E - I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA: LA CONCEZIONE DI DIO. 11 - L’Ellenismo e la formazione del cristianesimo 7 - Agostino d’Ippona - Il conflitto della volontà e la conversione 12 - La filosofia medioevale 8 – U. Eco “Segni” 11 - L’ELLENISMO E LA FORMAZIONE DEL CRISTIANESIMO 0 - Il cristianesimo come fenomeno storico-culturale 1 – Dall’ellenismo al cristianesimo 1.0 L'ellenismo: le nuove caratteristiche della cultura e dell'intellettuale 1.1 Lo stoicismo 1.2 Il neopitagorismo 1.3 Il neoplatonismo e Plotino 1.4 Le religioni di salvezza e misteriche 1.5 L'ebraismo e la filosofia greco-giudaica 2 – La formazione del cristianesimo 2.0 Le tappe della formazione del cristianesimo 2.1 I Vangeli e la predicazione di Gesù 2.2 Paolo di Tarso 2.3 Il Vangelo di Giovanni 2.4 La Patristica 2.5 Agostino d’Ippona IL CRISTIANESIMO COME FENOMENO _______________________ 0 - Il cristianesimo come fenomeno storico-culturale In sede storico-filosofica il cristianesimo va visto, evidentemente, non con gli occhi della fede bensì come un fenomeno storico-culturale e, quindi, studiato con gli stessi strumenti e con la stessa ottica con cui si studiano tutti gli altri fenomeni storico-culturali. Da questo punto di vista l’elaborazione del cristianesimo deve innanzitutto essere considerata non legata all’azione di un solo individuo, Gesù, quanto invece un fenomeno collettivo. La sua elaborazione culturale è, infatti, il frutto del coagularsi di idee presenti nelle culture e nelle società del bacino mediterraneo durante l’ellenismo, provenienti in particolare, ma non solo, dalla cultura greca e da quella ebraica. Inoltre, la formazione del cristianesimo deve essere considerata come un processo di lunga durata, in quanto non si esaurisce con la predicazione de Gesù ma occupa l’intera epoca ellenistica (III sec. a.C. - IV sec. d.C. ). Al termine del periodo che prenderemo in esame e quindi dopo il IV secolo, con il consolidarsi della struttura ecclesiastica e la trasformazione del cristianesimo in religione dello stato, il cristianesimo assunse un ruolo politico, destinato a rafforzarsi dopo il crollo dell’Impero romano. A – fenomeno _____________________ B - ________________________________ (_________ sec. a. C. - ______________) IV sec. - __________: la ______________ ________________________ della cultura 1 In effetti, fino a primi secoli dopo il mille nell’Europa occidentale la Chiesa svolse un ruolo egemone sul piano politico e ancor più sul piano culturale, caratterizzando un’intera fase dell’evoluzione della cultura occidentale, quella medioevale, dando vita a una tradizione che ha imposto una mentalità, un modo di vedere che possiamo definire religioso. Tale periodo coincide con quello che abbiamo considerato il secondo macroperiodo della filosofia occidentale la cristianizzazione della cultura, che avrà termine con il Rinascimento e la Rivoluzione scientifica del Seicento destinati a dare inizio al processo di laicizzazione della cultura. DALL'ELLENISMO AL CRISTIANESIMO 1 – Dall’ellenismo al cristianesimo IL CRISTIANESIMO COME PRODOTTO DELL’INCONTRO TRA LA ________________ Come abbiamo accennato l’epoca ellenistica è caratterizzata dall’incontro tra le tradizioni culturali preesistenti nell’intera area mediterranea (in particolare quella ebraica) e quella greca che integrandosi portarono alla formazione di nuovi modelli culturali e nuovi valori, tra questi il cristianesimo che risulterà determinante per il successivi sviluppo della civiltà europea. Il processo di integrazione culturale fu, in epoca ellenistica, favorito dal nuovo tipo di istituzione politica che si stava affermando, rappresentato dalle grandi monarchie o dagli imperi che cercavano di imporre il dominio politico su zone sempre più vaste del bacino del Mediterraneo. Tali istituzioni infatti amministravano territori sempre più vasti e al loro interno si realizzò una sempre maggior integrazione sia economica che amministrativa fra aree geografiche e popolazioni diverse. I principali centri sedi di queste istituzioni politiche divennero anche i nuovi luoghi dell’elaborazione della cultura. Si affiancarono così ad Atene, che era stato nei secoli precedenti il principale centro di elaborazione culturale, nuovi centri inizialmente collocati sulle coste asiatiche (ad esempio Pergamo in Turchia) e africane (Alessandria d’Egitto) e in seguito Roma, al centro del bacino mediterraneo. Un centro primario fu sicuramente rappresentato da Alessandria d’Egitto con il suo grande museo, costituito da un osservatorio astronomico, un giardino zoologico, un orto botanico, sale per le dissezioni anatomiche e la sua biblioteca che giunse a raccogliere da 500.000 a 700.000 testi e il cui nucleo originario fu costituito dalla biblioteca del liceo aristotelico trasferito, significativamente, da Atene ad Alessandria. L’azione della biblioteca fu importantissima in quanto in essa ed in altre istituzioni culturali simili, sorte soprattutto in Asia minore, si affermarono due importanti novità che caratterizzano l’epoca ellenistica. La prima di questa è costituita dal definitivo prevalere della cultura scritta su quella orale, cosa che per la cultura greca era un dato ormai acquisito sin dal periodo platonico, fine V inizio IV secolo a. C., e che in questo periodo si diffuse per tutta l’area mediterranea. Avvenne, infatti, in epoca ellenistica la trascrizione di gran parte del patrimonio culturale fino ad allora trasmesso oralmente; tra le opere frutto di questa trascrizione vi è, come vedremo, anche la Bibbia, sicuramente uno dei grandi testi della nostra cultura. Dall’epoca ellenistica in poi, ed almeno fino all’attuale epoca della multimedialità, il libro, dapprima riprodotto manualmente e dal XV secolo della nostra era grazie alla stampa, ha rappresentato il principale mezzo per la trasmissione della cultura. Una delle conseguenze del prevalere della cultura scritta fu un mutamento della figura dell’intellettuale, cioè di colui che elabora la cultura. Infatti, mentre prima l’intellettuale si avvaleva di uno strumento comune a tutti, DELL’AEREA ________________________ L'ELLENISMO: LE NUOVE CARATTERISTICHE DELLA CULTURA E DELL'INTELLETTUALE Monarchie e _______________________: l’unificazione _____________________ _________ del _____________________ I nuovi __________________ culturali LE NUOVE CARATTERISTICHE DELLA CULTURA E DELL'INTELLETTUALE 2 la parola orale, e si rivolgeva al ristretto pubblico dei suoi ascoltatori, a cui lo legavano rapporti molto