendo l’unione elettiva con il fine ultimo, sminuisce la pienezza della sua bontà e resta unita a Dio solo come una cosa naturale, senza che la sua volontà partecipi attivamente a questa relazione. Ogni male è un indebito rimpicciolimento del bene, come una restrizione di un bene che avrebbe dovuto essere più totale. Il peccato consisterebbe nel passare dall’unione finita con il Bene infinito (Dio), che la creatura razionale è chiamata a scegliere, all’unione con un bene finito che non può colmare la volontà. Ma la ragione ultima cui il nostro autore si appella per fare rientrare il male nell’ordo universalis non è tanto quella che il male non è mai totalmente male ma piuttosto un bene rimpicciolito, bensì il principio per cui “tutto quello che succede nel mondo, anche se è male, ricade in bene dell’universo” (In Epistulam ad Romanos, VIII, lect. 6, n. 696). Il male resta così non soppresso, ma reintegrato nell’armonia dell’universo. Seguendo gli alvei stabiliti nell’ordine cosmico, i mali finiscono per confluire nel bene della totalità dell’universo e nel bene personale delle creature spirituali: “La Provvidenza di Dio fa buon uso dei mali, a volte per l’utilità degli stessi che li patiscono, come quando per opera di Dio le infermità corporali o persino spirituali ricadono a vantaggio di coloro che le soffrono; altre volte a vantaggio di altri, in un duplice modo: o per il vantaggio particolare di qualcuno, come quando, per la penalizzazione di uno, un altro si emenda, o per l’utilità di tutti, come la punizione dei delinquenti è ordinata alla pace sociale” (De divinis nominibus, IV, lect. 23). Secondo S. Tommaso tutto ciò che succede nell’universo finisce sempre per contribuire al bene dei 53 giusti, di coloro cioè che lottano per salvaguardare l’ordine morale in ogni loro azione, poiché tutti e ciascuno di essi costituiscono le parti più essenziali dell’universo: “Tutto ciò che accade a essi o alle altre cose ridonda a loro bene” (In Epistolam ad Romanos, VIII, lect. 6). Le apparenze di questa vita suscitano l’impressione che i beni e i mali siano distribuiti indifferentemente, quasi casualmente tanto ai buoni quanto ai cattivi, anzi con una preferenza per i secondi. Ma la nostra conoscenza dei dettagli del piano provvidenziale è molto superficiale, e non ci riesce facile giudicare se qualcosa è per il bene o per il male, se un avvenimento avverso sia stato alla fine più conveniente o, al contrario, un successo strepitoso abbia in fondo preparato una disgrazia. L’ordine profondo degli avvenimenti, in particolare degli avvenimenti storici, sfugge ai poteri della ragione umana, ma questa compie cosa saggia se ripone la sua fiducia nella saggezza infinita della provvidenza di Dio. 2. All’obiezione che rende non necessaria l’esistenza di Dio perché la scienza spiega le operazioni della natura mediante le leggi naturali, il nostro autore replica: “Certo, la natura ha le sue operazioni, ma siccome le compie per un fine determinato sotto la direzione di un agente superiore, è necessario che siano attribuite anche a Dio, come a loro causa prima” (I, q. 2, a. 3, ad 2). 3. All’obiezione relativa alla libertà umana, la risposta è la seguente: “Similmente gli atti del libero arbitrio devono essere ricondotti ad una causa più alta della ragione e della volontà umana, perché queste sono mutevoli e defettibili e tutto ciò che è mutevole e tutto ciò che può venir meno deve essere ricondotto a una causa prima immutabile e di per sé necessaria, come si è dimostrato” (ibid.). Negli scritti di S. Tommaso ci sono poi tre prove dell’esistenza di Dio perfettamente sintonizzate con la sua filosofia dell’essere e che, essendo tutte centrate sull’essere, possono a buon diritto essere chiamate “prove ontologiche”, anche se in un senso diverso da quella anselmiana, perché sono a posteriori, muovono cioè da alcune osservazioni relative alle condizioni ontologiche degli enti che noi possiamo agevolmente constatare. Le tre constatazioni che fungono da punto di partenza sono: gli enti hanno l’essere per partecipazione, negli enti c’è distinzione reale tra l’essenza e l’atto di essere e c’è quindi composizione; la perfezione dell’essere si trova negli enti per gradi. Riguardo la via della partecipazione, egli scrive: “Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo. Per es., tutte le cose calde per partecipazione si riducono al fuoco che è caldo per essenza. Ora, dato che tutte le cose che sono, partecipano all’essere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa in virtù della sua stessa essenza, ossia che la sua essenza sia l’essere stesso. Questa cosa è Dio, il quale è causa sufficientissima, degnissima e perfettissima di tutte le cose: da Lui tutte le cose che esistono partecipano all’essere” (In Joannem, Prol. N. 5). Riguardo la via della distinzione tra essenza ed essere egli scrive: “Tutto ciò che conviene a qualche cosa o è causato dai principi della sua natura, come la risibilità nell’uomo, o le compete in virtù di qualche principio estrinseco, come la luce dell’aria per influsso del sole. Ora non si può dire che l’essere di una cosa sia causato dalla sua stessa forma o essenza, intendendo come da causa efficiente, perché così una cosa sarebbe causa 54 di se stessa o produrrebbe se stessa, cosa del tutto impossibile. È necessario quindi che ogni cosa in cui l’essere è diverso dalla sua natura, abbia l’essere da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù di un altro esige come causa prima ciò che è per sé, ci deve essere qualche cosa che sia causa dell’essere in tutte le altre, appunto perché essa è soltanto essere; diversamente si andrebbe all’infinito nelle cause, avendo ogni cosa, che non è solo essere, una causa, come si è visto” (De ente, c. 4, n. 27). Riguardo la via della gradualità della perfezione dell’essere negli enti, scrive: “L’essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto e in altre in modo meno perfetto; però non è mai presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza, altrimenti l’essere farebbe parte della definizione dell’essenza della cosa, il che è evidentemente falso, giacché l’essenza di qualsiasi cosa è concepibile anche prescindendo dall’essere. Pertanto occorre concludere che le cose ricevono l’essere da altri e (retrocedendo nella serie delle cause) è necessario che si arrivi a qualche cosa la cui essenza sia costituita dall’essere stesso, altrimenti si dovrebbe andare indietro all’infinito” (II Sententiae, d. 1, q. 1, a. 1). Accertata l’esistenza di Dio, Tommaso passa a studiare la sua essenza e la sua natura. La questione dell’essenza e della natura di Dio per la ragione è ancora più ardua e più impegnativa rispetto alla dimostrazione della sua esistenza. Se infatti non è difficile risalire dalla contingenza delle cose alla dimostrazione della sua esistenza come necessaria, non troviamo nella contingenza tracce tali da permetterci un’identificazione e una definizione adeguata della realtà di Dio, della sua essenza, della sua persona, delle sue proprietà e attributi. Infatti dal mondo non è possibile ricavare concetti precisi, chiari e distinti del suo autore, come dalle orme lasciate da un elefante non è possibile farsi un’idea adeguata dell’elefante che le ha impresse. Le perfezioni infinite di Dio si manifestano sempre nella mente dell’uomo per speculum et in aenigmate, sia perché sono spezzettate e frantumate in tante piccole dosi, sia perché la nostra capacità di apprenderle è quella di un’intelligenza finita, limitata, condizionata dalla materia e dalla storia. Tuttavia questo non elimina la legittimità e la necessità di fare un discorso anche sulla natura, sugli attributi e sulle operazioni di Dio, dal momento che se ne conosce l’esistenza. Alcuni aspetti dell’essere di Dio risultano già chiari dalle conclusioni delle varie vie: l’immutabilità, l’efficienza, la necessità, la perfezione, l’intelligenza. Ma sappiamo che, oltre le cinque vie, Tommaso è asceso a Dio anche in altri modi, in particolare percorrendo la via dell’essere. Proprio questa conduce a scoprire quell’aspetto di Dio che costituisce la differenza specifica rispetto a tutte le creature, e quindi a individuare perfettamente la sua essenza. La differenza specifica non consiste nel possesso delle qualità summenzionate, cui possiamo aggiungere la bontà, la verità … . Ciò che distingue Dio dalle creature è di non avere l’essere per partecipazione, bensì per essenza: è l’identificazione in Lui dell’essenza con il suo essere. Ecco quindi raggiunto il concetto più adeguato di Dio, la definizione più precisa: Dio è l’esse ipsum subsistens. Tale espressione può applicarsi soltanto a Dio, perciò non è affatto un titolo anonimo, ma è personalissimo: anzi, è il nome proprio di Dio. Spiega il nostro autore: “Anzitutto per il suo significato. Infatti non esprime già una qualche forma o 55 modo particolare di essere, ma lo stesso essere … In secondo luogo per la sua universalità. Tutti gli altri nomi sono meno vasti e universali … Infine, perché il nome Colui che è è più proprio di Dio dello stesso nome Dio, sia per la derivazione del termine, che è l’essere, sia per l’universalità del significato” (I, q. 13, a. 11). L’essenza di Dio, in sede filosofica, consiste nel suo possesso pieno dell’essere, proprio perché è l’essere a costituire la sua essenza. Questo privilegio compete esclusivamente a Dio: “Ciò che è l’essere, non è incluso perfettamente nel concetto di nessuna creatura; infatti in qualsiasi creatura l’essere è distinto dalla sua essenza; per questo motivo non si può dire di nessuna creatura che il suo esistere è qualche cosa di necessario e di evidente (per se notum et secundum se) in forza dei suoi stessi principi. Ma in Dio l’essere è incluso nel concetto della sua essenza, perché in Dio l’essere e l’essenza si identificano, come dicono Boezio e Dionigi” (De Veritate, q. 10, a. 12). Il concetto intensivo dell’essere è il filo conduttore di tutti gli attributi di Dio che il Dottore Angelico ha disseminato nelle sue opere. Egli prende una perfezione, la confronta con l’essere, controlla se si basa sull’essere stesso o se invece ottiene l’essere solo quando si incarna in una determinata essenza. Nel primo caso abbiamo un attributo di Dio, nel secondo no. Il primo attributo di Dio è la semplicità: “Colui che conferisce l’essere a tutti gli altri, per quanto concerne l’essere stesso non può dipendere da nessun altro; infatti chi per esistere dipende da un altro, deve ricevere l’essere da quello, e non può certamente essere colui che dà l’essere a tutti gli altri. Ma Dio è colui che conferisce l’essere a tutti: quindi il suo essere non dipende da altri. Ma l’essere di ogni composto dipende dai suoi componenti: togliendo i componenti viene meno il composto sia come cosa sia come idea (secundum rem et secundum intellectum). Quindi Dio non è composto. Inoltre, colui che è il principio primo dell’essere (primum principium essendi) lo possiede in modo eccellentissimo, perché ogni cosa è presente in maniera più eccellente nella causa che nel causato. Ma il modo più eccellente di possedere l’essere è quello per cui una cosa è identica all’essere. Quindi Dio è il suo essere (est suum esse), mentre nessun composto è il suo essere, perché il suo essere dipende dai componenti e nessuno dei componenti è l’essere stesso. Dunque Dio non è composto. Ciò deve essere ammesso assolutamente” (I Sent., d. 8, q. 4, a. 1). Il secondo è la perfezione: “In Dio si ritrovano le perfezioni di tutte le cose. Perciò è anche detto universalmente perfetto (universaliter perfectus), perché non gli manca nessuna delle perfezioni che si possono incontrare in qualsiasi genere di cose, come dice il Commentatore. E questo si può arguire da quanto abbiamo già dimostrato, che cioè Dio è l’essere stesso per se sussistente (ipsum esse per se subsistens): di qui la necessità che egli contenga tutta la perfezione dell’essere (totam perfectionem essendi). È chiaro infatti che se un corpo caldo non ha tutta la perfezione del caldo, ciò avviene perché il calore non è partecipato in tutta la sua perfezione; ma se il calore fosse per se sussistente, non gli potrebbe mancare niente di ciò che forma la perfezione del calore. Ora, Dio è lo stesso essere per sé sussistente; quindi niente gli può mancare della perfezione dell’essere. Ma le perfezioni di tutte le cose fanno parte della perfezione dell’essere (omnium autem perfectiones pertinent ad perfectionem essendi), essendo perfette le cose a seconda del modo con cui partecipano 56 all’essere. Di qui ne segue che a Dio non può mancare la perfezione di nessuna cosa” (I, q. 4, a. 2). Il terzo è l’infinità: “Infinita si dice una cosa perché non è finita (limitata). Ora, in certa maniera la materia viene limitata dalla forma e a sua volta la forma dalla materia. La materia è limitata dalla forma in quanto la materia, prima di ricevere la forma, è in potenza a molte forme; ma dal momento che ne riceve una, da quella viene delimitata. La forma poi è limitata dalla materia, perché la forma, considerata in se stessa, è comune a molte cose, ma dal momento in cui è ricevuta nella materia, diventa forma soltanto di una determinata cosa. Se non che, la materia riceve la sua perfezione dalla forma che la determina, e perciò l’infinito attribuito alla materia racchiude imperfezione, perché è come una materia senza forma. La forma, invece, non viene perfezionata dalla materia, ma ne riceve piuttosto la restrizione della sua ampiezza illimitata; quindi l’infinito che si attribuisce alla forma non delimitata dalla materia importa essenzialmente perfezione. Ora, come abbiamo già veduto, l’essere stesso tra tutte le cose è quanto di più formale si possa trovare (maxime formale omnium est ipsum esse). Quindi, siccome l’essere divino non è ricevuto in un soggetto, ma Dio è il suo proprio essere sussistente, come si è precedentemente dimostrato, resta provato chiaramente che Dio è infinito e perfetto” (I, q. 7, a. 1). Il quarto è l’onnipresenza: “Essendo Dio l’essere stesso per essenza, bisogna che l’essere creato sia l’effetto proprio di Lui, come bruciare è l’effetto proprio del fuoco. E questo Dio lo causa nelle cose non soltanto quando cominciano ad esistere, ma fintanto che perdurano nell’essere; come la luce è causata nell’aria dal sole finché l’aria rimane illuminata. Fino a che dunque una cosa ha l’essere, è necessario che Dio le sia presente nella proporzione in cui essa possiede l’essere. L’essere poi è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondamente radicato (magis intimum et profundius), poiché, come si è già detto, l’essere è l’elemento formale rispetto a tutti i principi e i componenti che si trovano in una data realtà. Necessariamente dunque Dio è in tutte le cose e in maniera intima (Deus est in omnibus rebus, et intime)” (I, q. 8, q. 1). Il quinto è l’immutabilità: “Da quanto è stato precedentemente esposto si dimostra che Dio è assolutamente immutabile … Infatti tutto ciò che si muove acquista qualcosa in forza del suo movimento e arriva a ciò cui prima non arrivava. Ora, Dio, essendo infinito e racchiudendo in se stesso in modo perfetto e universale la pienezza di tutto l’essere (plenitudinem perfectionis totius esse), nulla può acquistare né estendersi a qualcosa cui prima non arrivava; in nessun modo quindi a lui conviene il movimento. Ecco perché anche tra gli antichi, alcuni, quasi costretti dalla stessa verità, affermarono l’immutabilità del primo principio” (I, q. 9, a. 1). Il sesto è l’eternità: “La nozione di eternità nasce dall’immutabilità, come quella di tempo deriva da movimento, come risulta da ciò che è stato detto. Quindi, essendo Dio sommamente immutabile, a lui in modo assoluto compete di essere eterno. E non è soltanto eterno, ma è anche la sua stessa eternità, mentre nessun’altra cosa è la propria durata, perché non è il proprio essere. Dio invece è il suo stesso essere uniforme (Deus est suum esse uniforme), e perciò com’è la sua essenza così è la sua eternità” (I, q. 10, a. 2). Il settimo è l’unità: “L’uno è l’ente indiviso. Perciò perché una cosa sia massimamente una occorre che sia massimamente ente e 57 massimamente indivisa. Ora, l’una e l’altra condizione si verifica in Dio. Egli, infatti, è massimamente ente, perché non è ente per avere un essere determinato da una qualche natura (o essenza) alla quale sia stato unito, ma perché è lo stesso essere sussistente, illimitato in tutti i sensi (est ipsum esse subsistens, omnibus modis indeterminatum). È poi massimamente individuo, in quanto non è divisibile per nessun genere di divisione né in atto né in potenza, essendo semplice sotto tutti gli aspetti, come fu già dimostrato. È quindi evidente che Dio è sommamente uno”(I, q. 11, a. 4). L’ottavo è la bontà: “Il bene è definito egregiamente da Aristotele come <<ciò che tutti desiderano>>. Ora, tutte le cose desiderano di esistere nella loro piena attualità, secondo il modo loro proprio, come risulta dalla ripugnanza naturale che hanno alla distruzione; quindi, l’esistenza in atto (esse actu) costituisce la ragione essenziale del bene. Per questo, dalla privazione dell’atto nella potenza consegue un male, come dimostra Aristotele (Met IX, lect. 19). Ma Dio è ente totalmente in atto, non in potenza come si è visto sopra. Dunque è veramente buono … Anzi, da questo può ricavarsi che Dio è la stessa bontà. Infatti, per qualunque cosa la pienezza dell’essere, ossia l’essere in atto, è ciò che costituisce il suo bene; ora Dio non soltanto è un ente in atto, ma è il suo stesso essere come si è dimostrato sopra. Perciò egli non soltanto è buono, ma è la stessa bontà” (Contra Gentiles, I, cc. 37-38). A questo punto S. Tommaso si chiede in che modo conosciamo Dio, per trattare poi dei nomi di Dio. Egli tenta una verifica critica di quanto l’uomo può fare con i suoi concetti e con le sue parole, applicandoli a Dio. Egli collega inequivocabilmente la conoscenza e il linguaggio umano all’esperienza sensibile. Anche le prove dell’esistenza di Dio derivano da essa. La conoscenza che l’uomo acquisisce di Dio e i nomi che può assegnargli hanno un mero valore analogico. Nessun concetto e nessuna parola possono esprimere direttamente e adeguatamente ciò che Dio è in se stesso. Neppure il suo nome più proprio, Ipsum Esse Subsistens, consente di acquisire un concetto adeguato di Dio. Esso deve passare attraverso il filtro molto stretto della via negativa, la quale alla fine salva la res significata ma distrugge completamente il modus significandi. Dichiara a proposito il nostro autore: “Noi non possiamo parlare di Dio se non partendo dalle creature, come più sopra abbiamo dimostrato. E così qualunque termine si dica di Dio e delle creature si dice per il rapporto che le creature hanno con Dio come principio e causa, nella quale preesistono in modo eccellente tutte le perfezioni delle cose” (I, q. 13, a. 5). E ancora: “Noi neghiamo anzitutto a Dio tutto quanto è corporeo e, secondariamente, quanto è intellettuale e mentale, almeno nel senso in cui questo elemento si trova nelle creature viventi, come, per es., bontà e sapienza. E allora resta nella nostra mente solo che Dio è e nulla più. Infine rimuoviamo anche l’idea dello stesso <<essere>>, così come questa idea di essere si trova presente nelle creature, e allora Dio rimane nell’oscura notte dell’ignoranza, ed è in questa ignoranza che noi ci avviciniamo a Dio nella nostra vita, come dice Dionigi. Infatti in questa nebbia, dicono, abita Dio” (I Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4). Il nostro autore assume una posizione intermedia tra un eccessivo apofatismo, che concede che di Dio si possa dire solo ciò che non è, e un baldanzoso catafatismo, troppo fiducioso nelle capacità umane di 58 capire e di esprimere ciò che Dio è in se stesso. A Maimonide, massimo esponente dell’apofatismo in quei tempi, Tommaso replica che nella sua teoria “sparisce ogni differenza tra dire che Dio è sapiente e dire che Dio si adira o che Dio è fuoco … Ma ciò contrasta con la posizione dei santi e dei profeti che hanno parlato di Dio, i quali approvano l’attribuzione a Dio di determinate cose, mentre altre le escludono, concordano che Dio è vivo, sapiente e così via, me negano che sia un corpo, oppure soggetto a passioni. Secondo la teoria di Maimonide si può dire e negare indiscriminatamente tutto, senza nessuna distinzione” (De Potentia, q. 7, a. 5). Ma la cosa peggiore è che, se seguiamo la teoria di Maimonide fino in fondo, prima della creazione oppure nel caso che Dio non avesse creato il mondo, di lui non si potrebbe dire né che è buono, né che è sapiente, né che è vivo ecc. A coloro che invece credono di sapere tutto su Dio perché su di lui riusciamo a fare innumerevoli discorsi, Tommaso ricorda che è impossibile predicare qualcosa in maniera univoca di Dio e delle creature: “Poiché ogni effetto non è proporzionato alla potenza della causa agente, ritrae una somiglianza dell’agente non secondo la stessa natura, ma imperfettamente; in maniera che quanto negli effetti si trova diviso e molteplice, nella causa è semplice e uniforme; così il sole mediante un’unica energia produce nelle cose di quaggiù forme molteplici e svariate. Allo stesso modo, come si è detto, tutte le perfezioni delle cose, che nelle creature sono frammentarie e molteplici, in Dio preesistono in semplice unità. Così, dunque, quando un nome che indica perfezione si applica a una creatura, significa quella perfezione come distinta da altre, secondo la nozione espressa dalla definizione: per es., quando il termine sapiente lo attribuiamo all’uomo, indichiamo una perfezione distinta dall’essenza dell’uomo e dalla sua potenza e dalla sua esistenza e da altre cose del genere. Quando invece attribuiamo questo nome a Dio, non intendiamo indicare qualche cosa di distinto dalla sua essenza, dalla sua potenza e dal suo essere … Quindi è chiaro che il termine sapiente si dice di Dio e dell’uomo non secondo un identico concetto formale. E così è per tutti gli altri nomi. Perciò nessun nome si attribuisce in senso univoco a Dio e alle creature” (I, q. 13, a. 5). Operando una sintesi tra la teologia negativa di ispirazione platonica e la teologia positiva di ispirazione aristotelica, egli conclude che “tutto ciò che è conosciuto può anche essere espresso in parole … Ma poiché di Dio noi possediamo una conoscenza imperfetta, ci è possibile nominarlo solo imperfettamente, quasi balbettando” (I Sent., d. 22, q. 1, a. 1). Accertati anche l’essenza e gli attributi di Dio, Tommaso studia la sua vita e le sue opere. Si tratta di una vita intensissima e di una serie di operazioni eccellenti, che si addicono al suo essere immateriale, semplice, infinito, perfetto, buono, immutabile etc. Ci sono operazioni ad intra, che costituiscono la vita intima di Dio, come il conoscere ed il volere, e ce ne sono altre ad extra, che riguardano i rapporti di Dio col mondo, e precisamente la creazione, la provvidenza e la conservazione. Riguardo la conoscenza, lo spirito per natura sua è intelligente e libero, e comunica con gli altri in perfetta autonomia. La materia è cieca, tenebrosa e impenetrabile, incatenata a 59 leggi immutabili. Invece lo spirito è luminoso e mobilissimo, va dove vuole, è libero. È dalla condizione stessa della natura spirituale, che compete a Dio in modo sommo, che il Dottore Angelico deriva immediatamente la sua dottrina sulla conoscenza e sulla volontà di Dio. In quanto spirito assoluto, sciolto da qualsiasi rapporto con la materia, Dio è sommamente conoscitivo: “A chiarimento di ciò bisogna considerare che gli esseri conoscitivi si distinguono dagli esseri non conoscitivi in questo, che i non conoscitivi non hanno che la propria forma; mentre quelli dotati di conoscenza sono fatti per avere anche la forma di altre cose, giacché in chi conosce si trova l’immagine dell’oggetto conosciuto … Ma la limitazione viene dalla materia … Quindi, essendo Dio all’apice della immaterialità, come risulta chiaramente da ciò che precede, ne viene che egli sia anche all’apice del conoscere” (I, q. 14, a. 1). Mentre nell’uomo il conoscere è altra cosa dall’essere (l’uomo ora conosce, ora non conosce), in Dio essere e conoscere coincidono perfettamente: Dio è sempre in atto di esistere e di conoscere e, conseguentemente, non può avere che sé medesimo come oggetto intellegibile, adeguato e sempre presente: perciò Dio conosce sé in se stesso. E si conosce perfettamente, cioè conosce totalmente se stesso. Conoscendosi perfettamente, Egli conosce anche ciò a cui può estendersi la sua virtù, conosce quindi tutte le cose, essendone la causa, e le conosce non con cognizione generica, ma distinta e propria, e in se stesso vede anche tutte le cose insieme, mentre l’uomo conosce le cose una dopo l’altra, con scienza discorsiva. Dio sa tutto quello che può fare Lui e anche quello che possono fare, dire, pensare le creature; e, siccome Dio è eterno e per lui tutto è presente, egli conosce con scienza di visione quello che è presente, o fu, o sarà; invece conosce con scienza di semplice intelligenza quello che non è presente e neppure fu o sarà, ma resta soltanto possibile. Conoscendo il bene, Dio conosce anche il male, che è o corruzione del bene o mancanza del bene. In Dio la conoscenza delle cose, in quanto le si aggiunge la volontà, è causa delle cose in quanto Dio le conosce perché esistono. A Dio compete anche il volere, visto che ogni essere possiede l’inclinazione verso ciò che giova alla propria autorealizzazione: “Questa tendenza al bene negli esseri privi di conoscenza si chiama appetito naturale. E così anche gli esseri intelligenti hanno una simile inclinazione al bene appreso mediante una specie intellegibile, in maniera che quando hanno questo bene, vi si riposano, quando non l’hanno lo ricercano. Questa duplice operazione appartiene alla volontà. Quindi, in ogni essere che ha l’intelletto, c’è la volontà, come in ogni essere dotato di senso c’è l’appetito sensitivo. Perciò è necessario ammettere che in Dio vi è la volontà, essendovi l’intelletto. E come il suo conoscere coincide con l’essere, così è per il suo volere” (I, q. 19, a. 1). In un altro passo scrive ancora: “A Dio compete avere volontà, essendo dotato di intelligenza. Ora, siccome egli intende mediante la sua essenza, come s’è provato in precedenza, così ancora vuole. Pertanto la volontà di Dio è la sua stessa essenza” (Contra Gentiles, I, c. 73). Se Dio si diletta nel conoscere prima di tutto se stesso, allo stesso tempo prima di tutto vuole l’infinita ricchezza del proprio essere. Dio si compiace e gusta le perfezioni superlative e meravigliose del proprio essere: “Infatti oggetto della volontà è il bene conosciuto. Ora il primo oggetto conosciuto da Dio è 60 l’essenza divina. Dunque l’essenza divina è il termine a cui principalmente si dirige la volontà divina … Inoltre, per qualsiasi essere volente, l’oggetto principale voluto è il suo fine ultimo; poiché il fine è voluto in se stesso, e per esso si vogliono le altre cose (i mezzi). Ora l’ultimo fine è Dio stesso, perché è il sommo bene; quindi egli è il principale oggetto voluto dalla sua volontà” (Contra Gentiles, I, c. 74). Ma Dio non vuole e non ama soltanto se stesso; con un unico atto Egli vuole e ama oltre che se stesso anche le cose, ma non allo stesso modo. Come infatti conosce le cose solo come imitazioni della divina essenza, così vuole e ama le cose come partecipazioni della divina bontà. Mentre però Dio vuole se stesso necessariamente, vuole le cose liberamente: “La volontà divina ha un rapporto necessario con la sua bontà, la quale è il suo oggetto proprio. Dio vuole dunque necessariamente che esista la sua bontà, come la nostra volontà necessariamente vuole la felicità. Tutte le altre cose Dio le vuole in quanto sono ordinate alla sua bontà, come a loro fine … Siccome però la bontà di Dio è assolutamente perfetta in se stessa e può stare senza tutto il resto, non traendo da esso nessun accrescimento di perfezione, ne segue che volere le cose distinte non è necessario per Dio di una necessità assoluta. Tuttavia può divenire necessario in forza di un’ipotesi: supposto infatti che Dio le voglia, non può non volerle, perché la sua volontà non può mutare” (I, q. 19, a. 3). In rapporto alla volontà di Dio si ripropone il tormentoso problema del male. Tommaso riafferma il principio che il male non può essere voluto per sé ma solo in quanto congiunto con qualche bene. Questo principio si applica anche a Dio. Pertanto Dio, volendo la sua bontà sopra tutto, rigetta il male di colpa che è ad essa direttamente contrario; quanto agli altri mali, volendo Dio le altre cose in ordine a sé, può volere il male di pena in ordine alla giustizia e il male naturale in ordine alla Provvidenza. Dopo Tommaso la caratteristica della necessità diventa fondamentale per tutte le dottrine di Dio. Cusano definisce Dio come necessità assoluta (De docta ignorantia I, 22). Cartesio assume tale caratteristica come punto di partenza della prova ontologica: “l’esistenza necessaria è contenuta nella natura o nel concetto di Dio, sicché è vero dire che l’esistenza necessaria è in Dio, o che Dio esiste” (Secondes Reponses, prop. I, Démonstration). Anche chi nega la legittimità di tale prova mantiene il concetto di necessità per definire Dio, come nel caso di Leibniz: “Bisogna cercare la ragione dell’esistenza del mondo che è la totalità delle cose contingenti e bisogna cercarla nella sostanza che porta la ragione della sua esistenza con sé e che perciò è necessaria ed eterna” (Theodicea, I, &7). Dio è sostanza necessaria (Monadologia, 38). Anche nel panorama della filosofia contemporanea, a proposito del Dio creante, si assume il carattere della necessità come punto di partenza per una dimostrazione ontologica (cfr. spiritualismo contemporaneo). Invece secondo Kierkegaard il rapporto tra Dio e il mondo è incomprensibile. Esso può essere chiarito solo negativamente mediante la nozione di una differenza assoluta, di un salto tra il mondo e Dio. Egli, perciò, non si serve della categoria di causa per determinare il rapporto tra mondo e Dio e non applica a Lui la categoria della necessità. Dio è Colui al quale tutto è possibile e la fede è il fondamento della fiducia in Colui che può sempre trovare, per 61 l’uomo, una possibilità di salvezza: la fede non trova il fondamento nella necessità della natura divina. In questa prospettiva la qualifica di Dio come creatore del mondo diventa incomprensibile, e diventa indifferente affermarla o negarla. Jaspers qualifica la trascendenza dell’essere con gli attributi tradizionalmente attribuiti a Dio. Alla fine egli annulla la distanza tra la trascendenza e l’uomo, e quindi annulla la trascendenza come tale. L’unica cifra o segno della trascendenza è lo scacco che l’uomo subisce nel tentativo di raggiungere la trascendenza stessa. La trascendenza viene in realtà negata da ogni tentativo di renderla vicina e accessibile, pensandola coi termini tradizionali della divinità (Philosophia III, 3). 