L`ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE, L`AIR E LE OPZIONI

L’ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE,
L’AIR E LE OPZIONI REGOLATIVE .
RIFLESSIONI SULL’APPLICABILITA’ AL LIVELLO REGIONALE ALLA
LUCE DELLA SPERIMENTAZIONE
di Antonio La Spina, Università di Palermo
ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE E PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
L’analisi delle politiche pubbliche studia il modo in cui si formano e vengono attuate le decisioni pubbliche
in due prospettive: quella strettamente conoscitiva, con la finalità di descrivere i processi e spiegarli; e quella
applicativa, con la finalità di migliorare la qualità delle singole politiche pubbliche e in genere le capacità di
intervento delle istituzioni che ne sono responsabili. L’analisi delle politiche pubbliche applicata (che è
quella su cui d’ora in avanti ci soffermeremo) suggerisce di strutturare il percorso attraverso il quale vengono
adottate le decisioni pubbliche, rendendole per un verso più consapevoli e più efficaci, e per altro verso più
trasparenti. Essa richiede ai decisori pubblici, nel trattare un problema di cui essi avvertono l’urgenza, di
compiere una serie di passaggi:
- “conoscere la realtà”, nel senso di rilevare in modo attendibile e completo le esigenze sociali ed
economiche cui si intende dare risposta (ivi comprese quelle non rappresentate da corrispondenti gruppi di
interesse);
- considerare una gamma differenziata di opzioni di intervento;
- consultare ampiamente i soggetti interessati a vario titolo alla politica pubblica, ai benefici che essa
dovrebbe generare, ad eventuali costi diretti o collaterali che da essa deriverebbero (includendo tanto i
gruppi più deboli e meno organizzati, tanto i punti di vista di coloro che potrebbero essere toccati
dall’intervento, ma non possono aver voce in capitolo, come le generazioni future);
- esaminare le singole alternative di intervento dal punto di vista della loro concreta fattibilità;
- eliminare, sulla base di una previsione dei loro effetti (anche collaterali), alternative che siano
irragionevolmente costose, dati i fini che la politica si prefigge;
- suggerire l’alternativa o le alternative che appaiono più vantaggiose;
- tenere sotto osservazione la fase di attuazione;
- valutare sistematicamente ex post i risultati e in generale l’impatto delle politiche adottate.
Tale analisi può migliorare in vari modi il rendimento dei sistemi politici ed in particolare delle pubbliche
amministrazioni attuatrici, che al contempo hanno una parte spesso decisiva nell’elaborazione delle politiche:
•
ridefinendo i problemi, in vista dell’intervento, in modo corretto, il meno possibile ambiguo, il più
possibile operazionalizzabile ed esaustivo, cioè tale da includere aspetti rilevanti spesso tralasciati
(ivi compresi i rischi connessi all’inerzia ovvero all’intervento), al contempo minimizzando le
conseguenze della disinformazione, dei fraintendimenti o di definizioni dettate da ragioni
opportunistiche, ideologiche o emozionali;
•
escludendo alternative non necessarie, eccessivamente costose, ovvero tali da generare probabili
effetti collaterali indesiderabili in quantità eccessiva;
•
utilizzando tecniche di valutazione controllabili e rigorose, sia nella rilevazione delle informazioni e
delle opinioni attraverso la consultazione, sia nell’apprezzamento dei costi e dei benefici delle
singole alternative;
•
utilizzando sistematicamente dati attendibili, pertinenti al problema oggetto di intervento, reperiti
attraverso le basi informative disponibili (analisi secondaria), o, se indispensabili, prodotti ad hoc
(analisi primaria);
•
elevando la rispondenza delle politiche pubbliche ai differenti bisogni sociali ed economici.
Per un verso, una corretta e stabile applicazione dell’Analisi delle politiche pubbliche rende i processi
decisionali pubblici più tecnici e orientati ai problemi specifici. Ciò non implica necessariamente una deriva
verso la tecnocrazia. Al contrario, se appropriatamente congegnata, l’Analisi delle politiche pubbliche può
fornire una opportunità di trovare udienza per le esigenze dei molteplici gruppi sociali interessati, assai più
significativa di quanto spesso non avvenga. D’altro canto, nel trattare in modo articolato alcune premesse
delle decisioni (informazioni circa le posizioni e gli interessi dei destinatari diretti e indiretti, condizioni delle
amministrazioni attuatrici, dati empirici circa le tendenza in atto nella società e nell’economia, effetti
prevedibili delle varie alternative e loro stima, e così via) essa dà addirittura maggiore evidenza all’aspetto
propriamente politico della decisione, cioè alla scelta del bisogno sociale da soddisfare e pertanto
all’obiettivo dell’intervento, eventualmente a scapito di interessi contrapposti.
Passiamo adesso ad esaminare più nel dettaglio le varie fasi dell’Analisi, indicando anche ciò che
occorrerebbe innovare nelle amministrazioni affinché tali attività vengano effettivamente e adeguatamente
realizzate.
Il primo momento è quello, per così dire, ascendente, che dalle esigenze sociali va verso la definizione delle
alternative di intervento. Si parte dalla percezione del problema. Abbiamo un problema tutte le volte che si
riscontra una insoddisfazione circa la situazione esistente, giudicata insoddisfacente rispetto a quella che si
potrebbe realisticamente ottenere con un intervento modificativo. Occorre quindi definire la situazione di
partenza, le ragioni dell’insoddisfazione, le caratteristiche dell’intervento, la sua fattibilità.
Gruppi sociali diversi avranno spesso percezioni diverse, o addirittura contrapposte, circa la medesima area
problematica. Ad esempio, la necessità o l’opportunità di realizzare una certa opera pubblica, o una
privatizzazione, o una certa erogazione. In questo caso parliamo di esigenze espresse, in modo più o meno
acuto, più o meno conflittuale. Ma può aversi anche il caso di esigenze latenti, vale a dire non avvertite,
sebbene riguardanti beni fondamentali, come la salute, l’istruzione, la sicurezza. Ad esempio, a seconda delle
sostanze che ne sono responsabili, il livello effettivo di inquinamento di un centro urbano, e i connessi rischi
per la salute dei residenti, possono non essere noti a questi ultimi. Lo stesso dicasi per il livello dei rifiuti
nelle discariche, per la quantità effettiva delle interruzioni e dei guasti nei servizi pubblici, per la perdita di
opportunità dovuta ad una insufficiente preparazione scolastica, e l’elenco potrebbe continuare all’infinito. In
tutti questi casi, il cittadino, l’utente di una prestazione pubblica, può avere una generica percezione del
disservizio, o può anche non accorgersi per nulla di ciò che perde in conseguenza di un inadeguato
rendimento delle politiche pubbliche che tali beni dovrebbero tutelare.
Le esigenze sociali cui il provvedimento è inteso a far fronte sono talora dotate di grande visibilità e
influenza. In altri casi è vero il contrario. Inoltre, anche gli interessi e le opinioni dei soggetti potenzialmente
danneggiati dal provvedimento vanno tenuti in considerazione.
La previsione di una appropriata procedura di consultazione di chi è interessato o potrebbe essere interessato
al provvedimento è un ulteriore aspetto essenziale, anch’esso altamente innovativo e controverso, dell’AIR.
Occorre chiarire che tale consultazione non va intesa in termini “rappresentativo-negoziali”, nel senso di
vedervi coinvolte soltanto le organizzazioni datoriali o dei lavoratori sindacali, ovvero (lì dove esistono) le
associazioni di utenti, consumatori, residenti, piccoli azionisti, etc.
Per consultazione si intende piuttosto una rilevazione metodologicamente rigorosa delle percezioni e delle
valutazioni sia dei diretti destinatari del provvedimento ipotizzato, sia di testimoni privilegiati, “osservatori
esperti” del settore, circa la natura, l’entità e la distribuzione sociale, temporale e spaziale dei costi e dei
benefici derivanti dall’intervento. Dovrebbe essere incluso un ventaglio di soggetti molto ampio, tra cui le
realtà produttive di piccole dimensioni, così come le organizzazioni non profit, le associazioni di interesse
pubblico, soggetti che parlino a nome di interessi diffusi, e infine le varie amministrazioni interessate.
E’ evidente che le esigenze espresse e quelle latenti andranno trattate in modo diverso. Un’ampia e
approfondita consultazione degli interessati serve a rilevare le prime. Occorre precisare che dalla
consultazione (a meno di non organizzarla in forma di referendum) non si potrà dedurre la scelta di una data
configurazione della politica pubblica. Questa è appunto materia di decisione in senso proprio politica (per
quanto il responsabile politico cambierà a seconda del livello di governo, del tipo di materia, e così via). È
l’istanza politica che “dà ragione” ad una certa posizione, e “dà torto” a quella contrapposta (auspicabilmente
già in sede di predisposizione del proprio programma elettorale), con i connessi benefici e costi in termini di
consenso. Inoltre, le finalità dell’intervento vanno espresse in modo da rendere possibile misurare lo
scostamento tra il risultato atteso e il risultato effettivamente conseguito. Peraltro, la rilevazione delle
esigenze espresse non deve farci dimenticare quelle latenti, che non si manifestano “da sole”. Dovranno
allora essere le istituzioni pubbliche a prevedere, in varie forme, la loro trattazione.
Le innovazioni necessarie sono svariate. Occorre anzitutto che le amministrazioni si dotino di sensori delle
esigenze, tanto espresse quanto latenti: procedure collaudate di consultazione dei gruppi sociali, quanto alle
prime; procedure di consultazione di esperti e specialisti esterni, ma anche, a seconda dei casi, loro
“internalizzazione”, quanto alle seconde. Vi è anche bisogno di dati attendibili circa le aree problematiche di
volta in volta in discussione, nonché di soggetti all’interno delle amministrazioni che sappiano utilizzarli. La
funzione dell’Analisi, per un verso, permea di sé tutta l’amministrazione, ma per altro verso va in qualche
modo coagulata in un apposite unità organizzative, poste nelle condizioni di interloquire sia con gli altri
uffici che con le istanze politiche.
Una volta individuate le esigenze e compiuta la scelta di quelle da privilegiare, indicando così gli obiettivi
dell’intervento, occorrerà valutare le diverse alternative sul campo. E’ bene distinguere, in linea di massima,
tra politiche distributive, consistenti nell’erogazione di un beneficio tangibile (denaro, beni, servizi) a
determinate categorie, e politiche regolative, consistenti nella previsione di modelli di condotta,
eventualmente sanzionati, cui i destinatari dovrebbero adeguarsi. Numerosissime sono le alternative in
entrambi i casi. Ad esempio, le politiche distributive possono essere gestite direttamente da una
amministrazione pubblica, o un soggetto comunque a controllo pubblico, ovvero gestite da privati e per di
più in regime di concorrenza, sebbene sotto la vigilanza di un soggetto pubblico. Andranno poi considerati
aspetti come le modalità di finanziamento, la trasparenza e l’equità dell’allocazione dei costi e dei benefici, i
requisiti per l’accesso, l’ampiezza delle varie categorie, lo stato di bisogno effettivo e la sua verifica, le
formule organizzative, e così via.
Delle politiche regolative parleremo diffusamente più in là. L’Analisi di impatto della regolazione (AIR) è
un caso di analisi delle politiche pubbliche applicata, concernente appunto il settore delle politiche
regolative.
DRAFTING, FATTIBILITÀ E ANALISI DI IMPATTO
È bene distinguere l’AIR da altri due strumenti di miglioramento della qualità della normazione: gli studi di
drafting (o analisi tecnico-normativa: ATN) e l’analisi di fattibilità. Per trattare della qualità della legge si
può partire dal presupposto che l’intenzione ufficiale del legislatore sia che le norme adottate siano il più
possibile attuate piuttosto che inattuate. Un primo ostacolo all’attuazione della legge può essere costituito
dalla sua natura di testo non univoco, bensì necessariamente oggetto di un’interpretazione, il cui risultato è la
norma. I difetti nella redazione delle leggi possono aumentare i dubbi interpretativi che derivano dalla
corrispondenza non biunivoca tra testo e norma. Pertanto, nella redazione della legge è preferibile utilizzare
tecniche che consentano di ridurre l’ambiguità e la vaghezza del testo.
I problemi legati all’equivocità delle formule usate dal legislatore sono diversi. A parte l’ambiguità o la
vaghezza linguistiche, sono difetti legati all’oscurità delle leggi anche: il conferimento di posizioni
giuridiche scarsamente giustiziabili, perché l’equivocità favorisce decisioni facilmente riformabili nei
successivi gradi di giudizio; la distribuzione di poteri “normativi” agli organi che dovrebbero invece solo
applicare la legge oppure agli stessi interpreti; l’ineffettività dell’accesso dei cittadini alla conoscenza delle
norme. Il difetto più grave e generale sta nel fatto che l’oscurità nella formulazione delle leggi non garantisce
l’obbligatorietà, l’uniformità di applicazione e la certezza del diritto.
Un primo aspetto su cui si può incidere per migliorare la qualità di tutta la normazione è pertanto quello della
redazione dei testi: la semplicità del linguaggio, la certezza e l’uniformità della terminologia, l’uso di
definizioni, l’organizzazione del testo (organica e coerente) ed, infine, l’utilizzo, da parte di tutte le autorità
normative, di regole di redazione omogenee, sono i problemi principali ai quali il drafting formale cerca di
offrire una soluzione.
L’obiettivo di regole per la redazione dei testi normativi (quali quelle recentemente contenute nella circolare
del P.C.M. del 20 aprile 2001, n. 1.1.26/10888/9.92 “Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica
dei testi legislativi”, e nella Circolare 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92 “Guida alla redazione di testi
normativi”) è quello di produrre una normazione “chiara”, ovvero un testo normativo che trasmetta un
messaggio da tutti comprensibile, che non dia luogo ad equivoci o ad interpretazioni fuorvianti e che sia
scritto con un linguaggio semplice e piano. L’obiettivo di tali regole è quello di offrire uno strumento unico,
applicabile a tutti gli schemi di atti normativi, che renda univoche ed omogenee le tecniche di redazione di
ciascun organismo di normazione.
Le indicazioni sul drafting formale attengono essenzialmente a tre categorie:
l’organizzazione del testo, nel senso che il dettato normativo non solo va scandito attraverso l’uso di sezioni,
capi, titoli e con la rubricazione degli articoli ma anche attraverso l’organica e coerente distribuzione del
messaggio normativo (evitando di introdurre norme intruse rispetto all’argomento disciplinato in via
principale e dedicando ad ogni articolo un singolo argomento);
la struttura della frase, nel senso che lo stile deve essere essenziale, evitando doppie negazioni e periodi
lunghi, ricchi di subordinate e di forme passive; il linguaggio normativo, nel senso che va evitato l’uso di
vocaboli stranieri o arcaici o di neologismi o di forme retoriche; ad ogni termine deve essere attribuito
sempre e soltanto un significato; viceversa, i termini attinti dal linguaggio giuridico o da un linguaggio
tecnico devono essere impiegati in modo appropriato e se nel linguaggio corrente hanno un significato
diverso, deve emergere chiaramente dal contesto in quale accezione è utilizzato; vanno poi particolarmente
curati i rapporti tra il nuovo testo e le disposizioni preesistenti, attraverso il corretto uso dell’abrogazione,
della tecnica dei rinvii, delle “novelle”.Il drafting formale, o ATN, aspira ad essere uno strumento in grado di
generalizzare ed omogeneizzare le tecniche redazionali, organizzandole in modo sistematico, con riferimento
non ai soli “atti legislativi”, bensì, con gli opportuni adattamenti, a tutti gli atti normativi comunque
denominati.
La cattiva redazione degli atti normativi spesso è da attribuirsi all’uso di rinvii criptici ad altre leggi,
all’insufficiente coordinamento con il contesto normativo, all’uso di un linguaggio non semplice; non è da
escludersi, però, che dietro ad una formulazione normativa ambigua si celi un compromesso politico. La
norma non può essere chiara se tale non è la volontà politica. In questi casi il messaggio normativo è
volutamente ambiguo, frutto di un incontro di più e differenti interessi.
Alle indicazioni attinenti alla qualità redazionale (drafting formale) se ne associano alcune attinenti alla
qualità sostanziale dell’atto normativo (c.d. drafting sostanziale): il divieto di introdurre “norme intruse”, il
divieto di modificare parzialmente atti di fonte secondaria con atti aventi forza di legge, la richiesta di
omogeneità del contenuto dei singoli articoli. Anche in questi casi, non siamo ovviamente di fronte a regole
riguardanti il contenuto e gli effetti dei provvedimenti.