stretti, ora il nuovo intellettuale si rivolge a un pubblico molto più vasto in quanto coincide, almeno tendenzialmente, con l’insieme degli intellettuali del mondo ellenistico. Tale pubblico benché più vasto è però anche decisamente più elitario, se non altro perché ristretto a chi utilizza la scrittura. La nuova situazione comportò anche altre modifiche per ciò che riguarda il ruolo dell’intellettuale. Innanzitutto, il nuovo intellettuale, che studia e scrive nelle biblioteche per altri intellettuali, non era più organicamente inserito nella vita politica della città come lo erano i filosofi ad Atene nell’epoca classica (i casi più emblematici sono rappresentati da Socrate e Platone), in quanto le decisioni politiche, monopolio delle monarchie regnanti, non erano più, come nell’Atene classica, oggetto di discussione pubblica. Il nuovo ruolo sociale dell’intellettuale, estromesso dalla politica e confinato nelle biblioteche, favorì l’affermazione della concezione aristotelica del “sapere per il sapere”, ovvero di un sapere disinteressato, astratto e non funzionale all’esperienza. L’affermazione del “sapere per il sapere”appare strettamente legata alla struttura produttiva e sociale del mondo antico e medioevale. Infatti, tutte le società occidentali fino al XVII-XVIII secolo sono state caratterizzate dall’esistenza di una classe dominante, l’aristocrazia antica, la nobiltà feudale e moderna, che controllava ciò che le altre classi producevano ed era quindi portata a considera l’attività produttiva solo come un mezzo per potersi dedicare alle attività superiori, tali perché del tutto estranee alla produzione, ovvero le attività spirituali, non manuali, sostanzialmente la politica, l’attività militare e la cultura. Tale concezione del sapere verrà superata solo con l’avvento della società capitalista e l’emergere di una nuova classe egemone, la borghesia, che porrà l’attività economica e produttiva al centro dei suoi interessi richiedendo alla scienza di essere un’attività utile, volta a incrementare il dominio dell’uomo sulla natura. Tornando al periodo ellenistico il nuovo ruolo sociale dell’intellettuale favorì anche l’affermarsi di nuove tematiche. Così, ad esempio, l’interesse politico fu sostituito da quello religioso. Infatti l’intellettuale ellenistico non appare più, come Socrate e Platone, interessato al destino sociale della città in cui vive (anche perché non lo può più controllare direttamente), bensì al suo personale destino, di qui l’interesse per le religioni salvifiche1, tra cui va posto anche il cristianesimo. Il sapere _______________________ e struttura __________________ La ____________________ moderna: sapere e dominio _____________________ LE NUOVE CARATTERISTICHE DELLA CULTURA E DELL'INTELLETTUALE Prevalere cultura ___________________: 1 - trascrizione del____________________________________________________________________________________ 2 - ____________________: luogo di attività dell’intellettuale ( ctr ________________________) 3 - ____________________________________________________________________________________________________ A – pubblico più _________________ ma _______________________________________________________________ B – non ______________________________________________________________________________________________ a – prevalere del ______________________________________________________________________________ b - __________________________________________________________________________________________ 1 Sono salvifiche tutte quelle religioni che promettono al fedele qualche forma di salvezza, ovvero di esistenza migliore. 3 Dal punto di vista filosofico l’ellenismo è caratterizzato dalla compresenza di più correnti di pensiero. Nell’area greco-romana2 la riflessione filosofica rimase essenzialmente legata ai temi emersi dalla filosofia greca e alle correnti che si erano già affermate ad Atene nel secolo precedente, cioè l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo. Lucrezio, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, forse i principali pensatori del mondo latino, si muovo tutti all’interno di tali correnti. Le novità più importanti si produssero, almeno nei primi secoli dell’Ellenismo, nel medio oriente e sulle coste dell’Africa del nord dove avvenne l’incontro tra la cultura greca e quella medio orientale. Qui, e specialmente come si è detto ad Alessandria d’Egitto, sul piano scientifico avvenne, tra il III e il II secolo a. C., la sistemazione delle maggiori conquiste scientifiche avvenute nell’antichità. Tale lavoro è legato ai nomi di Euclide per la geometria, Archimede per la fisica, di Aristarco e Ipparco nell’astronomia che legarono i loro nomi rispettivamente alla prima formulazione dell’ipotesi eliocentrica il primo e di quella geocentrica, il secondo. La moderna rivoluzione scientifica, avvenuta nel Seicento all’inizio dell’età moderna, per molti versi si ricollegò direttamente alle conquiste di questo periodo che per tantissimi secoli non subirono più alcuna rielaborazione. L’incontro tra la tradizione greca e quella medio orientale si tradusse, sul piano filosofico, in un riemergere, ma in una visione profondamente nuova di alcune tematiche già presenti nella Grecia classica e legate in particolar modo alle correnti pitagoriche e platoniche, tant’è che gli storici della filosofia parlano di neopitagorismo e neoplatonismo. Dall’incontro tra la cultura greca e quella ebraica sorse la filosofia greco-giudaica che rappresenta il primo tentativo di conciliare la concezione biblica con quella elaborata dai filosofi greci. Dal Medio oriente provennero anche una serie di culti che costituirono con il loro patrimonio di riti, forme organizzative e modelli comportamentali una delle fonti della formazione del cristianesimo. Esamineremo ora gli apporti che le diverse componenti culturali e religiose dell’ellenismo hanno dato alla formazione del cristianesimo, limitando l’esame di tali componenti esclusivamente a questa tematica. CULTURA ELLENISTICA I poli culturali dell’ellenismo: 1 – area ____________________________ 2 - _______________________________ a – sistemazione ____________________ _________________________________ b - piano filosofico: - neo ____________________________ - ________________________________ - ________________________________ c – piano religioso E FORMAZIONE CRISTIANESIMO Alla formazione hanno contribuito: 1 - __________________ greco-romano 2 ________________________________________________ 3 - _______________________________________________ 4 _________________________________________________ 5 - ________________________________________________ I CONTRIBUTI DELLO STOICISMO ALLA Della cultura greco-romana contribuirono alla formazione del cristianesimo FORMAZIONE DEL ___________________: soprattutto due concetti elaborati all’interno della filosofia stoica, ovvero quello di provvidenza universale e quello di morale come dovere. 