2. Dio e il mondo morale Possiamo distinguere le concezioni di Dio anche nel rapporto con la dimensione morale. Rarissime sono le dottrine che non conferiscono a Dio nessuna funzione in ordine al mondo morale. Esse sono forme di semi-ateismo. Un esempio è riscontrabile in Voltaire, peraltro ostile all’ateismo. A suo parere la divinità si disinteressa completamente della condotta degli uomini. La natura segue comunque il suo corso: “Ma se un montone andasse a dire ad un lupo: Tu manchi al bene morale, Dio ti punirà, il lupo gli risponderebbe: Io faccio il mio bene fisico e vi è l’apparenza che Dio non si curi troppo che io ti mangi o no” (Traité de métaphisique, 9). Tale punto di vista, condiviso anche da qualche altro autore illuminista, è molto raro nella storia del pensiero secondo la quale il rapporto tra Dio e l’ordine morale si modella in analogia a quello tra Dio e il mondo fisico. Possiamo distinguere tre concezioni fondamentali. a) Dio è il garante dell’ordine morale del mondo. L’ordine morale è indipendente da Dio, ma Egli concorre in modo più o meno efficace a mantenerlo o a realizzarlo, facendosene garante. Secondo Platone e Aristotele, mentre Dio è la causa dell’ordine naturale, non ha nessuna responsabilità nell’ordine morale che è affidato agli uomini, e si limita ad appoggiarlo e incoraggiarlo con proprie sanzioni. Nel mito di Er, la Parca Lachesi si rivolge così alle anime che stanno per scegliere un nuovo ciclo di vita: “La virtù non tollera padroni; ognuno ne parteciperà più o meno, a seconda che più o meno la onorerà. Ciascuno è imputabile della sua scelta: la divinità non è imputabile” (Repubblica X, 617e). In realtà il Demiurgo predispone ogni cosa “per non essere causa della futura malvagità dei singoli esseri” (Timeo, 42d). La virtù come il vizio, e dunque la totalità dell’ordine morale, rientra nella sfera di causalità degli esseri causati. Tuttavia chi è virtuoso è anche amico della divinità, è simile alla divinità stessa: “La divinità è per noi la misura di tutte le cose molto più di quanto lo può essere un uomo, come invece dicono ora” (Leggi, IV, 716c). Anche per Aristotele la divinità esplica la sua funzione soltanto nel mondo naturale e solo da questa funzione rimangono determinati i suoi attributi fondamentali (Motore Immobile, Causa prima, Pensiero di pensiero …). Tuttavia anche Aristotele ammette, conformemente alle credenze popolari, che “se gli dei si preoccupano in qualche misura delle faccende umane, 62 come sembra, è verosimile che si compiacciano che vi sia negli uomini qualcosa di eccellente e che abbia con essi la maggiore affinità, il che non può essere che l’intelligenza” (Etica Nicomachea, X, 9, 1179 a. 24). La caratteristica negativa di questa concezione è l’assenza della nozione di Provvidenza, cioè di un ordine razionale creato da Dio o che sia Dio stesso, in cui debbano trovare posto gli uomini e i loro comportamenti. La sua caratteristica positiva è che Dio è garante dell’ordine morale per quanto non stabilisca egli stesso le vie e i modi della realizzazione di esso. Queste caratteristiche si ritrovano nel mondo moderno presso i sostenitori della religione naturale, cioè di una religione senza rivelazione da parte di Dio e affidata alle sole forze della ragione. Grozio, per esempio, afferma che gli enunciati della religione naturale sono quattro: “Il primo è che Dio esiste ed è uno. Il secondo che Dio non è nessuna delle cose che si vedono ma è molto superiore ad esse. Il terzo è che le cose umane sono curate da Dio e giudicate con perfetta equità. Il quarto è che dio stesso è l’artefice di tutte le cose esterne” (De iure belli, II, 20, 45). In Kant e Rousseau trova la migliore espressione la credenza che nelle cose umane sia assente un ordine provvidenziale, pur non escludendo l’aiuto e la garanzia divina. Per Rousseau Dio interviene a far valere le leggi dell’ordine universale facendo in modo che coloro che in questa vita si comportano giustamente e sono infelici siano ricompensati nell’altra. È importante garantire l’ordine morale che diventa l’unico motivo ragionevole per credere all’immortalità dell’anima (Emilio, IV). Ordine morale e immortalità dell’anima nella modernità sono legati a doppia mandata: senza l’uno non si giustifica neanche l’altro. Per Kant l’esistenza di Dio è un postulato della ragion pratica perché solo Dio rende possibile quella unione necessaria di virtù e felicità in cui consiste il sommo bene, che è l’oggetto proprio della legge morale (Critica della Ragion Pratica, I, cap. 2, &5): “In questo modo la legge morale mediante il concetto del sommo bene conduce alla religione, cioè alla conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini; non come sanzioni, cioè decreti arbitrari e per se stessi accidentali di una volontà estranea, ma come leggi essenziali di ogni volontà libera per se stessa, che però devono essere considerati come comandamenti dell’Essere supremo, perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona) e nello stesso tempo onnipotente, possiamo sperare il sommo bene che la legge morale ci fa un dovere di porre come oggetto dei nostri sforzi, e quindi possiamo sperare di raggiungerlo mediante l’accordo con questa volontà perfetta”. Dio è per Kant 1 Creatore onnipotente del cielo e della terra, cioè, dal punto di vista morale, legislatore santo; 2.Conservatore del genere umano come suo benevolo reggitore e curatore morale 3. Custode delle sue proprie leggi, cioè giusto giudice. Il potere morale di Dio è così limitato a una garanzia che non determina in alcun modo l’azione degli uomini, e che in qualche modo è richiesta per la stessa autonomia di questa azione. 63 b) Dio come l’ordine morale del mondo. Questa concezione poggia sul concetto di Provvidenza: cioè sul concetto di un ordine razionale che comprende in sé non solo gli eventi del mondo ma anche le azioni umane, ordine il quale o è Dio stesso o è da Dio. Gli Stoici furono i primi a formulare il concetto di provvidenza: esso è sinonimo di destino e indica il governo razionale del mondo, cioè “la ragione secondo la quale le cose passate avvennero, le presenti avvengono, le future avverranno” (Stobeo, Ecloghe, I, 79). Gli Stoici identificarono questa ragione o destino con Dio stesso “presente nelle cose e nei fatti tutti e così adoperante tutte le cose secondo la loro natura all’economia del tutto” (Alessandro, De fato, 22). A partire da questa identificazione non dovrebbe nascere il problema della libertà umana: essa o dovrebbe essere identificata con la necessità stessa del disegno provvidenziale o negata come impossibile. L’azione dell’uomo non può che adeguarsi all’ordine razionale del tutto, perché l’uomo è una parte di questo tutto. E infatti gli Stoici riconoscevano la necessità dell’agire umano: solo Crisippo faceva intervenire come fattore concomitante l’assenso volontario dell’uomo, paragonandolo alla forma del cilindro che contribuisce a far rotolare il cilindro stesso sul piano inclinato (Cicerone, De fato, 41-43). Plotino riprende lo stesso concetto di provvidenza: “Da tutte le cose si forma un essere unico e una sola provvidenza: a cominciare dalle cose inferiori essa è dapprima il destino; in alto è soltanto provvidenza. Tutto, nel mondo intellegibile, è o ragione o, al di sopra della ragione, Intelligenza ed Anima pura. Tutto ciò che discende di là è provvidenza: cioè tutto ciò che è nell’Anima pura e tutto ciò che viene dall’Anima agli esseri animati” (Enneadi, III, 3,5). L’azione emanante di Dio coincide con la sua azione provvidenziale: gli esseri traggono da Dio non solo l’essere e la vita, ma anche l’ordine delle azioni in cui il loro essere e la loro vita si esplicano. Egli cerca di non ricondurre all’ordine provvidenziale il male attribuendolo ad una specie di aggiunta accidentale che alcuni esseri fanno all’ordine stesso della provvidenza. Per Plotino provvidenza e Dio si identificano, giacché “dal Principio che resta immobile in se stesso procedono gli esseri particolari come da una radice, che resta fissata in se stessa, proviene la pianta: è una fioritura multipla che mette capo alla divisione degli esseri ma in cui ciascuno porta l’immagine del Principio” (ibid., III, 3, 7). La negazione della libertà umana, o la sua interpretazione come necessità, è uno dei corollari di questa concezione. Giordano Bruno afferma che, per quanto le preghiere non possano influire sui decreti del destino, che è inesorabile, il destino stesso vuole che lo si preghi di fare ciò che ha stabilito di fare: “Ancora il fato vuole questo che, benché sappia il medesimo Giove che quello è immutabile, e che non possa essere altro che quel che deve essere e sarà, non manchi di incorrere per cotali mezzi il suo destino” (Opere italiane, I, 31). Spinoza nega che Dio sia causa libera nel senso che possa agire diversamente da come agisce: egli è libero solo nel senso che agisce “per le sole leggi della sua natura” (Ethica, I, 17). La nozione di provvidenza si identifica con la nozione di necessità, la necessità secondo la quale ogni cosa deriva dalla stessa natura di Dio, come unica e sola Causa perfetta e onnipotente (Ethica I, 33, scol. 2). Fichte ripropone la tesi spinoziana nello scritto del 1798 Sul fondamento della nostra fede nel governo divino del mondo che gli procurò l’accusa di ateismo. Ivi egli 64 identifica Dio col vivente e operante ordinamento morale, negando però che Egli fosse una particolare sostanza diversa da tale ordinamento. Tale identificazione prosegue come fondamento del Romanticismo. Scrive Hegel: “Il vero bene, la ragione divina e universale è anche potenza di realizzazione di sé medesima. Nella sua rappresentazione più concreta, questo bene, questa ragione è Dio … Ciò che la filosofia scorge ed insegna è che nessuna forza ha il sopravvento su quella del bene, cioè di Dio, in modo da impedirle di farsi valere: Dio prevale, e la storia del mondo non rappresenta altro che il piano della Provvidenza. Dio governa il mondo: il contenuto del suo governo, l’esecuzione del suo piano è la storia universale” (Philosophie der Geschichte, ed. Lasson, p. 55). Dio è la ragione che abita il mondo e tale ragione è la stessa realtà storica. Tale dottrina è stata ripresa e definita come dottrina della “Provvidenza immanente”. c) Dio come creatore dell’ordine morale. Tale concezione è caratterizzata dalla distinzione tra Dio e la sua azione provvidenziale: Dio, dunque, è causa libera dell’ordine morale. In secondo luogo, essa vuole salvare la libertà dell’uomo. Anche in questo caso si parte dalla nozione di provvidenza quale è stata elaborata dagli Stoici e dai Neoplatonici. Boezio la distingue da quella di destino: “La provvidenza è la stessa ragione divina costituita come principio sovrano di tutto, che ordina ogni cosa, mentre il destino è l’ordine che regola le cose nel loro movimento e per la via del quale la provvidenza le connette dando a ciascuna il posto che le compete” (De Consolatione Philosophiae, IV, 6, 10).Questa distinzione non è una separazione: in ultima analisi provvidenza e destino vengono a coincidere perché l’uno è l’unità dell’ordine visto dall’intelligenza divina, l’altro è questo ordine stesso in quanto si realizza nel tempo. L’uno e l’altro danno origine al problema del libero arbitrio. Boezio cerca di risolverlo affermando che le azioni umane sono incluse, proprio nella loro libertà, nell’ordine provvidenziale (ibid., V, 6). S. Tommaso ripropone la Provvidenza come la sollecitudine paterna e amorosa con cui Dio segue le sorti delle singole creature e di tutto l’universo. Egli presta loro una assistenza costante perché possano raggiungere quella piena realizzazione del proprio essere (felicità) cui sono chiamate: “Siccome Dio è causa delle cose mediante l’intelletto e quindi la ragione di ogni sua opera preesiste necessariamente in Lui, ne viene di necessità che l’ordinamento delle cose al loro fine preesiste nella mente divina. Ora, la Provvidenza consiste precisamente in questo predisporre gli esseri al loro fine” (Summa Theologiae, I, q. 22, a. 1). La provvidenza divina si affianca alla creazione e la completa. Mentre la creazione porta all’essere tutto ciò che ne è privo, la provvidenza interviene per dare un ordine alle creature e per conservarlo. La provvidenza non indica soltanto la cooperazione, il concorso con cui Dio mantiene nell’essere le proprie creature, ma implica anche la ragione di scopo, il progetto: è il concorso di Dio teso a realizzare quel progetto che Egli stesso ha predisposto sia per le singole creature, sia per l’universo intero. Tommaso incontra il concetto di provvidenza innanzitutto come verità di fede che Dio rivela di sé attraverso la storia della salvezza, ma poi esso ha assunto anche un solido e robusto spessore razionale grazie alla assidua e acuta speculazione dei Padri della Chiesa e degli Scolastici. Così la provvidenza è diventata tema 65 costante della filosofia cristiana (Clemente Alessandrino, Origene, Gregorio Nisseno, Ambrogio, Agostino, Boezio, S. Bernardo, S. Bonaventura, Alberto Magno). Il Dottore Angelico affronta in particolare le seguenti questioni: a. se in Dio possa esserci provvidenza, b. se tutte le cose sono soggette alla divina provvidenza, c. se la divina provvidenza si occupa immediatamente di tutte le cose, d. se la provvidenza rende necessario tutto quello a cui provvede. Riguardo la prima questione, Dio, essendo creatore, è anche provvidente. Se Egli è causa di tutte le cose mediante il suo intelletto, è necessario che preesista nella sua mente la ragione dell’ordine delle cose verso il fine. La provvidenza comprende dunque due aspetti: la ragione dell’ordine, o provvidenza propriamente detta, e l’esecuzione dell’ordine che è il governo delle cose. Dio provvede a tutte le cose senza distinzione concedendo a ciascuna quella assistenza che è conforme alla sua natura: “Dio provvede immediatamente a tutto, perché nella sua mente ha l’idea di tutti gli esseri, anche dei più piccoli, e a tutte le cause che ha prestabilito per produrre gli effetti ha dato la capacità di produrre quei dati effetti” (I, q. 22, a. 3). Il rapporto di provvidenza è coestensivo al rapporto di causalità: “La causalità di Dio, il quale è l’agente primo, si estende a tutti gli esseri non solo quanto ai principi della specie, ma anche ai principi individuali, sia delle cose incorruttibili, sia delle cose corruttibili. Quindi è necessario che tutto ciò che in qualsiasi modo ha l’essere, sia da Dio ordinato al suo fine” (ibid., a. 2). Affermata la provvidenza divina, dal mondo non scompaiono il contingente e il libero, il fortuito e il casuale. Il disegno stesso di Dio prevede che alcuni effetti siano fortuiti rispetto le loro cause prossime. La provvidenza divina con l’efficacia della propria causalità fa essere nelle cose anche il fortuito e il casuale. Anche quest’ultimo è un modo di essere, che deriva dalla fonte prima dell’essere. Il male non mette in discussione l’esistenza dell’azione provvidenziale di Dio, perché esso non è un modo di essere, ma privazione di entità e di ordine al fine. Può entrare nei disegni della provvidenza universale in vista di una somma maggiore di bene nel creato. Pur essendo disordine, è fatto servire a un ordine superiore: “Sebbene il male, in quanto esce dall’agente proprio, sia cosa disordinata, e sotto questo aspetto si definisca come privazione di ordine, ossia disordine, nulla impedisce che da un superiore agente sia introdotto in un ordine; ed è così che cade sotto la provvidenza” (De veritate, q. 5, a. 4). Neanche la libertà umana costituisce un argomento contro la provvidenza: quanto all’essere essa dipende totalmente da Dio, che assiste l’uomo senza far violenza alla propria libertà. Proprio della provvidenza divina è il governo di tutte le creature secondo la loro natura conforme al disegno preconcepito. Ci sono nell’universo effetti necessari, perché Dio ha voluto e ha posto nell’essere cause necessarie, e ci sono effetti liberi perché Dio ha voluto e posto nell’essere cause che operano liberamente: “Effetto della provvidenza divina non è soltanto che una cosa avvenga in un modo qualsiasi; ma che avvenga in modo contingente o necessario. Perciò quello che la divina provvidenza dispone che avvenga infallibilmente e necessariamente, avviene infallibilmente e necessariamente; quello che il piano della provvidenza divina esige che avvenga in modo contingente, avviene in modo contingente” (S. Th., I, q. 22, a. 4, ad 1). Anche se l’ordine 66 della provvidenza è certo e infallibile, perché certezza e infallibilità sono proprie dell’essere di Dio, esso non intacca minimamente le condizioni proprie e le qualifiche specifiche delle varie creature che possono essere sia necessarie sia contingenti (libere). Le cose cadono sotto l’ordine della provvidenza secondo il loro essere sostanziale e secondo il proprio modo di essere. Contingente e necessario sono due modi di essere conseguenti all’essere creato e le cose cadono sotto l’ordine della provvidenza sia secondo l’uno che l’altro modo di essere. Per questo l’ordine della provvidenza è certo e immobile. Nel tempo questa si è presentata sempre come una soluzione non priva di difficoltà nel coniugare la perfezione di un disegno universale affidata alla causalità universale della scienza e della volontà di Dio e l’arbitrarietà di volontà finite, la persistenza, anche se in minima parte, del comportamento imprevedibile di un fattore arbitrario. Ciò renderà difficile soprattutto la riflessione sulla questione del male: tra l’insufficienza e una nuova riproposizione delle tesi tradizionali per inquadrare in un determinismo non necessitante la volontà umana, nel contesto di un ordine provvidenziale. Tale concezione di Dio come creatore dell’ordine morale porta con sé il concetto di un ordine provvidenziale, desunto dall’identificazione di Dio col mondo o col suo ordine, il concetto di Dio come sostanza necessaria, di origine araba, e il concetto di Dio come causa libera, tratto dall’humus ebraico-cristiano. L’armonizzazione di questi tre concetti non è priva di difficoltà. 3. Dio e la divinità Le concezioni di Dio possono essere distinte anche in base al rapporto di Dio con se stesso o con la divinità. A seconda che Dio si identifichi o si distingua dalla divinità, abbiamo le due alternative fondamentali del politeismo e del monoteismo. Se Dio si distingue dalla divinità, la relazione è simile a quella tra l’uomo e l’umanità: come ci sono molti uomini, ci possono essere molti dei. Se invece Dio si identifica con la divinità, c’è un solo Dio come c’è una sola divinità. a. Il politeismo. Sono politeistiche tutte le dottrine che ammettono una distinzione tra la divinità e Dio giacché la divinità non può essere partecipata da un numero indefinito di enti. Per Platone nel Timeo Il Demiurgo delega ad altri dei, da lui stesso creati, parte delle sue funzioni creatrici (Timeo 40d) e nelle Leggi l’espressione “Dio” designa la divinità in generale che trova realtà in una molteplicità di dei. Oltre gli dei, vengono riconosciuti altri esseri divini, che sono i demoni: “Dopo gli dei, l’uomo intelligente onora i demoni, dopo di loro gli eroi” (Leggi, 717b). Secondo Aristotele, la stessa dimostrazione che vale per l’esistenza del Primo Motore vale anche per l’esistenza di tanti motori quanti sono i movimenti delle sfere celesti. Secondo Eudosso il numero delle sfere era di 47, secondo Callippo era di 55, egli ammette 47 o 55 divinità che, per quanto subordinate al Primo Motore, hanno lo stesso suo rango. D’altronde egli parla costantemente di “dei” e, alludendo alla convinzione popolare che il divino abbraccia l’intera natura, ritiene uno degli insegnamenti più preziosi che la tradizione ha salvato il fatto che “le sostanze prime sono 67 tradizionalmente ritenute dei” (Metafisica, XII, 8, 1074 a. 38). La sostanza divina è partecipata da molte divinità: in ciò la credenza popolare e la filosofia concordano. Conosciamo di Plotino la dottrina dell’Uno: ma l’unità di Dio non va confusa con l’unicità di Dio. Dio è l’Uno perché è l’unità del mondo e la sorgente dalla quale scaturiscono o emanano tutti gli ordini di realtà. Ma proprio per questo non è solo: l’unità non elimina la molteplicità ma la raccoglie in se stessa. La molteplicità degli dei è anzi per Plotino la manifestazione della potenza divina: “Non restringere la divinità ad un unico essere, farla vedere così molteplice come essa si manifesta, ecco ciò che significa conoscere la potenza della divinità, capace, pur restando quella che è, di creare una molteplicità di dei che si connettono con essa, esistono per essa e vengono da essa” (Enneadi II, 9,9). La molteplicità di dei in cui la divinità si moltiplica e si espande, senza rimanere veramente divisa, non esclude una gerarchia e la funzione preminente di uno di essi (il Demiurgo o il Motore di Platone, il Primo Motore di Aristotele, il Bene di Plotino); ma il riconoscimento della gerarchia e di un capo della gerarchia non significa minimamente la coincidenza di divinità e Dio e non è quindi un monoteismo. Anche dopo l’elaborazione cristiana del monoteismo alcune forme di politeismo si riproporranno: sia in dottrine che riproducono lo schema neoplatonico, sia nelle interpretazioni trinitarie meno riuscite. Per certi versi, ogni forma di panteismo, antico o moderno, tende ad essere un politeismo: giacché tende a diffondere il carattere della divinità su un certo numero di enti, indebolendo nello stesso tempo la separazione tra questi enti e mantenendo la distinzione tra divinità e Dio. Per Hegel le istituzioni storiche nelle quali si realizza la ragione autocosciente, e in primo luogo lo Stato, sono vere e proprie divinità: “Lo Stato è la volontà divina in quanto attuale spirito esplicantesi a forma reale e a organizzazione di un mondo” (Filosofia del diritto, & 270). Bergson, Alexander, Withehead affidano al mondo il potere di realizzare la divinità: essa, al momento della realizzazione, si concreterà in una molteplicità di enti divini. Da un altro punto di vista Hume aveva dato una valutazione positiva del politeismo: esso, ammettendo naturalmente che anche altri dei di altre sette o nazioni partecipano della divinità, rende compatibili le varie deità e rende impossibile l’intolleranza; sia perché esso è più ragionevole in quanto consiste “solo di una moltitudine di storie le quali, per quanto prive di fondamento, non implicano alcuna assurdità espressa e contraddizione dimostrativa” (La storia naturale della religione, sez. XI e XII, in Essays, II, 336. 