A differenza del drafting formale, che si serve di strumenti tecnico-giuridici per ottenere una certa chiarezza
redazionale dell’enunciato normativo, l’analisi di fattibilità opera sulla dimensione organizzativa del diritto e
mira all’applicabilità della legge, rimovendo gli ostacoli che possono essere costituiti dalle strutture
amministrative 1 . Drafting e analisi di fattibilità sono tecniche legislative (non scienze) orientate
all’attuazione della legge, poiché entrambe intervengono sugli ostacoli che a quest’obiettivo potrebbero
essere opposti, nel primo caso, dalle difficoltà legate all’interpretazione, nel secondo caso dall’inadeguatezza
dell’organizzazione amministrativa. La fattibilità di ciascuna opzione va valutata in termini di copertura
finanziaria, di “copertura amministrativa” (numero di unità di personale, loro distribuzione territoriale, loro
idoneità a porre in essere le prestazioni richieste, condizioni contrattuali, tecnologie realisticamente
utilizzabili, etc.), di dislocazione delle competenze tra i vari livelli di governo e le diverse istituzioni
pubbliche. Una alternativa rilevante, ma praticamente irrealizzabile, sarà da scartare prima di passare alla
fase successiva. Tutto ciò richiede, ovviamente, che le amministrazioni “conoscano sé stesse”, e siano in
grado di fornire rapidamente diagnosi fedeli alla situazione di fatto.
L’intervento normativo, pur redatto in modo chiaro ed efficace, potrebbe essere sostanzialmente incapace di
produrre in tutto o in parte gli effetti desiderati.La qualità di un intervento normativo dipende, infatti, anche
dalla corrispondenza degli effetti allo scopo, dalla prevalenza dei benefici sui costi che ricadono sui
destinatari, dall’assenza di conseguenze indesiderate e di effetti collaterali. In altre parole, l’attuazione
dell’atto normativo non dipende soltanto dalla possibilità che sia conosciuto o dalla valutazione del suo
impatto sulla pubblica amministrazione ma anche dalla valutazione delle esigenze dei destinatari,
dell’obiettivo dell’intervento e dell’impatto sulle imprese e sulla collettività. Trattandosi di approcci tutti
vertenti sul miglioramento della qualità dei provvedimenti regolativi, i primi due vanno visti come parti
costitutive della terza. Infatti, l'ATN riguarda aspetti quali la formulazione linguistica, l'ordine sistematico, la
collocazione nella gerarchia delle fonti del provvedimento regolativo. L’analisi di fattibilità, invece, ha a che
vedere con l’idoneità delle strutture amministrative esistenti a ottenere il risultato che da esse il legislatore si
attende. Se ad esempio si prevede a carico dei datori di lavoro, per tutelare i lavoratori contro danni alla
salute dei lavoratori derivanti da posture erronee alla scrivania, l’obbligo di utilizzare un mobilio con certe
caratteristiche, e gli ispettorati del lavoro competenti a controllarne il rispetto sono in numero molto inferiore
a quello necessario, o sono concentrati solo in certe aree del paese, in sede di analisi di fattibilità si rileverà
una insufficiente ovvero una diseguale copertura amministrativa della norma. Se siamo ragionevolmente
certi che una data norma sarà inefficace, ciò significa che i benefici attesi dalla norma non si produrranno, o
almeno non si produrranno nella misura voluta, il che è da considerare nella valutazione dell’impatto. In
questo senso, quindi, l’analisi di fattibilità è un elemento dell’AIR. Si parla, al riguardo, di presupposti e di
criticità. Esaminate le opzioni astrattamente applicabili, va effettuata una selezione di quelle più rilevanti
rispetto agli obiettivi da perseguire. Una volta fatto ciò, vanno considerate le condizioni necessarie per la
realizzazione di ciascuna opzione rilevante, vale a dire i presupposti organizzativi e finanziari, che
riguardano le amministrazioni, e quelli economici e sociali, che invece riguardano i cittadini e le imprese.
Con specifico riguardo all’impatto sulle pubbliche amministrazioni, la procedura di AIR prevede che le
amministrazioni effettuino una rilevazione-diagnosi della situazione attuale, contrassegnando come criticità
le difficoltà organizzative ritenute difficilmente superabili.
1
Non sempre questo è tuttavia il senso in cui l’espressione viene utilizzata, anche dal legislatore.
Interessante è il caso della l. 109/1994 “Legge quadro in materia di lavori pubblici” ed al relativo
regolamento d’attuazione DPR 554/1999. Questa normativa utilizza l’espressione “studi di fattibilità” cui
la delibera n. 135/1999 del CIPE attribuisce dei requisiti minimi: 1.Inquadramento territoriale e socioeconomico del progetto, struttura ed obiettivi; 2. Analisi della domanda attuale e prevista e specifica dei
gruppi dei beneficiari; 3. Analisi dell’offerta attuale e prevista; 4. Descrizione dell’investimento con
verifica delle disponibilità dei più importanti inputs materiali ed umani e con l’individuazione delle
alternative tecnologiche disponibili; 5. Analisi delle alternative possibili; 6. Analisi degli aspetti e dei costi
gestionali in fase di esercizio (se esistenti); 7. Analisi della fattibilità finanziaria C/B; 8. Descrizione ed
analisi degli impatti ambientali; 9. Contributo alla programmazione 2000-2006 fondi strutturali; 10.
Relazione sintetica conclusiva riportante i principali risultati e le raccomandazioni motivate sulla fattibilità
dell’opera.
D’altro canto, l’AIR deve anche porsi questioni che stanno a monte dell’analisi di fattibilità. Nell'esempio
precedente: quanto è grande il beneficio che si desidera ottenere? E' tale da giustificare il costo inflitto
direttamente ai datori di lavoro, ed eventualmente, in via indiretta, ad altri soggetti? L’imposizione di uno
specifico mobilio è l’opzione regolativa più appropriata? Che cosa ne pensano i potenziali beneficiari e i
potenziali danneggiati dalla norma? E così via. L’analisi di fattibilità potrebbe benissimo applicarsi,
aumentando la sua efficacia attesa, ad un provvedimento in sé inopportuno, in quanto troppo costoso per i
cittadini e per le imprese a fronte dei benefici che esso dovrebbe generare. L’AIR, invece, serve anzitutto a
porre in luce se e quanto una siffatta inopportunità sussiste. In secondo luogo, l’analisi di fattibilità riguarda
condizioni interne alle amministrazioni, mentre l’AIR riguarda anche, e prevalentemente, effetti che si
producono all’esterno, sui cittadini, sulle attività produttive e sulle condizioni della vita sociale.
Per un verso, vi sarà un impatto in termini di benefici. Nelle politiche distributive questo è evidente e si
intesta a beneficiari individuati: ad esempio, un addetto a lavori socialmente utili che percepisce un
emolumento mensile. Il prodursi dei benefici è invece meno diretto e di norma diffusivo nelle politiche
regolative: ad esempio, una comunità di residenti in cui diminuisce l’incidenza di un certo tipo di tumore a
seguito della riduzione dell’inquinamento. Vi sono poi i costi delle varie alternative: ad esempio, la posta del
bilancio dell’amministrazione da rimpinguare per retribuire gli LSU; la modificazione di condotta cui ha
dovuto accedere lo stabilimento inquinante. Ma vi sono anche costi indiretti, collaterali, spesso imprevisti, o
comunque “sotterranei”. Ad esempio, la distorsione del mercato del lavoro e la diffusa rinuncia a rischiare in
proprio causata dalla presenza di interventi a favore di LSU; ovvero, la sopportazione di un costo
irragionevole da parte delle aziende su la riduzione dell’inquinamento può essere ottenuta con formule meno
intrusive rispetto a quella in considerazione.
La valutazione dell’impatto, quindi, riguarda non soltanto le prestazioni delle amministrazioni (outputs), né
soltanto i risultati che si verificano conformemente alle finalità dell’obiettivo, bensì l’insieme di tutti gli
effetti (outcomes), anche imprevisti e/o indesiderati.
Anche in questo caso, vi sono metodi di valutazione, ancora poco noti e diffusi nel nostro paese, che ci
consentono sia di anticipare i vari effetti, sia di attribuire ad essi un valore, così da consentire la
comparazione dei costi e dei benefici delle varie opzioni. L’innovazione richiesta riguarda l’impiego
effettivo di tali metodi (e prima ancora il reperimento o la produzione dei dati necessari). Ovviamente, visto
che siamo nel campo della previsione, non si tratta di strumenti in grado di darci certezze, né di indicarci una
soluzione oggettivamente ottimale. Ciò che dobbiamo attenderci da essi, però, è che il loro impiego consenta
di evitare una buona parte degli errori di scelta abitualmente commessi, abituando al contempo le
amministrazioni a strutturare i processi di formulazione delle politiche in modo da tenere sistematicamente in
conto il problema dell’impatto e della sua stima.
GOVERNARE IL CONSENSO, GESTIRE E VALUTARE L’ATTUAZIONE
Il fatto che una amministrazione si avvalga dell’AIR dovrebbe riverberarsi anche sul modo in cui viene
progettata e gestita la fase di attuazione delle politiche, una volta che esse siano state prescelte. Infatti, per un
verso dovrebbe aversi una specificazione previa dei risultati attesi, cui l’attuazione adesso dovrà puntare. In
questo senso, quindi, l’attuazione deve rivolgersi, a monte, verso il momento della fissazione degli obiettivi.
Per altro verso, l’attuazione deve anche tener conto del fatto che l’Analisi è un processo continuo e circolare,
che non si ferma al confronto tra risultati attesi e risultati effettivi, ma sottopone costantemente a giudizio la
validità delle singole politiche, nella consapevolezza che al momento della decisione potevano non essere
stati considerati alcuni aspetti, ovvero che le situazioni di fatto possono essersi successivamente modificate.
L’attuazione, quindi, non è soltanto osservanza formale di disposizioni assunte come date, bensì produzione
di inputs eventualmente da utilizzare per rivedere tali disposizioni.
L’attuazione è un momento altrettanto importante della formulazione della politica pubblica. Infatti, è
perfettamente possibile che una politica lungimirante e condivisibile negli obiettivi vada poi a infrangersi
contro gli scogli di una attuazione mancata o distorta. Ciò può dipendere, come si è detto, sia da ostacoli
strutturali, sia da una inadeguata progettazione della politica, del suo avvio, della sua messa a regime.
Sussistono anche, come è intuitivo, problemi di consenso. Questi possono riguardare l’esterno (possono ad
esempio esservi gruppi sociali “perdenti”, che patiscono un costo, o gruppi ufficialmente “vincenti”, che
pretendono benefici superiori a quelli in atto riconosciutigli). La percezione di tali interessi, e pertanto delle
potenzialità di dissenso, può essere dispersa, diffusa presso la cittadinanza, ovvero coagularsi in
organizzazioni di rappresentanza, “parti sociali”, associazioni, movimenti. Ma vi sono di norma anche
problemi di consenso interni, relativi all’atteggiamento del personale chiamato a dare attuazione alla politica.
Per un verso, uno dei requisiti di una buona attuazione delle politiche pubbliche è la sua capacità di
minimizzare il dissenso, e possibilmente di mobilitare il consenso, anche attraverso appropriate strategie
comunicative. D’altro canto, il consenso (ovvero l’assenza di dissenso) non è un fine in sé, bensì un mezzo
rispetto al fine ultimo dell’attuazione più rapida e certa di una politica pubblica. Di conseguenza, non è
sempre assolutamente necessario ottenerlo. In taluni casi una quota di dissenso è inevitabile, e con essa farà i
conti l’istanza politica.
Ne segue che le innovazioni richieste riguarderanno sia momenti di confronto e strategie comunicative volte
a creare e a gestire consenso, sia la previsione di vincoli e scadenze tali da evitare una distorsione della
politica pubblica nella sua concreta attuazione, nonostante la presenza di qualche dissenso.
Infine, l’Analisi delle politiche pubbliche richiede che le amministrazioni si abituino a tenere sotto
osservazione sia il loro proprio funzionamento, sia il grado in cui vengono conseguiti i risultati che si
desiderava conseguire, sia in genere l’insieme degli effetti (anche indesiderabili) che possono ricondursi alla
messa in opera delle varie politiche pubbliche. Si tratta, in altre parole, di fare mentre la politica viene attuata
ciò che dovrebbe farsi anche prima di adottarla. La differenza è che, mentre la valutazione ex ante ha a che
vedere con previsioni di andamenti e previsioni di effetti, ora avremmo invece davanti a noi fenomeni già
verificatisi, la cui rilevazione avverrebbe ex post facto.
Va anche detto, però, che l’attività di valutazione di una politica vigente non deve limitarsi a riproporre,
magari ad intervalli prestabiliti, soltanto il tipo di previsione che era possibile svolgere ex ante. Infatti, anche
ammesso che la valutazione ex ante effettuata, poniamo, dieci anni fa per una politica sociale comunale volta
alla predisposizione di servizi di doposcuola in quartieri con fenomeni di marginalità o disagio allo scopo di
ridurre i relativi fenomeni, fosse la più completa e rigorosa possibile, il verificarsi successivo di fatti ulteriori
imprevedibili al momento della decisione (ad esempio il raddoppiamento della popolazione di quei quartieri
degradati, per l’insediamento di nuclei di immigrati) può alterarne l’efficacia, anche se in ipotesi la politica
era assolutamente ragionevole al momento della sua adozione.
Il verificarsi degli effetti desiderati, o il mancato verificarsi di effetti indesiderati, dipendono non soltanto
dalla buona fattura di una data politica, ma anche dal permanere delle condizioni di partenza. Se queste
mutano, potranno mutare anche gli effetti della politica, o comunque l’adeguatezza di quest’ultima alle
nuove condizioni. Può darsi poi, come è intuibile, anche il caso di una politica mal congegnata fin dall’inizio,
che non produce i risultati attesi, o che produce effetti indesiderati.
Ecco perché la valutazione dei risultati e degli effetti è comunque necessaria, ai fini di una “manutenzione”
delle politiche pubbliche, ovvero di un loro riorientamento, o infine, se opportuno, della loro soppressione.
L’Analisi di impatto, se concepita anche come valutazione retrospettiva (la direttiva del P.C.M. sull’AIR del
settembre 2001 parla al riguardo di VIR, valutazione di impatto della regolazione) non genera soltanto un
input al momento della formulazione delle politiche, quanto anche un feedback sulla loro effettiva
funzionalità. Anche questo suo compito richiede innovazioni, sia in termini di reperimento della necessaria
expertise, sia in termini di una appropriata progettazione istituzionale di amministrazioni sensibili al
mutamento socio-economico e al concreto impatto delle proprie attività, sia infine in termini di una profonda
e pervasiva modificazione culturale, riguardante tanto il personale pubblico quanto la cittadinanza e i vari
gruppi sociali.
LE POLITICHE REGOLATIVE E LA GAMMA DELLE OPZIONI
Può parlarsi di regolazione, secondo Mitnick, quando si ha una "restrizione intenzionale dell'ambito di scelta
nell'attività di un soggetto, operata da un'entità non direttamente parte in causa o coinvolta in quella
attività" 2 . Apportando qualificazioni ulteriori, lo stesso autore suggerisce che: “la regolazione è la guida, con
mezzi amministrativi pubblici (public administrative policing), di una attività privata secondo una regola
statuita nell'interesse pubblico”.
Nella regolazione pubblica ritroviamo quindi una serie di elementi:
un soggetto pubblico (regolatore) dotato di poteri coercitivi;
l’intento di modificare il contesto d’azione di altri soggetti (regolati, che potrebbero non essere d’accordo);
la definizione ufficiale di certi valori, beni, interessi, posizioni come meritevoli di tutela, alla luce di una
nozione più o meno esplicita di interesse pubblico;
il perseguimento, con riguardo ad attività svolte di norma da privati, di condizioni di possibilità, svolgimento
efficiente, assenza di effetti esterni perniciosi;
la scelta di un particolare strumento, la statuizione e l'applicazione efficace di regole di condotta munite di
una qualche sanzione (afflittiva o premiale) più o mena intensa.
Il teorema fondamentale dell’economia del benessere afferma che, dati certi assunti, i mercati competitivi
condurranno a un’allocazione efficiente delle risorse, cioè a una situazione in cui non sarà possibile alcun
riaggiustamento delle risorse - vale a dire un possibile cambiamento nella produzione o nel consumo - tale
che qualcuno possa migliorare la propria posizione, senza che, al tempo stesso, qualcun altro la peggiori.
Una tale situazione viene detta Pareto-efficiente (ovvero Pareto-ottimale), dal nome dell’economista e
sociologo italiano Vilfredo Pareto.
Parliamo di “fallimenti del mercato” quando le condizioni affinché sia applicabile il teorema fondamentale
non vengono soddisfatte, così che i mercati non conducono a esiti efficienti.