1 - ______________________________ Gli stoici3 pensavano che nel mondo si manifestasse l’azione di due principi strettamente uniti e divisibili solo a livello conoscitivo: il principio attivo e Il principio _____________pensato come: quello passivo. Rifacendosi ad Aristotele, consideravano il principio attivo come a - forma della ______________________ 2 Roma sottomise politicamente la Grecia intorno alla metà del II secolo a. C.. Per la concezione della realtà degli stoici vedi “6 – I problemi della filosofia: la concezione della realtà. Gli stoici e il vitalismo antico” 3 4 la forma delle cose e quella passivo come la materia. Il principio attivo era pensato dagli stoici come la legge che governa la materia ed era identificato con la divinità. Si trattava di una concezione della divinità profondamente diversa da quella che sarà fatta propria dal Cristianesimo. Infatti, la concezione stoica vedeva la divinità come qualcosa di immanente, ovvero come qualcosa di coincidente, insito nell’universo, mentre nella visione del cristianesimo Dio apparirà come un principio trascendente, ovvero superiore, non riconducibile e comunque esterno all’universo. Un’ulteriore differenza tra la concezione stoica della divinità e quella cristiana è rintracciabile nel fatto che la divinità stoica non coincide con quella del Dio persona cristiano, in quanto esso rappresenta piuttosto la legge che governa l’universo. Dio come persona e come principio trascendente sono tipici della tradizione ebraica e da essa sono pervenuti al cristianesimo. Gli stoici indicavano il principio attivo anche con il termine greco “logos”, ovvero discorso/ragione, in quanto la legge che governa il mondo costituiva anche un ordine razionale poiché coincidente con l’intelligenza divina. Poiché era retto da un ordine razionale interno il mondo era, per gli stoici, soggetto a un principio di causalità universale attraverso il quale si realizzava un piano provvidenziale. Il principio di causalità universale sostiene che tutto ciò che accade nell’universo ha una causa ed è a sua volta causa di qualcos’altro. L’universo è dunque retto da un’unica catena causale per cui un evento privo di causa è impensabile, in quanto ci sarebbe qualcosa di non determinato dalla natura e dalla ragione divina insita in essa. La provvidenza costituisce, per gli stoici, il piano razionale che, tramite la causalità universale, regge e governa il mondo realizzando un mondo perfetto, perché ordinato e armonico in cui il male stesso appare giustificato nell’economia del tutto. Sia per gli stoici che per i cristiani il concetto di provvidenza è strettamente legato alla divinità per cui anche la provvidenza viene, a causa della diversa concezione della divinità, concepita diversamente. La provvidenza costituisce un piano impersonale in quanto determinato da una legge, mentre per i cristiani sarà il frutto di una precisa volontà, quella divina. Inoltre, per gli stoici essa è, come la divinità, un principio immanente all’universo, mentre per i cristiani essa, come la divinità di cui rappresenta la volontà, è trascendente rispetto al mondo. Alla visione del mondo elaborata dagli stoici è strettamente connessa la concezione, anch’essa destinata a essere ripresa dal cristianesimo, della morale come dovere. Nella visione del mondo degli stoici l’uomo, come qualsiasi altra entità, non può sottrarsi alla catena degli eventi previsti dal piano provvidenziale, per cui il corretto comportamento, il comportamento morale, verrà a coincidere con l’accettazione di ciò che esso comporta. Di conseguenza la morale stoica appare fondata sul concetto di sforzo, di dovere in quanto questo è imposto dalla necessità di adeguare il comportamento del saggio, dell’uomo virtuoso, all’ordine universale. L’esistenza del piano provvidenziale pone il problema della sua conciliazione con la libertà dell’uomo. Per chiarire come gli stoici cerchino di spiegare tale conciliazione possiamo partire dal seguente esempio. Un cane legato dietro un carro appena questo si muove dovrà necessariamente seguirlo, egli può farlo volontariamente oppure no, ma anche in questo caso verrà trascinato. L’uomo non può sottrarsi alla catena di eventi che lo caratterizza, ma è in suo potere di adeguarsi liberamente al piano nel momento in cui ne comprende la razionalità. La libertà non consiste, infatti, nella scelta tra alternative ma nel seguire deliberatamente di propria volontà ciò che è previsto dal piano. Il piano provvidenziale prevede che tutti gli esseri tendano alla loro conservazione sviluppando le caratteristiche che li distinguono. Tale b - _______________________________ c - divinità d - __________________________ e - causalità _______________________: __________________________________ __________________________________ causalità universale e ________________ 2 - ________________ come __________ Accettazione del ____________________ _______ e morale come ______________ La ________________________ 5 caratteristica è individuata per l’uomo nella ragione, poiché essa nella misura in cui comprende il piano rende l’uomo libero. Poiché ciò che si oppone alla ragione sono innanzitutto gli istinti, i quali tendono a sostituirsi ad essa nella guida del comportamento, il primo compito della ragione sarà costituito dal loro controllo che le consente di assumere il controllo del comportamento per adeguarlo al piano. L’opposizione ____________________ e _______________________ IL DIO DEGLI STOICI E IL DIO CRISTIANO 1 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ 2 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ LA PROVVIDENZA PER GLI STOICI E PER I CRISTIANI 1 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ 2 _____________________________________________ CTR ___________________________________________ Molte delle tematiche nonché delle credenze e dei culti che confluiranno nel I CONTRIBUTI DEL ___________________ cristianesimo hanno trovato una loro prima elaborazione all’interno dell’ambiente alessandrino. ALLA FORMAZIONE DEL _____________: Ad Alessandria d’Egitto si ebbe