352). Renouvier difendeva esplicitamente il politeismo come l’unico correttivo del fanatismo religioso e dell’assolutismo filosofico: “Il progresso della vita e della virtù popola l’universo di persone divine e saremo fedeli a un sentimento religioso antico e spontaneo quando chiameremo dei quelle tra loro di cui crediamo di poter onorare la natura e benedire le opere” (Psicologia razionale, 1859, cap. XXV, ed. 1912, p. 306). Questo politeismo non è inconciliabile con l’unità di Dio perché il Dio uno sarebbe allora la prima delle persone superumane. b. Il monoteismo. Esso è caratterizzato non dalla presenza di una gerarchia degli esseri e di un capo di questa gerarchia, ma dal riconoscimento che la divinità è posseduta solo da Dio 68 e che Dio e la divinità coincidono. Esso compare in Filone di Alessandria il quale afferma che “Dio è solitario e uno in se stesso e niente è simile a Dio … egli è nell’ordine dell’Uno e della Monade o piuttosto è la monade nell’ordine del Dio uno: giacché ogni numero è più recente del mondo e così il tempo, ma Dio è l’anziano e il Demiurgo del mondo” (Legis allegoria, II, 1-3). Nelle discussioni trinitarie dell’età patristica e della Scolastica l’identità di Dio e della divinità fu il criterio dirimente per riconoscere e combattere quelle interpretazioni che inclinavano verso il triteismo. Certamente la Trinità è presentata costantemente come un mistero che la ragione può appena sfiorare. Ma ciò che è importante rilevare è che l’unità divina è ritenuta intaccata solo quando, con la distinzione tra Dio e la divinità, si ammette, implicitamente o esplicitamente, la partecipazione della divinità stessa da parte di due o più esseri individualmente distinti. S. Tommaso così ricapitola una lunga tradizione: “E’ evidente che ciò per cui qualcosa di singolare è questo singolare in nessun modo è comunicabile ad altre cose. Per esempio, ciò per cui Socrate è uomo, si può comunicare a molti altri esseri; ma ciò per cui egli è questo uomo si può comunicare a questo soltanto. Se dunque Socrate fosse uomo in base a ciò per cui è questo uomo, come non vi può essere più di un Socrate, così non vi potrebbe essere più di un uomo. Ma questo è proprio il caso di Dio, giacché Dio è la sua stessa natura sicché esso, nello stesso rispetto, è Dio, e questo Dio; è impossibile pertanto che vi sia più di un Dio” (Summa Theologiae, I, q. 11, a. 3). Questo è il motivo per cui i teologi medievali insistono sulla semplicità della natura divina: tale semplicità significa infatti nient’altro che l’incomunicabilità di quella natura e pertanto l’impossibilità che essa sia partecipata da più di un Dio. Dopo S. Tommaso la decadenza della speculazione teologica ha reso i filosofi meno sensibili alla loro precisione, sicché molto spesso le qualifiche di politeismo e monoteismo vengono adoperate a caso e si limita il politeismo ad una manifestazione della mentalità primitiva, laddove esso è, come si è visto, un’alternativa filosofica che ha per sé l’intera tradizione classica e molti dei tentativi moderni di innovare il concetto di Dio. 4. La Rivelazione di Dio Un altro modo di distinguere le concezioni di Dio parte dal modo in cui l’uomo trova o meno accesso alla sua conoscenza. Su questo aspetto verte la distinzione e la polemica tra teismo e deismo: esse si differenziano per il motivo che una attribuisce a Dio l’iniziativa di farsi conoscere mentre il secondo attribuisce all’uomo la possibilità razionale di conoscerlo. Questi due punti di vista possono trovarsi congiunti nella prospettiva che vede la rivelazione di Dio come conclusione e compimento dello sforzo naturale dell’uomo di conoscere Dio. a. Il deismo del ‘700. Esso ha il suo precedente storico nella dottrina della religione naturale del ‘500-‘600 (Tommaso Moro, Herbert di Cherbury, Locke), che contrappone alla rivelazione storica quella naturale che avviene attraverso l’opera della ragione; e giunge, con Mattew Tindal, a vedere nel Vangelo soltanto “una ripubblicazione della legge di 69 natura” (Il cristianesimo vecchio come la creazione, 1730). Ovviamente una divinità che si rivela alla ragione non ha né può avere che caratteri razionali; perciò il deismo restringe gli attributi della divinità a quelli che possono essere determinati dalla ragione a partire dal rapporto tra Dio e il mondo. Di fronte ad esso, il teismo, come dice Kant, “crede in un Dio vivente, cioè in un Dio i cui attributi possono essere determinati secondo l’analogia con la natura e sul fondamento della Rivelazione” (Critica della Ragion Pura, Dialettica, cap. III, sez. VII). Occorre tuttavia rilevare che nella terminologia filosofica comparsa dopo il Romanticismo e che è adoperata soprattutto dal panteismo, la rivelazione di Dio non è un fatto storico, ma la progressiva manifestazione di Dio nella realtà naturale e storica del mondo. Questo significato domina, oltre che le filosofie di Schelling ed Hegel, buona parte delle filosofie dell’800 che obbediscono alla stessa ispirazione. Rosmini pone a fondamento della filosofia, e in generale del sapere umano, l’idea dell’essere, che è la rivelazione diretta, alla mente dell’uomo, dell’attributo fondamentale di Dio (Nuovo saggio, & 1055). Gioberti analogamente considera come base della conoscenza l’intuito che è la rivelazione immediata di Dio all’uomo (Introduzione, II, p. 46,1). Questa idea circola in dottrine disparate e si può da ultima vedere presente anche in quelle che accentuano fino al limite la trascendenza di Dio e pertanto vedono la sua sola rivelazione possibile nella sua irraggiungibilità. Per Jaspers lo scacco inevitabile dell’uomo, nel suo tentativo di raggiungere la Trascendenza, diventa l’unica possibile rivelazione, la cifra della Trascendenza stessa (Filosofia III, p. 134). b. Il teismo è espresso in tutta chiarezza in Pascal: “E’ il cuore che sente Dio, e non la ragione” (Pensées, 278). E aggiunge: “La fede è un dono di Dio” (ibid., 279). L’autentica Rivelazione di Dio al cuore dell’uomo è esclusivamente un’iniziativa divina, un’iniziativa che l’uomo può bensì favorire, domando le proprie passioni, ma non sollecitare o provocare. c. La posizione intermedia è instaurata dalla Patristica, che ha considerato la rivelazione cristiana come compimento della filosofia greca. Quest’ultima, come compimento della ragione, cioè del Logos che è il primogenito di Dio, contiene verità o germi di verità che il cristianesimo porta allo sviluppo compiuto. Il principio che la Rivelazione non annulla o rende inutile la ragione, dominò tutta la filosofia Scolastica e fu messo in dubbio solo dalle ultime manifestazioni di essa nel sec. XIV. Nel Rinascimento esso viene invertito: la rivelazione non giunge da ultima a compiere l’opera della ragione, ma la ispira e la sorregge dall’inizio: la ragione non fa che trasmettere e illustrare la verità che Dio ha rivelato in tempi remoti. In genere l’opera della ragione e della rivelazione collaborano insieme e non sono antitetiche. Un’attenzione particolare merita la riflessione su Dio nella seconda metà del ‘900. a. Un primo indirizzo risente dell’attacco neopositivistico alla metafisica e dagli sviluppi del pensiero epistemologico. Carnap ha contestato radicalmente il termine Dio, ritenendo che esso, come la maggior parte dei termini specificatamente metafisici (l’Idea, l’Assoluto, 70 l’Incondizionato) sia senza significato. Tale parola ha avuto un senso in una fase storica passata, ossia in quella contrassegnata dal pensiero mitico, quando si pensavano ancora gli dei come nature fisiche, esistenti sull’Olimpo, in Cielo o nel mondo sotterraneo. Invece, dal momento in cui la metafisica ha sottratto Dio da ogni rapporto con la realtà fisica, essa ha perduto il suo significato originario, senza riceverne un altro (Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, 1932-33, tr. it. in AA.VV., Il neoempirismo, Utet, Torino 1969; 512-513). Ayer afferma a sua volta: “Non vi possono essere verità trascendenti di fede religiosa, poiché gli enunciati cui il teista ricorre per esprimere tali verità non hanno significato letterale” (Linguaggio, verità e logica, 1936, tr. it., Feltrinelli, Milano 1961, p. 154). Tale ateismo semantico si distingue sia dall’ateismo tradizionale, sia dall’agnosticismo corrente: “Perché, se l’asserzione dell’esistenza di Dio è un non senso, allora l’asserzione ateistica della inesistenza di Dio è altrettanto un non senso … Non neghiamo che <<C’è un Dio trascendente>> e <<non c’è un Dio trascendente>> esprimano due proposizioni di cui una sia effettivamente vera e l’altra falsa, ma non abbiamo mezzi per decidere quale di esse sia la vera” (ibid., 152). Rimane valido, a proposito di Dio, il monito del primo Wittgenstein: “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” (Tractatus logico-philosophicus, 7: tr. it., Einaudi, Torino 1995, 109). A differenza di Carnap e di Ayer, Popper ritiene che il discorso metafisico sia dotato di senso. Ma la sua posizione verso la teologia non è più favorevole. Essa non appartiene al campo delle proposizioni falsificabili, cioè smentibili in linea di diritto e di fatto, perciò è destituita di ogni valore scientifico e conoscitivo. Essa, cercando di salvare ad ogni costo l’idea di Dio, riesce a mantenersi in vita solo in virtù di continue strategie di immunizzazione. A. Flew illustra questa tesi con un racconto tratto da J. Wisdom: “Una volta due esploratori giunsero in una radura sulla giungla. Nella radura crescevano molti fiori e molte erbacce. Uno degli esploratori dice: <<Ci deve essere un giardiniere che ha cura di questa radura>>. L’altro dissente: <<Non c’è nessun giardiniere>>. Allora alzano le tende e organizzano turni di sorveglianza. Non si vede mai nessun giardiniere. <<Ma forse si tratta di un giardiniere invisibile>>. Drizzano allora un recinto di filo spinato, vi fanno passare la corrente elettrica, perlustrano il recinto con i segugi. Si ricordano, infatti, che L’uomo invisibile di H. G. Wels si poteva odorare e toccare, anche se non si poteva vedere. Ma nessuno grida mai di aver ricevuto la scarica elettrica. Nessun movimento del reticolato rivela qualcuno che tenta di oltrepassarlo. I segugi non abbaiano mai. Eppure il credente non è ancora convinto. <<C’è un giardiniere invisibile, impalpabile, insensibile alle scariche elettriche, un giardiniere che non ha odore e non fa rumore, un giardiniere che viene di nascosto per aver cura del giardino che ama>>. Lo scettico alla fine dispera: <<Ma che cosa rimane della tua asserzione originaria? Vuoi dirmi in che cosa il tuo giardiniere invisibile, impalpabile, eternamente sfuggente differisce da un giardiniere immaginario o anche da un giardiniere inesistente?>>” (Teologia e confutazione, in AA.VV., Nuovi saggi di teologia filosofica, 1955, 1963; tr. it., Dehoniane, Bologna 1973, 132). Il significato di tale parabola atea è chiaro: se l’affermazione dell’esistenza di Dio (simboleggiata dall’invisibile giardiniere) viene sottratta 71 a qualsiasi controllo empirico non le si può attribuire alcun senso e Dio muore davvero, come dice Flew, “della morte di mille qualificazioni”. b. In un noto passo della Gaia Scienza Nietzsche proclama la morte di Dio, ossia il tramonto epocale di tutte le certezze metafisiche, morali e religiose escogitate dall’umanità attraverso i secoli per esorcizzare il fluire caotico delle cose e per dare un ordine rassicurante alla vita: “Avete sentito di quell’uomo folle che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: <<Cerco Dio! Cerco Dio!>>? E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa: <<Si è forse perduto?>> disse uno. <<Si è smarrito come un bambino?>>, fece un altro. <<Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?>>, gridavano e ridevano in una gran confusione. L’uomo folle balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: “<<Dove se n’è andato Dio?>>, gridò, <<ve lo voglio dire! L’abbiamo ucciso – voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto? Come abbiamo potuto vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci ha dato la spugna per strofinare via l’intero orizzonte? Che mai facemmo per sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? – Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo ancora nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dei si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi si è dissanguato sotto i nostri coltelli – chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo lavarci? Quali riti espiatori, quali sacre rappresentazioni dovremo inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo anche noi diventare dei, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande – e tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, a una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!>>. A questo punto l’uomo folle tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e si guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. <<Vengo troppo presto>>, proseguì, <<non è ancora il mio tempo>>. Questo enorme evento è ancora sulla strada e sta facendo il suo cammino – non è ancora arrivato alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, la luce delle stelle vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano viste e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana dagli uomini delle stelle più lontane – eppure son loro che l’hanno compiuta!>> - Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem Aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: <<Che altro sono ancora queste 72 chiese, se non le fosse o i sepolcri di Dio?” (af. 125, in Opere, ed. Colli-Montinari, Adelphi, Milano 1965, n.e. riveduta 1991, vol. V, t. 2, pp. 150-152). Nietzsche fa coincidere la morte di Dio con la nascita del superuomo. Solo chi ha avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà crudele del mondo è ormai maturo per varcare l’abisso che divide l’uomo dall’oltreuomo. Ne segue che la morte di Dio costituisce sì un “trauma”, ma solo in relazione ad un “uomo non ancora superuomo”. Viceversa, il superuomo, se ha dietro di sé, come condizione necessaria del suo essere, la morte di Dio e la vertigine da essa provocata, ha davanti a sé il “mare aperto” delle possibilità connesse ad una libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data: “noi filosofi e <<spiriti liberi>>, alla notizia che <<il vecchio Dio è morto>>, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presagio, di attesa – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è mai stato un mare così <<aperto>>” (af. 343, tr. it. cit., 240). Dalla profezia di Nietzsche, scorgendo nel tramonto degli assoluti metafisici ed assiologici l’evento centrale e onnipervadente della modernità, le varie correnti dell’ateismo novecentesco (esistenzialistiche, marxiste …) hanno ritenuto di dover annunciare anch’esse, ognuna a suo modo, la morte inequivocabile di Dio e la mondanizzazione totale dell’esistenza: “Vedi tu questo vuoto sulle nostre teste? Questo vuoto è Dio. Vedi l’apertura nella porta? Io ti dico: essa è Dio. Vedi questo buco in terra? Il silenzio è Dio. L’assenza è Dio, la solitudine dell’uomo è Dio … Non più cielo! Non più inferno! Nient’altro che la terra” (SARTRE, Il diavolo e il buon diavolo, Paris 1951, 267-268). Negli anni sessanta, in seguito ad un processo di de-sostanzializzazione del divino, la formula nietzschana è divenuta l’insegna di un modo di fare teologia – la cosiddetta <<teologia della morte di Dio>> - che, paradossalmente, non si occupa più di Dio, ma piuttosto della sua assenza. E ciò in vista di una rinnovata prassi dell’amore in grado di permettere all’uomo di essere totalmente uomo e alla storia di essere integralmente umana (W. HAMILTON, The new Essence of Christianity, 1961; Th. ALTIZER, The Gospel of Christian Atheism, 1966). Di “morte di Dio” hanno anche parlato gli autori che si ispirano ad Auschwitz, scorgendo, nei suoi “campi della morte”, il simbolo più drammatico della situazione dell’uomo orfano di Dio. In uno dei libri-testimonianza più significativi, E. Wiesel, raccontando dell’impiccagione di tre prigionieri, fra cui un bambino dagli occhi tristi, scrive: “Dov’è dunque Dio? … Dov’è? Eccolo: è appeso lì a quella forca” (La notte, tr. it. Giuntina, Firenze 1980, pp. 66-67). L’idea di un Dio morente sulla forca di Auschwitz sta anche alla base del messianismo deluso di R. Rubenstein: “l’escatologia è una malattia, con la quale l’uomo dissimula a se stesso il volto tragico e in definitiva disperato del suo fato. C’è un solo messia che ci redime dall’ironia, dal lavoro e dalle angustie dell’esistenza umana. Egli verrà sicuramente. Ma egli è l’Angelo della morte” (After Auschwitz, Bobbs-Merrill, New York 1966, p.225). E già prima, in uno dei documenti più espressivi della cosiddetta letteratura 73 delle macerie (che aveva come sottotitolo <<dramma che nessun teatro vuole rappresentare e nessun pubblico vuole vedere>>) W. Borchet, descrivendo l’esperienza angosciante del silenzio di Dio, aveva parlato di un “Dio nel quale nessuno più crede” (Draussen vor der Tur, 1947, Reimbek 1973, pp. 41-43). Da ciò la tesi di Adorno, ripresa da Jonas, secondo cui “nessuna parola risuonante dall’alto, neppure teologica, ha un suo diritto d’essere immodificata dopo Auschwitz” (Dialettica negativa, 1966, tr. it., Einaudi, Torino 1970, p. 332). Secondo Heidegger l’ontoteologia occidentale sorge sullo sfondo di un originario oblio dell’essere (concepito come ni-ente di ogni ente) e mette capo all’immagine di Dio come il più essente tra gli essenti, ovvero alla rappresentazione dell’Assoluto come di una astratta ratio del mondo – una causa sui – imparentata con il pensiero calcolante della tecnica. A questo Dio “l’uomo non può né rivolgere preghiere né offrire sacrifici … davanti alla causa sui l’uomo non può ne cadere in ginocchio pieno di reverenza, né produrre musica e danzare. Così, il pensiero privo di un Dio, il pensiero che deve fare a meno del Dio della filosofia, del Dio come causa sui, è forse il più vicino al divino” (Identità e differenza, 1957, tr. it., <<aut-aut>>, n.187-188, 1982, pp. 35-36). Con la denuncia della sostanza irreligiosa della metafisica e con la distinzione tra il Dio filosofico e il Dio divino, Heidegger, indipendentemente dal ruolo effettivo che tali nozioni rivestono all’interno del suo pensiero – che sul problema di Dio è rimasto piuttosto aperto – ha contribuito ad avvalorare l’ipotesi, presenta in ampi settori della cultura novecentesca, che Dio non sia come lo si è filosoficamente rappresentato lungo i secoli (ossia attraverso i parametri concettuali dell’ontologia greca e medievale). Alla luce di queste prese di posizione, la teologia filosofica, cioè l’indagine razionale su Dio e sulla sua essenza nascosta, è apparsa radicalmente impossibile, o perché destituita di qualsiasi valore cognitivo e linguistico, o perché priva di oggetto reale, o perché fondata su di un equivoco metafisico derivante da una ipostatizzazione ontica del divino. Diversi filoni della teologia evangelica del ‘900 hanno preso le mosse da tale impostazione, ritenendo che l’unica via di accesso a Dio sia la fede. A Fichte, il quale aveva affermato che “soltanto nella suprema fatica del pensiero si manifesta Dio” (Die Answeisungzum seligen Leben, 1806, tr. it., Introduzione alla vita beata, Lanciano 1913, p. 86), Barth oppone che la ragione umana è di per se stessa “cieca nei confronti della verità di Dio” (Nein! Antwort an Emil Brunner, Minchen 1934, p. 34) e Bultmann che “ogni discorso umano su Dio, condotto al di fuori della fede, non porta a Dio, bensì al diavolo” (Glauben und Verstehen in Gesammelte Aufsatze, Bd I, Tubingen 1933, p. 303). Di conseguenza i teologi (Tillich, Rahner, Pannemberg …) e i filosofi che, a discapito di ogni proclamazione di ateismo semantico e di irrazionalismo fideistico, hanno continuato a credere in una qualche forma di teologia filosofica o di “filosofia di Dio”, si sono trovati di fronte alla legittimità di dover legittimare le loro ricerche mediante un confronto critico con l’epistemologia, l’ateismo e l’heideggerismo. Tale confronto si è incarnato nell’imperativo di “parlare di Dio oltre Dio”, cioè in maniera alternativa rispetto a una bi millenaria tradizione filosofica e teologica incentrata su categorie vetero-metafisiche come “causa ordinante”, “causa creante”, 74 “causa immanente” etc. In particolare, contro le strettoie del verificazionismo e del falsificazionismo, si è affermato che il discorso filosofico su Dio, concepito come un gioco linguistico significante, dotato di una specifica portata cognitiva (e non puramente come pratico- emotiva, secondo la tesi di Hare, Ramsey, van Buren), possiede delle peculiari modalità di controllo dei propri asserti, i quali non vengono elaborati nel vuoto, ma in rapporto a una realtà (di cui Dio costituisce l’ipotesi esplicativa) che può confermarli o smentirli, sia pure in un modo certo e definitivo. Contro le varie forme di ateismo, si è affermato che la presunta “morte di Dio” coincide, di fatto, con la morte delle rappresentazioni tradizionali di Dio e con l’avvento di nuove maniere – postmetafisiche, postnichilistiche, postsessiste etc. – di rapportarsi all’Assoluto. Maniere che partono dal presupposto del carattere inevitabilmente storico e locale, cioè prospettico e fallibile, del discorso umano su Dio, il quale si concretizza in una pluralità insopprimibile di voci, nessuna delle quali, in omaggio al principio postmoderno della “priorità della democrazia sulla teologia” può pretendere di azzerare le altre. Contro Heidegger si è affermato che l’essere acquista un senso soltanto in riferimento a Dio (e non viceversa) in quanto Dio non è un ente, ma l’essere stesso. La necessità di “pensare Dio altrimenti” si è concretizzata sia nelle nuove teologie, ossia in quelle correnti teologiche che hanno perseguito l’ideale di un “parlare credibile di Dio”, che tenga conto delle inquietudini e dei quadri mentali dell’uomo contemporaneo, sia in nuovi modelli filosofici che hanno affrontato il problema di Dio dal punto di vista dell’Altro, dell’ingiustizia del mondo, del mistero del male, dell’evento Auschwitz, della postmodernità, della differenza sessuale. In rapporto all’Altro, Levinas parte dal concetto di una radicale trascendenza dell’Assoluto e sostiene che Dio, inteso non come l’essere sommo dell’ontoteologia, ma come l’inoggettivabile volto di tutti i volti, non si manifesta in qualche Gelassenheit (calma, tranquillità) di tipo mistico-quietistico, ma nella concretude della relazione etica fra il Moi e l’Autre: “La dimensione del divino si apre a partire dal volto umano … Non può esserci alcuna conoscenza di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini” (Totalità e Infinito, 1961, tr. it. Jaca Book, Milano 1980, pp. 73. 76-77). Questa idea di una divinità che, anziché venire tematizzata, richiede di essere testimoniata, vien fatta coincidere con l’insegnamento più alto della Bibbia, che il nostro autore rilegge in termini di Kerigma etico: “Mosè e i profeti non si dan pena dell’immortalità dell’anima, ma del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero” (Difficile libertà, 1963, 1976, tr. it. parz., La Scuola, Brescia 1986, p. 76). In rapporto all’ingiustizia del mondo, l’ultimo Horkheimer afferma che Dio non è una certezza, ma una speranza, in quanto si identifica con la nostalgia e il desiderio (Sehnsucht) che, nonostante tutta la disarmonia che caratterizza il mondo “non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola” e che “l’assassino possa trionfare sulla vittima” (La nostalgia del totalmente altro, 1970, tr. it. Queriniana, Brescia 1972, 74-75). Tale 75 speranza deve rimanere tale, poiché se Dio, inteso come dogma positivo e oggetto di sapere, ha un effetto di separazione, inteso come nostalgia, unisce e affratella. Dal 1975 al 1985 Luigi Pareyson passa dall’ontologia dell’inesauribile all’ontologia della libertà. La filosofia logico – razionale ha manifestato la sua insufficienza ad affrontare i problemi esistenziali della libertà, del male e di Dio, negandone di fatto la realtà. Egli filosofa a partire dalla sua opzione esistenziale per il cristianesimo considerato come “fatto eterno” e assumendo la meditazione schellinghiana sul carattere tautegorico del simbolo: il simbolo esprime una tensione dialettica tra fisicità e trascendenza, tra presenza e ulteriorità, tra identità e alterità. Il pensiero filosofico è chiamato ad uscire da sé per trasformarsi in ermeneutica del linguaggio simbolico. I saggi su Dostoevskij costringono Pareyson a prendere sul serio la realtà positiva del male: esso non può essere ricondotto solo a semplice ignoranza o fragilità umane, o a ridimensionamento dell’essere e del bene. Esso è positiva negazione, ribellione, rifiuto, rivolta, nulla attivo, forza travolgente e distruttiva. Prendendo poi in considerazione l’esperienza della libertà, prima di tutto risalta il suo carattere illimitato e dialettico. Nulla precede la libertà, che è inizio a se stessa. Per l’altro verso ha un carattere dialettico: non può scegliere il bene se non avendo presente anche la possibilità del male, e viceversa. Ciò fa sì che nella storia dell’uomo il bene è sempre mescolato con il male, le buone intenzioni intrecciate con le cattive. Nell’esperienza cristiana di Dio il male rivela tutto il suo carattere misterioso e profondo e la libertà acquista un peso decisivo e tragico. Proprio a partire dallo scandalo del dolore innocente, nel saggio La sofferenza inutile in Dostoevskij, del 1982, Pareyson nota come l’autore russo ritrova Dio attraverso la massima rigorizzazione dell’ateismo, ritrova il mondo attraverso le forme più vistose della sua negazione, ritrova il valore della vita attraverso il nichilismo più totale. Lo scandalo della sofferenza degli innocenti è superato da uno scandalo più grande: la sofferenza di Cristo, uomo-Dio, che accoglie liberamente, pur essendo innocente, la sofferenza. Scrive il nostro autore: “L’idea del Dio sofferente è l’unica che possa resistere all’obiezione della sofferenza inutile come dimostrazione dell’assurdità del mondo … L’idea fondamentale di Dostoevskij è che se per un verso l’umanità è liberata dalla sofferenza perché la stessa sofferenza è portata in Dio, per l’altro verso il senso della sofferenza dell’umanità è la con sofferenza col Redentore che col suo dolore ha soppresso quello dell’umanità (1 Pt 2, 19.21-24)” (Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, 211). Ora col Cristo sofferente nasce il concetto di un Dio dialettico, che ha in se stesso l’antinomia e la contraddizione, l’opposizione e il contrasto, il dissidio e il conflitto. Ma qual è l’origine prima del male? Il nostro autore qualifica Dio come libertà, inizio assoluto e scelta tra positivo e negativo. In quanto inizio assoluto, la libertà di Dio non è preceduta da nulla, perché è essa stessa il principio dell’essere di Dio: Egli è perché vuole essere e come vuole essere, senza essere costretto né ad essere, né ad essere in un certo modo. La filosofia della libertà prende dunque le distanze dalla concezione di Dio come essere necessario, in cui essenza ed esistenza coincidono: “L’essere necessario non esiste, e il vuoto immane lasciato dalla sua 76 inesistenza non può essere riempito che dall’abisso della libertà” (Esistenza e persona, Il Melangolo, Genova 1985, 29). Tutta la realtà, Dio compreso, è senza fondamento, pura gratuità perché è vertiginosamente sospesa sull’abisso della libertà. La libertà pone se stessa, risiede in tale atto di auto posizione e non rimanda ad altro da sé. La libertà di Dio è anche scelta tra positivo e negativo, libero arbitrio. L’inizio, infatti, è come tale già una scelta, perché la libertà potrebbe non cominciare, cioè non uscire dal non essere, o potrebbe cessare, cioè entrare nel non essere da cui è emersa. La libertà è simultaneamente la libertà della scelta e la scelta della libertà: essa può affermare se stessa o ricadere nel suo nulla. In principio era la scelta. La filosofia della libertà, oltre che riferirsi a diversi filosofi, è l’ermeneutica filosofica dell’esperienza ebraico – cristiana di Dio. Il Dio della Bibbia è il Dio vivente, “il quale agisce liberamente, fa tutto quel che vuole, è libertà assoluta e arbitraria” (Ontologia della libertà, Mursia, Milano 132). L’unica necessità presente in Dio è l’irrevocabilità della sua scelta di essere, dell’atto di libertà. Così va interpretata l’irreversibilità dell’essere. Dunque l’atto eterno della creazione è stato preceduto, in Dio, dall’atto eterno del suo auto originarsi. Tale inizio assoluto introduce nell’eternità di Dio una specialissima temporalità, espressa dalla formula paradossale di “Dio prima di Dio”. Se Dio è libertà, Egli è al tempo stesso prima e dopo di sé. Tale scansione o simbolismo temporale nell’eternità è una sorta di storia eterna che si scandisce in diverse epoche dell’eternità o eoni, indeducibili l’uno dall’altro perché introdotti da altrettanti atti di libertà del tutto imprevedibili. In secondo luogo, nel momento in cui Dio sceglie di essere e si origina, simultaneamente istituisce l’alternativa tra il positivo scelto e il negativo scartato, tra il bene cui si dà inizio e il male che viene vinto. Nel cuore stesso