2
Mitnick, B.M., The Political Economy of Regulation, New York, Columbia University Press,
1980, pp. 1 ss.
Ad esempio, in un mercato perfettamente competitivo, le aziende aumentano il loro prodotto fino al punto in
cui il prezzo eguaglia il costo marginale - vale a dire il costo di produzione di una unità addizionale del loro
prodotto. Tuttavia, un’azienda monopolistica, se non regolata, ridurrà la sua produzione allo scopo di elevare
i prezzi. Fissando i prezzi a livelli diversi da quello concorrenziale, tale azienda distorcerà l’allocazione delle
risorse. Inoltre, i monopolisti non sono sottoposti ad un incentivo sufficiente a spingerli verso la
minimizzazione dei costi di produzione, perché non sentono la pressione di concorrenti che a loro volta
cercherebbero di ridurre i loro propri costi per accaparrarsi quote di mercato. Quindi, il monopolio (o in
genere l’alterazione della concorrenza) è un’importante caso di “fallimento del mercato”.Un’altra condizione
necessaria, affinché un mercato competitivo funzioni, è che i compratori abbiano un’informazione sufficiente
per valutare i prodotti fra di loro in concorrenza. Tale condizione è soddisfatta in molti casi, ma la
complessità e la sofisticazione sempre più elevate dei nuovi prodotti e dei processi di produzione spesso
vanno ben al di là delle capacità dei consumatori, dei lavoratori o dei piccoli investitori di valutare le
conseguenze di scelte che potrebbero essere esercitate in un modo o in un altro. Quando l’informazione
richiesta per una scelta consapevole manca, ovvero è distribuita in modo asimmetrico - per esempio, tra
aziende e loro clienti, o tra professionisti e loro clienti - si parla di difetti di informazione (che costituiscono
un secondo caso di “fallimento del mercato”). Un gran numero di attività pubbliche, dalla legislazione sulla
protezione dei consumatori e sugli standards di sicurezza agli obblighi di etichettamento per i medicinali e
gli alimenti, ai prospetti informativi per le attività finanziarie, sono giustificati da difetti di informazione e
dall’idea che il mercato, da solo, tenderà a offrire informazione in quantità insufficiente. Una terza ipotesi di
“fallimento del mercato”, vale a dire di inefficienza dell’allocazione delle risorse generata dal mercato, si ha
quando vi sono esternalità negative, cioè quando le azioni di un individuo o di un’azienda impongono un
costo ad altri individui o aziende senza che vi sia una corrispondente compensazione. Visto che gli individui
o le aziende non sopportano l’intero costo delle esternalità negative che essi generano, essi tenderanno ad
intraprendere una quantità eccessiva di tali attività. L’inquinamento atmosferico o idrico è probabilmente
l’esempio più noto di esternalità negativa. Senza un qualche metodo che internalizzi i costi
dell’inquinamento, una quantità eccessiva delle risorse di una data società verranno attratte in processi e
prodotti inquinanti, mentre una quantità insufficiente verrà diretta verso processi e prodotti non inquinanti.
Pertanto, un intervento governativo sarà qui richiesto per favorire la riduzione del divario tra i costi privati
delle attività inquinanti e i veri costi che ricadono sulla società.Infine ci sono alcuni beni che o non verranno
offerti dal mercato o, se offerti, lo saranno in quantità insufficienti. Gli esempi sono moltissimi, tra cui la
difesa nazionale, l’amministrazione della giustizia, la tutela del paesaggio, e in genere la stessa
amministrazione pubblica. Tali beni sono chiamati pubblici (puri). Essi hanno due proprietà distintive: in
primo luogo, non costa niente se un individuo in più, rispetto a quelli che già godono del bene, gode a
propria volta dei benefici di un bene pubblico; in secondo luogo, è difficile o impossibile escludere gli
individui dal godimento di tali beni. Per via di tali caratteristiche vi è un insufficiente incentivo economico
per il mercato a produrre livelli sufficienti di beni pubblici. Tale carenza di incentivo a produrre ciò che la
gente desidera è un altro tipo di fallimento di un mercato in cui operino soltanto imprenditori orientati al
profitto: un’inadeguata offerta di beni pubblici.
Una politica regolativa, almeno nei primi tre casi di fallimento del mercato considerati, può essere una
risposta adeguata, che non sostituisce un soggetto pubblico “gestore” ai soggetti privati, ma modifica le
condotte di questi ultimi in modo da superare i difetti che impediscono il prodursi dei benefico che si
associano ad un mercato concorrenziale.
Stante tale possibilità di intervento, una parte fondamentale dell’AIR è quella che consiste nel prendere in
considerazione, una volta individuate le esigenze socio-economiche e gli obiettivi generali dell’intervento,
non una sola, bensì un ventaglio il più possibile ampio di differenti opzioni regolative, a partire da quelle
meno impegnative sia per l’amministrazione attuatrice sia soprattutto per i destinatari, ivi compresa
l’opzione zero, ovvero l’ipotesi di non intervenire affatto sulla materia.
L’opzione zero va preferita quando la vantaggiosità di un nuovo intervento pubblico è inferiore rispetto a
quella che la normativa vigente comporta. Essa non va pertanto confusa con un “azzeramento” della
regolazione. Può accadere che la normativa vigente sia restrittiva e sanzionatoria, e nondimeno si ritenga
necessario che resti così com’è, vista, ad esempio, l’elevata pericolosità del comportamento oggetto di
regolazione. E’ anche possibile che la normativa esistente risulti poco soddisfacente perché male applicata.
Anche in questo caso, il suo mantenimento (a condizione che vengano individuati e superati i fattori di tale
inadeguata applicazione) risulta preferibile.
Se non viene prescelta l’opzione zero, si aprono poi, anche in base alle risorse finanziarie e organizzative
disponibili, varie possibilità di intervento. Possiamo immaginare un continuum che va dalle opzioni meno
intrusive, meno vincolanti, meno modificative della condotta dei privati, man mano fino alle opzioni più
invadenti, vincolanti, restrittive. Si tratta di una classificazione dei provvedimenti regolativi alquanto diversa
da quelle che potrebbero trovarsi nei testi giuridici tradizionali. Una classificazione che va appresa e
sistematicamente utilizzata, in quanto aspetto costitutivo e cruciale dell’AIR.
-Nessuna regolazione, o riduzione della regolazione esistente (deregolazione, semplificazione)
- Volontarietà, Sensibilizzazione
- Incentivi
- Auto-regolazione
- Co-regolazione
- Contratti
- Diritti trasferibili
- Tassazione
- Trasparenza
- Antitrust
- Regolazione diretta
- Mercato regolamentato
- Monopolio privato regolamentato
- Monopolio pubblico settoriale
- Proprietà pubblica dei mezzi di produzione
Per esigenze di spazio non tratterò opzioni che pure in passato (e in certi casi ancora oggi) hanno goduto di
largo successo, cioè il mercato regolamentato, il monopolio privato regolamentato, il monopolio pubblico
settoriale, la proprietà pubblica dei mezzi di produzione
L’opzione meno intrusiva è quella in cui la scelta consiste nell’assenza, nella soppressione, ovvero nello
snellimento o nella ristrutturazione di provvedimenti già esistenti, specie dal punto di vista degli
adempimenti amministrativi. Nel primo caso parliamo di non regolazione, mente nel secondo di
deregolazione in senso proprio. Nel terzo di semplificazione. In effetti, la semplificazione non è un’opzione
regolativa autonoma. La colloco accanto alla deregolazione solo per ragioni di affinità. Cerco di spiegarmi
con un esempio: se il provvedimento “semplificato” prevede un obbligo di installazione di un impianto
elettrico dotato di certe caratteristiche, e ciò che si elimina è un adempimento amministrativo (ad esempio,
un accertamento da parte della pubblica amministrazione ai fini dell’avvio o della ripresa di un’attività, che
viene sostituito da una dichiarazione della ditta specializzata che certifichi la messa a norma dell’impianto),
il provvedimento in questione continuerà a collocarsi nell’ambito dell’opzione di regolazione diretta (di cui
si dice appresso). Se invece fosse l’obbligo di attenersi a certe norme quando si ha un impianto elettrico a
venire del tutto soppresso, avremmo un caso di deregolazione.
Le opzioni basate sulla volontarietà mirano ad ottenere la modificazione di condotta desiderata senza
prevedere nessun tipo di sanzione. Ciò che si prevede, in casi del genere, è che la semplice informazione (ad
esempio circa la pericolosità di un dato comportamento) sia sufficiente o comunque rilevante per modificare
la condotta dei soggetti Tra le opzioni volontarie possiamo considerare la promozione di campagne di
sensibilizzazione o di informazione, ovvero la previsione di codici di comportamento o standard (sanitari, di
sicurezza, ambientali, di qualità, e così via) ad adesione strettamente spontanea.
Una opzione in cui invece viene a profilarsi una possibilità sanzionatoria è quella della autoregolazione. Qui
la vigilanza sul rispetto delle regole e talora anche la produzione delle regole medesime sono affidate a
organizzazioni cui appartengono i soggetti le cui condotte vanno modificate. In certi casi l’adesione a tali
organizzazioni è obbligatoria (e in questa ipotesi siamo già nella co-regolazione, di cui si dice appresso),
mentre in altri è spontanea. Una volta che sia avvenuta, dall’adesione discende la possibilità di comminare
sanzioni (in taluni casi multe, o sospensioni, o l’espulsione). Si pensi a settori come i marchi di qualità, o i
canoni di corretta condotta professionale, sui quali vigili una istanza di autoregolazione (come il Giurì in
campo pubblicitario).
Nell’autoregolazione, quindi, sono i potenziali destinatari della regolazione pubblica a istituire propri organi
e procedure di adozione e applicazione di regole. Ciò ha il vantaggio di superare un gap informativo
normalmente sofferto dai regolatori pubblici, giacché in questo caso chi si auto-regola conosce i propri costi
e benefici reali, e inoltre, adottando un approccio poco formalista e più pragmatico, riscuote più facilmente la
fiducia dei regolati. I soggetti dell’auto-regolazione possono adottare sanzioni in concreto molto efficaci,
come l’espulsione da “circoli di qualità”, il rifiuto di certificare il possesso di determinati requisiti, la
sospensione o il ritiro di abilitazioni all’esercizio professionale 3 .
D’altro canto, non sempre vi è certezza che le regole richieste vengano adottate, perché ciò richiede che
produttori con esigenze spesso diverse si mettano d’accordo su di esse. Possono poi diminuire l’affidabilità
della vigilanza e dell’attività sanzionatoria (è talvolta possibile che tra colleghi si sia più indulgenti; in altri
casi, viceversa, nei confronti di propri concorrenti si tenderà ad essere più vessatori), o attenuarsi
eccessivamente gli standard regolativi. Va poi sottolineato che soltanto le attività economiche nelle quali
compaiono forme di organizzazione collettiva, come le associazioni di produttori, sono passibili di autoregolazione. Sono infatti non le singole imprese o i singoli operatori, bensì le loro istanze collettive (ivi
comprese gli ordini professionali, le camere di commercio, etc.), i soggetti dell’auto-regolazione. Questa non
riguarderà dunque mai aree in cui operano soggetti fra i quali non intercorre alcun legame. Se così è, ne
segue che non tutti i settori produttivi mostreranno un’eguale attitudine ad auto-regolarsi. Quelli in cui le
associazioni fra produttori sono meglio organizzate, più potenti, e come tali in grado di indurre
all’obbedienza i recalcitranti, ad esempio, sono senz’altro avvantaggiati in vista di una auto-regolazione.
Andrebbero altresì tenuti in conto aspetti come la dimensione delle imprese operanti nel settore, il grado di
sofisticazione tecnologica dei prodotti (che, se elevato, rende più difficoltosa e talvolta controproducente una
etero-regolazione), la diversificazione dei beni prodotti. Andrebbero poi considerate anche condizioni esterne
all'attività produttiva, come l’eventuale attinenza di questa a valori non materiali (il che almeno in linea
teorica induce alla etero-regolazione), nonché la presenza e il grado di organizzazione di movimenti di
consumatori, ambientalisti, residenti in aree interessate dalle esternalità di una attività produttiva, e così via..
Fattori sia interni che esterni rendono variabili i problemi oggetto di regolazione, le tecniche prescelte, le
modalità di rappresentazione dell’interesse pubblico, e infine l'appropriatezza e la difficoltà di attuazione di
una soluzione auto-regolativa. Infatti, in concreto possiamo riscontrare forme e gradazioni di autoregolazione sensibilmente diverse fra loro.
3
Nel d.d.l. riguardante la legge di semplificazione 2001 viene disposta la sostituzione dell’articolo 20 della
legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni con un testo in cui al comma 3, lett. h), si parla di
“promozione degli interventi di autoregolazione per standard qualitativi e delle certificazioni di conformità
da parte delle categorie produttive, sotto la vigilanza pubblica o di organismi indipendenti, anche privati,
che accertino e garantiscano la qualità delle fasi delle attività economiche e professionali, nonché dei
processi produttivi e dei prodotti o dei servizi”.
In secondo luogo, se è vero che rispetto alla regulation una qualche forma di auto-regolazione può essere
forse meno costosa da amministrare per l'erario pubblico, più facilmente legittimata dai suoi destinatari,
gestita in modo più agile e più consapevole dei problemi specifici cui essa si indirizza, adattandola
rapidamente a situazioni nuove o a problemi imprevisti, è anche vero che essa è di per sé spesso
strutturalmente inadeguata a tenere in conto i costi diffusi che l'attività economica in questione scarica su
soggetti esterni ai "governi privati". In effetti, può talvolta avvenire, ad esempio nel caso in cui un dato
mercato riguardi “beni fiduciari”, le cui caratteristiche non siano valutabili dagli acquirenti neppure dopo il
consumo (certi alimenti, certi prodotti finanziari, etc.), che i produttori trovino conveniente che vi sia un
“certificatore” (di norma un soggetto privato) che attesti ai clienti la presenza di quelle caratteristiche, il che
consente di mantenere e allargare quote di mercato, e di chiedere corrispettivi che non sarebbero accettabili
in mancanza di tale garanzia. Resta la possibilità che anche i certificatori si comportino in modo scorretto (o
“opportunistico”).
È quindi intuibile, e spesso lo si osserva in pratica, che il punto di vista degli interessi diffusi dovrà essere
adottato e fatto valere, prima che si avvii l’auto-regolazione, o se del caso sostitutivamente ad essa, dalla
legislazione e dalla regolamentazione statali, introducendo obblighi (come quello di prevedere all’interno
dell’azienda apposite figure professionali dotate di poteri in tema di controllo di qualità e intervento sui
processi produttivi), standards, controlli anche penetranti, normative più esplicite che nel passato in presenza
di settori auto-regolati. Un’ipotesi molto interessante è quella in cui si innesca una concorrenza fra
regolazione statale e auto-regolazione (regolazioni parallele). Ad esempio. nel solo settore della pubblicità
guardando ad esperienze straniere vengono individuate le seguenti forme di controllo: autodisciplina (norme
adottate e applicate dall’impresa stessa); auto-regolazione pura (norme adottate e applicate da un dato settore
produttivo); auto-regolazione per cooptazione (il settore coinvolge soggetti esterni, come esperti,
rappresentanti dei consumatori, e così via); auto-regolazione negoziata (con attori collettivi esterni, come
uffici governativi, associazioni di consumatori, etc.); auto-regolazione obbligatoria (lo Stato impone ad un
settore di adottare e applicare certe norme, eventualmente di concerto con altri attori); regolazione pura (lo
Stato monopolizza l’adozione e l’applicazione delle norme) 4 .
La regolazione pubblica può dunque talvolta aggiungersi all’autoregolazione, intervenendo in alcuni dei casi
in cui questa risulta inefficace, e fornendo un termine di paragone per giudicarne l’adeguatezza. In casi del
genere parliamo di co-regolazione: viene cioè riconosciuta (anche in base al principio di sussidiarietà)
l’opportunità che ai soggetti privati sia lasciato il più possibile il compito di creare e applicare regole per sé
stessi, ma si prevede in varie forme un complemento e un controllo pubblico. Un intervento pubblico
sostitutivo, o anche soltanto la sua minaccia, può indurre i produttori ad accordarsi quando spontaneamente
non vi riescono, oppure diminuire la preminenza di alcuni di essi, prescrivendo procedure partecipative, una
composizione bilanciata degli organi, forme di pubblicità, e così via. Può ovviamente valere anche l’inverso,
nel senso che norme pubbliche obbligatorie non adeguate potrebbero “ingessare” il funzionamento delle
istanze di auto-regolazione.