una ripresa da un lato del platonismo e dall’altro, e ancor di più, del pitagorismo. Il neopitagorismo comprendeva una serie di concezioni matematico-filosofiche e una dottrina esoterica, di origine orfica, che proponeva all’uomo la liberazione dalla catena della corporeità e dell’impurità. All’interno del neopitagorismo troviamo figure di asceti e taumaturghi, a cui sono stati attribuiti poteri molto simili a quelli che i racconti evangelici hanno attribuito a Gesù o ai primi martiri cristiani. Tra queste figure vi è, ad esempio, quella di Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo, che da un testo del III secolo viene presentato come un sapiente che compiva guarigioni e profezie e che riapparve dopo la morte per testimoniare l’immortalità della sua anima. Le notizie storiche ci attestano che Apollonio ebbe contatti con le religioni orientali ed era ritenuto dai contemporanei un maestro di spiritualità. Il suo neopitagorismo si configurava innanzitutto come un rigoroso stile di vita (non mangiava carne, camminava a piedi nudi, si vestiva solo di lino, ecc…). Questo stretto legame tra credenze e stile di vita sarà fatto proprio anche dal cristianesimo. Sempre in ambiente neopitagorico venne redatta la cosiddetta letteratura ermetica, costituita da una serie di testi scritti tra il II secolo a.C. e il I d.C. e, infine, raccolti e ordinati un secolo dopo. Questi testi propongono alcune forti analogie con il cristianesimo, dimostrando che la sensibilità religiosa dell’epoca aveva caratteristiche che esistevano autonomamente dall’elaborazione cristiana e anzi contribuirono alla sua formazione. Una delle analogie è costituita dall’attribuzione dei testi a Ermete, una divinità che fungeva da messaggero degli dei, così come i Vangeli erano anch’essi considerati un messaggio diretto di Dio. Inoltre, anche in questi testi è stabilita una parentela fra Dio e gli uomini che consente la comunicazione fra gli dei e gli uomini. Una terza affinità sta nel fatto che nell’ambiente ermetico venne sviluppandosi un tipo di rapporto con la divinità che trova il suo apice nell’estasi mistica che verrà fatto proprio dai mistici cristiani. La comunicazione fra gli uomini e Dio non è possibile né con la sola ragione, né attraverso le religioni tradizionali, ma può avvenire attraverso la combinazione di pratiche magiche e di iniziazione insieme a meditazioni sulla divinità. Al culmine di questo percorso l’individuo 6 raggiungeva, per pochi instanti, l’unione mistica con la divinità che comportava il distacco completo dell’anima dalle cose terrene. NEOPITAGORISMO: 1 – concezioni ______________________________________ 2 - ________________________________________________ 3 – figure di _______________________________________ : a - __________________________________________________________________ b – rigoroso stile di vita forme rintracciabili nel ermetismo: a - ____________________________________________________________________________ ___________________ b - ____________________________________________________________________________ c - ____________________________________________________________________________ I CONTRIBUTI DEL ___________________ Anche le teorie di Platone in ambiente alessandrino vennero rielaborate alla luce delle nuove esigenze. Il pensiero di Platone si prestava particolarmente a soddisfare queste esigenze religiose, in quanto faceva sua una visione trascendente. Tra gli elementi che vennero utilizzati da questa rielaborazione, vi fu la figura del Demiurgo che ispirandosi al mondo delle idee dà vita all’universo. Questo mito venne interpretato come una sorta di creazione. Un secondo elemento che venne ripreso fu la teoria delle idee che venne rielaborate in senso religioso; le idee vennero viste così come i pensieri di Dio. Il dualismo antropologico, cioè la tesi dualistica per cui l’uomo è composto di anima e corpo, fu anch’esso ripreso. L’anima, a differenza di ciò che si teorizzava in ambiente greco-romano, in cui dominavano lo stoicismo e l’epicureismo, era considerata come qualcosa di radicalmente diverso dal corpo. Perciò a differenza di quest’ultimi, che ritenevano l’uomo una realtà essenzialmente mondana, i neoplatonici identificavano lo scopo della vita non nell’adeguarsi alla natura ma alla realtà sovrannaturale. Negli ultimi secoli dell’ellenismo il neoplatonismo svolse una duplice funzione: da un lato, rappresentò l’ultima espressione della filosofia pagana (Plotino) presentandosi come una spiegazione razionale, non basata sulla rivelazione. Dall’altro, il neoplatonismo costituì la base per la costruzione delle prime filosofie cristiane (vedi Agostino d’Ippona). ALLA FORMAZIONE DEL _____________: la rielaborazione in chiave religiosa di: 1 - _______________________________ 2 - _______________________________ 3 - _______________________________ la funzione del _____________________: 1 spiegazione _________________ non fondata sulla ______________________ 2 _______________________________ PLOTINO 4 La dottrina filosofica di Plotino (205-270 d.C.) , senza dubbio il maggior esponente del cosiddetto neoplatonismo, coincide totalmente con una Filosofia = ______________________ metafisica tra le più complesse e difficili dell'intera storia della filosofia. Plotino, per quanto ne sappiamo, non ha coltivato specifici interessi filosofici in campo naturalistico, né in campo etico-politico; dal suo punto di vista, il filosofare si identifica, senza residui, con l'indagine metafisico-teologica. I profondi legami che le sue idee hanno avuto prima di tutto con Platone, ma anche con Aristotele, Plotino: da Platone (e ________________) riguardano i problemi metafisici e teologici e non altri aspetti della ricerca filosofica. Il pensiero di Plotino eserciterà grande influenza- valga per tutti a ________________________ l'esempio di Agostino d’Ippona - sul pensiero cristiano antico e medievale, per il quale varrà sostanzialmente l’identificazione tra filosofia e teologia operata da 4 Per la vita e le opere vedi pag. 31 7 primato della ragione (_______________) Plotino. Plotino visse durante il II secolo d.C., un tempo nel quale il cristianesimo si Ctr diffondeva sempre più in ogni parte dell'impero romano e cominciava ad elaborare una sua posizione filosofica autonoma, centrata sulla giustificazione primato della __________ (___________) della fede. Contemporaneamente, la tradizione della filosofia greca veniva a contatto con le culture e le religioni del vicino e dell'estremo Oriente (ossia Persia e India), culture e religioni lontane dal "primato della ragione" tipico della tradizione greca e che Plotino, a suo modo, confermerà. La filosofia di Plotino trova il suo punto di partenza in un problema irrisolto, che egli ritiene fondamentale,: il problema dell'essere, presente già nelle filosofie presocratiche. È possibile che il mondo sia una semplice raccolta di enti, l'uno diverso dall'altro, che un giorno nascono e un giorno sono destinati a morire? Non sarà invece, questa, solo l'apparenza, mentre la verità si trova al di là dei fenomeni? A un tale quesito, come sappiamo, sono state fornite molte rispostePlotino ebbe come punto di riferimento quella platonica, cioè la dottrina delle idee e la cosmologia delineata nel Timeo, dove Platone ipotizza che il mondo si sia formato dall'opera di un Demiurgo, che avrebbe plasmato la materia informe sul modello delle Idee. Nelle Enneadi Plotino sostiene che la radice della molteplicità è l'unità. Ogni singolo ente, con la particolare unità dei suoi caratteri, nasce da un altro ente che l'ha preceduto e così, risalendo di causa in causa, si deve giungere all'Uno, l'unità assoluta, che non deriva da nulla e dalla quale, invece, tutto deriva. Essere autentico = realtà come appare CTR _____________________________________________________ (Platone) Plotino = realtà come appare = ogni singolo ente nasce / è causato da un altro ______________ realtà vera = ____________________________________________________ Cos'è esattamente l'Uno? Plotino fornisce indicazioni che riguardano cosa non è l'Uno e nessuna che veramente lo caratterizzi. Perché? Anzitutto l'Uno non ha nulla a che fare con il motore immobile di Aristotele: dall'Uno, come vedremo, scaturisce tutto, mentre il motore aristotelico non è la fonte dalla quale nasce l'universo. Neppure può essere avvicinato al Dio ebraicocristiano, che viene caratterizzato come creatore, come "persona", che p. es. ama o è in collera. Per Plotino, questa è una concezione antropomorfica della divinità, ch'egli respinge. Inoltre, dell'Uno non può dirsi né che sia pensiero, né che sia essere, né che sia bene, poiché ogni caratterizzazione lo limiterebbe e l'Uno sta al di là di ogni carattere e di ogni limitazione. In sintesi, è legittimo dire dell'Uno solo che è origine di ogni cosa, non altro. Questa posizione è stata anche definita teologia negativa. Resta da capire in che modo l'Uno è origine. L'Uno non crea, non agisce, da lui invece tutto ciò che esiste scaturisce per emanazione o "irradiazione". Plotino è consapevole del fatto di ricorrere ad una immagine, di usare un linguaggio metaforico, ma non esiste altro modo di descrivere questo processo. L'immagine dell'irradiazione non è casuale: così come una fonte di luce illumina lo spazio fuori di sé, analogamente l'Uno diffonde l'essere. Plotino, nelle Enneadi, si serve anche di un'altra immagine, quella dell'albero e delle radici, secondo la quale dall'Uno/albero-radici, che se ne sta immobile, si dipartono le varie forme d'essere/rami, foglie, frutti. Plotino definisce l'Uno prima ipostasi (termine che in greco significa "ciò che sta sotto" o anche "sostegno", "fondamento"; riprendendo la metafora dell'albero, potremmo anche definirlo la "prima radice"). Se si parla di prima ipostasi, devono esservene altre e, infatti, all'Uno segue, attraverso un processo di emanazione, l'Intelletto. Cos'è L’Uno non è: - ___________________________________ di Aristotele - ___________________________________ del ____________________________ l’Uno è _____________________________ L’origine delle cose per ________________ __________ dall’ _________ L'UNO E LE EMANAZIONI: A – L’ _________________________: pensiero ________________ 8 l'Intelletto? Pensiero puro, è la prima risposta che si può fornire. Dalle descrizioni che ne fornisce Plotino, l'Intelletto appare simile, almeno in parte, al motore primo aristotelico, che è, appunto, pensiero che pensa se stesso. Esso, inoltre, diventa ipostasi, cioè fondamento rivolgendosi verso l'Uno, traendo da lui ispirazione. All'ipostasi del pensiero puro segue l'Anima. Se l'Intelletto è "pensiero puro", l'Anima è "vita pura" e si trova in una posizione intermedia fra il mondo delle prime due ipostasi e la realtà sensibile, la materia. Plotino sostiene che l'Anima, in un senso metaforico, "guarda" verso l'alto, ossia partecipa, attraverso l'Intelletto, all'Uno, ma dall'altro lato, essendo "Anima del mondo" si rivolge verso il basso e dunque emana anche lei qualcosa, ovvero la materia, il mondo fisico che tutti conosciamo. Qui compare la molteplicità, ossia i singoli corpi e le singole anime, insomma la vita mortale, il pensiero parziale. In questa molteplicità si riflette l'unità dell'Anima, perciò fra le parti vi è un collegamento, una simpatia ed ognuna di esse svolge una precisa funzione. Non v'è nulla di casuale e di inutile nel mondo, anche se spesso non ce ne accorgiamo, dato che si tende a giudicare considerando solo i particolari e non il tutto. Questa visione della realtà è stata definita ottimismo metafisico ed è opportuno notare come essa abbia diversi punti di contatto con la metafisica stoica, secondo la quale la natura è retta da un ordine universale e armonico. L'itinerario dall'Uno all'Anima, e da questa fino alla materia, si può considerare una riformulazione del racconto della "fabbricazione" del mondo contenuto nel Timeo di Platone, con la differenza, non marginale, che mentre Platone introduce la figura del Demiurgo, un supremo artefice e dunque una figura "umana", Plotino elimina qualsiasi carattere antropomorfico: l'Uno non crea, non causa ma emana. Sorge, a questo punto, una domanda: in che modo Plotino considera la materia? Essendo ai margini estremi dell'emanazione, nel punto più lontano possibile dall'Uno, il quale, in fin dei conti, è il Bene assoluto - anche se Plotino si rifiuta di definirlo così - la materia è privazione di bene. In altri termini, dal punto di vista di Plotino, la presenza del male nel mondo è dovuta al fatto che la materia è priva di intelligenza, limitata, instabile. Sul piano morale, trattandosi di volontà, di colpa eccetera, si può parlare di "male" quando l'anima dell'uomo rinuncia a cercare la strada per "tornare all'Uno", una strada che Plotino si incaricherà di descrivere. Questa soluzione del "problema del male" eserciterà una profonda influenza sulla filosofia cristiana, in particolare su Agostino d’Ippona. Così come esiste una "via in giù", dall'Uno alla materia, esiste anche