della libertà originaria di Dio nasce così la dialettica tra essere e non essere, tra bene e male, tra essere e bene reali e non essere e male possibili. Il fatto che Dio esista significa che all’origine e nel cuore stesso della realtà vi è questa scelta definitiva e originaria del bene, senso primo e ultimo di tutto. Allo stesso tempo tale scelta originaria del bene è indisgiungibile dall’instaurarsi della possibilità del male. Esso è vinto e sconfitto ab aeterno, ma rimane un’alternativa possibile, istituita dalla libertà divina nel momento stesso in cui è scelta come libertà positiva. Ciò è significato dall’espressione temeraria “il male in Dio”, definita come metafora – simbolo sintetica, per indicare il senso indicibile e paradossale della dialettica di positivo e negativo intima al Dio – libertà. Il “male in Dio” non attribuisce una realtà effettiva al male in Dio, né esso è uno sfondo oscuro o natura abissale da cui Dio dovrebbe progressivamente emergere per diventare propriamente se stesso (Schelling), né è un momento necessario del processo dialettico in cui Dio si realizza e il bene si afferma (Hegel). Tale dialettica di positivo e negativo in Dio non è una dialettica della necessità ma una dialettica della libertà: il male, in Dio, è una possibilità vinta e superata fin dall’inizio, e mai è stata una realtà effettiva. In Dio vi è l’origine della possibilità del male che l’uomo con la sua libertà può ridestare e rendere realtà effettiva. Solo l’uomo può essere nella storia l’autore del male. Tale dialettica originaria di positivo e negativo corrisponde all’esperienza religiosa di Dio, in cui Egli si presenta allo stesso tempo fonte di 77 salvezza e di perdizione, di misericordia e di ira, di gioia beatificante e di sconvolgente terrore. A parte hominis in Dio vi è qualcosa che per un verso è fonte di rassicurazione e per altro verso è fonte di inquietudine. L’interpretazione filosofica di tale esperienza religiosa rientra nella categoria di ambiguità di Dio. Se in Dio il male è presente solo come vinto, la caduta non è un fatto necessario e ciò apre la speranza che la vittoria sul male possa essere operante anche nella storia e dopo la storia. La stessa positività di Dio, che è tale in quanto vittoria ab aeterno sulla negatività, può presentarsi all’uomo come provocazione alla ribellione. Il successivo atto della storia eterna della libertà è la creazione: essa è un atto di libertà – liberalità, in cui Dio mostra tutta la sua condiscendenza e generosità; per l’altro verso essa è un ritirarsi o contrarsi di Dio per far posto alla libertà dell’uomo, un primo momento della kenosi di Dio. Con la caduta, l’uomo ha ridestato il male sepolto dall’eternità in Dio. Il peccato originale è ribellione alla positività di Dio e realizzazione della negatività in Lui originariamente vinta. Esso è allo stesso tempo atto libero della storia eterna e inizio della storia temporale umana. Per questo in quest’ultima il male è più che una possibilità, è una presenza reale, una forza che combatte contro il bene e potrebbe anche avere l’ultima parola. La dialettica storica si differenzia profondamente dalla dialettica eterna: nella seconda nel momento della scelta del positivo è istituita la possibilità del negativo, vinta definitivamente, la prima è una dialettica tra il bene e il male reali, è contraddizione, lotta e tensione dei contrari. Essa non è la dialettica hegeliana, in cui il negativo in realtà non è perché tolto, ma è innescata dalla libertà e l’ultima parola non sarà mai la conciliazione o il superamento o la mediazione, bensì essa è contraddizione, lotta, tensione. Il libero intervento redentivo di Dio nella storia inaugura un’ulteriore dialettica: la dialettica della sofferenza. Tale dialettica aggiunge alla comune solidarietà nella colpa la comune solidarietà nell’espiazione. Tale dialettica, che culmina nel Dio crocifisso, istituisce un nesso tra la dialettica eterna e la dialettica temporale. La sofferenza espiatrice è il perno della rotazione dal negativo al positivo: “L’idea del Dio sofferente approfondisce il significato dell’ambiguità di Dio e imprime un nuovo dinamismo alla dialettica divina” (ibid., 223). Il male in Dio, prima incontrato come possibilità istituita dalla scelta eterna e definitiva del bene e, dunque, vinta, dal principio, ora è un male reale, liberamente assunto da Dio, fino a patire e morire. La dialettica di ira e misericordia, crudeltà e benevolenza ora diventa dialettica di onnipotenza e impotenza, in quanto Dio vince il male positivo con la sua sofferenza e impotenza. Tale interpretazione filosofica del cristianesimo è “pensiero tragico”: esso supera non tanto l’alternativa tra ateismo e cristianesimo, ma quella tra il nichilismo, che cancella sia Dio che il male ed è consolatorio, e il cristianesimo tragico che afferma simultaneamente l’esistenza di Dio e del male, fino ad individuare la presenza del male e del dolore in Dio stesso. L’ultima tappa della storia eterna in Dio è l’escatologia. Pareyson la divide in escatologia del giudizio e in apocatastasi: entrambi i momenti implicano un salto imprevedibile, un nuovo intervento della libertà divina. Egli opta per l’avvento di una salvezza universale e definitiva, umana e cosmica. Anche l’apocatastasi è un evento dialettico, secondo una dialettica più 78 antinomica, contraddittoria e impensabile. Per Hegel nello stadio finale della storia dello Spirito tutte le contraddizioni saranno superate. Per il nostro autore, invece, nella conclusione finale, che sta al di là della storia senza continuità con essa, le contraddizioni esploderanno al massimo grado: devono essere tenute insieme la totalità e la libertà, la libertà umana e la definitività del bene, la trascendenza di Dio e la sua identificazione con tutte le cose, il compimento di Dio senza che vi sia stato un vero processo in Dio, la spiritualità di Dio e la sua incarnazione nell’intero mondo corporeo. Abbiamo un nodo inestricabile di contraddizioni, che sfugge alla filosofia e su cui tace la teologia, ma anche una profondità abissale altamente speculativa, da cui può sgorgare nuova luce per intendere il senso della vicenda del mondo. La speranza escatologica si identifica con la speranza che il bene alla fine vincerà nuovamente e in modo definitivo sul male, per quanto quest’ultimo possa essere grande nella storia. Nell’eternità di Dio l’escatologia coincide con la protologia ma ciò non avviene, come vorrebbe Hegel, con un processo necessario. Anche la prospettiva escatologica è appesa alla libertà, quindi priva di ogni fondamento razionale. Ciò vuole anche dire che essa è del tutto incomprensibile per la nostra ragione. L’ontologia della libertà è un’interpretazione filosofica del cristianesimo come fatto eterno, che cerca di cogliere lo “spirito” di questo fatto, quella dimensione di pensiero che porta con sé e può parlare a tutti. Lo spirito del cristianesimo è il pensiero della libertà, la scelta della dialettica della libertà rispetto alla dialettica della necessità di derivazione greca. Il pensiero della libertà è pensiero tragico, perché sottolinea particolarmente il momento del negativo che caratterizza la dialettica della libertà. Se Dio ha vinto il negativo assumendolo e sopportandolo, il cristianesimo attuale può vincere il nichilismo sopportandolo, portandolo al proprio interno come cristianesimo tragico. L’impostazione pareysoniana sembra ancora debitrice di una concezione sacrificale – espiatoria del dolore: il dolore appare come il passaggio necessario perché il negativo si volga in positivo. La dialettica della sofferenza sembra spesso appiattirsi alla dialettica del dolore, mentre va distinta da essa, introducendo, tra l’una e l’altra, la mediazione della dialettica dell’amore, cioè della libera assunzione del dolore che il male ci infligge in vista della vittoria sul male e del suo capovolgimento in bene. Non è il dolore in sé che volge il negativo in positivo, ma la forza dell’amore. La testimonianza di un amore che assume su di sé il dolore attesta la conversione della libertà dalla scelta del male alla scelta del bene. La dialettica dell’amore, nella quale si rivela il vero volto di Dio, è il culmine sia della dialettica divina della libertà di scelta tra positivo e negativo sia della dialettica divina della sofferenza. H. Jonas ritiene che di fronte al male nel mondo – e a quel male di tutti i mali che è Auschwitz - non si possano più sostenere simultaneamente in Dio la bontà, la comprensibilità e l’onnipotenza. Infatti in rapporto al male un Dio onnipotente “o è privo di bontà o è totalmente incomprensibile” (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, Il Melangolo, Genova 1990, 34). Ma un Dio privo di bontà cessa di essere Dio, mentre un Dio totalmente incomprensibile è qualcosa di cui non possiamo neppure discorrere. Non resta quindi che 79 abbandonare il problematico concetto di onnipotenza (per quanto scandalosa possa essere percepita questa scelta, soprattutto per chi è abituato a pensare Dio con la mano forte e il braccio teso). In altri termini, se vogliamo continuare a discorrere di Dio in modo sensato rapportando il nostro discorso al mistero del male, dobbiamo ammettere che Egli non è intervenuto ad impedire Auschwitz “non perché non lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo” (ibid., 35). Infatti, concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunciato alla sua potenza. Siamo in una concezione finitista di Dio, che riesce a conciliare la bontà e comprensibilità dell’Assoluto, senza cadere nella teologia manichea dei due dei. I postmoderni sono convinti che il cambiamento di statuto del sapere verificatosi nelle società post – industriali (Lyotard) implichi un parallelo cambiamento di quella forma peculiare che è il sapere su Dio. Secondo O. Maquard, il pluralismo postmoderno ha, come inevitabile risvolto teologico, il venir meno della tradizionale idea di un Dio unico come “figura agente centrale”. E ciò a favore di un “politeismo disincantato” che fa tutt’uno con il passaggio dalla monomiticità alla polimiticità (Apologia del caso, Il Mulino, Bologna 1987, 52-56). Vattimo identifica il Dio della metafisica con un Dio violento, cioè con una divinità che possiede quei caratteri di onnipotenza, autorità e trascendenza che gli sono attribuiti dalle teologie naturali. A questa divinità egli contrappone un Dio non violento e non assoluto, ovvero un Dio postmetafisico avente come suo tratto distintivo quella “vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione heideggeriana” (Credere di credere, Garzanti, Milano 1996, 31). Nella postmodernità consideriamo anche la corrente del nuovo ateismo (Dawkins, Harris, Hitchens). Costoro postulano quattro verità a loro dire evidenti: a) il presupposto della vita umana è trovare la felicità ma molte persone nel mondo conducono vite inutilmente miserevoli. La sofferenza e la morte fanno parte del cammino necessario dell’evoluzione, ma dobbiamo impegnarci per alleviare alcune afflizioni, allungare la vita e per garantire una forma di benessere superiore a tutte le altre alla maggior parte degli individui; b) la causa di tanta angoscia inutile è la fede, in particolare nella forma della fede in Dio. La fede è credere senza prove, inammissibile per una mentalità scientifica: ciò è assurdo e avvelena ogni cosa. Basare la conoscenza su prove è necessario da un punto di vista cognitivo, ma è anche moralmente essenziale; c) il modo oggi per evitare la sofferenza inutile è abolire la fede sulla faccia della terra, realizzare un mondo in cui mutilazioni e assassinii nel nome di Dio diventino veramente impensabili; d) il modo di eliminare la fede e di liberarsi della sofferenza consiste nel seguire la sacra via del metodo scientifico. Per costoro la fede nell’esistenza di Dio è un’ipotesi che, per i credenti, svolge la stessa funzione di un’ipotesi scientifica per gli scienziati. La fede è un tentativo intellettualmente erroneo per arrivare a qualcosa che somigli alla comprensione scientifica, è credere senza prove. Nella scienza un’ipotesi è il contesto che rende intellegibile una gamma di osservazioni e di esperimenti intellegibili. Altri autori “teisti” ricorrono a qualcosa di simile all’ipotesi Dio per spiegare la complessità biologica: l’ipotesi del disegno intelligente. I nuovi atei hanno deciso che la teologia non conta e va esclusa dall’attuale discussione, insieme all’ipotesi “Dio”. Costoro si adoperano per dimostrare che 80 non ci sono prove a supporto dell’ipotesi Dio. Il problema fondamentale della fede è che essa non si basa su prove, o su prove sufficienti, pertanto deve essere rifiutata in tutte le sue forme. La scienza, al contrario, può fare riferimento a innumerevoli osservazioni riproducibili a supporto delle proprie ipotesi, e mentre un bravo scienziato abbandona o modifica un’ipotesi, se gli esperimenti lo richiedono, i fedeli si aggrappano alla loro ipotesi di Dio senza curarsi dell’inesistenza di prove. Infine la scienza ha dimostrato che l’ipotesi di Dio è una violazione del “rasoio di Occam”. Quest’ultimo è un assioma della scienza che afferma che non si dovrebbe mai fare ricorso a una spiegazione complessa quando ne basta una più semplice. Di conseguenza, se la scienza può spiegare la complessità biologica in modo semplice, a cosa serve la dottrina più complessa della creazione divina? L’ipotesi Dio è un tentativo pseudoscientifico di fare ciò che la scienza ora può fare molto meglio da sola. Tutte le persone ragionevoli dovrebbero quindi rifiutare l’ipotesi Dio e abbracciare la scienza come la via più sicura per orientare i propri pensieri e la propria vita. Occorre estirpare l’idea di Dio dalla mente dell’uomo. L’evoluzione darwiniana prova ovviamente che la natura non era stata progettata in modo intelligente, perciò l’ipotesi Dio è stata alla fine respinta. Parole come queste esprimono bene la posizione del nuovo ateismo: “La religione non ha ormai più scusanti. Grazie al telescopio e al microscopio, non fornisce più alcuna spiegazione di qualche importanza” (C. HITCHENS, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, Einaudi, Torino 2007, 270). Il rasoio di Occam, così designato dal nome di Guglielmo di Occam, monaco e filosofo del tardo Medio Evo, sostiene che se più spiegazioni valide concorrono tra loro, dovremmo scegliere la più semplice. Tale criterio è noto anche come “la legge della parsimonia”, il principio che ci avverte che quando cerchiamo di scegliere tra due ipotesi concorrenti, è buona norma scegliere quella che formula il minor numero di ipotesi, e questo sembra un buon consiglio. Perché, si chiedono i nuovi atei, cercare una spiegazione teologica quando disponiamo di una spiegazione naturale della moralità e della religione (illusione infantile e immorale)? Stando al corretto contenuto del rasoio di Occam, non può essere applicato alla religione come vorrebbero gli esponenti del nuovo ateismo. Esso fu pensato per essere applicato a diverse ipotesi che concernono un medesimo livello di realtà. Ma le motivazioni evoluzionistiche e quelle teologiche si trovano su livelli logicamente diversi, non sono in competizione e non rendono necessaria l’applicazione del rasoio. In realtà questi filosofi hanno assunto il monismo esplicativo: la legge evoluzionista darwiniana è la ricetta più semplice per spiegare la complessità della vita, combinando i tre ingredienti delle variazioni casuali, della selezione naturale cieca di tali variazioni e di un lunghissimo periodo di tempo. L’ipotesi Dio è liquidata così velocemente anche perché l’idea di divinità è ridotta a quella di legislatore, ingegnere cosmico o progettista intelligente. Il mistero divino infinito è così ridotto a causa scientifica finita. Questi autori, in realtà, hanno a che fare con una caricatura di Dio di cui gli stessi teologi ben volentieri farebbero a meno. Il variegato schieramento del pensiero al femminile, che contesta la monopolizzazione maschile della filosofia e il linguaggio monosessuale e andromorfico della teologia, si batte 81 per la morte del “Dio maschio” e “patriarcale” e per l’avvento di un Dio postsessista che, invece di ridurre le donne alla condizione di cadaveri riconoscenti, funga da strumento di liberazione delle loro potenzialità represse. Alcune autrici si muovono all’interno della tradizione cristiana, altre sono approdate ad una filosofia radicale postcristiana. M. Daly ritiene il femminismo cristiano una sorta di mostro logico e ha elaborato un’immagine di Dio come Assoluto in divenire, cioè come verbo, non come sostantivo. Ci sono anche le filosofie dell’essere di ispirazione classica che, pur cercando di recuperare al loro interno talune istanze della riflessione del ‘900 su Dio, continuano a rifarsi a modelli ontologici di matrice greca e medievale, ritenendo che “se Dio entra nella filosofia, anzi nella metafisica, vi entra … come il principio, il fondamento, il senso stesso dell’essere” (E. BERTI, Introduzione alla metafisica, Utet, Torino 1993, 113). A differenza degli studiosi per i quali la filosofia può parlare di Dio solo indirettamente, e tramite l’esperienza del mito e della religione, per cui il Dio dei filosofi non esiste (cfr. Pareyson), questi autori sostengono che la filosofia, oltre che occuparsi a pieno titolo, cioè in modo argomentativo, della divinità, ha il compito primario di dimostrarne l’esistenza (mediante le prove tradizionali o una loro rielaborazione aggiornata). Altri autori (W. Weischedel, M. Ruggenini), pur scorgendo in Dio l’oggetto più alto del domandare filosofico – concepito come domandare radicale – intendono contrapporre, alla metafisica rappresentazione della filosofia come scienza di Dio, una postmetafisica immagine di essa come custode del mistero di Dio (e della sua differenza dall’uomo). In altri termini, nell’epoca del nichilismo e del disincantamento del mondo, il compito della filosofia non sarebbe quello di provare Dio, ma quello di mantenere vivo il problema di Dio, sia nei confronti di ogni forma di indifferenza teoretica (la quale ritenga di non doversi curare di Dio), sia nei confronti di ogni presunta soluzione metafisica o dogmatica (la quale ritenga di aver chiuso i conti con Dio). 82 Anima. In generale si intende per anima il principio della vita, della sensibilità e delle attività spirituali, in quanto costituente un’entità a sé o sostanza. Un certo insieme di operazioni, di eventi detti psichici o spirituali, costituirebbero le manifestazioni di un principio autonomo, irriducibile, per la sua originalità, ad altre realtà, anche se in relazione con esse. L’anima è comunque considerata sostanza, sia che venga considerata come incorporea, sia che le sia attribuita la stessa costituzione delle cose corporee. Considerare l’anima in quanto sostanza significa intenderla come una realtà a sé, cioè che esiste indipendentemente dalle altre. Il riconoscimento della realtà Anima sembra fornire un solido fondamento ai valori connessi con le attività spirituali umane, i quali, senza di essa, sembrerebbero sospesi nel nulla; sicché la sostanzialità dell’anima viene considerata, dalla maggior parte delle teorie filosofiche tradizionali, come una garanzia della stabilità e della permanenza di quei valori: garanzia che viene talora rafforzata dalla credenza che l’Anima è, nel mondo, la realtà più alta e ultima o, qualche volta, lo stesso principio ordinatore e governatore del mondo. Spesso i concetti con cui un filosofo qualifica la realtà sono usati anche per l’anima. Per Anassimene e Diogene di Apollonia l’Anima è aria, visto che è il principio delle cose. Per i Pitagorici, che consideravano tale il numero, l’Anima è armonia, visto che la struttura del cosmo è ravvisabile nell’armonia scandita numericamente. Per Eraclito l’Anima è fuoco visto che il medesimo è il principio universale; per Democrito è formata di atomi rotondi, che possono più agevolmente penetrare nel corpo e muoverlo, e così via. Platone afferma che l’Anima si muove da sé e la definisce sulla base di questa caratteristica: “Ogni corpo a cui il muoversi è impresso da fuori è inanimato; ogni corpo che si muove di per sé dal di dentro è animato; e tale appunto è la natura dell’Anima” (Fedro, 245d). L’anima è quindi la causa della vita e pertanto è immortale giacché la vita costituisce la sua stessa essenza: “Allora dimmi: che cosa si deve generare in un corpo perché sia vivo? Si deve generare l’anima, rispose … Allora l’anima, qualunque cosa occupi, entra portandovi sempre la vita … E non è forse vero che l’anima non potrà mai accogliere il contrario di ciò che essa apporta, come si è concordemente ammesso in base a ciò che prima si è detto? Assolutamente così, disse Cebete” (Fedone, 105d). Con tali categorie, frutto anche della Seconda Navigazione, Platone distingueva nettamente la realtà dell’Anima, semplice, incorporea, che si muove da sé, che vive e dà vita, dalla realtà corporea, che ha i caratteri opposti. Aristotele considera l’anima come sostanza del corpo. Essa è definita come “l’entelechia (l’atto finale primo) di un corpo che ha la vita in potenza”. L’Anima sta al corpo come l’atto della visione sta all’organo visivo: è la realizzazione della capacità che è propria di un corpo organico. Come ogni strumento ha una sua funzione, che è l’atto o l’attività dello strumento, così l’organismo come strumento ha la funzione di vivere e pensare; l’Anima è l’atto di questa funzione. Perciò l’Anima non è separabile dal corpo o almeno non sono 83 separabili dal corpo quelle parti dell’Anima che sono attività delle parti del corpo: giacché nulla impedisce che siano separabili quelle parti dell’Anima che non sono attività del corpo. Con questa restrizione, Aristotele allude alla parte intellettiva dell’Anima, che egli chiama “un altro genere di anima”, e ritiene la sola separabile dal corpo (De anima II, 1, 412a 10; 413a 4sg; II, 2, 413b 26). Come atto o attività l’Anima è forma e, come forma, è sostanza in una delle tre determinazioni della sostanza che può essere o la forma o la materia o il composto di materia e forma. La materia, infatti è potenza, la forma è atto e ogni essere animato è composto di queste due cose; ma mentre il corpo non è l’atto dell’Anima, l’Anima è l’attività di un corpo determinato, cioè la realizzazione della potenza che è propria di questo corpo; onde si può dire che essa non esiste né senza il corpo né come corpo. Queste determinazioni aristoteliche, per lunghi secoli, hanno costituito l’intero progetto della “psicologia dell’Anima”. A seconda degli interessi prevalenti, in essa si è insistito sull’una o sull’altra delle determinazioni aristoteliche. Di queste le più importanti sono: a. l’anima è sostanza come realtà nel senso forte del termine; b. l’anima è causa, principio indipendente di operazioni. Tali determinazioni garantiscono un solido sostegno alle attività e ai valori spirituali. Due altre determinazioni sono quelle della semplicità e indivisibilità, che hanno lo scopo di garantire l’impassibilità dell’Anima, nei confronti di mutamenti corporei e, per il tramite dell’indecomponibilità, la sua immortalità. La terza determinazione importante è il suo rapporto col corpo, definito da Aristotele come rapporto della forma con la materia, dell’atto con la potenza. La determinazione dell’anima come sostanza non è negata neanche dai materialisti. Epicuro, che ritiene l’anima composta di particelle sottili, diffuse in tutto il corpo come soffio caldo, ritiene tuttavia che l’Anima abbia la capacità causativa della sensazione, che viene preparata dal corpo e di cui il corpo partecipa, ma che è in una certa misura indipendente dal corpo stesso: giacché quando l’Anima si distacca da esso, il corpo non ha più sensibilità (Epistola a Erodoto, 63 sg). In questo modo l’Anima non è semplice né immortale (essa si dissolve nelle sue particelle con la morte del corpo); ma è tuttavia una realtà a sé, dotata di una propria capacità causativa, indispensabile alla vita stessa del corpo. In modo analogo gli Stoici ritengono che l’Anima è un soffio congenito in noi: che, come tale, è corpo, perché se non fosse corpo non potrebbe né unirsi al corpo né separarsi da esso; ma che può tuttavia essere immortale, com’è certamente immortale l’Anima del mondo , di cui sono parti quelle degli esseri animati, e le Anime dei saggi (Diogene Laerzio, VII, 156-157). Qui la corporeità dell’Anima non toglie a essa né la semplicità né l’immortalità: come non la toglie alla concezione di Tertulliano che la considera come un soffio o flatus di Dio, perciò generata, corporea e immortale (De anima, 8 sgg). L’accettazione quasi universale della dottrina aristotelica dell’anima ha una eccezione in Plotino. Egli critica sia la concezione della corporeità dell’Anima sia la concezione dell’Anima come forma del corpo (Enneadi, IV, 7, 2 sgg; IV, 7, 8, 5). Egli non vuole che 84 l’anima abbia un qualsiasi legame con il corpo e l’unica sua preoccupazione è quella di definirne la realtà proprio nei termini della sua indipendenza dal corpo e da tutte le determinazioni corporee. Per questo accetta i caratteri divini dell’Anima: la sua unità e indivisibilità, la sua ingenerabilità e incorruttibilità. Essi sono caratteri negativi come quelli che egli attribuisce a Dio. Ma quale via di accesso abbiamo alla realtà dell’Anima? Plotino risponde che per esaminare la natura di una cosa bisogna considerare la medesima nella sua purezza, in quanto ciò che le è aggiunto è un ostacolo alla sua conoscenza. Bisogna togliere all’Anima tutto ciò che le è estraneo, cioè bisogna guardare a se stessi e ritirarsi nella propria interiorità. Inizia così il progressivo prevalere della nozione di coscienza, intesa come introspezione o ripiegamento su se stesso, o riflessione interiore, sulla nozione di anima. L’Anima stessa viene ridotta al movimento dell’introspezione: “Non è uscendo dall’Anima che si può vedere la saggezza e la giustizia; l’Anima vede queste cose in se stessa, nella sua riflessione su se stessa; nel suo stato primo le vede in sé come statue piene della ruggine del tempo, che essa pulisce. È come se si trattasse di un oro che avesse un’Anima e si liberasse di tutto il fango che lo coprisse: esso sarebbe dapprima nell’ignoranza di sé, non si vedrebbe come oro; e in seguito ammirerebbe se stesso vedendosi isolato e non desidererebbe di avere altra bellezza estranea, ma sarebbe tanto più forte quanto più lo si lasciasse a se stesso” (Enneadi IV, 7, 10). Tali parole aprono l’altra alternativa della dottrina dell’Anima, cioè quella per la quale essa finirà per essere soppiantata dal concetto di coscienza. Qui il ritirarsi in se stesso, l’essere lasciato a se stesso, lo sguardo alla propria interiorità, l’atteggiamento della riflessione su di sé sono espressioni che servono a definire un tipo di ricerca che prescinde completamente dal corpo e, perciò, anche da ciò con cui il corpo pone in relazione, cioè le cose e gli altri uomini (ibid., V, 3,1-2). I Neoplatonici e i Padri della Chiesa orientale ripetono le determinazioni neoplatoniche: l’immaterialità e l’unità dell’Anima sono i caratteri fondamentali riconosciuti a essa da Porfirio e da Proclo, nonché da Gregorio di Nissa. Ma è soprattutto Agostino che raccoglie l’eredità del neoplatonismo e la trasmette al mondo cristiano, col riconoscimento dell’interiorità spirituale come via d’accesso privilegiata alla realtà propria dell’anima. Essa consiste nell’esperienza interiore, nella riflessione sulla propria interiorità, nella “confessione” come riconoscimento della propria realtà intima; in una parola ciò che nel linguaggio