In conclusione, l'auto-regolazione è una soluzione parziale, in quanto riguarda soltanto alcuni settori
dell'attività economica, e incompleta anche rispetto a quei settori. Il che non significa che si debba
rinunciarvi. Al contrario, essa appare spesso una delle tecniche più appropriate, che presuppone però una
regolazione, o meglio, per dir così, una meta-regolazione più o meno incisiva a seconda della natura
dell’attività e dei problemi considerati.
Un’altra tecnica di regolazione poco intrusiva (dal momento che il contraente privato entra per propria libera
scelta in rapporto con il soggetto pubblico) è quella del ricorso a strumenti contrattuali, in virtù dei quali
un'impresa privata che riceva risorse pubbliche come corrispettivo di suoi prodotti acquistati dalla P.A., o per
gestire servizi rivolti alla cittadinanza, oppure che ottenga una concessione, o il diritto di condurre un'attività
produttiva in condizioni di monopolio naturale, assume su di sé anche certe obbligazioni ulteriori (ad es.
relative al rispetto dei contratti collettivi, ovvero agli investimenti, alla ricerca e sviluppo, all'occupazione,
alla formazione, all'equilibrio di bilancio, alle fonti di finanziamento, ai prezzi praticati, e così via).
4
Boddewyn, J.J., Advertising Self-Regulation: Organization Structures in Belgium, Canada, France and
the U.K., in W. Streek e P.C. Schmitter (a cura di), Private Interest Government - Beyond Market and
State, London/Beverly Hills, Sage, 1985.
Si tratta di uno strumento fatto oggetto di un sempre maggiore interesse, che in certi casi consente di ottenere
"automaticamente" le clausole contrattuali più appropriate. Si pensi al caso in cui numerosi concorrenti
aspirino a beneficiare dell’opportunità di sfruttare un monopolio naturale: tale competizione sostituirebbe
quella di mercato, portando alla fissazione del prezzo più basso a vantaggio dei consumatori. Ovvero, si
pensi al caso della yardstick competition, in cui un produttore già operante viene individuato come termine di
paragone, rispetto al quale riferire offerte economicamente più vantaggiose. Di norma, tuttavia, i contratti in
questione richiedono una redazione estremamente sofisticata, nonché controlli e aggiustamenti continui in
corso d'esecuzione.
Vanno poi considerate le opzioni di incentivo ovvero l’erogazione di un beneficio (o “premio”) monetario o
monetizzabile per indurre il soggetto a modificare la propria condotta. Ne sono esempio i contributi a fondo
perduto, prestiti a tasso agevolato, le deduzioni o crediti fiscali, i trasferimenti in natura, concessi a
condizione che il beneficiario tenga una condotta desiderata, o sia dotato di certe caratteristiche. Si tratta di
una forma di intervento poco invadente, che però può avere costi molto elevati (a seconda dell’entità del
premio e dell’estensione della platea dei beneficiari), ed esiti incerti (non è detto che tutti i potenziali
beneficiari decidano di avvalersi del sussidio, né che, una volta che se ne siano avvalsi, realizzino
effettivamente i risultati sperati).
Si parla in genere opzioni di “quasi mercato” quando alla condotta regolata si fa corrispondere un “prezzo”.
Nel caso dell’incentivo questo viene pagato almeno in parte da una autorità pubblica, mentre in altre forme
di regolazione di “quasi-mercato” (come le tasse ambientali o la messa all’asta di diritti di inquinare) viene
pagato dai destinatari della regolazione. Si mira così ad evitare interventi direttamente coercitivi, per ottenere
un adeguamento tendenzialmente spontaneo da parte dei destinatari.
I diritti trasferibili si hanno ad esempio nel caso in cui si rilascino permessi di scaricare nell’ambiente
naturale una certa quantità di sostanze inquinanti. Questo sistema ha scarsi costi amministrativi (ma è
necessario che la vigilanza sull’effettivo rispetto delle soglie massime di inquinamento da parte di chi
acquista il diritto sia rigorosa), e il vantaggio di incentivare le imprese a ridurre la condotta indesiderata
lasciando loro ampia libertà di manovra. Esso consente inoltre di specificare in anticipo la quantità di tale
comportamento consentita (ad es. la soglia di emissioni inquinanti). Infine, i permessi verranno acquistati
dalle imprese che ne hanno maggior bisogno. Restano i problemi connessi ai controlli, di non facile
attuazione (le difficoltà sono analoghe a quelle che si incontrano adottando performance standards), nonché
quelli della determinazione del prezzo del permesso (il quale dovrebbe corrispondere al costo minimo di
riduzione dell’emissione, se si conoscessero i costi reali delle varie aziende), della sua durata, della
periodicità della sua revisione. Inoltre, il valore nel tempo di tali diritti dipenderà anche da pressioni politiche
successive alla loro prima vendita, che potrebbero richiedere un aumento del loro prezzo (così beneficiando
immeritatamente chi già li possiede), ovvero la messa in circolazione di nuovi diritti (con l’effetto opposto).
Un’altra ipotesi è che, dopo aver stabilito un limite consentito al comportamento da ridurre in una data area,
si mettono all'asta i corrispondenti diritti (in questo caso diritti di inquinare, che andranno ai potenziali
inquinatori disponibili a pagare il prezzo più alto), il che dovrebbe risolvere il predetto problema della
fissazione del prezzo.
Le evoluzioni più significative della politica ambientale, soprattutto negli Stati Uniti, riguardano i diritti di
inquinare e la creazione di mercati sui quali scambiare tali diritti, coniugata tuttavia con la fissazione di
standard ambientali e con l'attività di apposite agenzie regolative che garantiscano il corretto funzionamento
di detti mercati 5 .
Tali sviluppi del sistema dei permessi di inquinare negoziabili lo rendono assai interessante rispetto ai
sistemi alternativi. Una soluzione del genere, alle condizioni suddette (possibilità di compensazioni tra
emissioni e appropriate delimitazioni delle aree di applicazione degli standard) consente più facilmente di
minimizzare i costi di riduzione dell'inquinamento (le fonti inquinanti con costi bassi cederanno permessi o
crediti a quelle con costi elevati); non scoraggia indebitamente i nuovi entranti; consente all'agenzia
regolativi di manovrare ulteriormente il livello di inquinamento, tramite la messa in circolazione di nuovi
permessi o l'acquisto sul mercato di permessi o crediti esistenti; consente a soggetti (quali i gruppi
ambientalisti) interessati "privatamente" a diminuire il livello di inquinamento di acquistare permessi, per
ritirarli dal mercato; aggiusta "automaticamente" il costo monetario patito dai soggetti di tale mercato
all'inflazione e in genere alle fluttuazioni dovute all'entrata nel settore di nuovi soggetti o all'uscita da esso di
vecchi; consente una più adeguata correlazione tra costi monetari patiti dalle fonti di inquinamento ed
effettiva distribuzione spaziale dell'inquinamento; consente agevoli e tempestivi adeguamenti all'innovazione
tecnologica delle strategie delle imprese, nonché dei prezzi dei permessi.
Va anche detto, però, che il buon funzionamento del sistema dei permessi richiede che siano strutturati e che
funzionino altrettanto bene anche i relativi mercati. Se questi sono troppo "sottili", per via dello scarso
numero dei soggetti coinvolti; a date condizioni una impresa potrebbe poi tentare di influenzare il prezzo dei
permessi tramite una "artificiosa" riduzione o elevazione della domanda (il che potrebbe essere impedito da
adeguate procedure di messa all'asta dei diritti). Inoltre, i calcoli delle imprese in termini di utilità soggettiva
dei permessi, dei crediti e degli investimenti volti all'abbattimento delle emissioni richiedono anche una certa
stabilità temporale delle regole, che non sempre è scontata. Entro tali limiti, tuttavia, le politiche in questione
appaiono degne di nota, come è attestato non soltanto dall'interesse loro tributato in letteratura, ma anche,
come si è detto, da esperienze concrete sulle quali esistono valutazioni nel complesso favorevoli, che hanno
evidenziato notevoli risparmi dei costi a carico delle imprese, a fronte di una notevole capacità di riduzione
delle emissioni.
La tassazione di certe condotte può essere introdotte, secondo i suoi fautori, per affrontare problemi di
redistribuzione (colpendo rendite immeritate) meglio di quanto non faccia il controllo dei prezzi, ma
soprattutto per scoraggiare certi comportamenti (ad es. le emissioni inquinanti) senza incorrere nei costi
amministrativi e negli effetti disincentivanti l'innovazione tipici della command and control regulation.
Pertanto, in questo caso occorrerebbe prevedere una tassa o un prezzo per ogni unità di emissione, eguale al
danno marginale da essa provocato. Gli inquinatori ridurrebbero allora i loro flussi di emissioni fino al punto
in cui il costo marginale di inquinamento fosse inferiore al prezzo dovuto per le emissioni, fissando il punto
di ottimo dove i costi marginali per ridurre l'inquinamento eguagliano l'importo della tassa.
5
Anche in base a considerazioni di efficienza, ci si è progressivamente spostati verso controlli di output,
esercitati cioè alla fine del processo produttivo. Si è inoltre cominciato ad abbandonare (a partire dal 1977) i
limiti alle emissioni uniformi sul piano nazionale, a favore dello "scambio delle emissioni" (emission
trading) e di “politiche della bolla” (bubble policies), il cui ambito di applicazione è circoscritto ad aree
regionali o locali. Lo scambio delle emissioni presuppone la possibilità che soggetti dotati del diritto di
inquinare fino ad un certo limite, restino in credito se invece riescono ad inquinare meno di quanto loro
consentito dai permessi in loro possesso. Tali crediti potranno essere depositati presso l'agenzia, per
servirsene in un secondo momento (sempre nel rispetto dello standard valevole per la zona di appartenenza),
ovvero utilizzati a favore di altri impianti di una stessa azienda, o invece ceduti ad altri soggetti: imprese già
operanti, desiderose di garantirsi una maggiore possibilità di inquinare, presumibilmente perché gravate da
alti costi di riduzione degli scarichi; imprese recentemente istallate; in genere tutti i soggetti interessati
all'acquisto di diritti di inquinare. La "politica della bolla" costituisce un’applicazione specifica dello
scambio di emissioni. La "bolla" può paragonarsi ad una campana di vetro che copre un'area delimitata
dall'agenzia, in cui operino diverse fonti di inquinamento. L'obiettivo - raggiungibile tramite appropriati
scambi (tra imprese) o compensazioni (fra impianti o comunque fonti inquinanti di una stessa impresa) di
crediti all'emissione - è quello di mantenere la somma delle emissioni di tali fonti al di sotto dello standard
disposto per la "bolla" nel suo complesso.
Tuttavia, il punto di ottimo dovrà tener conto, per indurre le imprese inquinanti a modificare la propria
condotta, non tanto del valore odierno del danno ambientale finora provocato (di per sé assai difficile da
stimare, e comunque non senza scelte di valore circa gli effetti esterni da includere non computo), bensì del
costo (possibilmente inferiore) che la riduzione di tali emissioni potrebbe comportare allo stato attuale della
tecnologia, il che si presta ad errori, e richiede comunque costanti revisioni. Pertanto, l'introduzione o la
modificazione di una tassa potrebbe essere sfasata rispetto ai vantaggi offerti dall'innovazione,
disincentivando l'adozione di nuovi sistemi, ovvero potrebbe sottostimare (per disinformazione di chi
dispone la tassa stessa) i costi di riduzione dell'inquinamento. Se il livello di tassazione è tenue, si corre il
rischio che il comportamento che si desidera disincentivare venga comunque tenuto, e che il soggetto
preferisca pagare la tassa anziché realizzare investimenti per ridurre l’inquinamento; se invece è elevato, si
corrono altri rischi (tra cui l’indebolimento dell’attrattiva del territorio per gli investitori) In definitiva, tra gli
svantaggi di tale sistema sono decisive le notevoli difficoltà nel fissare il livello di tassazione appropriato, cui
si aggiungono quelle relative alla prevenzione di elusioni ed evasioni.
L’opzione di regolazione tramite informazione (tipicamente corrispondente al “fallimento del mercato”
denominato asimmetria informativa) si ha quando la condotta dei destinatari della norma viene modificata
indirettamente, prevedendo soltanto l’obbligo di rendere palesi certe informazioni-chiave (ad esempio, la
composizione di un alimento, o le modalità di fabbricazione di un elettrodomestico). Si presume infatti che,
se i produttori sono tenuti a rivelare aspetti della propria attività che sarebbe stato per loro più conveniente
mantenere celati, ciò sarà, almeno in certi casi, sufficiente a indurli a “correggere” le proprie prassi
operative.
La tecnica della trasparenza deve affrontare il problema della qualità dell’informazione, tanto “in entrata”
quanto “in uscita”. In entrata occorre garantire che chi produce le informazioni lo faccia in modo affidabile.
Se la deliberata falsità o la mera inesattezza fossero anche soltanto possibili al di sopra di margini minimi,
l’impatto della tecnica in questione sarebbe pressoché vanificato. L’aver fornito informazioni scadenti può
peraltro rivelarsi un boomerang, esponendo l’impresa, ad esempio, all’abbandono da parte dei suoi clienti,
oltre che ad apposite sanzioni. In secondo luogo, sarà necessario selezionare, tra gli infiniti aspetti di una
attività astrattamente meritevoli di essere resi trasparenti, un insieme circoscritto ed essenziale. Non basta
che un’informazione sia vera affinché essa sia anche utile, né la scelta delle categorie di informazioni da
fornire obbligatoriamente è sempre scontata. Troppe informazioni “oscurano” quelle cruciali, indeboliscono
o annullano la capacità di lettura e impiego dei destinatari, specie se questi non sono degli esperti,
moltiplicano le difficoltà di controllo. Inoltre, l’evoluzione socio-economica, tecnologica, organizzativa
modifica continuamente e con grande rapidità l’importanza relativa delle varie informazioni e in genere i
fabbisogni informativi. Sia in entrata, sia soprattutto in uscita, data l’alta complessità di certi prodotti o
servizi, e dato in genere il rischio di un sovraccarico di informazione, riaffiora adesso il tema della
standardizzazione: la rilevazione e più ancora la presentazione delle informazioni richiede un formato che
massimizzi la leggibilità, minimizzi il carico, e al contempo dia quelle essenziali.
Infine, l’opzione di regolazione diretta, finora la più popolare e quasi scontata nella tradizione europeocontinentale, è quella in cui vengono individuati alcuni comportamenti o requisiti (che possono riguardare
tecnologie, processi, materiali, risultati, caratteristiche tecniche o soggettive, etc.) e predisposte sanzioni
sufficientemente pesanti da dissuadere i potenziali violatori.
Ammesso che la regolazione diretta sia l’opzione da preferire, al suo interno è bene tentare di individuare le
soluzioni meno costose per i destinatari. Ad esempio, può essere molto costoso imporre ad un soggetto
l’impiego di un certo macchinario che riduca dati rischi con un determinato grado di probabilità; a meno che,
infatti, il destinatario diretto non sia già provvisto di quel macchinario, egli dovrà disfarsi di quelli che già
possiede o sottoutilizzarli, acquistare quello desiderato, e infine adattare il processo produttivo al nuovo
macchinario. Se invece si prescrive al soggetto di ridurre lo stesso rischio con lo stesso grado di probabilità,
ma lo si lascia libero nelle scelte tecnologiche e organizzative, si dovrebbe ottenere lo stesso risultato ad un
costo assai minore per il destinatario, incoraggiando al contempo la ricerca di soluzioni innovative.
Più in generale, si possono distinguere i performance standards, che esprimono il requisito richiesto nei
termini di un risultato finale (ad es. una data economia di carburante, o quantità di emissioni consentite, o
tossicità delle componenti impiegate), lasciando all’impresa la scelta dei mezzi; i design, o specification,
standards, che invece specificano di volta in volta i materiali, i processi, le tecnologie da utilizzare,
risultando più facili da applicare ma anche meno favorevoli a comportamenti innovativi da parte delle
imprese; una via di mezzo tra i due, rappresentata dagli engineering standards, la cui forma esteriore è
analoga a quella dei performance standards, ma che individuano livelli di performance tali da poter essere
rispettati soltanto con l’uso di certi materiali o tecnologie, il che rappresenta un forte incentivo, ma
formalmente non un obbligo, a servirsene 6 . E’ intuibile come gli standard di risultato siano i meno limitanti
per la libertà di movimento e per la capacità di innovazione dell’impresa, ma anche quelli rispetto ai quali la
vigilanza è più disagevole. Imprese o impianti diversi avranno poi costi di ottemperanza alle norme
differenti.