una "via in su", ovvero l'uomo è in grado di percorrere un viaggio - viaggio interiore, non nello spazio - che porti la sua anima a ricongiungersi con l'Uno, poiché l'anima individuale, pur essendo condizionata da necessità e bisogni materiali, sente il richiamo, una vera e propria nostalgia, dell'Anima e dell'Uno. In questo viaggio possiamo distinguere tre tappe, allo stesso modo in cui abbiamo distinto tre ipostasi nel processo di emanazione dell'Uno. La prima tappa, propedeutica a tutte le altre, è quella della conquista delle virtù, mediante la liberazione dalle passioni. Diventare indipendenti dai beni materiali onori, ricchezze ecc. - è possibile se riusciamo a far prevalere l'intelligenza, la temperanza, la giustizia, sull'ignoranza, l'incontinenza, l'egoismo. In tal modo, realizzeremo una prima forma di purificazione. La seconda tappa consiste nella scoperta e nella contemplazione della bellezza. Riprendendo un tema squisitamente platonico, Plotino ci presenta due strade per conoscere e contemplare la bellezza: l'arte e l'amore. L'arte ci fa scoprire la forma nella materia, ovvero, platonicamente, il primato dell'intelligibile sul sensibile, mentre l'amore ci conduce a superare il livello della bellezza corporea, per arrivare a "vedere" la bellezza interiore, ovvero quella dell'anima. Infine, con la pratica della filosofia, nella quale domina l'intelletto puro, arriviamo ad intuire l'unità suprema dell'Uno. Questo itinerario, però, è condizione necessaria ma non sufficiente per ritornare all'Uno. Necessaria perché, a B – L’Anima : ________________________ posizione ___________________________ tra A-B e _______ C - ______________________: la molteplicità ----------------------------- come collegamento tra le parti di C L’________________________ metafisico Il processo di emanazione: dall’________ alla ______________________: l’eliminazione dell’____________________ Uno = ______________ Materia = _________________________ Uomo tende all’Uno = ______________ Uomo tende _______________ = ________ IL RITORNO ALL'UNO La via in su porta l’anima ____________ verso l’Anima e ____________ le tappe: A – la liberazione dalle ________________ B – la contemplazione _________________: l’arte e ______________________ C – l’intuizione dell’__________ filosofia = percorso ______________ 9 differenza del cristianesimo, non è la fede il mezzo per arrivare all'Uno ma (intellettuale-conoscitivo) la razionalità. Le tre tappe costituiscono, perciò, altrettante conquiste + intellettuali, la più importante delle quali è proprio la filosofia. Non sufficiente, in quanto se restiamo sul piano intellettuale-conoscitivo ______________________ avremo sempre un soggetto da una parte - l'uomo - e un oggetto dall'altra l'Uno - mentre il "ritorno all'Uno" implica il superamento di questo dualismo. = A ciò si perviene attraverso l'estasi, in greco ékstasis, che significa "uscita da sé". A prima vista, sembra impossibile fuoriuscire da se stessi, eppure di questo si tratta, se vogliamo fonderci con l'unità originaria. Plotino, nelle Enneadi, fa ricorso di nuovo a un'immagine: l'estasi viene descritta come la visione di una luce, la Luce suprema, che tutto illumina. Non per caso, anche Platone, concludendo la descrizione del mito della caverna, paragonava la scoperta del mondo delle idee alla smagliante luce solare, che all'inizio abbaglia ma alla l’incontro con ______________________ quale poi ci si abitua. L'estasi di Plotino non è un evento magico, non dipende da una pratica ascetica del tipo di quella teorizzata nella tradizione della santità cristiana ma è, invece, l'atto supremo di un percorso razionale. D'altro canto, però, l'esperienza dell'estasi non appare come qualcosa di razionale in senso stretto ma si colloca, in un certo senso, sul confine fra razionale e irrazionale. Plotino, in definitiva, conduce alle estreme conseguenze gli aspetti più metafisici delle dottrine di Platone e di Aristotele assegnando alla sua filosofia uno scopo ultimo: l'incontro con l'invisibile, il trascendente, ciò che si trova al di là di qualsiasi esperienza ordinaria. LE RELIGIONI DI SALVEZZA E MISTERICHE L’età dei grandi regni ellenistici e dell’impero romano è caratterizzata da un grande senso di insicurezza e di smarrimento, dovuto anche alla perdita di Senso di insicurezza e diffusione delle capacità politica da parte dei singoli cittadini, non più soggetti attivi nella religioni _______________________ dinamica della pólis, ma meri individui senza importanza all’interno di grandi stati gestiti da piccoli gruppi di potenti e da dinastie ereditarie. Si tenga anche presente che la conoscenza di religioni e culture delle più diverse origini e provenienze aveva reso inattuali i culti locali, civici, di cui si percepiva ormai tutta la ristrettezza e l’elementarità. Si diffusero così, provenendo sempre dall’Oriente, alcune religioni la cui caratteristica essenziale è quella di offrire la salvezza individuale, e misteriche, in quanto forniscono un’iniziazione del fedele ai riti, culti e misteri la cui conoscenza è considerata la sola fonte di salvezza. 1 ___________________________________________________________________________________________ 2 ___________________________________________________________________________________________ Senso di ________________________ diffusione _____________________ Queste religioni svilupparono una serie di riti, culti e credenze che entreranno a far parte del cristianesimo rielaborati e riferiti alla figura di Gesù. Tra questi culti vi è quello di Mitra, culto che proveniva dall’Iran ed era rivolto a una divinità solare legata alla fecondità. La mitologia faceva nascere il dio Mitra il 25 dicembre in una caverna. L’episodio centrale del mito era costituito dal sacrificio di un toro che provocava la nascita, dal suo midollo, delle piante benefiche per l’uomo, e, dal suo sangue, del vino. Al termine del sacrificio Mitra e il sole bevevano il sangue e mangiavano la carne del toro. Questo pasto veniva ripetuto dai fedeli durante le celebrazioni e i culti. Il culto di Mitra si diffuse soprattutto fra i soldati, traducendosi in un comportamento ispirato alla disciplina e alla moralità che impressionava i profani. Lo stesso cristianesimo ebbe nell’esercito romano un potente mezzo di 10 diffusione; come è testimoniato anche da numerose tradizioni presenti nel cuneese che legano la diffusione del cristianesimo nelle nostre zone alla, probabilmente leggendaria, legione tebana (vedi ad esempio le tradizioni