moderno si chiama coscienza. Nei Soliloqui Agostino dichiara di non voler conoscere altro che “Dio e l’Anima” (I,2). Ma Dio e l’Anima non richiedono due indagini parallele o comunque diverse, giacché Dio è nell’Anima e si rivela nella più riposta interiorità dell’Anima stessa: “Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità; e se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso” (De vera religione, 39). Riguardo l’origine dell’anima, egli era partito da quattro ipotesi: la preesistenza, l’origine per discendenza (traducianesimo), l’origine per caduta, la creazione individuale. Alla fine rimane con le ipotesi del 85 traducianesimo e della creazione individuale senza riuscire a fare una scelta definitiva: “Per quello che riguarda l’origine dell’anima, sapevo che era stata fatta per essere unita al corpo, ma non sapevo allora (al tempo del Contra Academicos) come non so adesso, se essa discenda dal primo uomo oppure se continuamente venga creata singolarmente per ciascun individuo” (Ritrattazioni, 1,1). Tale atteggiamento diede i suoi frutti più tardi, a cominciare dalla tarda Scolastica. La Scolastica nel suo complesso è dominata dalla dottrina aristotelica dell’Anima, riproposta negli stessi termini a partire da Scoto Eriugena sino a Duns Scoto, il quale ultimo si limita ad aggiungere che, poiché l’Anima è la forma del corpo, essa non può sussistere quando il corpo è distrutto e che pertanto l’immortalità è pura materia di fede. S. Tommaso si schiera apertamente per Aristotele, distaccandosi dalla linea dell’agostinismo e del platonismo e, riguardo la dottrina dell’Anima, presenterà sostanziali novità e preziosi arricchimenti. L’anima è di natura immateriale, cioè spirituale. Ma per scoprire la spiritualità dell’anima non basta l’introspezione, la semplice autocoscienza, bensì occorre una “diligens et subtilis inquisitio” (Summa Theologiae I, q.87, a.1), occorre cioè dimostrarla. Il punto di partenza è dato dalle operazioni dell’anima, infatti “eo modo aliquid operatur quo est”, il modo di operare di una cosa corrisponde al suo modo di essere. Ora, “il principio intellettivo, chiamato mente o intelletto, ha un’attività sua propria in cui non entra il corpo. Ma niente può operare per se stesso, se non sussiste per se stesso. L’operazione, infatti, non compete che all’ente in atto; tanto è vero che le cose operano conformemente al loro modo di esistere. Per questo non diciamo che il calore riscalda; chi riscalda è la sostanza calda. Rimane dunque dimostrato che l’anima umana, la quale viene chiamata mente o intelletto, è un essere incorporeo e sussistente” (ibid., I, q. 75, a. 2). Però S. Tommaso sa bene che anche le operazioni più squisitamente spirituali dell’anima, come la conoscenza intellettiva e il libero arbitrio, non sono esenti da qualche legame con la materia. Ma, a suo giudizio, ciò non compromette l’intrinseca spiritualità dell’anima, perché la sua dipendenza dal corpo non è soggettiva (non tocca cioè l’ordine della causalità efficiente), ma oggettiva (riguarda l’ordine della causalità formale). Si tratta infatti di operazioni che “richiedono il corpo non come strumento, ma solo come oggetto. Infatti l’intendere (intelligere) non si attua mediante un organo corporeo, ma ha bisogno di un oggetto corporeo” (In I De Anima, lectio II, n. 19). “Si deve dire che l’intendere è operazione propria dell’anima se si considera il principio da cui nasce l’operazione; non nasce infatti dall’anima per mezzo di un organo corporeo come la vista mediante l’occhio; il suo legame col corpo riguarda l’oggetto: infatti i fantasmi, che sono gli oggetti dell’intelletto, senza il concorso degli organi corporei non possono esistere” (De Anima I, ad. 12). Oltre che sulle singole operazioni dell’intelletto e della volontà, per dimostrare la spiritualità (incorporeità) dell’Anima S. Tommaso fa leva su un altro importante fenomeno, quello dell’autotrascendenza: tutto l’agire umano, preso globalmente, tende verso l’infinito. “L’anima razionale possiede una certa infinità sia da parte dell’intelletto agente, con cui 86 può fare tutto, sia da parte dell’intelletto possibile con cui può diventare tutto … e questo è argomento evidente della immaterialità dell’anima, perché tutte le forme materiali sono finite” (II Sententiae, d. 8, q. 2, a. 2, ad 2). Mentre l’intelletto divino è totalmente in atto, ossia tutti gli intellegibili stanno eternamente sotto il suo sguardo, l’intelletto umano, all’inizio, è totalmente in potenza (è una tabula rasa); né ciò che è in potenza è in grado di passare all’atto per sua iniziativa (come la materia non può darsi le forme): pertanto è necessario ammettere nell’anima oltre la disposizione attiva anche un potere attivo, e questo è per l’appunto l’intelletto agente. In che modo la medesima sostanza dell’anima possa avere i due intelletti, possibile e agente, S. Tommaso lo spiega così: “Una cosa può essere rispetto ad un’altra simultaneamente in potenza e in atto sotto punti di vista diversi. Ora, i fantasmi rispetto all’anima sono in potenza in quanto non sono astratti dalle condizioni individuanti ma tuttavia astraibili; e sono in atto, in quanto sono similitudini di determinate cose. C’è dunque nell’anima nostra potenzialità rispetto ai fantasmi in quanto sono rappresentativi di determinate cose, e ciò appartiene all’intelletto possibile, il quale in sé è in potenza a tutti gli intellegibili, ma è determinato a questo o a quello mediante le specie attratte dai fantasmi. Ma c’è nell’anima anche una virtù attiva immateriale, che astrae i fantasmi dalle condizioni materiali; e ciò appartiene all’intelletto agente il quale è quasi una virtù partecipata di una sostanza superiore, cioè da Dio” (De anima, a. 5). Un’altra proprietà che conta moltissimo, soprattutto nella prospettiva tomistica, è la sostanzialità. La dimostrazione di questa proprietà consente di uscire dalle strettezze e ambiguità dell’antropologia aristotelica. Tommaso ricorda a proposito due tesi che giudica inammissibili: il materialismo da una parte, che non riconosce nell’anima alcun carattere sostanziale ma la equipara alle altre forme naturali, e il platonismo dall’altra, che non si accontenta di affermare che l’anima è una sostanza, ma pretende che basti da sola a definire la realtà umana, senza alcun riferimento al corpo. Contro i materialisti gli è sufficiente ribadire quanto abbiamo già riferito a sostegno della spiritualità: “E’ necessario che l’anima intellettiva agisca per conto proprio, avendo un’operazione propria senza l’aiuto di un organo corporeo. E poiché ciascuno agisce in quanto atto, occorre che l’anima intellettiva abbia l’essere per sé non dipendente dal corpo” (De anima 1, resp.). Tuttavia, pur affermando la sostanzialità dell’anima, egli non intende passare dalla parte dei platonici (gli agostiniani) che identificavano l’essere dell’anima con l’essere dell’uomo. L’Aquinate mostra che l’anima non fa specie a sé e che pertanto da sola non esaurisce la realtà umana: “Occorre perciò concludere che l’anima, pur potendo sussistere per sé, non è tale da formare una specie completa, ma entra nella specie umana come forma del corpo. Così si può dire dell’anima sia che è forma sia che è sostanza” (ibid.). Rispondendo a un’obiezione che riguarda la composizione ontologica dell’anima, egli fa l’importante precisazione che l’anima, come gli angeli, pur essendo semplice, spirituale e dotata di un proprio atto di essere, è anch’essa soggetta alla differenza ontologica che distingue ogni realtà finita dall’Essere sussistente: anche l’anima è composta di essenza e atto di essere, e di conseguenza è composta di atto e potenza, infatti “la sostanza dell’anima non è il suo 87 essere, ma si rapporta a esso come la potenza all’atto” (De Anima 1, ad. 6). Assicurate la spiritualità e la sostanzialità dell’anima, Tommaso fa sua la tesi aristotelica dell’unione sostanziale dell’anima col corpo, e per dare espressione a questa verità fa suo il linguaggio ilemorfistico, assegnando all’anima il ruolo di forma sostanziale e al corpo il ruolo di materia: “L’anima è ciò per cui il corpo umano possiede l’essere in atto e questo è proprio della forma. Perciò l’anima umana è forma del corpo” (De Anima 1, resp.). A sostegno dell’unione sostanziale egli adduce due argomenti: l’unione dell’anima col corpo non può essere accidentale perché quando l’anima scompare, nel corpo non rimane più nulla di umano se non l’apparenza: “Perciò se l’anima fosse nel corpo come il marinaio nella nave, non conferirebbe la specie al corpo né alle sue parti; invece la dà; prova ne sia che, recedendo l’anima, le singole parti non mantengono che in modo equivoco il nome primitivo. Es.: il nome <<occhio>>, parlando di quello di un morto, è equivoco, come quello scolpito sulla pietra o dipinto; così dicasi delle altre parti” (De Anima 1, resp.). L’unione col corpo giova all’anima stessa sia nell’ordine dell’essere sia in quello dell’agire: “L’anima è unita al corpo per la sua perfezione sostanziale, cioè per completare la specie umana, e anche per la perfezione accidentale, per perfezionare cioè la conoscenza intellettiva che l’anima acquisisce attraverso i sensi; infatti questo modo di intendere è connaturale all’uomo” (De Anima 1, ad. 7). Se l’anima è l’unica forma sostanziale del corpo, Tommaso può disfarsi della teoria insegnata da Platone, e largamente condivisa dai suoi contemporanei, della molteplicità delle anime. Nell’uomo si dà una sola anima, quella razionale, che svolge anche le operazioni delle anime inferiori, vegetativa e sensitiva: “Essendo l’anima forma sostanziale, che costituisce l’uomo in una determinata specie di sostanza, non c’è un’altra forma sostanziale intermedia tra l’anima e la materia prima, ma l’uomo dalla stessa anima razionale è perfezionato secondo i diversi gradi di perfezione, in modo da essere corpo, corpo animato e anima razionale” (De Anima, a. 9). L’anima razionale, in quanto forma più perfetta, è in grado di assolvere anche le funzioni espletate dalle forme (anime) meno perfette. Infatti “pur essendo semplice quanto all’essenza, l’anima è potenzialmente molteplice in quanto è principio di svariate operazioni; e poiché la forma perfeziona la materia in ordine non solo all’essere ma anche all’agire, è necessario che l’anima, benché sia forma unica, perfezioni le parti del corpo in svariati modi, come conviene a ogni singola operazione” (ibid., 9, ad 14). L’anima razionale ha due facoltà: l’intelletto e la volontà. Il primo presiede al mondo del conoscere, la seconda al mondo del volere, dello scegliere e del desiderare. All’intelletto spetta anche la memoria, perché quando esso si è impossessato di un’idea, può ritornarvi sopra e conservarla più tenacemente della memoria sensitiva. Tale memoria intellettiva non è una potenza distinta dall’intelletto, non essendovi diversità di oggetto, ma è funzione conservativa dell’intelletto che si è impossessato delle idee (Summa Theologiae I, q. 79, aa. 6-7). Nemmeno la ragione è una potenza diversa dall’intelletto, ma è un’altra funzione dell’intelletto, il quale, nell’uomo, non attinge gli oggetti intuitivamente, immediatamente, ma argomentando, gradatamente. Né sono due diverse potenze l’intelletto speculativo e l’intelletto pratico, 88 che però si distinguono secondo ché dell’uno è proprio l’apprendere, dell’altro è proprio l’indirizzare all’opera ciò che è appreso. La volontà è la facoltà con cui l’uomo tende al bene, e in definitiva al bene universale, perché solo questo bene la può appagare pienamente (I, q. 82, a.1). Alla volontà appartiene il libero arbitrio, grazie al quale essa è padrona dei propri atti e anche degli atti compiuti dalle altre facoltà. La volontà è libera perché l’uomo è dotato di intelletto e ragione, che gli fanno conoscere il grado di bontà degli obiettivi che intende perseguire e, dato che in concreto nessun obiettivo corrisponde al bene universale ma resta sempre un bene particolare, egli può sempre disporne liberamente: “La ragione, in tutti i beni particolari, può osservare l’aspetto buono oppure le sue deficienze di bene, che si presentano come un male; e in base a ciò può apprendere ciascuno di tali beni come degno di elezione o di fuga” (I-II, q.13, a.6). Il libero arbitrio sta alla volontà come la ragione sta all’intelletto, perché come intelletto è l’intendere semplicemente e ragione è l’intendere con ragionamento, così la volontà è volere semplicemente, libero arbitrio è volere con scelta; perciò come la ragione non è una potenza diversa dall’intelletto, così il libero arbitrio non è una potenza diversa dalla volontà. Sulle due facoltà primarie – intelletto e volontà – Tommaso innesta una serie di abiti (virtù e vizi) che qualificano l’agire spirituale dell’anima in svariati modi. I principali abiti intellettivi sono la scienza (la conoscenza della cosa mediante le sue cause, di aristotelica memoria) e la sapienza (il retto giudizio delle cose divine), mentre i principali abiti morali sono le virtù cardinali. Riguardo la questione dell’origine dell’anima, ciò che in Agostino era rimasto sospeso, ai tempi del Dottore Angelico si era risolto a favore della creazione diretta di ogni singola anima da parte di Dio, e questa è stata anche la tesi da lui seguita. Egli dimostra che è la natura spirituale dell’anima scelta a esigere che la sua origine sia dovuta a un intervento diretto di Dio. Infatti l’anima non può essere prodotta da preesistente sostanza materiale, essendole superiore, né può essere prodotta da preesistente sostanza spirituale, perché le sostanze spirituali non si trasmutano l’una nell’altra; perciò deve essere prodotta dal niente, cioè creata, e poiché creare spetta a Dio solo, deve essere creata immediatamente da Dio; e inoltre essendo parte della natura umana, viene creata insieme col corpo. Tommaso riflette sull’anima umana anche da una prospettiva storica e teologica. L’anima di Adamo, prima del peccato, godeva di alcuni doni soprannaturali (grazia santificante) e preternaturali (piena conoscenza delle cose naturali, dominio delle passioni, dominio delle altre cose, possesso di tutte le virtù). Nel primo uomo c’era la soggezione del corpo all’anima, delle forze inferiori alla ragione e della ragione a Dio. Dopo il peccato originale l’anima di Adamo, oltre la perdita della grazia santificante, ha accusato anche la perdita di tutti i doni preternaturali, nonché un indebolimento delle sue facoltà naturali, a causa dello scompiglio delle forze inferiori del corpo. Per i contemporanei del Dottore angelico, che seguivano l’indirizzo platonico agostiniano, l’immortalità dell’anima non costituiva un vero problema, in quanto nella loro antropologia l’anima era concepita come una sostanza spirituale completa e, di conseguenza, esente da tutte le vicissitudini del corpo, inclusa la morte. Il problema dell’immortalità dell’anima 89 sussisteva invece per coloro che avessero voluto sposare le teorie di Aristotele, in particolare nella versione che ne aveva dato Averroè, il quale aveva negato l’immortalità personale. Tommaso fa sue le linee fondamentali dell’antropologia aristotelica, senza però compromettere la tesi dell’immortalità dell’anima. L’anima è forma del corpo e le compete uno statuto ontologico particolare, in quanto possiede l’atto dell’ essere in proprio, direttamente, senza dipendere dal corpo. Ciò la rende incorruttibile e immortale. Di fatto abbiamo due tipi di forme sostanziali: 1. Forme alle quali l’essere sopravviene nel momento in cui si costituisce il composto 2. Forme alle quali l’atto dell’essere compete ancor prima che si realizzi il composto. Le prime sono corruttibili; le seconde sono incorruttibili: “Se dunque esiste una qualche forma che è avendo l’essere, è necessario che la medesima forma sia incorruttibile” (De Anima, a. 14). Questo è il caso dell’anima umana. Infatti “non si separa l’essere da una cosa che ha l’essere se non in quanto si separa la forma da essa; pertanto se ciò che ha l’essere è la stessa forma, è impossibile che l’essere sia separato da essa. Ora è manifesto che il principio per cui l’uomo svolge l’attività intellettiva è forma avente l’essere in sé e non solo come ciò per cui una cosa è … Dunque il principio intellettivo per cui l’uomo intende è forma avente l’essere in proprio; onde è necessario che sia incorruttibile” (ibid.). Egli supera le difficoltà di coloro che considerano l’anima mortale se unita sostanzialmente al corpo. Tali assertori dimenticano che “Alcuni, identificando l’anima col corpo, negarono addirittura che essa sia forma e ne fecero un composto di materia e forma. Altri, sostenendo che l’intelletto non differisce dal senso, di conseguenza ammisero che anche la sua attività si svolge mediante un organo corporeo, e così non avrebbe l’essere elevato sopra la materia, onde non sarebbe forma avente l’essere in proprio. Infine altri ancora, considerando l’intelletto una sostanza separata, esclusero che l’attività intellettiva appartenga all’anima stessa. Ma tutte queste teorie sono false, come abbiamo già mostrato in precedenza. Perciò l’anima umana è incorruttibile” (ibid.). L’immortalità dell’anima è dote naturale essenziale, diretta conseguenza della sua spiritualità, pertanto non può essere intaccata dal peccato originale. Infatti “il peccato toglie totalmente la grazia, ma nulla rimuove dell’essenza della cosa; rimuove qualcosa circa l’inclinazione o capacità della grazia … ma non è mai tolto il bene di natura, perché sotto disposizioni contrarie rimane sempre la potenza, benché si allontani sempre di più dall’atto” (De Anima 14, ad. 6). Neppure Dio, che pure ha il potere di ridurre al nulla tutto ciò che ha condotto all’essere, priva l’anima dell’immortalità annichilendola, perché Dio, nel suo sapiente governo delle cose, non va mai contro le disposizioni naturali di cui le ha dotate. La concezione dell’anima nell’Aquinate poggia sulla sua concezione intensiva dell’essere, come ciò che conviene alle cose, come la realtà più immediata e più intima. L’essere è atto immediato e diretto dell’anima ancor prima che questa se ne faccia mediatrice al corpo: sarà essa a comunicare al corpo l’essere in cui essa stessa sussiste. La Scolastica agostiniana presenta una sola novità, in contrasto con l’indirizzo aristotelico – tomistico della stessa Scolastica: l’introduzione di una forma corporeitatis come realtà che il corpo umano possiede, come corpo organico, indipendente dalla sua unione con l’Anima 90 (Duns Scoto, Ockham). Quest’ammissione è legata al riconoscimento che la materia in generale non è pura potenza ma possiede, già come materia, una certa realtà attuale che è appunto la forma corporeitatis. Ockham ci offre un’innovazione assai più radicale: il dubbio sulla realtà dell’anima intellettiva. Sostiene infatti Ockham che, se si intende per Anima intellettiva “una forma immateriale e incorruttibile che è tutta in tutto il corpo e tutta in ciascuna parte, non si può conoscere con evidenza, né con la ragione né con l’esperienza, che una tale Anima sia forma del corpo e che l’intendere sia proprio di una tale sostanza” (Quodlibet, I, q. 10). Le ragioni che si possono addurre per la dimostrazione di una tale forma sono dubbie; e, quanto all’esperienza, tutto ciò che noi sperimentiamo sono l’intellezione, la volizione, ecc.:operazioni che possono ben essere proprie di una “forma estesa, generabile e corruttibile”, cioè del corpo stesso. Egli perciò relega tra le materie di fede non solo l’immortalità dell’anima (come già aveva fatto Duns Scoto) ma la realtà stessa dell’Anima intellettiva come supposto soggetto delle operazioni spirituali di cui abbiamo esperienza. Questa negazione è fatta proprio sulla base dell’esperienza che si ha dei propri atti spirituali (intellettivi e volitivi): esperienza che, per Ockham, è una conoscenza intuitiva di natura spirituale (cognitio intuitiva intellectiva) per la quale sono immediatamente presenti, nella loro singolarità e nelle loro relazioni reciproche, gli atti o le operazioni spirituali. Con queste notazioni il concetto di un’esperienza interna, diversa dall’esperienza sensibile o esterna, veniva introdotto nella storia della filosofia, proprio mentre la realtà, cui tale esperienza dovrebbe dare accesso, cioè la realtà dell’Anima, veniva messa in dubbio. L’esperienza interna doveva diventare con Cartesio il punto di partenza della filosofia moderna. La nozione dell’Anima come sostanza sopravvive alla crisi del Rinascimento. Né il materialismo di Telesio e di Hobbes costituiscono vere e proprie negazioni della sostanzialità dell’anima. Telesio ammette una sostanza intellettiva, direttamente creata e infusa da Dio nell’uomo, solo per spiegare la vita religiosa dell’uomo, la sua aspirazione al Trascendente; ma lo stesso “spirito animale”, di cui egli si avvale per spiegare la sensibilità, l’intelligenza e anche la vita morale dell’uomo, pur essendo di natura corporea e prodotto dal seme, è da lui considerato come realtà a sé, come sostanza (De rerum natura, V, 2. 10). Quanto a Hobbes egli dichiara illegittimo il passaggio operato da Cartesio dalla proposizione “Io sono una cosa che pensa”, che è indubitabile, alla proposizione “Io sono una sostanza pensante”: giacché non è necessario che la cosa che pensa sia pensiero, ma può essere il corpo stesso (III Objections, 2). Che l’Anima sia una cosa, cioè una realtà, non viene negato dall’interpretazione materialistica di essa. Per ciò che riguarda la nozione di anima nel mondo moderno, abbiamo uno sviluppo decisivo con Cartesio. Egli riafferma la realtà dell’Anima e riconosce una via di accesso privilegiata a tale realtà. Questa via di accesso è il pensiero o, per meglio dire, la coscienza. Il cogito ergo sum rivela in modo evidente la sostanza pensante, cioè rivela “un essere l’esistenza del quale ci è più conosciuta di quella degli altri in modo che può servire come 91 principio per conoscerli” (Lettre à Clercelier, in Oeuvres, IV, 443). Ora il cogito comprende “tutto ciò che è in me e di cui sono immediatamente cosciente”: cioè il dubitare, il capire, il concepire, l’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’immaginare, il sentire ecc. Sicché la coscienza è una via di accesso privilegiata perché sicura al punto di essere assolutamente indubitabile, ad una realtà, la sostanza Anima, che è a sua volta privilegiata perché può servire come principio per conoscere le altre realtà. E difatti è la stessa coscienza, in quanto testimonia il carattere passivo della facoltà sensibile, che fa pensare a una sostanza o realtà diversa dall’Anima e che agisca sull’Anima: cioè a una sostanza corporea o estesa, che poi il principio della veridicità divina rende certa. Il nostro autore ha determinato la svolta soggettivistica dell’interpretazione dell’Anima come sostanza. Gli attributi dell’Anima anche per lui rimangono quelli tradizionali (semplicità, immortalità, unità ecc.) ma la via di accesso alla realtà dell’Anima ha il privilegio di essere la più certa perché possiede la certezza del Cogito. Rispetto a questa certezza, quella delle altre cose, cioè delle sostanze estese, è secondaria e derivata, perché mediata appunto dalla coscienza. Spinoza e Leibniz traducono il concetto cartesiano dell’anima secondo il loro concetto di realtà. Per Spinoza l’anima è “l’idea di un corpo singolo esistente in atto” (Ethica, II,11); cioè la coscienza correlativa a un corpo organico. Essa non può essere sostanza, perché la sostanza è unica ed è Dio. Come idea, l’anima è parte dell’intelletto infinito di Dio, cioè è una manifestazione necessaria della sostanza divina (ibid., II, 9), quindi è eterna. Per Leibniz l’Anima è una sostanza spirituale, una monade che, come uno specchio, rappresenta in sé tutto il mondo ma è in se stessa semplice, cioè senza parti e indecomponibile (Monadologia, & 1,56). A differenza delle altre monadi, che sono gli atomi spirituali che compongono tutte le cose dell’universo (comprese quelle corporee), l’Anima è spirito, cioè ragione, in quanto possiede le verità necessarie e può così elevarsi agli atti riflessivi che costituiscono gli oggetti principali dei nostri ragionamenti (Theodicea, pref.; Monadologia &30). Ma si tratta di una differenza di grado, più che di qualità: l’Anima è soltanto una monade più attiva e perfetta nella quale le appercezioni, cioè le percezioni chiare e distinte, hanno una parte maggiore di fronte alle piccole percezioni o percezioni oscure e confuse. La dottrina di Leibniz rappresenta così una riduzione al limite, nel senso spiritualistico, del principio cartesiano che privilegiava la coscienza. La psicologia razionale di Wolff, che formò l’oggetto specifico della critica di Kant, non è che l’espressione sistematica della dottrina di Leibniz. A partire da Cartesio il concetto di “coscienza”, cioè di totalità o mondo dell’esperienza interna, comincia gradualmente ad aver la meglio sul concetto tradizionale dell’anima. Già Cartesio e Leibniz, pur riferendosi alle determinazioni tradizionali dell’Anima come sostanza, finiscono per interpretare a loro modo la nozione di sostanza: la realtà che essi attribuiscono all’Anima è quella rivelata e 92 testimoniata dagli atti, o dall’atto fondamentale della coscienza come pensiero, appercezione, ecc. Locke, che riteneva inconoscibile la sostanza spirituale (come d’altronde quella materiale) (Saggio sull’Intelletto umano, II, 23,30), ha ritenuto certa, in modo privilegiato, la conoscenza che l’uomo ha della propria esistenza, attribuendola ad una “conoscenza intuitiva” che non è se non la coscienza dei propri atti spirituali (ibid., IV, 9,3). Inoltre egli ha riconosciuto nell’esperienza interna o riflessione una delle fonti della conoscenza e l’ha intesa come “la percezione delle operazioni che il nostro spirito compie intorno alle idee che ha dall’esterno”. Tali operazioni sono quelle di percezione, pensiero, dubbio, conoscenza, volontà, ecc., cioè in generale tutti gli atti dello spirito di cui si è coscienti: “Questa sorgente di idee risiede internamente nell’uomo; e per quanto non sia un senso perché non ha niente a che fare con gli oggetti esterni, pure è simile a un senso e può essere propriamente chiamato senso interno” (ibid., II, I, 4). Con ciò Locke ha ammesso due vie di accesso parallele e indipendenti a due realtà presupposte indipendenti e parallele, cioè i corpi e l’anima. Hume non ha presupposto la distinzione di queste due realtà, né, per conseguenza, ha ammesso la distinzione tra le due vie di accesso rispettive. La realtà sostanziale, sia quella delle cose materiali, sia quella dell’Anima o dell’io, è una costruzione fittizia, che prende lo spunto dalle relazioni di somiglianza e di causalità delle percezioni tra di loro (Trattato sulla natura umana, I, 4, 2). Gli ingredienti elementari di tali costruzioni, il solo dato certo dell’esperienza, sono costituiti da impressioni e da idee, cioè sono forniti dall’esperienza interna, o coscienza. Sicché, mentre realizza la dimensione scettica della nozione di anima come realtà o sostanza, il nostro autore contribuisce in pari misura a stabilire la supremazia della coscienza i cui dati sono riconosciuti come i soli elementi certi della conoscenza umana. Kant, con la sua critica alla psicologia razionale, critica la concezione tradizionale di anima con i suoi attributi di sostanzialità, semplicità, unità e possibilità di rapporti col corpo (Critica alla Ragion Pura, Dialettica Trascendentale, Paralogismi della ragion pura). L’intera psicologia razionale si fonda su un paralogisma, cioè su di un errore formale di ragionamento o su un equivoco, nel senso che