Un'altra tecnica di regolazione diretta, diversa dalla fissazione degli standards, è quella consistente nel
sottoporre ad autorizzazione l’attività che causa il problema, evitando così che circolino produttori o prodotti
dotati di caratteristiche indesiderate. E’ peraltro evidente come ciò restringa l’accesso al mercato (nuovi
produttori o prodotti dovranno attendere di essere autorizzati) e di conseguenza la concorrenza. Talora
l’autorizzazione viene di fatto usata a tutela di posizioni di rendita. Si potrebbe pertanto considerare, almeno
in certi casi, la possibilità di permettere un accesso libero al mercato da regolare, conservando tuttavia
all’istanza regolativa un potere di espulsione da esercitare su coloro i quali compiano certi abusi.
In concreto, può avvenire e avviene il più delle volte che in un singolo provvedimento siano compresenti più
opzioni (ad esempio, una regolazione diretta relativa alla produzione di rifiuti cui faccia da complemento una
campagna di sensibilizzazione). Possiamo allora parlare di opzioni miste.
Possiamo poi avere casi in cui sia opportuna una regolazione differenziata: se si prevede che i costi di
adeguamento siano eccessivamente elevati, o addirittura superiori alla loro capacità di resistenza (nel senso
che in presenza di un certo provvedimento si avrebbero molte cessazioni di attività o emigrazioni verso altri
territori) per certe categorie di soggetti (piccole imprese, organismi non profit, specifiche categorie di
cittadini, quali i portatori di handicap, etc.) si potrà ipotizzare, ad esempio, una soglia al di sotto della quale
non si applicherà il provvedimento regolativo, ovvero si applicherà una disciplina meno esigente.
L’efficacia di tutte le opzioni dipende anche dal modo in cui viene effettuata da parte dell’autorità pubblica
la comunicazione sui problemi e sui rischi oggetto di intervento, nonché sulle soluzioni regolative.
6
Ad esempio, nel campo della regolazione sociale avremo standards quali i seguenti: concentrazione
massima consentita di una data sostanza o di emissione in una data area (standard ambientale in senso
stretto, di qualità dell'acqua, o dell'aria, o di inquinamento acustico, etc.; ps); standard di emissione
(regolanti le emissioni alla fonte; ps); standard di ricezione personale (quantità massima di esposizione a
radiazioni, limiti al rumore; ps); standard di funzionamento dei prodotti (standard di emissione delle
macchine; es); standard qualitativi dei prodotti (standard di composizione di cibi; ps o es); design standards,
limitatamente a caratteri obbligatori dei prodotti (es. cinture di sicurezza, specifiche di costruzione; ds);
standard sull'ambiente di lavoro (temperatura nelle fabbriche; ps).
POSSIBILI OSTACOLI ALL’INTRODUZIONE DI UN SISTEMA EFFICACE DI AIR
Istituzionalizzare l’AIR non è un compito facile. Alcuni ostacoli sono strutturali (vale a dire costanti, in un
dato sistema). Alcuni altri dipendono dal modo in cui l’AIR viene attuata nei vari sistemi politici in un
momento dato, e li chiamiamo dunque contingenti.
Gli ostacoli strutturali (giusto per citarne alcuni) hanno a che fare con :
-
una resistenza da parte di burocrazie legalistiche verso approcci e tecniche percepiti come estranei da
parte di funzionari pubblici abituati a vedere il proprio lavoro come orientato più al rispetto delle
legittimità degli atti che ai risultati;
-
una resistenza a un aumento del carico di lavoro che in un primo momento l’AIR comporta;
-
una resistenza verso la redistribuzione di poteri regolativi derivanti dalla introduzione dell’AIR, ad
esempio dal legislativo all’esecutivo, o dai singoli membri dell’esecutivo a coloro ai quali è stato
attribuito il compito di controllare l’AIR;
-
una resistenza a un’apertura del processo regolativi tale da recepire le posizioni dei vari interessati al
riguardo, ed in genere alla valutazione da parte della pubblica opinione;
-
una resistenza verso la creazione e il consolidamento di gruppi di “tecnici” portatori di saperi poco
familiari (quali policy analysis, metodologia della ricerca sociale, analisi economica), i quali
interverrebbero su aspetti di elevata significatività politica e comunque salienti nella formazione
delle politiche pubbliche.
Tali ostacoli possono essere superati attraverso un forte e durevole impegno a introdurre l’AIR da parte
dell’elite politica. Gli ostacoli contingenti (di nuovo, la lista non è affatto completa) hanno invece a che fare
con:
-
una scorretta progettazione istituzionale (ad esempio l’assenza di un soggetto che sia ufficialmente
responsabile del “controllo di qualità” sulle analisi di impatto e capace di esercitarlo; che l’AIR non
sia obbligatoria almeno per le misure ad elevato impatto; che l’AIR venga formulata troppo tardi,
quando l’opzione regolativa è stata già definita; e così via);
-
l’insufficienza degli obblighi cui sono sottoposti i regolatori: un’AIR anche possa essere fatta a
volontà o che non produca risultati controllabili, o che non tenti di ricomprendere tutte le alternative
rilevanti, sarà troppo flessibile, potrà essere orientata a ottenere i risultati più graditi da parte dei
decisori politici e inoltre non migliorerà affatto la qualità della regolazione; se l’AIR viene richiesta
alle amministrazioni soltanto in modo esteriore e simbolico, come adempimento di una delle tante
formalità, e si concretizza in documenti e rapporti che restano scollati dalla decisione, si tratterà
soltanto di un ulteriore rituale cui non varrà la pena di attenersi;
-
oppure richieste eccessive rivolte ai regolatori: per un altro verso, un’AIR che richiede di applicare,
all’improvviso, tecniche analitiche sofisticate e sconosciute nella formulazione di misure rilevanti
non potrà non generare ansia, preoccupazione e infine il rigetto dell’innovazione.
Tali ostacoli possono essere superati attraverso un’appropriata capacità di guidare la fase di implementazione
e una sapiente progettazione del processo regolativo. Non è affatto detto che, anche lì dove ufficialmente ci
si sta impegnando per introdurre un sistema di miglioramento della qualità della regolazione, questo intento
sia genuino, ovvero (anche nel caso in cui lo fosse) che si riesca a tradurlo in pratica.
Possiamo immaginare due scenari tra loro alternativi, di medio e di lungo periodo. Il primo è in genere più
probabile e realistico del secondo:
a) AIR non sistematica e burocratica
•
la sperimentazione dura troppo a lungo;
•
l’AIR è concepita come uno dei tanti compiti da affrontare in modo burocratico;
•
gli atteggiamenti tradizionali e gli approcci disciplinari consueti resistono e monopolizzano
l’analisi, distorcendola;
•
le misure più importanti sfuggono all’AIR;
•
l’AIR resta non obbligatoria;
•
le amministrazioni si rifiutano in concreto di adeguarsi a quanto richiesto dall’AIR;
•
continua a mancare un entità responsabile per un controllo di qualità tecnico delle relazioni
di AIR;
•
continua a mancare un network professionale di funzionari o di altri specialisti
b) AIR appropriata, efficace e sistematica
•
la sperimentazione (che di per se è certamente necessaria) dura il tempo strettamente
necessario e termina in coincidenza dell’avvio di un’applicazione sistematica;
•
l’AIR è presentata con un compito innovativo attraverso appropriate iniziative;
•
viene riconosciuto che è richiesta una expertise specifica; vengono allocate le risorse
corrispondentemente necessarie;
•
l’AIR diventa obbligatoria per le misure di medio e di elevato impatto;
•
viene affermato un ruolo di leadership all’interno dell’esecutivo ai fini dell’AIR e questo
viene riconosciuto dagli altri componenti del consiglio dei ministri o della giunta;
•
viene creato un organismo tecnico o viene rafforzato quello già esistente;
•
viene costituita una comunità professionale.
LA RICEZIONE DELL'AIR DA PARTE DELLE AMMINISTRAZIONI CENTRALI DELLO STATO IN ITALIA
Un sistema politico in cui le istanze regolative (legislativo, esecutivo, autorità indipendenti, livelli di governo
sub-nazionali) siano sistematicamente indotte a far uso dell’AIR sarà probabilmente anche un sistema in cui
verranno adottate un po’ meno regole, o regole un po’ meno invadenti e costose per i loro destinatari. Ciò
non significa, però, che l’impiego dell’AIR conduca sempre a suggerire scelte di deregolazione o di soft
regulation. Infatti, a seconda dei rischi implicati dall’attività su cui si ritiene di dover intervenire per beni
fondamentali come la vita o la salute, possono talora risultare opportune forme anche molto costrittive di
regolazione. In casi del genere sarà proprio l’impiego dell’AIR a fornire ai regolatori validi argomenti per
imporre una data norma (nonostante la sua onerosità) e ai soggetti regolati per adeguarsi ad essa.
Da alcuni anni l’OCSE raccomanda con insistenza l’inserimento dell’AIR nella procedura di formazione
delle nuove regole, così come il suo impiego per la valutazione retrospettiva delle regole già in vigore, e più
in generale una ristrutturazione del sistema di produzione della regolazione che sia imperniata sull’esigenza
di contenere il “peso” di quest’ultima (il regulatory burden) sulla competitività delle economie nazionali.
Svariati paesi, prima extraeuropei, e più di recente anche europei, così come la stessa UE, hanno aderito a
queste raccomandazioni.
In Italia è stato faticosamente avviato, un programma di miglioramento della qualità della regolazione,
estendendo il campo d’azione ad ambiti diversi da quello già dissodato della semplificazione, che comprende
la sistemazione di complessi normativi frammentari e disordinati in testi unici; lo sfrondamento di norme
sovrabbondanti; l’alleggerimento di passaggi procedimentali non necessari. L’AIR fa parte di tale strategia,
con una sua specificità rispetto alla semplificazione. In primo luogo, essa interviene nella fase di formazione
della misura regolativa, e non su un prodotto normativo già in vigore (per quanto sia anche ipotizzabile, e
secondo alcuni auspicabile anche una AIR ex post). In secondo luogo, cosa ancora più importante, essa
richiede un armamentario tecnico che non si limita alla legistica, vale a dire all’utilizzo di norme di buona
scrittura o riscrittura dei testi normativi, ma si estende alla policy analysis, all’analisi costi-benefici, alla
metodologia della ricerca sociale.
Queste due caratteristiche rendono l’AIR una innovazione importantissima e al tempo stesso di non agevole
adozione per le amministrazioni pubbliche italiane, in quanto molto distante dalle modalità consolidate con
le quali si procede alla formazione dei provvedimenti di regolazione. Come è noto, l’art. 5, l. 50/99 ha
introdotto l’AIR nell’ordinamento italiano. Questa era quasi sconosciuta in Italia quando la legge 50 non solo
la menzionò ma la rese anche obbligatoria per gli schemi di atti normativi proposti dai ministri. Inoltre
secondo il comma 2 dello stesso articolo, le commissioni legislative delle camere possono richiedere un AIR
con riguardo ai disegni di legge sottoposti al loro esame. La direttiva del marzo 2000, in linea con tale
disposizione legislativa, ha appropriatamente previsto un approccio graduale e sperimentale dell'AIR in
Italia, e ha altresì precisato,da un lato, l’ambito di applicazione dell’AIR, e dall’altro l’iter per la sua
esecuzione7, ivi compresa la redazione di una “Guida essenziale” per la redazione dell’AIR, quale primo
strumento di supporto pratico alla sua effettuazione 8 . Sono state anche previste delle azioni di
accompagnamento nei confronti delle amministrazioni chiamate ad utilizzare questa nuova modalità (in
particolare, la costituzione di un help desk con la funzione di assistere le amministrazioni nell’apprendimento
circa l’impostazione e lo svolgimento delle analisi di impatto).
7
Quanto all’ambito di applicazione, innanzitutto, la direttiva ha esteso l’applicazione dell’AIR anche alle circolari e alle
regole tecniche contenute in atti non normativi che si aggiungono agli schemi di atti normativi adottati dal Governo ed
ai regolamenti ministeriali e interministeriali, già previsti dalla legge. In secondo luogo, essa ha previsto un’ipotesi di
dispensa generale o ad hoc dall’AIR (I.6, I.7), lasciando possibile che uno schema sprovvisto di AIR segua comunque
il suo corso (I.5). Quanto alle modalità di esecuzione dell’AIR, la direttiva ha previsto la compilazione di una scheda
preliminare e di una scheda finale di AIR, collegate rispettivamente alla istruttoria preliminare ed alla redazione finale
dei provvedimenti.
8
Una Guida del genere è frequentemente usata nei paesi in cui l’AIR è a regime (ove si è poi arrivati alla redazione di
veri e propri manuali, così come prevedono anche le nostre due direttive). Nel caso italiano essa contiene le indicazioni
concettuali, metodologiche e tecniche fondamentali per realizzare la sperimentazione, ad integrazione delle indicazioni
della prima direttiva e dei suoi allegati. Si tratta di un prodotto deliberatamente schematico, pensato per fornire ai
funzionari uno strumento fruibile in una fase sperimentale. Nondimeno, essa contiene alcune importanti “scelte di
campo” (per molti versi assimilabili a quelle del Regno Unito, e quindi differenti e più avanzate rispetto a quelle
riscontrabili in altri paesi europei), il cui significato è stato sottolineato dall’OCSE nella regulatory review effettuata
sull’Italia (OCSE, Regulatory Reform in Italy, OECD, Parigi, 2001, pp. 69-70, 117 ss.), ove è stata rilevata la coerenza
tra le raccomandazioni dell’OCSE stessa e i contenuti della Guida con riguardo ad aspetti quali la consultazione, la
necessità di considerare una pluralità di alternative, l’utilizzo sistematico dell’analisi dei costi, dei benefici e dei rischi,
l’attenzione (ritenuta una autentica novità per il policy style italiano) verso gli effetti della regolazione sulla
competitività e sulla apertura dei mercati. Un giudizio siffatto per un verso attesta la rispondenza dell’impostazione
della Guida ad una strategia non solo italiana di miglioramento della qualità della regolazione, e per altro verso
conferma quanto innovativi siano i compiti che tale strategia richiede per conseguire autentici e duraturi successi. La
Guida fu pubblicata nel 2000, e ciò segnò l’atto di avvio della prima sperimentazione. Sempre l’OCSE, poi, sosteneva
la necessità di una nuova norma di legge che, consolidando e rendendo più incisivo quanto previsto dalla legge 50/99 e
dalla Direttiva 27.3.2000, rendesse obbligatorio il percorso previsto dalla Guida prima dell’adozione di provvedimenti
regolativi ad impatto significativo, cioè la dimostrazione che i benefici attesi di questo siano superiori ai costi attesi, ed
estendesse alle autorità regolative “settoriali” (il riferimento è alle autorità indipendenti, ma anche alle regioni)
l’obbligo dell’AIR. Nella prima versione del d.d.l. governativo relativo alla legge di semplificazione 2000 (n. 5025,
XIII legislatura) in effetti veniva richiesto tanto alle une quanto alle altre di effettuare l’AIR per i loro atti di contenuto
regolativo. Non è invece previsto l’obbligo del cost-benefit test. Nella versione attuale tale previsione riguarda soltanto
le autorità indipendenti.
Il programma di sperimentazione era rivolto a tutti i ministeri e riguardava un numero limitato di
provvedimenti che essi avrebbero dovuto indicare, sui quali effettuare l’esercizio di AIR 9 . Il programma di
sperimentazione prevedeva momenti formativi, sia intensivi sia ricorrenti, diretti a funzionari dei singoli
ministeri, appartenenti tanto agli uffici legislativi quanto a quelli operativi (dipartimenti, direzioni generali)
competenti per materia. I soggetti impegnati nel programma di introduzione dell’AIR in un primo momento
sono stati oltre al : Dipartimento affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio (DAGL), il
Nucleo per la semplificazione delle norme e delle procedure, ed al Dipartimento Affari Economici (DAE)
della Presidenza del Consiglio, anche il Dipartimento della Funzione Pubblica con il Progetto Finalizzato
AIR dell’Ufficio per l’Innovazione nella Pubblica Amministrazione 10 . Tale sperimentazione ha avuto un
esito assai al di sotto delle aspettative 11 , essendo andata incontro ad ostacoli sia strutturali che contingenti 12 .
Se per un verso l’affluenza alla formazione, dopo qualche iniziale incertezza, è stata in definitiva
apprezzabile, non altrettanto può dirsi per la disponibilità da parte delle amministrazioni ad indicare
provvedimenti in gestazione, che è stata complessivamente scarsissima e ha di fatto impedito lo svolgersi di
una effettiva sperimentazione.