del santuario di S. Magno a Castelmagno). Un altro culto che si diffuse, a partire dal II secolo a.C. fu quello di Iside e Osiride, culto questo di origine egiziana. Si tratta del culto di un dio risorto, Osiride, perché riportato in vita dalla moglie, Iside. La stessa immortalità del dio veniva promessa anche ai fedeli. I riti di iniziazione consistevano nel simulare per il fedele un’esperienza di morte e resurrezione, al termine dei quali il fedele otteneva una identificazione mistica con il dio e la certezza di una vita eterna. Forte è dunque l’analogia con il battesimo cristiano. Molto diretto appare invece il legame con il culto cristiano della Madonna, in quanto alcuni elementi iconografici e mitologici della Vergine Maria sono stati tratti dalla figura di Iside. Culti che hanno contribuito alla formazione del cristianesimo: 1 ________________________________ Analogie con il cristianesimo a - ______________________________________________________________________ b - ______________________________________________________________________ c - ______________________________________________________________________ 2 ________________________________ Analogie con il cristianesimo a - ______________________________________________________________________ b - ______________________________________________________________________ c - ______________________________________________________________________ L'EBRAISMO E LA FILOSOFIA GRECO-GIUDAICA Sempre in ambiente alessandrino avvenne l’incontro tra la cultura greca e quella ebraica di cui uno dei risultati maggiori è la trascrizione della Bibbia. Questa opera era già iniziata da alcuni secoli, promossa dalle gerarchie sacerdotali ebraiche, ma in epoca alessandrina avvenne la sistemazione definitiva dei testi sacri e la loro traduzione in greco che ne permise la diffusione. I libri inseriti all’interno della Bibbia furono scelti all’interno di un più vasto patrimonio in base a criteri dettati dalle gerarchie sacerdotali. L’edizione alessandrina diventò il punto di riferimento e la base della Bibbia come oggi la conosciamo. La Bibbia è composta da un insieme di testi ,che furono inizialmente tramandati oralmente, composti in epoche diverse. Questi testi vennero ordinati cronologicamente, dalla creazione all’epoca ellenistica, e narrano principalmente le vicende del popolo ebraico attraverso: la sua formazione ad opera dei patriarchi, la schiavitù in Egitto e la liberazione ad opera di Mosè, la creazione del regno di Israele in Palestina, la deportazione in Babilonia, infine gli ultimi libri, narrano la resistenza contro i regni ellenistici. All’interno della Bibbia hanno un ruolo importante i profeti che richiamavano le classi dirigenti e il popolo alla fedeltà verso Dio, minacciando castighi e punizioni. Alcuni di essi annunciavano un tempo finale in cui Dio salverà il suo popolo, inviando un suo messia a costruire il regno di Israele. Venne così a LA __________________________ DELLA BIBBIA la __________________ dei testi il contenuto: la storia del mondo e del __________________________________ i _______________________________ 11 svilupparsi un genere letterario chiamato apocalittico (cioè che riguarda il tempo futuro). Molti di questi scritti rimasero esclusi dall’edizione definitiva della Bibbia in quanto non ritenuti ortodossi. Il concetto biblico più lontano dalla concezione filosofica greca è rappresentato DIO NELLA CULTURA GRECA E IN QUELLA EBRAICA dall’idea che Dio sia il creatore del mondo e che lo abbia creato dal nulla. Nella mentalità greca Dio e il mondo coesistono da sempre e sono entrambi di origine divina. Platone, ad esempio, sostiene che la materia era preesistente all’azione del Demiurgo. Invece nella cultura ebraica Dio e mondo erano su due piani differenti: il mondo è perciò subordinato al suo creatore. Un altro concetto non presente nella cultura greca è quella di un dio persona e unico. Il Dio ebraico richiede venerazione e timore, dando agli uomini protezione e norme da rispettare. È un Dio padre che svolge la duplice funzione paterna, quella normativa e quella protettiva, e non già un principio astratto come per la filosofia greca, (ad esempio, per gli stoici esso coincideva con la legge di natura avendo la funzione di normare dall’interno l’universo). Anche la descrizione del rapporto Dio-uomo, strettamente legato alla concezione del dio-persona, appare originale nella cultura ebraica. Tale rapporto viene presentato come un patto promosso da Dio, ma che richiede la DIO NELLA CULTURA GRECA E IN QUELLA EBRAICA Cultura ebraica Cultura greca 1 – Rapporto Dio – Mondo - __________________________________________________ - ___________________________________________________ - __________________________________________________ - ___________________________________________________ 2 – Concezione divinità - __________________________________________________ - ___________________________________________________ - funzione ___________________________________________ - funzione ___________________________________________ 3 - ___________________________________ - __________________________________________________ - __________________________/ nessun rapporto - amore geloso 4 - ___________________________________ - __________________________________________________ - ___________________________________________________ 5 - ___________________________________ - ___________________ pentimento __________________ - offesa divinità: _________________________________________ partecipazione dell’uomo, che è quindi messo sullo stesso piano di Dio. Dio dimostra un amore geloso, per cui messo di fronte all’infedeltà dell’uomo si arrabbia, rimanendo però disponibile a accoglierlo nuovamente. Per la cultura greca, invece, il rapporto con la divinità era semplicemente rituale, oppure si riteneva che essa non si interessasse degli uomini (Epicurei). Nonostante la presenza di questi concetti, la Bibbia non può essere considerata un trattato di teologia, perché non si presenta come un ragionamento su Dio, ma vuole essere la descrizione del rapporto tra Dio e il suo popolo. Originale appare anche il modo in cui viene visto il rapporto uomo-Dio, incentrato sulla fede dell’uomo in Dio, e le riflessioni morali che ruotano attorno ai concetti di peccato, pentimento e conversione. 