assume come oggetto di conoscenza, cui applicare la categoria di sostanza, quell’ “Io penso” che è semplice coscienza e che è la condizione prima dell’uso stesso delle categorie: “L’unità della coscienza, che è a fondamento delle categorie, viene qui presa per intuizione del soggetto, preso come oggetto, e le si applica la categoria di sostanza” (ibid.). La coscienza è quella espressa dalla proposizione empirica “Io penso” la quale contiene in sé la proposizione “Io esisto”, e cioè la coscienza della propria esistenza come determinabile da parte di un contenuto empirico dato, e cioè come spontaneità intellettuale che non può operare se non su un materiale fornito dall’esperienza. Essa è quindi diversa dalla conoscenza di se stesso che, come ogni 93 altra conoscenza, è possibile solo mediante l’applicazione delle categorie a un contenuto empirico ed è perciò anch’essa conoscenza fenomenica. Stando ciò, la critica kantiana alla psicologia razionale e al concetto dell’Anima su cui essa si impernia, consiste nel dichiarare illegittima la trasformazione della coscienza in sostanza e perciò nell’eliminare la nozione stessa di Anima come realtà di per sé sussistente. La divaricazione tra coscienza e Anima è al culmine: l’una è presa come condizione di possibilità dell’oggetto di conoscenza, l’altra viene scartata. Da Kant in poi, anche quando si parla ancora di anima, si intende di fatto la coscienza. La coscienza, da via di accesso alla realtà anima, si trasforma nella medesima. Hegel considera l’anima come il primo grado dello sviluppo dello Spirito, che è la coscienza nel suo grado più alto, cioè autocoscienza; e la configura come Spirito soggettivo, cioè come spirito nell’aspetto della sua individualità. Egli descrive così tale processo: “Nell’Anima si desta la coscienza; la coscienza si pone come ragione che si è immediatamente destata alla consapevolezza di sé; e la ragione, mediante la sua attività, si libera col farsi oggettività, coscienza del suo oggetto” (Enciclopedia delle scienze filosofiche, §387). L’anima è il primo di questi momenti, cioè il destarsi della coscienza. Ad essa il nostro autore riconosce le caratteristiche tradizionali (sostanzialità, immaterialità), ma in un senso in cui queste caratteristiche possono essere riferite alla coscienza: “L’anima non è immateriale soltanto per sé ma è l’immaterialità universale della natura, la sua semplice vita ideale. Essa è la sostanza e quindi il fondamento assoluto di ogni particolarizzazione e individualizzazione dello spirito, di modo che lo spirito ha nell’anima ogni materia della sua determinazione e l’Anima resta l’idealità identica e prevalente di questa. Ma in tale determinazione ancora astratta l’Anima è soltanto il sonno dello spirito, il nous passivo di Aristotele, che, sotto l’aspetto della possibilità, è tutto” (ibid., § 389). In altri termini, che l’Anima sia immateriale significa soltanto che la materia non esiste perché la verità della materia è lo spirito; e che l’Anima sia sostanza significa soltanto che lo spirito è anche individualità, cioè coscienza individuale. Le determinazioni tradizionali sono qui ricondotte a significati diversi, condizionati dalla riduzione dell’Anima alla prima fase dello spirito cosciente. Il Positivismo riprende la dottrina dell’empirismo classico, in particolare di Hume. Il tentativo è di preparare e di fondare una “scienza dei fatti psichici” che avesse lo stesso rigore delle scienze della natura. In questa direzione già il termine Anima appare improprio e viene spesso sostituito dal termine “spirito”; in questo senso John Stuart Mill dice che lo spirito è la serie delle nostre sensazioni con, in più, un’infinita possibilità di sentire, o, più semplicemente, ciò che sente. Oggetto della psicologia diventano i fenomeni psichici o gli stati di coscienza, che vengono spiegati mediante il vario associarsi dei loro elementi più semplici. Tale psicologia senza Anima presiedette agli inizi della psicologia scientifica e fu l’insegna polemica per l’eliminazione, dal campo di essa, della nozione tradizionale dell’anima come sostanza. Il termine, tuttavia, fu ed è ancora usato per indicare l’insieme delle esperienze psichiche in quanto sono raccolte in una qualche unità. Wundt per unità 94 intese l’unità della coscienza. Dewey scrive: “In conclusione si può affermare che la parola Anima, quando è liberata da tutte le tracce del tradizionale animismo materialistico, denota la qualità delle attività psico-fisiche, in quanto sono organizzate in unità. Alcuni corpi hanno Anima in modo eminente come altri hanno eminentemente fragranza, colore e solidità … Dire enfaticamente di una persona particolare che essa ha un’Anima o una grande Anima, non significa pronunziare una frase fatta applicabile ugualmente a tutti gli esseri umani. Esprime invece la convinzione che l’uomo o la donna in questione possiede in grado notevole le qualità di una sensibile, ricca e coordinata partecipazione a tutte le situazioni della vita. Così le opere d’arte, la musica, la pittura, l’architettura hanno Anima, mentre altre sono morte, meccaniche” (Esperienza e Natura, 293 sgg.). Ma l’Anima in questo senso non è più un abitante del corpo, ma designa un insieme di capacità o di possibilità di cui ogni singolo uomo o cosa partecipa più o meno. Ryle ha battezzato la concezione di Anima, che fa risalire a Cartesio, come quella dello “spettro nella macchina”. In realtà la nozione è molto più antica e deve la sua forza, più che alle sue capacità esplicative, alle garanzie che essa fornisce o sembra fornire a determinati valori. Ryle ritiene che la nozione sia frutto di un errore categoriale per il quale i fatti della vita mentale sono considerati appartenenti a un tipo o categoria (o classe di tipi o categorie) logica (o semantica) diversa da quella cui essi appartengono. Tale errore è simile a quello di chi, dopo aver visitato aule, laboratori, biblioteche, musei … che costituiscono un’Università, si domandi che cosa sia o dove risieda l’Università stessa. L’università non è un’unità che si aggiunga agli organismi o ai membri che la costituiscono e che possegga quindi una realtà a parte da tali organismi o membri. Così pure l’Anima non ha realtà a parte dalle manifestazioni singole, dai comportamenti particolari superiori che la parola serve a designare nel loro complesso. In conclusione, anche assai prima di quest’ultima condanna, la nozione tradizionale di anima come una specie di realtà a sé, principio e fondamento degli eventi detti mentali, era stata abbandonata e ridotta alla nozione di un’unità funzionale o di una qualche specie di coordinazione e di sintesi tra quegli eventi. In questa forma la nozione rinvia a quella di coscienza. 95 Gnoseologia Per conoscenza, in generale, si intende una tecnica per l’accertamento di un oggetto qualsiasi, o la disponibilità o il possesso di una tecnica siffatta. Per tecnica di accertamento va intesa una qualsiasi procedura che renda possibile la descrizione, il calcolo e la previsione controllabile di un oggetto; e per oggetto va intesa qualsiasi entità, fatto, cosa, realtà o proprietà, che possa essere sottoposto a una tale procedura. Tecnica, in questo senso, è l’uso normale di un organo di senso come la messa in opera di complicati strumenti di calcolo: entrambi questi procedimenti consentono infatti accertamenti controllabili. Non possiamo presumere che tali accertamenti siano infallibili ed esaurienti: non esiste una tecnica di accertamento tale che, una volta adoperata nei confronti di una conoscenza x, renda inutile il suo ulteriore impiego nei confronti della stessa conoscenza, senza che questa perda nulla della sua validità. La controllabilità delle procedure di accertamento, grossolane o raffinate che siano, significa la ripetibilità delle loro applicazioni, sicché una conoscenza accertabile o più semplicemente una conoscenza, rimane tale solo finché sussiste la possibilità dell’accertamento. Le tecniche di accertamento possono avere, tuttavia, i più diversi gradi di efficacia e possono, al limite, avere efficacia minima o nulla: in questo caso, decadono di diritto dal rango delle conoscenze. La “conoscenza di x” significa infatti una procedura che è in grado di fornire qualche informazione controllabile intorno a x, cioè che consenta di descriverlo, calcolarlo o prevederlo in certi limiti. La disponibilità o il possesso di una tecnica conoscitiva designa la partecipazione personale a questa tecnica. “Io conosco x” significa (salvo limitazioni) che sono in grado di porre in opera una procedura che rende possibile la descrizione, il calcolo o la previsione di x. Il significato personale o soggettivo di conoscenza è perciò da ritenersi secondario e derivato: il significato primario è quello oggettivo e impersonale su esposto. Questo significato primario consente di distinguere la credenza dalla conoscenza: la credenza è l’impegno alla verità di una nozione qualsiasi, anche non accertabile; la conoscenza è una procedura di accertamento o la partecipazione possibile a una tale procedura. Come procedura di accertamento, ogni operazione conoscitiva è diretta a un oggetto e tende a instaurare con l’oggetto stesso un rapporto dal quale emerga una caratteristica effettiva di esso. Le interpretazioni della conoscenza sono le formulazioni del rapporto tra operazione conoscitiva e oggetto. Secondo una prima interpretazione il rapporto conoscitivo consiste in una identità o somiglianza (identità debole o parziale) e l’operazione conoscitiva è una procedura di identificazione con l’oggetto e di riproduzione di esso. Nella prima fase l’identità o la somiglianza con l’oggetto viene intesa come identità o somiglianza degli elementi della conoscenza con gli elementi dell’oggetto, la somiglianza dei concetti o delle rappresentazioni con le cose. Così la dottrina della conoscenza come identificazione è apparsa nel mondo antico. I presocratici la espressero con il principio che “il simile conosce il simile”, per cui Empedocle affermava che conosciamo la terra con la terra, l’acqua con l’acqua (frammento 105, Diels). Varianti di questo principio possono essere considerate sia l’affermazione di Eraclito “ciò 96 che si muove conosce ciò che si muove” (Aristotele, De Anima, I, 2, 405 a 27) sia quella di Anassagora secondo la quale “l’anima conosce il contrario con il contrario” (Teofrasto, De sensu, 27). Quest’ultima sembra alludere più ad una condizione della conoscenza – che presuppone la diversità, come dirà Aristotele (De Anima II, 5, 417 a 16) - che allo stesso atto conoscitivo, come indica la giustificazione che gli viene data: “il simile infatti non può subire l’azione del simile”. Platone e Aristotele stabilirono su solide basi tale interpretazione della conoscenza. Platone spiega i processi conoscitivi con i concetti dell’incontro del simile con il simile e di omogeneità: conoscere significa rendere simile il pensante al pensato (Timeo 45 c, 90 c-d). Per questo i gradi di conoscenza si modellano sui gradi dell’essere: non si può conoscere con certezza, cioè con saldezza, ciò che non è saldo perché la conoscenza non fa che riprodurre l’oggetto; sicché “ciò che assolutamente è, è assolutamente conoscibile, mentre ciò che non è in nessun modo, in nessun modo è conoscibile” (Repubblica, 477 a). In tal modo Platone fece corrispondere all’essere la scienza, che è la conoscenza vera; al non essere l’ignoranza e al divenire, che è tra l’essere e il non essere, l’opinione che sta in mezzo tra la conoscenza e l’ignoranza. E distinse i seguenti gradi della conoscenza: la supposizione o congettura che ha per oggetto ombre ed immagini delle cose sensibili; l’opinione creduta ma non verificata che ha per oggetto delle cose naturali, gli esseri viventi e in generale il mondo sensibile; la ragione scientifica che procede per via di ipotesi ed ha per oggetto gli enti matematici; l’intelligenza filosofica che procede dialetticamente ed ha per oggetto il mondo dell’essere (ibid., 509-510). Ognuno di questi gradi di conoscenza è la copia esatta del suo oggetto rispettivo: per Platone conoscere è stabilire in ogni caso con l’oggetto un rapporto di identità o che si avvicini quanto più possibile all’identità. Secondo Aristotele la conoscenza in atto è identica con l’oggetto conosciuto: è cioè la stessa forma sensibile dell’oggetto, se si tratta di conoscenza sensibile; è la stessa forma intellegibile, o sostanza, dell’oggetto se si tratta di conoscenza intellegibile (De anima, II, 5, 417a). La facoltà sensibile e l’intelletto potenziale sono semplici possibilità di conoscere; ma quando queste possibilità si realizzano, per l’azione delle cose esterne la prima, per l’azione dell’intelletto attivo la seconda, s’identificano con i rispettivi oggetti e, per es., l’udire un suono (sensazione in atto) s’identifica con il suono stesso come l’intendere una sostanza si identifica con la sostanza stessa. Egli può affermare in generale che “la scienza in atto è identica al suo oggetto” (De anima III, 7, 431a 1). Questa dottrina aristotelica si può considerare come la forma tipica dell’interpretazione della conoscenza come identità con l’oggetto. Tale interpretazione domina, con l’eccezione degli Stoici, il corso ulteriore della filosofia greca. Epicuro ritiene che il flusso dei simulacri (eidola) che si staccano dalle cose e si imprimono sull’anima serve appunto a garantire la somiglianza delle immagini con le cose (Epistola a Erodoto, 51). E Plotino si avvale dello stesso concetto per chiarire la natura della conoscenza. La conoscenza si ha quando la parte dell’anima con cui si conosce si unifica e fa tutt’uno con l’oggetto conosciuto. Se l’anima e quest’oggetto rimangono due, l’oggetto rimane esterno all’anima stessa e la 97 conoscenza di esso rimane inoperante. Solo l’unità dei due termini costituisce la conoscenza vera (Enneadi, III, 8, 6). Nella filosofia cristiana la stessa interpretazione prevale, ed è anzi il fondamento delle più caratteristiche speculazioni teologiche e antropologiche. Secondo Agostino l’uomo può conoscere Dio in quanto egli stesso è immagine di Dio. Memoria, intelligenza e volontà, nella loro unità e distinzione reciproca, riproducono nell’uomo la Trinità divina di Essere, Verità e Amore (De Trinitate X, 18). Questa nozione dominò l’intera teologia medievale e fu anche il fondamento dell’antropologia. Ma da essa derivava una conseguenza importante per la conoscenza che l’uomo ha delle cose inferiori a Dio. Il riconoscimento dell’origine divina dei poteri umani (in quanto immagini dei poteri divini) rende i poteri umani relativamente indipendenti dagli altri oggetti conoscibili e accentua l’importanza del soggetto conoscente. Se per Aristotele la facoltà sensibile e l’intelletto potenziale non sono che i loro stessi oggetti “in potenza” e non hanno nessuna indipendenza di fronte a questi oggetti, per Agostino “ogni conoscenza deriva insieme dal conoscente e dal conosciuto” (ibid., XIX, 12), mettendo così sullo stesso piano l’oggetto conosciuto e il soggetto conoscente come condizione della conoscenza. Tommaso articola la questione della conoscenza secondo questi pilastri: il realismo per il quale la conoscenza non è una creazione della mente umana (idealismo) e neppure un’interpretazione meramente soggettiva dei dati dell’esperienza (empirismo, fenomenismo), ma è una rappresentazione della realtà, che può essere vera o falsa nella misura in cui si conforma o non si conforma alla realtà l’importanza dell’esperienza sensitiva, che costituisce il punto di partenza di ogni conoscenza. Anche la conoscenza intellettiva viene ricavata dall’esperienza sensitiva. Egli fa sua la tesi aristotelica dell’astrazione e respinge la dottrina platonico – agostiniana dell’illuminazione. L’uomo stesso è autore di tutte le sue conoscenze tranne quelle della fede. Così nella visuale tomistica l’uomo è padrone di se stesso (dei propri atti) non solo nell’ambito della volontà, ma anche in quello dell’intelletto l’armonia tra fede e ragione, tra il mondo delle cose che l’uomo riesce ad acquisire con la laboriosa indagine e il mondo delle verità che gli vengono offerte dalla Parola di Dio. Egli così definisce la conoscenza: “Si ha cognizione perché l’oggetto conosciuto viene a trovarsi nel conoscente” (S. Th., I, q. 59, a. 2), oppure: “la conoscenza ha luogo nella misura in cui il conosciuto è nel conoscente” (I, q. 12, a. 4). L’oggetto conosciuto si trova nel conoscente secondo il modo dell’assimilazione: “Omnis cognitio fit per assimilationem cognoscentis ad cognoscitum” (Contra Gentiles I, c. 65, n. 537). L’assimilazione dà come risultato la formazione nel conoscente di un’immagine dell’oggetto conosciuto: “Omnis cognitio fit secundum similitudinem cogniti in cognoscente” (ibid., II, c. 77, n. 1581). Con una formula più elaborata e completa la conoscenza 98 viene così descritta: “Qualsiasi conoscenza avviene mediante qualche specie, grazie alla cui informazione ha luogo l’assimilazione del conoscente alla cosa conosciuta” (I Sent., d. 3, q. 1, a. 1, ob. 3). Tommaso divide la conoscenza umana in due tipi, sensitiva e intellettiva: “L’anima ha una duplice potenza conoscitiva. Una è atto d’un organo corporeo. E ad essa è connaturale conoscere le cose secondo che sono nella materia individuale: cosicché il senso non conosce che i singolari. L’altra potenza conoscitiva dell’anima è l’intelletto, il quale non è atto o funzione di alcun oggetto corporeo. Perciò, mediante l’intelletto ci è connaturale conoscere nature (o essenze) le quali veramente non hanno l’essere che nella materia individuale; tuttavia non sono percepite da noi in quanto esistenti nella materia, ma in quanto ne sono astratte dall’intelletto che le considera. Cosicché noi possiamo conoscere intellettualmente tali cose con una conoscenza universale: il che supera la capacità del senso” (S. Th., I, q. 12, a. 4). La conoscenza sensitiva si suddivide a sua volta in due gruppi: a. quella dei sensi esterni (vista, udito, gusto, odorato e tatto) e quella dei sensi interni (senso comune, memoria, fantasia ed estimativa o istinto), che unifica, conserva e magari modifica le percezioni isolate dei sensi esterni (I, q. 78, aa. 3 e 4). Tra i sensi interni e l’intelletto Tommaso introduce un’altra facoltà a cui dà il nome di cogitativa, la quale ha la funzione di saldare in qualche modo il concetto universale con le immagini particolari. Essa svolge nell’uomo la stessa funzione che negli animali viene svolta dall’istinto: “Perciò quella potenza che negli animali è chiamata estimativa naturale (istinto), nell’uomo viene detta cogitativa, perché raggiunge queste immagini intenzionali mediante una specie di ragionamento” (I, q. 78, a. 4). Già riconosciuta da Aristotele, la cogitativa è stata più attentamente studiata dai filosofi arabi, specialmente da Averroè, di cui il Dottore Angelico riprende le tesi principali. Secondo costui, alla cogitativa, detta anche ratio particularis, competono le seguenti funzioni: a) apprendere i contenuti di valore o intentiones insensatae, quali la bontà o la malizia di un oggetto (I, q. 78, a. 4); b) giudicare dei sensibili comuni e dei sensibili propri (De veritate, I, q. 11); c) preparare il phantasma da cui l’intelletto possa astrarre la conoscenza dell’essenza (Contra Gentiles, II, c. 60); d) percepire in concreto quelle nozioni ontologiche fondamentali (realtà, sostanza, causa, relazione e gli altri predicamenti) che l’intelletto afferra poi nell’universalità dell’astrazione. La cogitativa apprende l’individuo in quanto esistente sotto la natura comune, e ciò avviene in quanto essa si collega con l’intelletto nello stesso soggetto; così essa conosce questo uomo in quanto è questo uomo e conosce questo legno in quanto è questo legno. La cogitativa opera quindi il raccordo tra l’intelletto e il senso sia nella funzione discendente come in quella ascendente e parimenti tra la volontà deliberante e l’appetito concupiscibile e irascibile; in essa quindi si viene raccogliendo ciò che forma la materia delle attuazioni superiori dello spirito, la scienza e la virtù: “La cogitativa rappresenta il massimo grado della parte sensitiva, dove attinge in qualche modo la parte intellettiva tanto da diventare partecipe di ciò che spetta alla parte intellettiva, ossia il grado minimo del discorso razionale, come prescrive la regola di Dionigi 99 l’Areopagita” (De Veritate, q. 14, a. 1, ad 9). La cogitativa unisce saldamente l’attività dei sensi con quella della ragione e dell’intelletto e viceversa, sicché non si registra nessuna spaccatura tra il mondo dei sensi e quello dell’intelletto, ma una continuità naturale e ininterrotta. All’intelletto Tommaso assegna tre attività principali: l’astrazione, il giudizio, il ragionamento. Il nostro autore recupera, dunque, a proposito dell’attività intellettiva, la teoria aristotelica dell’astrazione, preferendola alla teoria agostiniana dell’illuminazione. L’astrazione, per Aristotele come per Tommaso, è l’attività con cui l’intelletto ottiene le idee universali derivandole dai dati particolari proposti dall’immaginazione: “E’ proprietà dell’intelletto umano conoscere le forme che hanno una sussistenza individuale nella materia, ma non in quanto sono una determinata materia. Ora, conoscere ciò che esiste in una determinata materia, non però come si trova in quella materia, significa astrarre la forma dalla materia individuale rappresentata dai fantasmi (le immagini della fantasia). Dunque è necessario concludere che il nostro intelletto conosce le cose materiali mediante l’astrazione dai fantasmi, e che da una siffatta conoscenza delle cose materiali possiamo raggiungere una certa conoscenza delle cose immateriali” (I, q. 85, a. 1). Fino agli inizi del sec. XIII la dottrina corrente tra gli scolastici per spiegare l’origine della conoscenza intellettiva era quella della illuminazione, teorizzata da S. Agostino. Secondo tale dottrina, le conoscenze che hanno valore assoluto, le cosiddette verità eterne non sono frutto della ricerca umana bensì della illuminazione divina; perché, a parere di Agostino e dei suoi seguaci, la contingenza delle cose e la fragilità dell’intelletto non consentono alla nostra mente di giungere a tali altezze con le sue sole forze. Ma, nel sec. XIII, in seguito alla riscoperta di Aristotele e delle sue dottrine psicologiche, gnoseologiche e metafisiche, si prospetta ai latini un nuovo modo di concepire la conoscenza, che elimina qualsiasi intervento divino e la fa dipendere esclusivamente dalla attività della mente umana. Questa dottrina, per certi aspetti, poteva sembrare dissacrante, antireligiosa e pagana. E, in effetti, essa costituiva una delle principali ragioni per cui Aristotele era stato ripetutamente proscritto dall’università di Parigi e dalle altre scuole filosofiche e teologiche della Francia, dell’Italia e dell’Inghilterra. Tommaso, ottimo conoscitore e commentatore di Aristotele, nota che, in sede strettamente teoretica, la dottrina dell’astrazione è molto più solida di quella dell’illuminazione. La seconda è insostenibile, almeno per due ragioni: “Prima, perché se l’anima possiede una nozione naturale di tutte le cose, non sembra possibile che cada in tale oblio di questa conoscenza naturale, da ignorare persino di possedere tale conoscenza. Nessuno, infatti, dimentica quello che conosce per natura, per es., che il tutto è maggiore della parte e altre verità del genere … Seconda, la falsità di tale teoria appartiene chiaramente dal fatto che, quando abbiamo la mancanza di un dato senso, viene a mancare la scienza di quelle cose che sono percepite per mezzo di esso; così il cieco nato non può avere nessuna nozione dei colori. Ora, questo non avverrebbe, se nell’anima fossero innati i concetti di tutte le cose intellegibili” (I, q. 84, a. 3). Ma c’è anche una terza ragione che il Dottore Angelico ha ben presente quando difende la causalità delle creature: è che se si sottrae all’iniziativa umana, per rimetterla nelle mani di Dio, l’azione della conoscenza intellettiva, la quale inizia con l’astrazione, si svilisce l’uomo stesso, in quanto lo si priva di ciò che maggiormente lo nobilita e lo innalza al di sopra degli animali. Tommaso mette a confronto la situazione della mente prima dell’astrazione delle idee con quella 100 della mente dopo l’astrazione. Prima la mente è in possesso solo dei fantasmi di cose singole e della facoltà intellettiva di accogliere le idee (intelletto passivo o possibile). Dopo l’astrazione l’idea viene registrata e conservata dall’intelletto passivo. Ora, perché il fantasma assurga allo stato di idea e, a sua volta, l’intelletto sia in grado di acquisirla e conservarla, occorre far intervenire un’operazione che il nostro autore si rifiuta di attribuire a qualche agente estraneo alla mente umana, sia il Dio illuminatore di Agostino, o il Dator formarum di Avicenna, e la attribuisce all’intelletto agente. Pertanto, egli scrive, “occorre ammettere anche un intelletto agente. Infatti, essendo l’intelletto possibile in potenza rispetto agli intellegibili, è necessario che siano gli intellegibili stessi ad attuare l’intelletto possibile. Ma ciò che non esiste non può attuare qualcosa. Ora, l’intellegibile, per quanto dipende dall’intelletto possibile, non ha un’esistenza propria, ossia non diviene esistente come intellegibile. Infatti ciò che l’intelletto possibile apprende è l’astratto di molte cose e si trova esistente in molte di esse. Ma una cosa simile non si trova sussistente nella natura delle cose. Dunque, se l’intelletto possibile deve essere mosso dall’intellegibile, questo deve diventare prima intellegibile mediante l’intelletto. E non potendo questo esser fatto dall’intelletto possibile, bisogna porre, oltre all’intelletto possibile, anche un intelletto agente che elabori gli intellegibili in atto, i quali muovono l’intelletto possibile. L’intelletto agente genera gli intellegibili astraendoli dalla materia e dalle condizioni materiali che sono i principi di individuazione” (De anima, a. 4). “E’ quindi evidente che l’intelletto agente costituisce la causa principale che produce la rappresentazione delle cose nell’intelletto possibile. Invece i fantasmi che sono ricevuti dalle cose esterne costituiscono la causa strumentale. Quanto all’intelletto possibile, rispetto alle cose di cui acquista cognizione è da considerarsi come un paziente che coopera con l’agente” (Quodl., VIII, q. 2, a. 2). I fantasmi sono sempre l’oggetto su cui cade il lume dell’intelletto agente nel momento in cui pensa, astraendola, una determinata idea. In continuità con l’incarnazione dell’anima nel corpo, a livello conoscitivo si realizza l’incarnazione dell’intelletto nella fantasia. Attraverso tre gradi di astrazione si ottengono tre grandi classi di idee: le idee fisiche, le idee matematiche e le idee metafisiche. Le prime si ottengono prescindendo dalla materia sensibile particolare; le seconde prescindendo dalla materia sensibile, ma non da quella intellegibile; le ultime prescindendo da qualsiasi specie di materia: “Ci sono infine degli oggetti che non dipendono dalla materia neppure per esistere: infatti possono esistere senza la materia. Di tali oggetti, alcuni non esistono mai nella materia, come Dio e gli angeli; altri esistono ora con la materia ora senza, come la sostanza, la qualità, la potenza, l’unità, la molteplicità e simili, di cui tratta la teologia o scienza divina, cosiddetta perché il suo oggetto principale è Dio. Essa viene chiamata anche metafisica o ultrafisica, dato che noi dobbiamo arrivare a realtà non sensibili. Si dice anche filosofia prima in quanto