Ovviamente, non poteva essere dato per scontato che l’AIR diventasse patrimonio delle nostre
amministrazioni soltanto in base ad una indicazione normativa. Non è sufficiente richiedere a qualcuno anche se si tratta di un funzionario pubblico - di fare qualcosa, perché effettivamente quel qualcosa venga poi
realizzato. Ciò è forse plausibile se abbiamo a che fare con un comportamento negativo (l’astensione da una
data condotta, cioè un “non fare”), ovvero, quando invece si richiede un comportamento positivo (un “fare”),
solo se l’azione richiesta è già ben nota al destinatario, o comunque semplice e facilmente attuabile. In casi
del genere l’adeguamento alla norma può essere sia immediato nei tempi che certo nella sostanza. Ma
nell’eventualità in cui il “fare” che ci si attende venga percepito, dalla media del personale che ne sarà
incaricato, come complesso e non intuitivo, e sia per di più difficilmente standardizzabile anche per gli
specialisti (tutte condizioni che ricorrono a proposito dell’AIR), allora accanto al supporto di una indicazione
normativa (peraltro emanata nella forma non strettamente vincolante di una direttiva) è almeno altrettanto
necessario un apprendimento da parte dei soggetti chiamati all’attuazione, il che richiede tempi e modi ben
differenti da quelli caratteristici del classico discorso normativo.
9 A regime, dovrebbe essere redatto un programma annuale di massima degli interventi regolatori che le
amministrazioni intendono proporre. Ogni quattro mesi, come prevede la prima direttiva (I.7), va formulata una agenda
più specifica, con l’indicazione dei provvedimenti per i quali le amministrazioni chiedono motivatamente di non
effettuare l’AIR.
10
Tale progetto ha per un verso approfondito gli aspetti conoscitivi e metodologici dell'AIR (da cui la produzione di
rapporti, in larga parte già pubblicati, sulle esperienze straniere, sull'analisi costi/benefici, sulla consultazione, sui
fabbisogni informativi, sui fabbisogni formativi e sui percorsi di formazione specialistica richiesti per la creazione di
esperti in AIR), e per altro verso ha partecipato direttamente alla redazione della Guida e alla prima sperimentazione
dell'AIR con la amministrazione centrali dello Stato. Prima di concludere le proprie attività (nell'ottobre 2001), il
Progetto è stato altresì chiamato a intervenire in iniziative di formazione in tema di AIR rivolte agli uffici delle Camere
(e in particolare al Senato) e alle Regioni, visto il notevole interesse manifestato da questi soggetti verso l'AIR.
11
Per una trattazione più diffusa del punto sia consentito il rinvio ad A. La Spina, Establishing Ria in Italy: results
achieved, difficulties met, possible alternative developments, relazione d'apertura, workshop 2: "Establishing a
Regulatory Impact Analysis", OCSE, Global Forum on Governance, Parigi, 6-7.11.2001; S. Cavatorto e A. La Spina,
“L’analisi di impatto della regolazione nella recente esperienza italiana”, in Rivista italiana di politiche pubbliche, 1,
2002; A. Natalini, “La sperimentazione a livello statale”, Riv. Trim. Sc. Amm., 1,2002.
12
Di carattere strutturale possono essere considerate: la resistenza alla novità, o per converso tendenza a sottovalutare
l’utilità dell'AIR (perché “noi già facciamo qualcosa del genere nella relazione di accompagnamento”), emerse in alcuni
(ma non nella maggioranza) dei partecipanti alla formazione; resistenza ad approcci non giuridici; resistenza ad un
aumento del carico di lavoro; resistenza a subire interferenze e ritardi su temi giudicati salienti dall’amministrazione;
difficoltà operative dovute alla carenza di dati e di informazioni necessarie per l’effettuazione dell’AIR sui casi
comunque selezionati. Di natura contingente furono invece: l’imminenza delle elezioni nel maggio 2001; il fatto che la
direttiva non fosse strettamente vincolante; il fatto che alcuni ministeri italiani fossero in procinto di essere ristrutturati,
con la redistribuzione e l’accorpamento di competenze precedenti, per cui molti funzionari non sapevano esattamente
che posizione avrebbero assunto dopo la ristrutturazione; lo scarso impegno da parte dell'esecutivo, dato il periodo
elettorale, nonché la natura coalizionale e composita della maggioranza e, infine, la posizione difficile del premier
uscente (che non era stato “investito” tramite una consultazione elettorale, e non veniva neppure ricandidato), sicché in
definitiva il supporto della compagine governativa non è stato affatto compatto e forte come avrebbe potuto essere.
E’ evidente che la l’art. 5, l. 50/99, così come la direttiva, rendono “più gravosa”, in termini di “numero” e
“contenuto dei documenti di accompagnamento da redigere” 13 la produzione di un testo normativo,
disponendo l’obbligo di allegare tanto la relazione contenente l’AIR, così come quella relativa all’ATN, le
quali vanno ad aggiungersi alla relazione illustrativa e alla relazione tecnico-finanziaria. Ciò vale tanto per
atti quali i disegni di legge e i regolamenti governativi, “che impegnano il Governo nel suo complesso”, tanto
per i regolamenti e le stesse circolari dei singoli ministeri, il cui procedimento di adozione viene anch’esso
rallentato 14 .
Se ragioniamo soltanto in termini di speditezza e facilità di adozione di provvedimenti regolativi (quale che
sia la loro collocazione nel sistema delle fonti), è indubbio che l’introduzione dell’AIR non possa che
comportare un ritardo in termini di tempo e un onere aggiuntivo in termini di lavori preparatori. Tuttavia,
non può essere questo l’unico metro per giudicare tale nuovo strumento. Non è detto che una legge buona sia
sempre una legge adottata in un batter d'occhio. Anzitutto, in un’ottica sistemica, se si concorda sul
presupposto secondo cui la produzione normativa è quantitativamente eccessiva, il rendere più gravosa
l’adozione di nuove norme rappresenta già di per sé un freno a tale eccesso. Ma l’AIR non riguarda tanto la
quantità delle norme complessivamente considerata, quanto piuttosto l’opportunità e gli effetti di ciascuna di
esse, prima della loro adozione. La stima per quanto possibile quantitativa degli effetti positivi e negativi, la
valutazione - fondata sulla prima - circa l’opportunità di intervenire (che può anche sfociare nella scelta della
“opzione zero”, vale a dire nella decisione di rinunciare ad un nuovo provvedimento), e poi la
raccomandazione dell’opzione regolativa prescelta in quanto preferibile a quelle alternative, sono tutte
operazioni nuove, non riducibili alla tradizionale relazione illustrativa, che richiedono l’apprendimento di cui
si diceva prima. E’ vero che si tratta di un apprendimento in certa misura impegnativo (anche se non bisogna
neppure esagerare tali difficoltà), ma è anche vero che al costo di apprendimento sommato al costo di
modificazione e allungamento del processo di produzione normativa dovrebbe corrispondere un assai
superiore beneficio in termini di miglioramento della qualità della regolazione 15 .
Una seconda Direttiva del Presidente del Consiglio del 21 settembre 2001 si è riallacciata alla precedente,
pur prevedendone la possibile revisione alla luce di una seconda sperimentazione, e per altro verso parla di:
responsabilizzazione dei Ministeri ai fini dell'AIR; sviluppo delle "capacità tecniche necessarie all'interno
delle singole amministrazioni"; un "esteso programma di riqualificazione dei dipendenti pubblici che
dovranno svolgere le analisi"; modalità semplici ed efficaci di "inserimento dell'AIR nell'ambito del
procedimento di progettazione, redazione e approvazione degli atti normativi da parte del Governo; un
coordinamento tra Governo e Parlamento; un "rafforzamento dei settori giuridico-legislativi dei Ministeri,
anche con l'inserimento di specifiche professionalità". Inoltre, tale direttiva istituiva un apposito comitato di
indirizzo, presieduto dal Ministro per la Funzione pubblica. Tutto ciò attesta un forte impegno da parte
dell'attuale Governo nei confronti di un effettivo inserimento dell'AIR nella nostra prassi amministrativa,
impegno in mancanza del quale sarebbe impossibile superare le resistenze che una innovazione della portata
dell'AIR non può non suscitare.
13
Così O. Forlenza, Passa alla Presidenza del Consiglio il controllo sui decreti ministeriali, in Guida al Diritto, 21,
10/6/2000, p. 25.
14
Pertanto, secondo critiche del genere si richiederebbe troppo alle amministrazioni, includendo tra l'altro (come ha
fatto la Direttiva del marzo 2000) nell’ambito di applicazione dell’AIR atti che la legge non aveva previsto. Il ruolo di
indirizzo e coordinamento così attribuito alla Presidenza del Consiglio si giustifica infatti certamente per gli atti ad essa
riferiti, ma è ritenuto meno accettabile per atti imputabili a singoli ministri. In definitiva, secondo tale posizione critica,
lo sforzo in questione avrebbe potuto più opportunamente essere indirizzato - anziché con l’aggiunta di due nuove
relazioni - a rendere “più densa di contenuto la relazione illustrativa (che ora perde molto del suo significato)”. Ibidem.
15
In tale prospettiva, la circostanza che la misura regolativa ricada nella responsabilità del Governo o in quella di un
singolo ministro è tutto sommato non molto rilevante. In entrambi i casi, infatti, si producono regole, ed in entrambi i
casi occorre sollecitare e guidare nelle amministrazioni l’apprendimento di un modo nuovo di concepire tale attività.
Ragioniamo a contrario. Cosa avverrebbe se circolari e regolamenti ministeriali - atti dai quali pure in molti casi
derivano conseguenze significative sui cittadini e sulle imprese - non fossero assoggettati all’AIR? Avremmo una
situazione un po’ paradossale: le stesse amministrazioni dovrebbero, in teoria, apprendere e utilizzare la nuova
metodologia per certi atti, ma non per altri. Anzi, esse rinuncerebbero al suo impiego proprio per quegli atti dei quali
portano in via esclusiva la responsabilità. E' quindi del tutto comprensibile che, specie in una fase sperimentale ove
occorre diffondere l’AIR in modo omogeneo tra le amministrazioni e verificare che queste assumano effettivamente
padronanza su di essa, si imputi alla Presidenza del Consiglio una funzione di portata generale in termini di propulsione,
nonché di “controllo di qualità” delle AIR effettuate.
Tanto la Presidenza del Consiglio quanto i singoli ministeri, pertanto, dovrebbero dotarsi di professionalità,
unità organizzative, procedure e sistemi di controllo adeguati alla novità dell'AIR. Già la l. 50/1999
prevedeva qualcosa del genere a proposito del Nucleo di semplificazione, che avrebbe dovuto arricchirsi di
una serie di professionalità. Con la l’art. 11 della l. 6 luglio 2002, n. 137 (recante “Delega per la riforma
dell'organizzazione del Governo e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché di enti pubblici”),
tuttavia, il Nucleo è stato soppresso (comma 1). È stata poi prevista l’istituzione, presso il Dipartimento della
funzione pubblica (comma 2), con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di “un ufficio
dirigenziale di livello generale, alle dirette dipendenze del Ministro per la funzione pubblica e composto da
non più di due servizi, con il compito di coadiuvare il Ministro nell'attività normativa ed amministrativa di
semplificazione delle norme e delle procedure”. Lo stesso comma prosegue recitando che “presso la
Presidenza del Consiglio dei Ministri, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sono istituiti non
più di due servizi con il compito di provvedere all'applicazione dell'analisi dell'impatto della
regolamentazione di cui all'articolo 5 della citata legge n. 50 del 1999, nonché alla predisposizione di sistemi
informatici di documentazione giuridica a beneficio delle pubbliche amministrazioni e dei cittadini”. La
norma relativa alle risorse umane particolarmente qualificate necessarie per tali compito, originariamente
inserita nella l. 50/1999, si ritrova al comma 3 del medesimo art. 11, l. 137/2002: “a fini di collaborazione
con la Presidenza del Consiglio dei Ministri e con il Dipartimento della funzione pubblica nelle attività di cui
al comma 2, sono nominati diciotto esperti, anche nell'àmbito di quelli assegnati al Nucleo per la
semplificazione alla data di entrata in vigore della presente legge. Gli esperti, nominati con le modalità di cui
all'articolo 31 della legge 23 agosto 1988, n. 400, e successive modificazioni, per un periodo non superiore a
tre anni, rinnovabile, sono scelti fra soggetti, anche estranei all'amministrazione, dotati di elevata
professionalità nei settori della redazione di testi normativi, dell'analisi economica, della valutazione di
impatto delle norme, della analisi costi-benefìci, del diritto comunitario, del diritto pubblico comparato, della
linguistica, delle scienze e tecniche dell'organizzazione, dell'analisi organizzativa, dell'analisi delle politiche
pubbliche” 16 . Il comma 7 soggiunge, infine, che “dall'attuazione del presente articolo non devono derivare
nuovi o maggiori oneri per il bilancio dello Stato”.
Alla luce delle novità normative citate, oggi la responsabilità della sperimentazione sull’AIR si intesta al
DAGL, coadiuvato dalla Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione e dal DAE. Tale normativa,
peraltro, è di non facilissima comprensione in alcuni punti. Infatti, per un verso essa conferma che per
affrontare compiti delicati come l’AIR è necessario fare ricorso ad una differenziata gamma di
professionalità Per altro verso, però, non si prevede un rapporto stabile, ma piuttosto contratti rinnovabili o
provvisorie collocazioni fuori ruolo. È anche possibile che questo possa essere un buon punto di partenza per
creare una task force di soggetti i quali agiscano per formare sul campo altri funzionari, magari già interni
all’amministrazione. Avrebbe forse avuto altrettanto senso reclutare per concorso (specie in vista della
costituzione di un team particolarmente qualificato e autorevole presso la Presidenza del consiglio) alcuni
esperti dedicati. Comunque sia, tale norma e la sua interpretazione esula dal nostro oggetto. Tuttavia, è
istruttivo considerarla perché a seconda del modo in cui venisse concretamente attuata una norma siffatta, il
percorso, i contenuti e i destinatari della formazione e dell’eventuale reclutamento delle risorse umane per
l’AIR sarebbero differenti. Torneremo sul punto più avanti.
16
“Se appartenenti ai ruoli delle pubbliche amministrazioni, gli esperti sono collocati obbligatoriamente fuori ruolo o in
aspettativa retribuita, anche in deroga alle norme e ai criteri che disciplinano i rispettivi ordinamenti, ivi inclusi quelli
del personale di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165; se appartenenti ai ruoli degli organi
costituzionali, si provvede secondo le norme dei rispettivi ordinamenti. In ogni caso gli esperti collocati fuori ruolo non
possono superare il limite di nove unità. Agli esperti è corrisposto un compenso determinato con decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, ai sensi dell'articolo 32, comma 4,
della citata legge n. 400 del 1988”.
L’AIR, LE REGIONI E I RAPPORTI TRA ESECUTIVO E LEGISLATIVO
Come è noto, le regioni non sono in alcun modo tenute ad effettuare l’AIR sui loro provvedimenti regolativi.
Con l’eccezione della Basilicata, nessuna di esse si è finora data una legge sull’AIR, e anche nel caso della
Basilicata la norma esistente prevede (come l’art. 5 della l. 50/1999) che l’innovazione non vada a regime
senza una adeguata sperimentazione.
Stante questo presupposto, si può senz’altro dire che il programma Formez ha ottenuto un successo che, visti
anche gli esiti finora deludenti di altre sperimentazioni, era ex ante insperabile. Lo dicono già i dati sul
numero delle regioni partecipanti, ma soprattutto anche il fatto che in tutte le regioni che hanno deciso di
partecipare, oltre che alla formazione, anche alla sperimentazione si è avuta l’analisi di almeno un caso (due
per il Piemonte). In termini di quantità e varietà dei casi analizzati, pertanto, tale sperimentazione ha
ottenuto, sulla base di decisioni spontanee delle regioni, risultati superiori a qualunque attività in tema di
AIR sia stata finora realizzata a livello centrale.
Per ciascuno dei casi oggetto di analisi è stata considerata, così come prospettato in via generale al par. 4
supra, una pluralità di opzioni regolative, cercando di formularne alcune il meno possibile onerose per i
destinatari, cosa già di per sé abbastanza innovativa per la cultura giuridico-amministrativa italiana. Le
opzioni effettivamente prescelte sono quindi il frutto dell’applicazione dell’AIR, il che ha dimostrato che
questo strumento è realisticamente applicabile, e che esso è al contempo in grado di corroborare scelte
politico-normative adeguate alle esigenze delle categorie sociali ed economiche rilevanti per i legislatori
regionali. Va poi detto che anche altre regioni che non hanno partecipato al progetto Formez (come la
Toscana, la Basilicata, il Friuli-Venezia Giulia) stanno svolgendo delle significative esperienze con l’AIR.