le altre scienze vengono dopo, derivando da essa i loro principi” (In De Trinitate, lect. 2, q. 1, a. 1). Dopo che mediante l’astrazione la mente si è formata delle idee, essa può procedere verso la formulazione dei giudizi e questi li può ordinare in maniera tale da formare un’ipotesi scientifica oppure una scienza. Facendo sua la teoria dell’astrazione Tommaso abbraccia logicamente anche la teoria del doppio intelletto: agente (o attivo) e paziente (o passivo), liberandola tuttavia dalle incertezze dello Stagirita che avevano consentito ad Averroè di sostenere che ci sono tanti intelletti passivi individuali ma un unico intelletto agente universale. Anche gli intelletti agenti 101 sono molteplici, secondo Tommaso: ogni persona è dotata del proprio intelletto sia agente sia passivo, e così diviene responsabile di tutto il proprio mondo conoscitivo. Il giudizio è la seconda operazione dell’intelletto. Esso si realizza sia componendo sia separando i concetti. Si dà giudizio affermativo nel primo caso, negativo nel secondo: “L’altra operazione appartiene all’intelletto in quanto unisce o divide” (In I Periherm., Prooem.). L’attività del giudizio consiste esattamente nel giudicare, ossia nell’affermare oppure nel negare qualche cosa (una qualità, una proprietà) rispetto a una determinata cosa (soggetto). Pertanto il giudizio procede per via di unificazione oppure separazione di idee. E viene logicamente al secondo posto, tra le attività dell’intelletto, in quanto già presuppone l’apprensione (astrazione) delle idee. Nel giudizio il nostro autore sottolinea due funzioni: una riguarda il piano logico ed è l’enunciazione della verità; l’altra riguarda il piano ontologico ed è la significazione dell’essere. Spetta al giudizio attestare la corrispondenza o non corrispondenza tra due concetti e non all’astrazione, la quale si limita a cogliere l’essenza di qualche cosa: “Nella prima operazione la mente si forma semplicemente l’idea dell’essenza di qualche cosa, per es., l’essenza dell’uomo o dell’animale: e in questa operazione non c’è ancora verità o falsità. Nella seconda operazione l’intelletto compone e divide, affermando e negando; ed in questa operazione si ha il vero e il falso” (De Veritate, q. 14, a. 1). Collegata direttamente con la prima funzione è la seconda: la significazione dell’essere. La seconda operazione consiste infatti nel trasportare la mente dal piano delle pure essenze al piano reale degli esistenti, attestandone l’essere o il non essere, o l’esistenza o la non esistenza di una qualità in un determinato soggetto: “La prima operazione riguarda l’essenza della cosa; la seconda riguarda il suo essere. E poiché il concetto di verità si fonda nell’essere e non nell’essenza, ne consegue che la verità e la falsità propriamente parlando si trovano nella seconda operazione” (I Sent., d. 19, q. 5, a. 1, ad 7). Oltre che nell’ambito speculativo, per il Dottore Angelico il giudizio occupa un posto di grande rilievo anche in quello pratico: nell’esercizio dell’atto libero. Questo comprende sempre due elementi, uno propriamente intellettivo e l’altro volitivo. Quello volitivo è costituito dalla scelta (electio); mentre quello intellettivo è costituito dal giudizio pratico. La terza operazione dell’intelletto è il ragionamento. Esso consiste in qualsiasi operazione discorsiva con cui, muovendo da una o più premesse, si ricava una conclusione, che può essere vera o falsa, certa o probabile, a seconda della natura delle premesse. Il ragionamento si suddivide in due tipi principali: deduttivo (quando almeno una delle due premesse è universale), oppure induttivo (quando ciò che fa da premessa è un elenco più o meno esteso di dati particolari). La forma più perfetta del ragionamento deduttivo è il sillogismo. Aristotele, nell’Organon, ha studiato e fissato per primo la struttura e le regole del ragionamento. Tommaso fa sua la teoria aristotelica del ragionamento, del quale dà una precisa definizione nei termini seguenti: “Ragionare significa procedere da una conoscenza a un’altra, nel conoscere la verità … Il ragionare umano secondo il metodo di indagine o di invenzione, parte da semplici intuizioni, quali sono i primi principi; e finalmente ritorna (col metodo deduttivo) o per via di giudizio ai primi principi, alla cui luce esamina le conclusioni raggiunte” (I, q. 79, a. 8). Speciale attenzione egli poi riserva al ragionamento pratico, a causa della sua grande rilevanza per la morale, alla quale spetta fornire 102 indicazioni chiare su ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è lecito o illecito, ciò che è doveroso e ciò che non lo è. La morale deve dire a un individuo senza ambiguità ciò che deve fare in un caso concreto particolare, e non semplicemente fornire elenchi di principi universali astratti. L’uomo prudente, l’autentico moralista secondo S. Tommaso, è esattamente colui che sa cosa è giusto fare nel caso singolo e decide rettamente (III Sent., d. 33, q. 3, a.1, sol. 3). Ma come si passa dai principi universali al caso concreto? Lo si fa attraverso il sillogismo pratico. Come esempio di questo tipo di ragionamento, Tommaso cita un caso di adulterio. Si può dimostrare la sua malizia ragionando così: a. qualsiasi male va evitato; b. ma l’adulterio è male perché è vietato da Dio (oppure perché è ingiusto e disonesto); c. quindi questo adulterio va evitato perché è cattivo. Tommaso ricorda che il ragionamento pratico è più esposto all’errore del ragionamento speculativo, e questo non tanto perché spesso si deve ricorrere a principi che non sono naturalmente evidenti, ma soprattutto perché vi si possono facilmente intromettere le passioni che legano il giudizio della ragione in quel caso particolare. Tommaso ha affrontato con grande impegno il problema del valore della conoscenza soprattutto nel Commento al libro IV della Metafisica, nel De Veritate e in varie Distinzioni nel Commento alle Sentenze. La conoscenza umana ha un valore, perché adempie la sua funzione di esibire una rappresentazione sostanzialmente fedele alla realtà delle cose. La conoscenza ha un valore perché la rappresentazione che dà delle cose è vera. L’intelletto umano non arriva immediatamente a conoscere la verità delle cose mediante l’intuizione, ma col processo raziocinativo, un processo suscettibile di errore che, spesse volte, dà luogo a dubbi e perplessità. Ed è proprio l’esperienza dell’errore – in particolare gli errori dei sensi e gli errori dei filosofi – a mettere in crisi la conoscenza e a far sorgere il problema del suo valore. I Sofisti e gli Scettici (accademici) avevano dato a questo problema una soluzione negativa: avevano negato che la conoscenza umana abbia la capacità di raggiungere con certezza la verità, qualsiasi verità. Alle obiezioni dei Sofisti aveva replicato Aristotele mostrando l’irrefutabilità del principio di non contraddizione; alle obiezioni degli Scettici aveva risposto S. Agostino con il celebre assunto: “Si fallor, sum”. Tommaso segue da vicino Aristotele, facendo vedere che c’è almeno una verità, quella del principio di non contraddizione che resiste all’assalto di qualsiasi dubbio, e demolendo uno per uno tutti gli argomenti (in particolare quello degli errori dei sensi) a cui si aggrappavano i Sofisti e gli Scettici per contestare il valore della conoscenza. Agli Scettici, che fanno leva sugli errori dei sensi, per mettere in dubbio che la mente umana abbia il potere di raggiungere la verità, Tommaso replica: “E’ cosa strana che essi dubitino se la verità sia coma appare ai dormienti o come appare alle persone sveglie. Infatti nei dormienti i sensi sono assopiti e perciò il loro giudizio concernente le cose non può essere libero, come è invece libero il giudizio delle persone sveglie, i cui sensi sono liberi. Un siffatto dubbio è strano, perché le persone che dicono di averlo, in pratica, nelle loro azioni, non mostrano affatto di dubitare e non considerano egualmente veraci i giudizi del malato e del sano, dell’addormentato e di chi è sveglio … Tutti i dubbi di cui si è parlato in queste pagine, hanno lo stesso valore e hanno un’unica radice: quella di voler fornire prove di carattere dimostrativo per tutto. È evidente infatti che i Sofisti che avanzano questi dubbi pretendono di scoprire un principio che possa servire loro da regola per discernere tra l’ammalato e il sano, tra 103 l’addormentato e chi è sveglio. E non si accontentano affatto che la regola sia presentata loro in qualche maniera, ma vogliono che sia dimostrata. Che però in questo siano in errore è chiaramente provato dalla loro condotta, come s’è già detto. Quindi, la loro posizione è falsa. Infatti se il giudizio di chi dorme e di chi è sveglio avesse lo stesso peso, il comportamento degli uomini sarebbe identico in tutti e due i casi; e questo è evidentemente falso” (IV Met., lect. 14-15). L’intelletto, mediante un vigile controllo dei sensi, può garantirsi la formazione di rappresentazioni veridiche delle cose. Altrettanto ferma e vigorosa è la difesa, fornita da S. Tommaso, del valore del principio di non contraddizione, difesa indiretta e non diretta, ma indubbiamente efficace. Come per gli errori dei sensi, l’Angelico fa vedere che ciò che può essere sostenuto a parole è poi contraddetto dai fatti, dal comportamento della vita quotidiana. Basta che uno pronunci anche una sola parola sensata, per es. che dica “piove”: pronunciando questa parola non potrà allo stesso tempo voler dire: “non piove”. Aggiunge il nostro autore: “Però ciò si può fare soltanto nel caso che colui che mette in dubbio la validità di tale principio dica qualche cosa, ossia esprima qualche cosa a parole. Perché se non dice niente è ridicolo fornire delle spiegazioni a chi rifiuta di far uso della ragione” (VI Met., lect. 6). L’intelletto umano, pur avendo come obiettivo proprio e specifico la verità e pur essendo in grado di prendere coscienza del suo possesso quando l’attinge, tuttavia è esposto all’errore e non di rado vi incorre. Quali sono le ragioni di tali deviazioni? La prima è data dalla complessità dell’oggetto: “L’intelletto creato, non essendo in grado di cogliere tutta la realtà simultaneamente, può errare in quanto giudica una cosa conveniente considerandola da un particolare punto di vista, mentre non sarebbe affatto conveniente se la considerasse da un altro. Per es., un medico giudica una medicina opportuna per curare in un ammalato una malattia che è a sua conoscenza, mentre non è affatto conveniente per curare un’altra malattia che o non conosce o non tiene presente” (II Sent., d. 5, q. 1, q. 1, ad. 4). La seconda è la precipitazione: “La precipitazione si dice degli atti dell’anima metaforicamente, per una certa somiglianza col moto corporeo. Ora, nel caso del moto corporeo si dice che una cosa precipita quando scorre dall’alto al basso o per impulso proprio oppure per la spinta proveniente da terzi senza passaggio graduale e ordinato. Nell’anima il punto più alto è la ragione, il punto più basso sono le operazioni eseguite mediante il corpo. I gradini intermedi per i quali bisogna scendere ordinatamente sono la memoria delle cose passate, l’apprensione delle presenti, la solerzia nel prendere in considerazione le cose future, il ragionamento con cui si confronta una cosa con un’altra, la docilità con cui si ascoltano le opinioni altrui. Chi non vuole errare discende per questi gradini con ordine. Chi invece si lascia trasportare all’azione o dalla volontà o dalla passione senza percorrere tali gradini si lascia prendere dalla precipitazione … L’attenzione è d’obbligo soprattutto nel giudizio. E perciò la mancanza di retto giudizio è da attribuirsi soprattutto alla mancanza di attenzione. Infatti si manca di giudicare rettamente perché si disprezza o si trascura di fare attenzione a quelle cose da cui nasce il giudizio adeguato” (S. Th., II-II, q. 53, aa. 3-4). La terza è data dalle passioni: queste non sono soltanto causa della precipitazione, ma inducono anche la mente a formulare giudizi errati in quanto assorbono talmente l’intelletto da impedirgli di considerare le cose serenamente, oggettivamente, imparzialmente. Pertanto, per attingere la verità, non bastano lo studio assiduo, l’attenzione 104 vigile, la ricerca paziente; è anche necessario tenere a bada le passioni e impedire loro di pronunciare giudizi affrettati, interessati e parziali (II Sent., d. 5, q. 1, a. 1, ad 4). Essendo l’anima umana dotata di due potenze conoscitive, quella sensitiva e quella intellettiva, Tommaso distingue due specie di oggetti: le cose corporee singolari, che formano l’oggetto della conoscenza sensitiva, e le essenze universali, tratte dalle cose sensibili, che costituiscono l’oggetto della conoscenza intellettiva. Riguardo alla conoscenza intellettiva, egli distingue due oggetti, un oggetto proprio e un oggetto adeguato. L’oggetto proprio sono le essenze delle cose materiali; la loro conoscenza è raggiunta mediante l’astrazione dai dati sensitivi. Questo è l’oggetto proprio perché corrisponde perfettamente a quella capacità conoscitiva di cui è dotato l’uomo, che essendo legato sostanzialmente al corpo e vivendo in un mondo corporeo, ricava necessariamente tutte le sue conoscenze dal mondo materiale, con l’aiuto dei sensi e della fantasia: “L’oggetto proprio dell’intelletto umano unito al corpo sono le essenze o nature che hanno la loro sussistenza nella materia corporea; e mediante queste essenze delle cose visibili l’uomo può salire a una certa conoscenza delle cose invisibili. Ma la nozione stessa di queste nature esige che esse abbiano concreta sussistenza in determinati individui; e ciò non può verificarsi senza la materia. Così la nozione della natura della pietra richiede la sussistenza concreta di essa in questa determinata pietra; e quella della natura del cavallo richiede la sussistenza concreta in un determinato cavallo e così via. Non si può quindi conoscere in maniera completa e vera la natura della pietra o di qualsiasi altro essere materiale, se non la si conosce nella sua esistenza particolare e concreta. Oggi noi raggiungiamo il particolare mediante il senso e l’immaginativa. Perciò, affinché l’intelletto possa conoscere il proprio oggetto, è necessario che si volga ai fantasmi e apprenda così la natura universale sussistente in ogni cosa particolare” (S. Th., I, q. 84, a. 7). L’oggetto adeguato dell’intelletto umano è l’essere in tutta la sua estensione e intensione (densità). Nella prospettiva specifica di Tommaso abbiamo l’essere intensivo, l’actualitas omnium actuum. Solo l’essere intensivo con la sua perfezione e attualità infinite è in grado di colmare, attuandola, l’infinita apertura dell’intelletto. E poiché in sede metafisica l’essere intensivo coincide, nella sua piena attuazione, con l’esse ipsum subsistens, Tommaso conclude logicamente che soltanto Dio può appagare veramente la sete di verità dell’intelletto umano, e così, quando l’uomo non conosce più Dio per speculum et in enigmate, ma lo vede faccia a faccia e lo contempla esteticamente, allora raggiunge la pienezza della beatitudine. In conclusione, la ragione è naturalmente portata a conoscere la verità e a conoscere tutta la verità: quella relativa al mondo materiale come quella attinente al mondo spirituale, quella speculativa come quella pratica, quella che riguarda la politica, la morale, la religione ecc. Sennonché l’intelletto umano incontra sulla sua strada innumerevoli difficoltà: le passioni, la fretta, gli interessi particolari, la stessa fantasia, la complessità e la sublimità dell’oggetto, che possono impedirgli il raggiungimento della felicità. Ciò accade soprattutto nel caso delle verità più elevate e impegnative, quelle di ordine metafisico, morale e religioso: verità come l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, la legge morale. Quanto a Dio, secondo Tommaso, la ragione ha la capacità di conoscere che egli esiste e che possiede determinati attributi (unicità, semplicità, sapienza, onnipotenza, bontà ecc.). Di fatto però una conoscenza solida intorno a Dio è conseguita soltanto da poche menti eccezionali. D’altra parte, si 105 tratta di una conoscenza che riveste somma importanza per la vita umana, perché questa, anche da un punto di vista puramente razionale, ha come suo ultimo traguardo Dio: “Lo scopo della vita umana è conoscere Dio anche secondo i filosofi” (II Sent., d. 24, q. 1, a. 3, qc. 3, sol. 1, ad 1). Ciò spiega perché Dio, amorosamente attento ai bisogni dell’uomo, sia intervenuto egli stesso direttamente per fornire all’umanità una più chiara conoscenza del proprio essere mediante una speciale Rivelazione: “Sebbene la ragione sia già in grado di indagare intorno a Dio, tuttavia fu necessario che l’uomo fosse ammaestrato per divina rivelazione, perché una conoscenza razionale di Dio non sarebbe stata possibile che per parte di pochi, dopo lungo tempo e con mescolanza di molti errori; eppure dalla conoscenza di tali verità dipende tutta la salvezza dell’uomo, che è riposta in Dio. Per provvedere alla salvezza degli uomini in modo più conveniente e più certo fu perciò necessario che rispetto alle cose divine fossero istruiti per divina rivelazione” (S. Th., I, q. 1, a. 1). S. Bonaventura, pur rimanendo fedele al principio agostiniano di un lumen directivum che l’uomo riceve direttamente da Dio e da cui derivano certezza e verità, ammette che il materiale della conoscenza è costituito da specie che sono immagini, similitudini o “quasi pitture” delle cose stesse (In Sent., I, d. 17, a. 1, q. 4). Il Rinascimento conserva in generale l’interpretazione della conoscenza come identità e somiglianza. Cusano dice esplicitamente che l’intelletto non intende se non si assimila a ciò che deve intendere (De mente, 3; De ludo globi, 1; De venatione sapientiae, 29) e Ficino dice che la conoscenza è l’unione spirituale con qualche forma spirituale (Theologia platonica, III, 2). I naturalisti non si esprimono in modo diverso: Bruno riprende il principio presocratico che ogni simile si conosce col simile; e Campanella afferma che “noi conosciamo ciò che è, perché ci rendiamo simili a esso” (Metaphisica, I, 4, 1). Il pitagorismo dei fondatori della nuova scienza, Leonardo, Copernico, Keplero, Galilei ha un presupposto analogico: il procedimento matematico della scienza si giustifica perché la natura stessa ha struttura matematica: nel senso che, come Galilei dice, i caratteri in cui è scritto il libro della natura sono triangoli, cerchi, ecc. (Opere, VI, p. 232). Nella filosofia moderna, la dottrina che il conoscere è un’operazione di identificazione assume tre forme principali. a. L’idealismo critico e poi Romantico e le sue diramazioni contemporanee hanno affermato la tesi che conoscere significa porre, cioè produrre e creare, l’oggetto: tesi la quale consente di riconoscere nell’oggetto stesso la manifestazione o l’attività del soggetto. Nell’idealismo critico il soggetto pone, unificando nel giudizio, l’oggetto della conoscenza, ma il contesto metafisico è il realismo. Nell’idealismo romantico il soggetto pone se stesso e, dunque, tutta la realtà. Fichte così afferma: “La rappresentazione in generale è inconfutabilmente un effetto del Non-io. Ma nell’io non può esserci assolutamente nulla che sia un effetto; perché l’Io è quel che esso si pone e non v’è nulla in lui che non sia posto da 106 lui. Quindi quello stesso Non-io dev’essere un effetto dell’Io, anzi dell’Io assoluto e così non abbiamo un’azione sull’Io dal di fuori, ma solo un’azione dell’Io su se stesso” (Wissenschaftslehre, 1794, III, § 5, 1). Da questo punto di vista il Non-io, cioè l’oggetto, non è che l’Io stesso, cioè il soggetto: l’identità con l’oggetto è così garantita dalla stessa definizione della conoscenza. Essa è una definizione arbitraria che non ha effetto sulla riuscita o meno degli effettivi atti di conoscenza e non serve però né a dirigere né a chiarire questi atti. Il principio affermato da Fichte fu un pilastro del movimento romantico; e uno dei luoghi comuni più perniciosi e stucchevoli, il “potere creativo dello spirito”, trova in esso la sua origine. Di esso Schelling non faceva che chiarire il significato quando affermava: “Nello stesso fatto del sapere – quando io so – l’oggettivo e il soggettivo sono così uniti che non si può dire a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo: sono entrambi contemporanei e costituiscono un tutto unico” (System des transzendentalen Idealismus, Intr., § 1). Il concetto del conoscere come processo di unificazione domina anche la filosofia di Hegel. La protagonista di questa filosofia, l’Idea, è la coscienza che si realizza, gradualmente e necessariamente, come unità con l’oggetto. Scrive Hegel: “L’Idea è in primo luogo uno degli estremi di un sillogismo in quanto è il concetto che ha come scopo innanzitutto se stesso come realtà soggettiva. L’altro estremo è il limite del soggettivo, il mondo oggettivo. I due estremi sono identici nell’essere dell’Idea. L’unità loro è in primo luogo l’unità del concetto che nell’uno di essi è soltanto per sé, nell’altro soltanto in sé; in secondo luogo la realtà è astratta nell’uno, mentre nell’altro è nella sua esteriorità completa. Questa unità viene ora posta per mezzo del conoscere” (Wissenschaft der Logik, III, 3, cap. II; tr. it., p. 282). Il conoscere è così il processo che unifica il mondo soggettivo con il mondo oggettivo; o meglio che porta alla coscienza l’unità necessaria dei due. Tutte le forme dell’Idealismo contemporaneo si attengono a questa dottrina. Croce la introduce chiamando “concreto” il concetto: per il qual carattere si dovrebbe escludere che esso sia “universale e vuoto”, “universale e inesistente”, ed ammettere che esso comprende in sé “l’atto logico universale” e il “pensamento della realtà” che è poi la stessa realtà (Logica, 4° ed., 1920, p. 29). Gentile affermava: “Conoscere è identificare, superare l’alterità come tale” (Teoria generale dello Spirito, 2, §4). A sua volta Bradley, più criticamente, considerava questa identificazione come un ideale – limite irrealizzabile in noi, ma realizzato nella Coscienza assoluta nella quale coscienza ed essere, verità e realtà coincidono (Appearance and Reality, pag. 181). b. Lo spiritualismo moderno in tutte le sue manifestazioni considera il conoscere come un rapporto interno della coscienza, cioè come un rapporto della coscienza con se stessa. Questa interpretazione garantisce l’identità del conoscere con l’oggetto: giacché l’oggetto, da questo punto di vista, non è che la coscienza stessa o almeno un suo prodotto o una sua manifestazione. Schopenhauer così esprimeva questa dottrina: “Nessuno può mai uscire da sé per identificarsi immediatamente con cose diverse da sé: tutto ciò di cui egli ha conoscenza sicura, quindi immediata, si trova dentro la coscienza” (Die Welt, II, cap. I). Coscienza, senso intimo, introspezione, intuito, intuizione, sono i termini che la filosofia 107 moderna, a partire dal Romanticismo, adopera per indicare la conoscenza caratterizzata dall’identità con il suo oggetto, perciò privilegiata nella sua certezza. La considerazione di base è qui che, se il soggetto non può conoscere ciò che è altro da sé, la sola certezza vera e originaria è quella che esso ha di se stesso. Su questa base Maine De Biran vedeva nel “senso intimo” la sola conoscenza possibile e ne interpretava le testimonianze come verità metafisiche (Essais sur les fondements de la psicologie, 1812). Altre volte la coscienza, anche detta intuito o intuizione, è interpretata come la rivelazione che Dio fa all’uomo o di un suo attributo fondamentale (per es. dell’essere, come afferma Rosmini, Nuovo Saggio, § 473), o del suo stesso processo creativo, come fa Gioberti (Introduzione allo studio della filosofia II, pag. 183). In modo analogo, l’intuizione, di cui parla Bergson come “visione diretta dello spirito da parte dello spirito” (La Pensée et le Mouvant, pag. 37) è una procedura privilegiata di conoscenza nella quale il termine oggettivo è identico con il soggettivo. E quando Husserl ha voluto chiarire il modo di essere privilegiato della coscienza, ha chiamato “percezione immanente” quella che la coscienza ha delle proprie esperienze vissute: perché l’oggetto di essa appartiene alla stessa corrente di coscienza a cui appartiene la percezione (Ideen, I, § 38). La percezione immanente, cioè la coscienza, è, su questa base, considerata da Husserl assoluta e necessaria: in essa “non vi è posto per discordanza, apparenza, possibilità di essere altra cosa. Essa è una sfera di assoluta posizione” (ibid., § 46). c. Il Positivismo logico ha paradossalmente trasportato nel linguaggio, in cui esso vede la vera e propria operazione conoscitiva, la dottrina del carattere identificatorio di questa operazione. Wittgenstein afferma che “la proposizione può essere vera o falsa solo in quanto è una immagine (Bild) della realtà” (Tractatus, 4.06). Egli prova così questa affermazione: “Io infatti vengo a conoscere la situazione da essa rappresentata se capisco la proposizione. E capisco la proposizione senza che il suo senso mi venga spiegato” (ibid., 4.021). A prima vista, egli aggiunge, “non sembra che la proposizione, così come, ad esempio, è stampata sulla carta, sia un’immagine della realtà di cui tratta. Ma anche la notazione musicale non sembra a prima vista una immagine della musica né la nostra scrittura fonetica (a lettere) sembra un’immagine del nostro linguaggio parlato. Eppure questi simboli si dimostrano, anche nel senso ordinario del termine, come immagini di ciò che rappresentano” (ibid., 4.011). L’insistenza sulla nozione di immagine indica chiaramente che egli condivide la vecchia interpretazione del conoscere come operazione di identificazione. Egli infatti dice: “Ci deve essere qualcosa di identico nell’immagine e nell’oggetto raffigurato affinché quella possa essere l’immagine di questo” (ibid., 2.161). Ma questo qualcosa di identico è la “forma di raffigurazione” (ibid., 2.17). E la forma di raffigurazione è “la possibilità che le cose stiano una rispetto all’altra come stanno tra loro gli elementi dell’immagine” (ibid., 2.151). E questo sembra rinviare all’interpretazione del rapporto identificatorio che emerge in una seconda fase. 108 La seconda fase della dottrina della conoscenza come identificazione nasce con la filosofia moderna, precisamente con Cartesio. Il principio cartesiano che l’idea è il solo oggetto immediato della conoscenza e che perciò l’esistenza dell’idea nel pensiero non dice nulla sull’esistenza dell’oggetto rappresentato, metteva ovviamente in crisi la dottrina del conoscere come identificazione con l’oggetto: l’oggetto è, infatti, in questo caso, chiaramente irraggiungibile. Cartesio aveva continuato a concepire l’idea come “quadro” o “immagine” della cosa (Meditazioni Metafisiche, III); ma già in lui compare una tendenza (cfr. Regulae, V) a scorgere nella conoscenza, più che l’assimilazione o l’identità dell’idea con l’oggetto conosciuto, l’assimilazione e l’identità dell’ordine delle idee con l’ordine degli oggetti conosciuti. Malebranche, il quale ammette che l’uomo vede direttamente in Dio le idee delle cose e considera perciò fortemente problematica la realtà delle cose stesse, ammette tuttavia questa realtà come fondamento dell’ordine e della successione delle idee nell’uomo: ordine e successione non avrebbero senso se non coincidessero con l’ordine e la successione delle cose cui le idee si riferiscono (Entretien sur la Métaphysique, I, 6-7). Spinoza che ammette tre generi di conoscenza (la percezione sensibile e l’immaginazione, la ragione con le sue nozioni comuni e universali, la scienza intuitiva) ritiene che solo i due ultimi consentano di distinguere il vero dal falso perché tolgono l’idea dal suo isolamento e la collegano con le altre idee, situandola nell’ordine necessario che è la stessa Sostanza divina (Ethica II, 44). Locke che definisce la conoscenza come “la percezione dell’accordo e del legame o del disaccordo e del contrasto delle idee tra di loro” (Saggio, IV, 4, 8) e perciò definisce la verità come “l’unione o separazione dei segni, secondo che le cose significate da esse concordino o discordino tra loro” (ibid., IV, 5, 2). Egli ritiene che questo riferimento ad oggetti reali non sia indispensabile alla conoscenza matematica e a quella morale, mentre lo è alla “conoscenza reale” che ha per oggetto sostanze (ibid. IV, 4, 12). Per Leibniz accanto alla conoscenza a priori, fondata sui principi costitutivi dell’intelletto, c’è una conoscenza rappresentativa la quale consiste nella somiglianza delle rappresentazioni con la cosa. Ma l’una e l’altra conoscenza fanno dell’anima “uno specchio vivente, perpetuo dell’universo” perché entrambe sono formate sul legame che tutte le cose create hanno tra loro sì che “ciascuna sostanza semplice ha rapporti che esprimono tutti gli altri” (Monadologie, 56). In tutte queste notazioni, sebbene non venga negato il carattere di somiglianza o di immagine degli elementi conoscitivi, la conoscenza viene intesa propriamente come identità con l’ordine oggettivo. L’oggetto di essa è propriamente quest’ordine e il conoscere è l’operazione che tende a identificare o identificarsi con esso e non già con gli elementi singoli tra i quali intercede. A questo proposito la “rivoluzione copernicana” di Kant non consiste nell’innovare radicalmente questo concetto di conoscenza, quanto nell’ammettere che l’ordine oggettivo delle cose si modella sulle condizioni della conoscenza e non viceversa. Le categorie sono infatti considerate da Kant come “concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni e perciò alla natura come insieme di tutti fenomeni” (Critica della Ragion Pura, § 26). I fenomeni, non essendo “cose in se stesse” ma “rappresentazioni di cose” devono per essere tali essere pensati e così sottostare alle condizioni del pensiero che sono appunto le categorie. L’ordine oggettivo della natura non è quindi altro, secondo Kant, che l’ordine stesso dei procedimenti formali del conoscere in quanto quest’ordine si è incorporato in un contenuto oggettivo che è il materiale sensibile dell’intuizione. 109 Da questo punto di vista il conoscere non è un’operazione di assimilazione o di identificazione, ma di sintesi; e come tale va considerato sotto l’altra interpretazione, la conoscenza come trascendenza. Tutta questa fase della dottrina della conoscenza come assimilazione, per cui l’oggetto dell’assimilazione è l’ordine, si può considerare come situata tra la prima e la seconda interpretazione principale del conoscere: cioè tra l’interpretazione del conoscere come assimilazione e l’interpretazione del conoscere come trascendenza. La seconda interpretazione fondamentale vede la conoscenza come un’operazione di trascendenza. Secondo questa dottrina, conoscere significa venire in presenza dell’oggetto, puntare su di esso o, col termine preferito dalla filosofia contemporanea, trascendere verso di esso. La conoscenza è allora l’operazione in virtù della quale l’oggetto stesso è presente: o presente per così dire in persona o presente in un segno che lo renda rintracciabile o descrivibile o prevedibile. Questa interpretazione non si fonda su alcuna assunzione di carattere assimilatorio o identificatorio: i procedimenti del conoscere non mirano, per essa, a convertirsi con l’oggetto stesso del conoscere. Mirano piuttosto a rendere presente questo oggetto come tale o a stabilire le condizioni che rendono possibile la sua presenza, cioè consentono di prevederla. La presenza dell’oggetto o la predizione di questa presenza sarebbero la funzione effettiva della conoscenza. Tale interpretazione compare per la prima volta negli Stoici. Essi chiamavano evidenti le cose che “vengono di per se stesse alla nostra conoscenza” come, per esempio, l’essere giorno; e chiamavano oscure quelle che sfuggono solitamente alla conoscenza umana. Tra queste ultime, distinguevano poi quelle oscure per natura, che non cadono mai sotto la nostra evidenza, e quelle oscure momentaneamente ma evidenti per natura (per esempio, la città di Atene per coloro che non vi risiedono). Queste due ultime specie di cose si comprendono per mezzo di segni; mediante segni indicativi le cose oscure per natura (come, per esempio, il sudore si assume come segno degli invisibili pori) e mediante segni rammemorativi le cose evidenti per natura ma oscure momentaneamente (come il fumo è un segno del fuoco) (Sesto Empirico, Adversus dogmaticos, II, 141). Sono riconoscibili in questa impostazione due tesi fondamentali: 1. La conoscenza evidente consiste nella presenza della cosa, per cui la cosa si manifesta da sé o si comprende da sé, cioè si comprende come cosa, quindi come altro da chi la comprende. 2. La conoscenza non evidente avviene per mezzo di segni che rinviano alla cosa stessa senza avere una qualsiasi identità o somiglianza con essa. Questa dottrina degli Stoici è rimasta per lunghi secoli inoperante, come una possibilità che la storia della filosofia ha trascurato. Comincia a riaffacciarsi soltanto nella Scolastica del ‘300, coi pensatori che criticano la dottrina della species come intermediaria della conoscenza. La species, come si è visto, è lo strumento che indirizza la mente all’oggetto conosciuto, è l’immagine intenzionale grazie alla quale la mente è cosciente dell’oggetto conosciuto, non di essa. Essa è una tesi tipica della dottrina dell’assimilazione: essa è infatti insieme l’atto della conoscenza e l’atto 110 dell’oggetto (come forma o sostanza di quest’ultimo). Ma Duns Scoto aveva distinto una conoscenza “che astrae dall’esistenza attuale della cosa” e che chiamava astrattiva, e una conoscenza della cosa in quanto esiste ed è presente nella sua esistenza attuale che aveva chiamata intuitiva (Opus Oxoniensis, II, d. 3, q. 9, n. 6). Ora la conoscenza intuitiva (che da un lato è quella sensibile, dall’altro quella intellettuale che ha per oggetto la sostanza o natura comune, per esempio la natura umana) non ha bisogno di specie perché ad essa è direttamente presente la cosa in persona. Solo la conoscenza astrattiva, cioè la conoscenza intellettuale dell’universale, ha bisogno di specie. A questa dottrina fa riferimento la Scolastica del ‘300. Durando di St. – Pourcains afferma che la specie è inutile perché l’oggetto stesso è presente al senso, e, attraverso il senso, anche all’intelletto (In Sententiis, II, d. 3, q. 6, n. 10); e che pertanto la conoscenza universale non è che conoscenza confusa, nel senso che chi ha la conoscenza universale, per esempio, della rosa, conosce confusamente ciò che è intuito distintamente da chi vede la rosa che gli è presente (ibid., IV, d. 49, q. 2, n. 8). Per Pietro Aureolo l’oggetto della conoscenza è la stessa cosa esterna che assume, per opera dell’intelletto, un essere intenzionale e obiettivo che non è diverso dalla stessa realtà individuale della cosa (In Sententiis, I, d. 9, a. 1). Ockam a sua volta trasforma la teoria scolastica della conoscenza intuitiva in una teoria dell’esperienza e afferma l’immediata presenza della cosa alla conoscenza intuitiva: “In nessuna conoscenza intuitiva, né sensibile né intellettiva, la cosa si costituisce in un essere intermedio tra la cosa stessa e l’atto di conoscere; ma la cosa medesima immediatamente e senza intermediario tra sé e l’atto, è vista e appresa” (In Sententiis, I, d. 27, q. 3, 1). La conoscenza intuitiva perfetta, che ha per oggetto una realtà attuale o presente, è l’esperienza (ibid., II, q. 15, H); quella imperfetta, che concerne un oggetto passato, deriva sempre da un’esperienza (ibid., q. 12, Q). A sua volta, la conoscenza astrattiva, che prescinde dalla realtà o irrealtà dell’oggetto, deriva da quella intuitiva ed è una intentio o signum. Ockham riproduce così l’interpretazione degli Stoici: quando la realtà non è presente alla conoscenza “in persona”, si annuncia o si manifesta nel segno. La validità del segno concettuale, che a differenza di quello linguistico non è arbitrario o convenzionale, ma naturale, deriva dal fatto che esso è prodotto naturalmente, cioè causalmente, dall’oggetto stesso, sicché la sua capacità di rappresentare l’oggetto non è altro che questa sua connessione causale con esso (Quodl., IV, q. 3). Ockham si avvale poi, per illustrare la funzione logica, del segno di quel concetto della suppositio che era stato elaborato dalla logica del ‘200. Nel sec. XVII i capisaldi di questa dottrina venivano riprodotti da Hobbes: per il quale la sensazione, che è il fondamento di ogni conoscenza, è il manifestarsi della cosa attraverso il movimento da essa impresso all’organo di senso (Leviatano I,1; De corpore, 25, §2). Alla causalità della cosa esterna, cui questi filosofi attribuiscono la conoscenza, Berkeley sostituiva la causalità di Dio: la teoria che le cose conosciute sono segni mediante i quali Dio parla ai sensi o all’intelligenza dell’uomo per istruirlo su ciò che deve fare è una trascrizione teologica di questa dottrina della conoscenza (Principles of Knowledge, § 108-09). Nel frattempo, con il cartesianesimo e specialmente con Locke, si era venuto formando il concetto della conoscenza come operazione unificatrice: unificatrice di idee, cioè di stati che cadono dentro la coscienza, ma il cui collegamento corrisponde o deve corrispondere a quello delle cose. Eliminata da Berkeley la sostanza materiale e da Hume ogni 111 specie di sostanza, il collegamento tra le idee veniva ad esaurire la funzione dell’attività conoscitiva. Così Hume ritiene che ogni operazione conoscitiva sia un’operazione di connessione tra le idee: a. operazione di connessione è il ragionamento per il quale si mostra il legame che le idee hanno tra loro, indipendentemente dalla loro esistenza reale; b. operazione di connessione tra le idee è la conoscenza della realtà di fatto. Nel primo caso la connessione è certa perché non dipende da nessuna condizione di fatto; nel secondo caso si fonda sulla relazione di causalità. Ma questa stessa relazione non ha altro fondamento che la ripetizione di una certa successione di eventi e l’abitudine che tale ripetizione determina nell’uomo. Questo concetto della conoscenza come operazione di connessione o di collegamento, che non ha più niente a che fare con l’identificazione o l’assimilazione con l’oggetto, è detta da Kant operazione di sintesi. La sintesi in generale è “l’atto di riunire diverse interpretazioni e comprendere la loro molteplicità in una conoscenza” (Critica della Ragion Pura § 10). Ma la sintesi conoscitiva non è solo, per Kant, un’operazione di collegamento tra rappresentazioni: è anche un’operazione di collegamento con l’oggetto di queste rappresentazioni per il tramite dell’intuizione. Scrive Kant: “Se una conoscenza deve avere una realtà oggettiva, cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso significato e senso, l’oggetto deve, in un modo qualsiasi, poter essere dato. Senza di questo, i concetti sono vuoti, e se anche con essi si pensa, di fatto questo pensiero non conosce nulla ma soltanto gioca con le rappresentazioni. Dare un oggetto, se questo a sua volta non deve essere opinato indirettamente ma rappresentato immediatamente nell’intuizione, non è altro che connettere la sua rappresentazione con l’esperienza (sia questa reale o possibile)” (ibid., Analitica dei principi, cap. II, sez. II). Pensare un oggetto e conoscere un oggetto non sono dunque la stessa cosa: “La conoscenza comprende due punti: in primo luogo un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria) e in secondo luogo l’intuizione con cui esso è dato” (ibid., § 22). L’intuizione ha questo privilegio: che essa si riferisce immediatamente all’oggetto e che per mezzo di essa l’oggetto è dato (ibid., § 1). Sicché non c’è dubbio che l’operazione del conoscere tenda a rendere presente l’oggetto nella sua realtà: un oggetto, s’intende, che è fenomeno, giacché la cosa in sé è, per definizione, estranea a ogni rapporto conoscitivo. Senza questa limitazione relativistica, che a Kant, come a tutta la filosofia illuministica, era suggerita dall’impostazione cartesiano – lockiana della analisi della conoscenza, il concetto della conoscenza come dell’operazione del riferirsi o del rapportarsi con l’oggetto e perciò pure del processo per cui l’oggetto si offre o si presenta in persona, diventa, nella filosofia contemporanea, proprio della fenomenologia e delle correnti che ad essa fanno capo. Scrive Husserl: “Ad ogni scienza corrisponde un campo oggettivo come dominio delle sue indagini e a tutte le sue conoscenze, cioè ai suoi corretti enunciati, corrispondono determinate intuizioni che ne costituiscono il fondamento di legittimità; in quanto in esse gli oggetti del campo si presentano in datità personale e, almeno parzialmente, in datità originaria” (Ideen, I, § 1). Così l’esperienza che abbraccia tutta la 112 conoscenza naturale, è un’operazione intuitiva attraverso la quale un oggetto specifico, la cosa, è data nella sua realtà originaria. L’esperienza è in questo senso un atto fondante, non sostituibile da un semplice immaginare. Dall’altro lato, la conoscenza geometrica, che non ricerca realtà ma possibilità ideali, ha come suo atto fondante la visione dell’essenza: tale visione, esattamente come la percezione empirica, rende attuale e presenta in persona un oggetto, che però non è la cosa dell’esperienza, ma l’essenza (ibid., § 8). Considerando la conoscenza da un punto di vista più generale si può dire che “ogni specie di essere ha per essenza i suoi modi di darsi e quindi il suo metodo di conoscenza” (ibid., § 79); e la ricerca fenomenologica è, nel progetto di Husserl, l’analisi di questi modi di essere come “modi di datità”. In modo analogo, per N. Hartmann, la conoscenza è un processo di trascendenza che ha il suo termine nell’essere “in sé” (Metafisica dei costumi, 1921, 4° ed., 1949, p. 43 ss). In questa impostazione la contrapposizione tra attività e passività nella conoscenza (contrapposizione che, nata da Kant, era stata assunta come motivo polemico dal Romanticismo a cominciare da Fichte) ha perduto ogni significato. Non è più questione di distinguere nel conoscere l’aspetto attivo, che Kant chiamava spontaneità intellettuale, dall’aspetto passivo che per Kant era quello della sensibilità. Non si tratta neppure di ridurre l’intera conoscenza alla attività dell’Io come ha fatto Fichte e con lui l’intera filosofia romantica, che ha considerato come “infinita”, cioè senza limiti e quindi creatrice, questa attività e come tale l’ha esaltata. La prospettiva storica, che lo stesso Romanticismo ha fatto prevalere, del contrasto tra la concezione classica, cioè antica e medievale, per la quale l’operazione del conoscere sarebbe dominata dall’oggetto, di fronte a cui il soggetto è passivo; e la concezione moderna o romantica, per la quale la conoscenza sarebbe attività del soggetto e manifestazione del suo potere creatore, questa prospettiva stessa appare ora fittizia. Si tratta infatti di una prospettiva interna al Romanticismo e di un contrasto che esso ha teorizzato come motivo polemico. Né la filosofia antica né le moderne concezioni oggettivistiche pretendono stabilire o presuppongono la “passività” del soggetto conoscente. Al soggetto conoscente appartiene certamente l’iniziativa del conoscere, anzi questa iniziativa definisce per l’appunto la sua soggettività. Ma questo non implica né attività né passività nel senso stabilito da Fichte. L’iniziativa del soggetto è invece diretta proprio a rendere presente o manifesto l’oggetto, a rendere evidente la realtà stessa, a far parlare i fatti. Ciò che si chiama, con termine abbreviativo, conoscere, è un insieme di operazioni, talora molto diverse tra loro, che in campi diversi mirano a far emergere, nelle loro caratteristiche proprie, certi oggetti specifici. Da questo punto di vista lo stesso “problema della conoscenza”, come si è venuto configurando nella seconda metà dell’800, sulla base dell’impostazione romantica o della polemica contro di essa, come problema dell’attività o della passività dello spirito o dei caratteri di quella sua “categoria eterna” che sarebbe l’attività teoretica, è un problema che si è dissolto sotto l’azione della fenomenologia da un lato e della filosofia della scienza e del pragmatismo dall’altro lato. Nell’ambito della fenomenologia, Heidegger parla infatti di un annullamento del problema della conoscenza. Il conoscere non può essere inteso come ciò per cui l’Esserci (cioè l’uomo) “va da un dentro a un fuori della sua sfera interiore, sfera in cui sarebbe in un primo tempo incapsulato: al contrario l’Esserci, conformemente al suo modo di essere fondamentale è già sempre fuori, presso l’ente che gli viene incontro in un mondo già 113 sempre scoperto” (Essere e Tempo, § 13). Secondo il nostro autore il conoscere è un modo di essere dell’essere – nel – mondo, cioè del trascendere del soggetto verso il mondo. Esso non è mai soltanto un vedere o un contemplare: “L’essere nel mondo, in quanto prendersi cura, è penetrato e stordito dal mondo di cui si prende cura” (ibid.). Il conoscere è in primo luogo la sospensione del prendersi cura, cioè delle attività comuni della vita di ogni giorno, come il manipolare, il commerciare ecc.. Questa sospensione rende possibile il semplice “osservare che è di volta in volta il soffermarsi presso un ente, il cui essere è caratterizzato dal fatto che è presente, che è qui”. In questo fermarsi di ogni commercio e utilizzazione, si realizza la percezione della semplice presenza. Il percepire si concretizza nelle forme dell’interpretare e del discutere intorno a qualcosa in quanto qualcosa. Sul fondamento di questo interpretare in senso larghissimo, il percepire si fa un determinare. Il percepito o il determinato può essere espresso in proposizioni, nonché ritenuto e conservato in quanto asserito. Questo ritenimento percettivo d’una asserzione intorno a … è una maniera di essere nel mondo e non può essere considerato come un procedimento in virtù del quale un soggetto riceverebbe immagini da qualche cosa, immagini che sarebbero di conseguenza sperimentate come “interne” sì da far sorgere il problema della loro concordanza con la realtà “esterna” (ibid.). Il problema della conoscenza e il problema della realtà come formulati dalla filosofia dell’800 sono quindi eliminati da Heidegger. Tutte le manifestazioni o i gradi del conoscere (l’osservare, il percepire, il determinare, l’interpretare, il discutere, il negare e l’asserire) presuppongono il rapporto dell’uomo con il mondo e sono possibili solo sulla base di questo rapporto. Questa convinzione è oggi condivisa da filosofi di provenienza diversa, per quanto venga spesso rivestita da terminologie differenti. Il fondamento che la suggerisce è sempre lo stesso: l’abbandono del presupposto che gli “stati interni” (idee, rappresentazioni ecc.) siano gli oggetti primari di conoscenza e che solo a partire da essi possano essere (se mai) inferiti oggetti di altra natura. La rinuncia a questo presupposto è esplicita nel pragmatismo di Dewey, per il quale la conoscenza è semplicemente il risultato di un’operazione di ricerca o più precisamente è l’asserzione valida cui tale operazione mette capo. Da questo punto di vista, l’oggetto della conoscenza non è un’entità esterna da raggiungere o da inferire ma è “quel gruppo di distinzioni o caratteristiche connesse che emerge come costituente definito di una situazione risolta ed è confermato nella continuità dell’indagine” (Logica, cap. XXV, II; tr. it, p. 666). Poiché frequentemente vengono usati, in una certa indagine, oggetti costituiti in indagini precedenti, questi ultimi sono talora intesi come oggetti esistenti o reali indipendentemente dall’indagine stessa. In realtà sono indipendenti dall’indagine in cui ora entrano, ma sono oggetti solo in virtù di un’altra indagine di cui sono il risultato. Eppure, questo semplice equivoco è, secondo il nostro autore, la base della concezione rappresentativa della conoscenza: “L’atto di riferirsi a un oggetto, che è un oggetto conosciuto solo in virtù di operazioni affatto indipendenti dall’atto stesso di riferimento, è considerato ai fini di una teoria della conoscenza come costituente per se medesimo un caso di conoscenza rappresentativa” (ibid., pag. 667). Queste idee hanno agito e continuano ad agire potentemente nella filosofia contemporanea e sono alla base di quella dissoluzione del problema della conoscenza che è una delle sue caratteristiche. La dissoluzione di questo problema 114 si è operata in favore da un lato della logica, dall’altro della metodologia delle scienze. Quest’ultima, specialmente, è l’erede, nella filosofia contemporanea, di quanto rimane di valido in problemi che venivano solitamente trattati dalla teoria della conoscenza. Dagli anni ’70, segnatamente dalla pubblicazione di Groundless Belief (1977) di Michael Williams e di Philosophy and the Mirror of Nature (1979) di Richard Rorty, l’idea che il problema della conoscenza non sia più proponibile nei termini cartesiani e kantiani di una secolare tradizione è condivisa da molti, e trova ampie consonanze con i progetti di “secolarizzazione” della filosofia da parte dell’odierna ermeneutica. Le fonti in base a cui alcuni autori contemporanei parlano letteralmente di “morte dell’epistemologia” e di “dissoluzione” del problema della conoscenza sono ancora il pragmatismo di James e Dewey, e quindi gli scritti di Wittgenstein, Quine, Sellars, Austin e Davidson, un certo storicismo di ritorno, e alcune suggestioni che vengono dalle filosofie di Nietzsche, Heidegger e Derrida. Rorty sostiene che le annose, insolubili questioni intorno alla distinzione tra soggetto e oggetto del conoscere, tra forme e contenuti, tra convenzioni e verità di fatto, sono state generate dalla concezione “rappresentazionale” delle credenze e dal suo fido alleato che è la concezione “corrispondentista” della verità (secondo Rorty, genealogicamente riconducibili all’epistemologia “cartesiana – lockeana – kantiana e soprattutto, nel ‘600, alla frapposizione di un “velo delle idee” tra soggetto e mondo). L’idea che vi sia una realtà indipendente dalla mente che il soggetto conoscente deve cercare di “rispecchiare” è un’idea metafisica legata ad un complesso di assunzioni psicologiche e epistemologiche che, secondo i critici dell’epistemologia, sono oggi decisamente soppiantate da concezioni “pragmatiche” e “comportamentiste”, le quali non richiedono alcuna idea di “rappresentazione” e, alla fine, vanificano, in quanto erroneamente posto, ogni sforzo di far combaciare schemi concettuali e “fatti”. Anche se attinge a molta letteratura “continentale” – soprattutto Heidegger, il decostruzionismo di Derrida e molta filosofia postmoderna – il referente polemico di Rorty, come anche di Williams e oggi di Stephen Stich (The Fragmentation of Reason, 1990), è un tipo di impostazione della filosofia della conoscenza che appartiene in senso stretto alla tradizione analitica anglo – americana. Tale tradizione è caratterizzata da un approccio alla conoscenza i cui tratti salienti sono: 1. il privilegiare i problemi inerenti alla conoscenza proposizionale (“io so che p” dove p è un’entità linguistica e non una cosa nel mondo); 2. la risposta alle varie sfide che lo scetticismo ha avanzato contro le nostre pretese di conoscenza; 3. l’analisi dei concetti epistemici ordinari, quali quelli di “credenza”, “verità”, “giustificazione” 4. la valutazione e la riforma delle pratiche comuni di ragionamento. 115 Il punto di partenza dell’analisi della conoscenza da parte di tale tradizione è stata spesso l’assunzione che la conoscenza potesse essere definita, nei termini del Menone di Platone, come credenza vera giustificata. La conoscenza, dunque, viene in questo caso considerata come credenza + qualcosa; e questo qualcosa è dato soprattutto da una adeguata teoria della giustificazione, articolata in un sistema di regole o principi atti a valutare quali stati cognitivi sono epistemicamente giustificati e quali no, oppure, nelle accezioni cosiddette “affidabiliste”, dall’individuazione di un processo di acquisizione delle nostre conoscenze che possa garantirle come tali. La tradizione analitica, come rimprovera Rorty, ha preso davvero sul serio le sfide scettiche e ha soprattutto drammatizzato, cercando le vie per una ricomposizione, quella che Wilfrid Sellars (Science, Perception, and Reality, 1963) ha icasticamente definito come la divisione tra “immagine scientifica” e “immagine manifesta” del mondo. I suoi tentativi di risposta si sono spesso articolati intorno a una definizione della conoscenza e delle sue componenti necessarie e sufficienti. Se i problemi che tale impostazione privilegia hanno una precisa origine storica – che, peraltro, sarebbe corretto analizzare meno genericamente di come ha fatto Rorty – non è affatto assodato che tale genealogia li abbia ipso facto resi inattuali, né che le obiezioni comportamentiste, pragmatiste e deflazioniste avanzate da Rorty (ma anche da Quine, Davidson e da altri rappresentanti della filosofia postanalitica) ai problemi della conoscenza e della verità siano a loro volta immuni da critiche. Lo stesso concetto di “rappresentazione”, per esempio, centrale nell’epistemologia tradizionale e ritenuto da Rorty decisamente fuorviante, appare invece oggi al centro di un rinnovato interesse da parte delle “scienze cognitive”; mentre molti problemi della conoscenza – relativi a una distinzione tra innato e acquisito, relativi ai limiti della conoscenza, e anche relativi all’esplicazione di molti concetti intrinsecamente connessi alla conoscenza –, seppur datati storicamente, mantengono un’attualità che va oltre la contingenza delle loro premesse. Un modo diverso di considerare i problemi della conoscenza, anche se per molti versi in consonanza con le dissoluzioni postmoderne, è quello proposto dalle cosiddette “epistemologie naturalizzate”, le quali non li reputano più problemi trattabili filosoficamente, con un approccio trascendentale o fondazionale, e li vedono invece come posti e resolubili all’interno delle scienze empiriche stesse (la psicologia, la biologia, la sociologia ecc.). Se, comunque, una diffusa tendenza al superamento dell’impostazione tradizionale dei problemi della conoscenza si può verificare all’interno di molte correnti filosofiche contemporanee, dall’esistenzialismo, all’ermeneutica, alla filosofia post – analitica, essa testimonia soltanto del condiviso riconoscimento che una filosofia di tipo “fondazionale” aristotelico (quella esemplarmente riscontrabile negli Analitici secondi), teorizzata in parte anche da Cartesio (vedi soprattutto la lettera – prefazione all’edizione francese dei suoi Principia philosophiae), alla ricerca di principi primi da cui dedurre e giustificare le verità delle varie scienze, è forse definitivamente tramontata; mentre non ha affatto decretato che altre forma di “fondazionalismo”, come quelle di derivazione kantiana (anche se liberate dall’idea kantiana del sintetico a priori e di principi necessariamente veri) e neopositivista, concentrate sui fondamenti teorici delle nostre attuali conoscenze, abbiano esaurito la loro funzione di sistemazione e di analisi filosofiche della conoscenza. 116 117