Una partecipazione così spontanea è assai rilevante per varie ragioni. Dopo la riforma costituzionale,
legislatori regionali sono chiamati ad esercitare una potestà legislativa assai ampia. Finora essi erano il più
delle volte abituati a riempire spazi all’interno di una legislazione nazionale alquanto dettagliata e vincolante.
Visto che adesso il loro spazio di manovra è assai più vasto, sarebbe bene che le regioni imparassero fin da
subito a servirsi degli strumenti più moderni ed efficaci di miglioramento della qualità della regolazione.
D’altro canto, proprio perché lo Stato si è svestito di molte competenze legislative, se esso in futuro dettasse
dei criteri e delle regole uniformi sulla produzione normativa (che certamente comprenderebbero
l’applicazione dell’AIR) ciò potrebbe costituire, dal punto di vista del centro, un modo per garantire
indirettamente una certa omogeneità tra le regioni. Non è detto che questi sviluppi siano necessari, ma sono
almeno possibili.
Va anche detto che non solo le Giunte regionali, ma anche i Consigli hanno dimostrato un grande interesse
verso l’AIR. In Veneto o in Molise la sperimentazione è stata svolta appunto dal Consiglio. Ciò merita
alcune riflessioni.
Nei vari paesi, anche in quelli in cui l'AIR è più consolidata e ha una tradizione radicata addirittura da
decenni, la situazione è molto variegata. Non è affatto scontato che la decisione parlamentare, cioè
eminentemente la legge, venga sottoposta all'AIR. Il caso statunitense da questo punto di vista è eclatante.
Potremmo dire che gli Stati Uniti sono stati, per ragioni storiche ed ideologiche, gli antesignani dell'AIR.
Eppure, gli acts del Congresso non sono sottoposti all'AIR. In quello che si può considerare uno dei
Parlamenti più prestigiosi del mondo, l'AIR non è utilizzata per la legislazione, ma per le decisioni delle
agenzie regolative; e neanche di tutte, ma solo di quelle cosiddette executive branch, vale a dire quelle che
hanno un rapporto di subordinazione, di “cinghia di trasmissione” rispetto al potere esecutivo.
Mentre nel sistema americano la legislazione pone dei principi e poi la regolazione concreta si effettua
soprattutto tramite le agenzie regolative, in Europa, invece, ove sono diffuse le forme di governo
parlamentari, il legislativo formula spesso norme piuttosto dettagliate. D’altro canto, assai spesso l’iniziativa
legislativa si intesta all’esecutivo. I singoli schemi di provvedimento provengono dai ministri, o dagli
assessori, vengono adottati dal consiglio dei ministri o dalla giunta, per poi chiederne l’approvazione al
legislativo, all’interno del quale la maggioranza si suppone in sintonia con l’esecutivo. Pertanto, l’AIR
dovrebbe essere svolta dalle varie direzioni o dipartimenti (i quali dovrebbero attrezzarsi al riguardo) Il più
importante controllore, il “cane da guardia” dell'AIR, non si trova all'interno del Parlamento. Il caso olandese
e quello danese sono abbastanza interessanti, perché vedono una “concertazione” tra vari ministeri, che non è
però a mio avviso da guardare come modello in Italia, ove la flessibilità e la negozialità che li
contraddistingue si risolverebbero in un’AIR deformabile a piacere e come tale poco credibile. Il caso di
maggior radicamento e maggior successo dell’AIR è quello del Regno Unito, dove l’analisi di impatto (sia
pure secondo approcci che si sono evoluti nel tempo) sia effettua da un ventennio, è svolta da piccoli teams
multidisciplinari (che ospitano al proprio interno statistici, polcy analysts, sociologi, economisti, giuristi)
all’interno dei singoli dipartimenti, e poi controllata da una potente e prestigiosa unità amministrativa presso
il Cabinet Office, la Regulatory Impact Unit, o RIU, composta, così come del resto anche quelle
dipartimentali, da funzionari, che qui ammontano ad una cinquantina, e sono ovviamente anch’essi e a
maggior ragione portatori di saperi molteplici. La RIU è un’entità amministrativa che riceve le schede di AIR
da parte delle singole amministrazioni e ha il potere di rispedirle al mittente se la loro qualità non è ritenuta
soddisfacente. L’AIR britannica prevede una sistematica considerazione del punto di vista degli interessati
più deboli e meno capaci di organizzazione e pressione sui legislatori, anche attraverso una consultazione
rivolta ai singoli cittadini, alle piccole e medie imprese, alle associazioni non profit, più che alle loro
rappresentanze.
In molti paesi, poi, si procede stimando in modo approssimativo l'impatto in termini di costi, e quindi
distinguendo i provvedimenti ad impatto elevato, medio e basso. Quelli il cui impatto prevedibile in termini
di costi è minore verranno sottoposti ad un’AIR meno esigente. Inoltre, nel caso inglese si afferma che vanno
sottoposti ad AIR i provvedimenti che sono politicamente sensibili - quelli, per esempio, che hanno un
elevato impatto sull’opinione pubblica - a prescindere dal costo prevedibile. Il primo criterio è più generale e
ha il vantaggio di precedere le singole decisioni, mentre il criterio della valutazione dell’impatto dal punto di
vista elettorale o della comunicazione richiede una decisione volta per volta.
Non è sempre scontato che sia necessariamente il capo dell’esecutivo ad esercitare una leadership in tema di
AIR. Vi sono esperienze, come ad esempio quella olandese e quella danese, dove rispettivamente il ministero
della giustizia e il ministero delle attività produttive hanno un ruolo preminente nel campo dell'AIR, con la
cooperazione di altri ministeri (come quello dell’ambiente). Anche nel caso italiano abbiamo avuto, con
riguardo all’introduzione della scheda di impatto finanziario, una leadership dell’allora ministero del tesoro,
e un tentativo di leadership, con riguardo all’AIR, di quello della funzione pubblica.
Se guardiamo alle regioni, però, l’investitura diretta del presidente della giunta esalta assai più il suo ruolo a
paragone del capo del governo nazionale. Resta fermo che l’AIR va in ogni caso avviata al momento in cui
viene concepita l’esigenza di intervenire (se così non fosse, del resto, sarebbe impossibile vagliare una
pluralità di opzioni, così come si è detto prima essere indispensabile), e pertanto, per gli schemi di
provvedimento di iniziativa dell’esecutivo, nelle direzioni o dipartimenti competenti. Stante l’elezione diretta
del vertice dell’esecutivo, peraltro, sarebbe difficilmente concepibile che il coordinamento e il controllo di
qualità dell’AIR venissero collocati altrove.
Proprio le novità nelle relazioni tra legislativo ed esecutivo, maggioranza e opposizione, e interne alla
coalizione di maggioranza introdotte dall’elezione diretta del “governatore” sono state espressamente
richiamate, nel corso della sperimentazione, per dar conto del possibile interesse dei consigli regionali verso
l’AIR. Attraverso tale strumento, infatti, si ritiene e si auspica che il consiglio possa valorizzare il proprio
ruolo nel processo legislativo, in qualche misura reso meno saliente (proprio questo, almeno, era
plausibilmente uno degli intendimenti di chi ha progettato l’innovazione istituzionale) a seguito del “ferreo”
legame che dovrebbe sussistere tra governatore direttamente eletto e maggioranza consiliare. Del resto,
un’attenzione all’AIR per certi versi comparabile a quella dei consigli regionali si è manifestata anche da
parte del Parlamento nazionale, e cioè sia da parte della Camera dei deputati, che prima ancora del governo
si è posta il problema della qualità della legislazione, sia più di recente da parte del Senato, che ha istituito un
apposito Servizio per la qualità degli atti normativi.
Per un verso è indubbio che chi ha gli strumenti conoscitivi, i dati necessari, le più adeguate capacità per
procedere a questo tipo di analisi è l'amministrazione, l’esecutivo. Pertanto, obbligare il legislatore a
corredare le norme che delibera con un’AIR - analisi che non può che venire dall'amministrazione - sposta
l'asse del potere legislativo dal Parlamento verso l'amministrazione, verso l'esecutivo. Per quanto il
legislativo possa dotarsi di uffici, competenze e mezzi, non avrà mai gli strumenti che ha l'esecutivo. Ciò è in
linea con quello che sta avvenendo o è già avvenuto nella gran parte delle altre democrazie occidentali:
appunto uno spostamento dell'asse del potere legislativo verso l'esecutivo.
D’altro canto, se l’AIR venisse effettivamente resa obbligatoria (almeno per le misure più significative), ciò
potrebbe esaltare il potere di controllo sull'operato dell'esecutivo da parte dell’assemblea legislativa, aprendo
ad esso spazi di controllo molto più ampi di quelli che aveva in precedenza. Ad esempio, avendo accolto e
approvato una proposta normativa basata su certe previsioni di impatto, il legislativo può, ex post, ritenere
l'esecutivo responsabile se l’analisi sottostante si dimostra poi erronea, o avventata, o se i risultati previsti
non si producono.
Va inoltre ricordato come in particolare in Italia si sia avuto il fenomeno delle "leggine", o comunque di
normative estremamente minuziose di fonte parlamentare. Ciò dipende anche dal fatto che nelle nostre
assemblee legislative (anche in quelle regionali) ampio spazio è lasciato all’iniziativa dei singoli
parlamentari o consiglieri. Se ammettiamo che l'AIR vada applicata ad uno schema di disegno di legge
proveniente dall’esecutivo, siamo anche logicamente costretti ad ammettere, quanto meno in linea teorica,
che il Parlamento non solo possa chiedere l'AIR sugli atti sottoposti al suo esame (come dice l’art. 5, comma
2, l. 50/1999); ma addirittura debba chiederla nel caso in cui un'opzione regolativa formulata dall’esecutivo
venga sconvolta da un emendamento parlamentare. Anche l'emendamento parlamentare, e anche la proposta
di legge di iniziativa parlamentare, per logica necessità, dovrebbero essere quindi sottoposti all'AIR. Questa,
peraltro, è una caratteristica propria di alcuni sistemi (come appunto quello italiano), ma non di altri. In altri
paesi l'iniziativa parlamentare è molto ristretta, quando non addirittura praticamente assente, sia con
riferimento agli emendamenti, sia con riferimento alle proposte di legge vere e proprie.
Ciò pone un problema ulteriore, che è il seguente: in quali casi le commissioni legislative chiederanno l'AIR
(come prevede l’art. 5, comma 2, l. 50/1999), se mai lo faranno? Chi produrrà l'AIR nel momento in cui essa
verrà richiesta? Si potrebbe ipotizzare che tale compito ricada sugli apparati serventi delle assemblee
legislative; ma attualmente questi non sono attrezzati, per cui si dovrebbe ricorrere alle amministrazioni
proponenti. D’altra parte, nel caso di un provvedimento d'iniziativa parlamentare, sarà abbastanza plausibile
identificare le amministrazioni competenti, ma non sarà così scontato che gli stessi proponenti, cioè i
parlamentari, siano così serenamente d'accordo. Potremmo anche stabilire che è sull’esecutivo, in generale
sulle amministrazioni competenti per settore, se non proponenti, che ricade l'onere dell'AIR; ma oggi questo
non è scritto da nessuna parte. Per quanto riguarda poi la questione degli emendamenti e dell'iniziativa
legislativa, essa è in realtà molto più vasta e complessa di quanto non sia rinvenibile nella previsione
normativa.
Ciò apre diversi scenari, specie a livello regionale, ove non si applica la legge 50/1999, e si è quindi in una
condizione di tabula rasa su cui poter costruire un possibile sistema di controllo della qualità della
regolazione che veda la compartecipazione di giunta e consiglio. Si potrebbe ad esempio stabilire che almeno
per le proposte d'iniziativa parlamentare o per gli emendamenti che vengono predisposti nell’assemblea
legislativa, gli apparati serventi di questa siano tenuti a produrre o a cooperare alla produzione dell'AIR. Ma
ciò richiederebbe, anche nelle regioni di piccole dimensioni, apparati consiliari molto robusti e costosi, e
inoltre che questi siano nelle condizioni di esperire tutti i passaggi dell’AIR (rilevazione delle esigenze,
formulazione degli obiettivi e dell’ambito di intervento, valutazione dei presupposti e delle criticità,
considerazione delle opzioni rilevanti e attuabili, loro valutazione d’impatto atteso). Per ragioni legate alla
scarsità delle risorse, sarà spesso più plausibile l'ipotesi di un legislativo che si atteggi a fruitore (e non a
produttore) di un’AIR che si accompagna a proposte d'iniziativa legislativa, e che viene fondamentalmente
svolta dalle amministrazioni, anche nel caso dell'iniziativa parlamentare.
Il legislativo e i suoi apparati serventi non saranno quindi gli esecutori materiali dell'AIR, ma a mio avviso
dovranno avere tutte le competenze necessarie per giudicare se l'AIR è fatta come si deve oppure no. Infatti,
un’AIR non eseguita a regola d’arte, anche se è stata giudicata tale dal ministro o assessore proponente o dal
consiglio dei ministri o giunta che ha formulato la proposta e l’ha iscritta all'ordine del giorno, potrebbe
costituire dal punto di vista del decisore parlamentare (soprattutto della commissione legislativa competente,
che chiaramente entrerà maggiormente nel dettaglio) un argomento contro l’adozione o a favore della
revisione di un disegno di legge.
Una delle finalità dell'AIR è proprio quella di fornire una più adeguata base empirica, una appropriata
valutazione tecnica delle possibili opzioni proprio al collegio legislativo, nel caso in cui esso sia formalmente
il decisore di ultima istanza. Sotto il profilo della scelta è vero che il baricentro della decisione si sposta un
po' più verso l’esecutivo; ma per l’assemblea legislativa diventano molto più cospicui gli elementi e le
possibilità di controllo, a condizione che vi siano le capacità per effettuare quest’ultimo. Siccome è difficile
che le abbia il singolo parlamentare o consigliere, sarebbe compito degli apparati serventi “decrittare” di
volta in volta al singolo rappresentante i contenuti e la qualità delle singole AIR. In questo scenario, nessuna
o quasi nessuna delle operazioni di cui si compone l’AIR - l'analisi costi/benefici, la consultazione, il
reperimento e la valutazione dell'attendibilità delle informazioni, la ponderazione delle opzioni - dovrebbe
pertanto essere compiuta entro il legislativo. D’altro canto, il legislativo e i suoi apparati serventi dovrebbero
sapere che la consultazione va fatta con certi criteri e rivolgendosi a certi soggetti, che le informazioni
devono avere una certa attendibilità, che l'analisi costi/benefici ha un certo percorso e certi canoni, che
magari non si pretenderà siano conosciuti nel dettaglio, ma si vorrà che siano comunque “riconosciuti”,
appunto per valutare giudicare ed utilizzare le analisi prodotte dall’esecutivo. Il legislativo, la Commissione
competente, il singolo rappresentante di minoranza o di maggioranza non avrebbero pertanto il potere di
rispedire al mittente l’AIR, bensì potrebbero avvalersi degli argomenti o dei cattivi argomenti contenuti
nell'AIR come ulteriori ragioni di critica o di sostegno del singolo provvedimento legislativo.
Su un ultimo punto vale la pena di ritornare. Se l'AIR fosse sistematicamente richiesta per tutte le proposte di
misure regolative dell’esecutivo e del legislativo, nonché per le loro modificazioni, ciò supererebbe il
problema dei criteri di selezione. D’altro canto, però, un’applicazione a tappeto dell’AIR è molto costosa,
non solo in termini di risorse umane e finanziarie, ma anche in termini di tempi e speditezza dell’attività
legislativa. Rendere obbligatoria sempre e comunque l'AIR per tutte le proposte di legge e gli emendamenti,
quale ne sia il proponente, secondo me è chiedere troppo. Come già detto, appare consigliabile, piuttosto,
selezionare per importanza le misure sulle quali valga la pena di compiere l’AIR. Se tuttavia tale selezione
viene esercitata volta per volta dall’esecutivo, ovvero anche dal legislativo (che anch’esso ovviamente agisce
secondo logiche politiche), ciò apre la possibilità che atti importanti “sfuggano”, e che gli atti effettivamente
sottoposti ad analisi lo siano per ragioni del tutto contingenti. Ancora una volta, la soluzione consiste nello
statuire in via generale e preventivamente uno o più criteri sulla cui base verranno individuati gli interventi
(ivi compresi i relativi emendamenti) da sottoporre ad AIR. Si potrebbe così recuperare (ma solo in certi casi
e sulla base di ragioni prestabilite, ad esempio, per i provvedimenti di elevato impatto) l’obbligatorietà per il
legislativo di verificare molto attentamente come è stata fatta un’AIR, o di richiederla su un’opzione diversa
da quella in prima battuta sottoposta al suo esame.
LE CRITICITÀ, I PRESUPPOSTI ORGANIZZATIVI, LE RISORSE UMANE E LA FORMAZIONE PER L’AIR
La sperimentazione effettuata ha posto in evidenza, per un verso, che fare l’AIR è alla portata delle regioni.
Grazie al supporto degli advisors e dell’help desk messi a disposizione dal Formez, i gruppi di lavoro
regionali hanno percorso l’intero tragitto dell’analisi.
D’altro canto, in misura differenziata a seconda delle regioni, le sperimentazioni hanno anche posto in
evidenza alcune criticità, il cui superamento sarebbe indispensabile se si volesse mettere l’AIR a regime.
In primo luogo, se è vero che l’AIR è fattibile, è anche vero che sarebbe eccessivamente dispendioso
effettuarla su tutti i provvedimenti regolativi. Occorre quindi esplicitare alcuni criteri di selezione (in via
generale e preventiva, per le ragioni indicate nel paragrafo precedente), i quali potrebbero essere per un verso
quello del livello di impatto, e per altro verso quello della materia. Settori come ambiente, attività produttive,
condizioni sanitarie e di sicurezza, oneri amministrativi, sono tra quelli più vocati a far tesoro dell’AIR.
In secondo luogo, i supporti informativi (e pertanto la disponibilità di dati affidabili circa il volume, la
distribuzione territoriale, le linee di tendenza tanto delle attività regolate, quanto di tutti i fenomeni che su di
esse hanno influsso e che dalla regolazione possono comunque essere influenzate) sono spesso carenti. In
generale, se per un verso accade sovente che le amministrazioni non dispongano (perché nessuno le produce,
neppure loro stesse) di informazioni essenziali, in mancanza delle quali la valutazione di impatto diviene un
esercizio vano, per altro verso può anche accadere che certe informazioni siano disponibili, ma di scarsa
qualità, ovvero che siano state prodotte, ma non inserite in un circuito tale da renderne conoscibile
l’esistenza e l’utilizzabilità ai fini dell’AIR. Un po’ paradossalmente, forse, può aversi un fabbisogno
informativo non solo in assenza di informazioni, ma anche in loro presenza, nonché in presenza di
informazioni provenienti da fonti diverse sul medesimo oggetto. Anzi, il caso in cui un’informazione
sussista, ma sia di per sé inaffidabile, è forse quello più insidioso, giacché una amministrazione pubblica non
avvertita potrebbe essere indotta a fondare su un dato erroneo valutazioni di impatto erronee a loro volta.
Occorrerebbe dunque di volta in volta accertare quali siano le informazioni concretamente offerte, qual sia il
grado di autorevolezza della o delle loro fonti, fino a che punto ci si possa fermare all’informazione
contenuta in un dato documento, senza doverne cercare e valutare altra. D’altro canto, spesso manca,
all’interno delle regioni, personale in grado di individuare e utilizzare le basi di dati esistenti, e la produzione
di dati da parte delle regioni è spesso insufficiente e comunque mal coordinata, mentre le statistiche nazionali
non sono state finora pensate in funzione dell’AIR, e certamente non in funzione delle esigenze delle regioni.
Le modificazioni organizzative necessarie riguarderebbero dunque il potenziamento degli uffici statistici, la
loro stretta integrazione con gli altri uffici nella predisposizione delle analisi, il riorientamento della
produzione dei dati amministrativi, nonché anche quello delle statistiche nazionali. Sul punto faccio rinvio al
report di Nereo Zamaro.
In terzo luogo, la consultazione è stata spesso vista come un’occasione per coinvolgere i gruppi organizzati
nel processo decisionale, attraverso la forma dell’audizione (ciò è stato ancor più evidente nei casi in cui
sono stati i consigli a promuovere la sperimentazione). È chiaro che un tale approccio alla consultazione può
essere molto utile, ma se ci si limitasse a questo non si arricchirebbe particolarmente il processo di AIR. Ciò
che i gruppi organizzati possono “rappresentare” nelle consultazioni-audizioni è di norma già noto alle
amministrazioni, proprio perché tali gruppi sono nelle condizioni di attivare propri canali di comunicazione e
hanno gli incentivi per farlo, articolando prese di posizione pro o contro i vari provvedimenti della cui
adozione si discute. D’altro canto, come si è accennato, e come è estesamente argomentato nel report di
Sabrina Cavatorto, cui rinvio, la consultazione deve anche e soprattutto servire a generare informazioni
nuove, che l’amministrazione non possiede. Per questo essa deve anche andare verso i singoli cittadini e le
singole imprese (più che verso le loro rappresentanze), dando risalto a posizioni e a interessi che
normalmente non trovano modo di esprimersi nelle relazioni politiche usuali. Per questa ragione, la
consultazione dovrebbe divenire una caratteristica strutturale del processo di AIR, da avviare sin dal suo
inizio (coincidente appunto con la rilevazione delle esigenze) e da svolgere in modo competente e
specializzato, facendo ricorso alle tecniche più appropriate.
In quarto luogo, le amministrazioni regionali (beninteso, sempre nell’ipotesi in cui esse vogliano utilizzare
sistematicamente l’AIR, cosa che al momento niente obbliga loro a fare) dovrebbero prevedere apposite
innovazioni procedurali e organizzative, che riguardino sia le direzioni al cui interno vengono concepite le
opzioni regolative, sia l’istanza di coodinamento, presumibilmente presso la presidenza della giunta.
Entrambe dovrebbero vedere la costituzione di teams multidisciplinari di funzionari specializzatisi
nell’analisi di impatto, espressamente investiti di tale compito e dotati delle risorse e delle prerogative
necessarie per ottenere dagli altri uffici le informazioni e la collaborazione necessarie per lo svolgimento
dell’analisi. L’apporto di professionalità esterne potrebbe essere certamente utile e necessario, nella fase di
avvio, ma il punto di arrivo dovrebbe essere l’incardinamento dell’AIR (in tutti i suoi aspetti costitutivi) nelle
attività ordinarie delle amministrazioni.
Come si è accennato in precedenza, non è implausibile che il legislatore nazionale possa approfittare dei temi
del riassetto normativo e della qualità della regolazione per dettare principi e norme volti quantomeno ad
orientare l’attività normativa delle regioni. Il momento attuale, che vede la totale assenza di indicazioni
nazionali del genere, è d’altro canto, mettendoci dal punto di vista delle regioni, quello più adatto per
progettare un proprio sistema di produzione normativa e tradurlo in apposite normative proprie. Le regioni
più “virtuose” e tempestive si metterebbero così nelle condizioni di disegnare un sistema di AIR in sintonia
con le proprie esigenze (prima di qualunque eventuale indicazione dall’alto), facendo al contempo da
modello per le altre regioni e per i possibili interventi nazionali.
È evidente che, vista anche la dimensione di molte amministrazioni regionali, i teams di specialisti di AIR
non potranno che essere di piccole dimensioni. È auspicabile che i funzionari specializzatisi in AIR formino
un network professionale sovraregionale, che potrebbe integrarsi con quello (ancora non esistente) degli
specialisti di AIR a livello centrale. Da questo punto di vista sarebbe opportuna la predisposizione di “servizi
comuni” (come occasioni di incontro, circolazione e scambio di esperienze, o consulenze mirate) a favore
delle sole amministrazioni interessate, in continuità con quanto già realizzato nel programma di formazione e
sperimentazione adesso conclusosi.
Il tema delle risorse umane necessarie per l’AIR è ovviamente cruciale, vista la novità di tale strumento. Su
di esso si gioca il successo o il fallimento di qualunque tentativo di miglioramento della qualità della
regolazione. L’analisi di impatto certamente richiede l’immissione, all’interno delle amministrazioni, di
competenze e attività nuove, non riducibili ai processi precedentemente attivati all’interno delle
amministrazioni medesime, né ad un singolo sapere disciplinare tradizionalmente dispensato dalle istituzioni
formative.
Non sempre tale carattere di novità riceve la dovuta considerazione. Vi è chi ritiene che il modo finora
invalso di stendere le relazioni di accompagnamento agli schemi di provvedimento già sia tale da contenere,
seppur implicitamente, una sorta di valutazione di impatto. Ma l’analogia con le attività tradizionali è
soltanto estrinseca (nel senso che anche per l’AIR deve essere redatta una apposita relazione, così come si fa
già per la relazione d’accompagnamento e per quella tecnico-finanziaria), mentre non può estendersi alle
molteplici competenze professionali il cui intervento è richiesto dall’adozione dell’AIR. In altri termini, è
veramente difficile misconoscere come l’adozione dell’AIR richieda un notevole arricchimento professionale
delle persone e degli uffici che concorrono alla produzione dei provvedimenti normativi.
In tutte le amministrazioni sussiste oggi un forte squilibrio tra le professionalità di cui attualmente si dispone
e quelle astrattamente richieste per avviare e poi mettere a regime l’AIR. Tale fabbisogno può essere colmato
fondamentalmente in due modi: attraverso interventi di formazione/sperimentazione intensivi e prolungati su
un gruppo molto selezionato di funzionari dotati delle attitudini più favorevoli; ovvero tramite reclutamento
ad hoc di nuovi dipendenti esperti in AIR (peraltro al momento assai difficilmente reperibili sul mercato del
lavoro). Tutto ciò è necessario per mettere le amministrazioni, per così dire, nelle condizioni di comprendere
e fronteggiare, tramite i loro referenti interni, il nuovo compito rappresentato dall’AIR.
Gli interventi formativi, vista la novità e la complessità della materia, dovrebbero in ogni caso svolgersi su
un arco di tempo non breve, ed essere mirati sia sulle molteplici competenze che chi si occupa di AIR
dovrebbe possedere, sia sulle condizioni di partenza dei destinatari della formazione. È opportuna anche una
formazione sul campo che - se si vuole ottenere come risultato la creazione di veri specialisti - richiede
comunque un periodo di tempo congruo, una valida, continua e puntuale assistenza da parte di esperti
dedicati, e l’effettuazione di molteplici analisi di impatto. Inoltre, affinché ci si possa aspettare un autentico
impegno sull’AIR da parte delle amministrazioni (che è condizione necessaria di una progettazione della
formazione tale da combinarla in modo complementare e mirato con la trattazione guidata dei casi), è
ovviamente necessario che vengano previamente indicati i soggetti istituzionali competenti, le procedure, i
funzionari concretamente responsabili amministrazione per amministrazione.
L’Analista dell’impatto della regolazione si caratterizza fortemente come un innovatore, per varie ragioni: in
quanto portatore di competenze multidisciplinari di per sé rare, tali da fargli adottare un punto di vista non
conformista sul funzionamento delle pubbliche amministrazione, e comunque non legate ad un approccio
burocratico-formale; e inoltre in quanto persona necessariamente dotata di caratteristiche soggettive quali la
sensibilità critica, l’attitudine a organizzare e dirigere il lavoro di gruppi multi-competenza e a gestire
relazioni di rete, la capacità di adattare i dettami tecnici alle concrete esigenze di tempo e di opportunità, una
forte motivazione, un’attitudine a sopportare carichi di lavoro e stress superiori alla media 17 .
Il percorso formativo ottimale dovrebbe dunque avvenire in centri formativi specializzati e d’eccellenza
(universitari, nel caso della laurea specialistica; extrauniversitari, nel caso di altri interventi formativi), tali da
selezionare i soggetti più promettenti, ed irrobustire la motivazione e l’ésprit de corps. Occorrerebbe puntare
sia su nuovi reclutamenti, sia su risorse umane già presenti nelle amministrazioni, o che comunque
dispongano di una laurea tradizionale (soprattutto in discipline economiche, politologiche, statistiche,
giuridiche, sociologiche), e che si vogliano in tempi relativamente brevi specializzare in AIR. Anche
nell’interesse delle amministrazioni che avrebbero bisogno già oggi di un certo numero di tali specialisti, si
dovrebbe pensare non già a corsi introduttivi, o circoscritti ad aspetti specifici, ma piuttosto ad una
trasmissione esauriente di contenuti e tecniche, unitamente ad una sperimentazione assistita da esperti, in un
percorso analogo ad un master di II livello (magari basato anche su convenzioni tra gruppi di
amministrazioni ed istituzioni formative per quei laureati nel vecchio sistema che siano già dipendenti
pubblici), in cui i programmi siano anche articolati e diversificati in ragione della preparazione di base dei
discenti.
Ciò consentirebbe per un verso una programmazione delle amministrazioni in relazione al proprio deficit di
competenze in AIR, e al contempo la predisposizione di un curriculum più mirato anche sullo “studente” che
già lavora in amministrazione, il quale ha conoscenze ed esigenze completamente diverse rispetto allo
studente “giovane”. Va anche detto che il primo tipo di discente avrà anche una certa resistenza verso
contenuti differenti rispetto alla sua formazione di base. Ciò è stato evidente nell’esperienza di formazione
svolta nell’ambito della prima sperimentazione nazionale, ove un pubblico costituito nella quasi totalità da
laureati in giurisprudenza provenienti da uffici legislativi (come tali bisognevoli di una integrazione del
proprio bagaglio culturale e di competenze soprattutto con riguardo agli ambiti non giuridici) si è in taluni
casi espresso nel senso di ritenere “eccessiva” e “teorica” proprio la parte del corso dedicata agli aspetti
economici, che invece era quella di cui vi era maggior bisogno, visto il bilancio delle competenze di
partenza. Da qui l’esigenza di selezionare in modo molto accurato i destinatari della formazione (ove già
interni all’amministrazione), avendo cura di scegliere sia persone aperte all’apprendimento e munite di una
formazione non necessariamente coincidente con quella giuridica, sia anche soggetti disposti ad
intraprendere un percorso formativo non episodico, quanto invece esteso e organico quale è richiesto dalla
specificità dell’AIR. Gli elementi organizzativi critici sono anche il tempo e l’adeguatezza del sistema
premiante/sanzionante rispetto alle esigenze dell’AIR (i funzionari devono essere messi nelle condizioni di
seguire la formazione e incentivati a farlo).
17
Così il report sui fabbisogni formativi curato da G. Capano ed E. D’Albergo per il Progetto finalizzato AIR
dell’Ufficio per l’Innovazione nelle Pubbliche Amministrazioni del Dipartimento della Funzione Pubblica, non
pubblicato.
L’Analista dell’impatto della regolazione, in linea teorica, dovrebbe essere competente in molteplici ambiti:
quello politologico-organizzativistico (con riguardo a temi quali la valutazione delle politiche pubbliche o
l’impatto organizzativo della regolazione); quello sociologico (con riguardo a temi quali le tecniche di
consultazione e i metodi di analisi previsionale dell’inosservanza delle norme); quello economico (con
riguardo a temi quali analisi costi/benefici, o analisi quantitativa e qualitativa del rischio) aziendalistico (con
riguardo a temi quali la misurazione della performance amministrativa e la gestione ed organizzazione delle
risorse umane nelle amministrazioni pubbliche) e dell’analisi economica del diritto; quello statistico (con
riguardo a temi quali gli indicatori per l’analisi economico-sociale, le basi dati per le decisioni di politica
.
pubblica, le tecniche per la rilevazione dei dati quantitativi); oltre che ovviamente a quello giuridico 18
È improbabile che un singolo possa padroneggiare con eguale sicurezza tutti questi ambiti. Inoltre, non
bisogna commettere l’errore di ritenere che basti, poniamo, il possesso di una laurea in economia per poter
dar per scontata la padronanza nel soggetto degli aspetti economici rilevanti per l’AIR, o di quelli
aziendalistici, o dell’analisi economica del diritto. Nella gran parte delle università italiane, infatti, nei corsi
di economia non si insegna analisi costi-benefici, né analisi economica del diritto. Ma lo stesso vale per
grandissima parte dei laureati in statistica, scienze politiche, sociologia. Essendo stati concepiti per altri
sbocchi professionali, o comunque non tenendo in considerazione l’AIR, i loro percorsi universitari di norma
non li mettono nelle condizioni di affrontare nemmeno in parte (senza apposite integrazioni) il lavoro di
analisi di impatto della regolazione.
Tali considerazioni confortano ulteriormente l’idea di dar vita ad un percorso formativo strutturato, al quale
potrebbero partecipare sia i funzionari interni che le amministrazioni destinerebbero all’AIR, sia neolaureati
desiderosi di specializzarsi in tale campo, i quali potrebbero poi essere tenuti in considerazione ai fini delle
nuove immissioni di professionalità specifiche nelle amministrazioni. Come è evidente, peraltro, un progetto
del genere esula dalla dimensione regionale.
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Ibidem.