12 Per i greci credere in qualcosa era un atteggiamento soprattutto intellettuale, mentre per gli ebrei credere in Dio significava aver fede in lui, ovvero l’instaurarsi di un rapporto fondato sulla fiducia che l’uomo ripone in Dio. Nelle Bibbia è il venir meno di questa fiducia a costituire il peccato, ovvero l’infedeltà verso Dio. Il pentimento, il dolore che si prova per il proprio peccato, per la propria mancanza di fiducia verso Dio, diventa la condizione necessaria per la conversione, cioè la possibilità di riallacciare il proprio rapporto con Dio. Il concetto di peccato come rottura del rapporto personale con Dio non era presente nella cultura e nella mentalità greca, infatti, il peccato come offese alla divinità per i greci era legato a una mancanza nei confronti del rituale. Filone d’Alessandria pur essendo ebreo visse ad Alessandria (25 a.C. - 45 d.C.) e alla sua figura è legata un’importante opera di conciliazione fra cultura greca e ebraica, adattando alla sua cultura alcuni concetti greci. La sua opera per questo rappresenta un momento del passaggio dalla cultura greco-romana a quella cristiana. Egli propose di leggere la Bibbia come un testo allegorico, ovvero come la rappresentazione di idee e concetti mediante figure e simboli che li richiamano. Così, ad esempio, la descrizione del paradiso terrestre e del peccato originale non vanno prese alla lettera, ma come una allegoria della condizione umana lacerata fra la tendenza al male e il richiamo divino. Un secondo contributo di Filone è legato all’utilizzo del concetto greco di logos, termine che indica la ragione e/o il discorso razionale. Filone adattò questo concetto al contesto culturale ebraico vedendo in esso la parola di Dio. Il logos diventa così l’intermediario tra Dio e gli uomini; nel Cristianesimo questo ruolo di intermediario sarà svolto da Gesù, che rappresenta la parola di Dio e il Vangelo di Giovanni lo indicherà come il logos. Un altro concetto che Filone cercò di conciliare con la mentalità ebraica è rappresentato da quello stoico di provvidenza. La provvidenza era un piano impersonale che reggeva il mondo e che si attuava in base alle leggi del mondo, Filone, invece, vide in essa il piano mediante il quale Dio interviene attivamente nel mondo. Infine, Filone esprime la convinzione, condivisa poi dai primi filosofi cristiani, che esista una sostanziale concordia tra le verità bibliche e i risultati della filosofia greca. A suo parere Mosè e Platone sono entrambi ispirati direttamente da Dio; per Filone il primato rimane della Bibbia, ma le due concezioni sono simili e conciliabili. 2 – La formazione del cristianesimo FILONE D’ALESSANDRIA La conciliazione tra ___________________ ___________________________________ e il contributo alla formazione del _________________________________: 1 – la lettura ________________________ della ________________ 2 – logos Greci =____ ________________________ Filone = __________________________ 3 - _____________________________ Stoici = ____________________________ Filone = ____________________________ 4 - ________________________________ 2 - LA FORMAZIONE DEL CRISTIANESIMO LA PERIODIZZAZIONE DELLA La cultura occidentale è stata caratterizzata per quasi 15 secoli da una visione cristiana. Gli storici hanno individuato all’interno di questi secoli tre grosse fasi: I secolo e primi decenni del II secolo d.C. È considerato il periodo di formazione del Cristianesimo. Vengono elaborati i nuovi testi (Nuovo testamento) che aggiunti ai testi biblici costituiranno la verità rivelata.. Le figure maggiori di questo periodo sono Gesù e Paolo di Tarso, nella cui opera si realizza il passaggio dal Gesù storico al Gesù della fede. II-VIII secolo d.C. Questo periodo viene chiamato Patristica. Avviene la definizione dei principali dogmi di fede, definizione che non è contenuta nei testi sacri , ma è opera di concili, cioè delle assemblee di vescovi, e dei Padri della Chiesa. I Padri della Chiesa sono i primi pensatori cristiani ai quali la Chiesa riconosce particolare autorità. CRISTIANIZZAZIONE DELLA CULTURA: A – (_____- ______ sec) La formazione del _________________ elaborazione ____________________ Gesù + ______________________ B – (_____- ______ sec) La Patristica definizione ____________________ i Padri ______________________ 13 Ciascuna Chiesa (Romana, Ortodossa, ecc..) riconosce l’autorità di padri diversi e sulle loro orme si sono instaurate diverse interpretazioni del Cristianesimo. Dal punto di vista filosofico il personaggio più importante in questo periodo è Agostino d’Ippona, Padre della Chiesa romana. IX-XV secolo d.C. Per quanto riguarda la storia della filosofia il periodo è detto Scolastica. La cultura cristiana subordina a se stessa tutti gli aspetti della vita e della cultura occidentale. Il periodo della cristianizzazione della cultura coincide con l’europeizzazione della cultura occidentale in quanto i centri dell’elaborazione della cultura si spostano verso l’Europa continentale. Il problema principale che viene affrontato in questo periodo dalla filosofia è costituito dalla dimostrazione della razionalità della fede. La figura più importante è rappresentata da Tommaso D’Aquino. La principale testimonianza del Gesù storico è rappresentata dai Vangeli. I quattro Vangeli che costituiscono parte del Nuovo Testamento non sono in realtà gli unici testi dell’epoca scritti sulla figura di Gesù. Nel primo periodo del Cristianesimo circolavano nelle comunità molti testi analoghi. I Vangeli ufficiali furono scelti dalle autorità ecclesiastiche fra la massa di testi esistenti. I testi scartati sono i cosiddetti Vangeli apocrifi che furono considerati non ispirati da Dio. I Vangeli furono scritti dopo la morte di Gesù e costituiscono il primo tentativo di dare un’interpretazione teologica del Gesù storico, quindi sono già una testimonianza di fede. Dal punto di vista storico e culturale bisogna guardare ai Vangeli partendo da due presupposti: essi non sono biografie, ma testimonianze di fede; non si possono riferire ad un unico autore, ma sono una raccolta di narrazioni orali che circolavano nelle comunità, unite in un’unica narrazione da un solo redattore, che agiva per conto della comunità a cui apparteneva. Partendo da questi presupposti, l’analisi dei testi ha messo in evidenza tre componenti dei Vangeli: il materiale proveniente dal Gesù storico; il materiale elaborato dalla comunità in cui e per cui è stato scritto il Vangelo stesso, in cui si aggiunge il punto di vista della comunità; il materiale elaborato dal singolo redattore, che rispecchia l’interpretazione dell’autore. Agostino d’Ippona C - (_____- ______ sec) La _____________________ l’europeizzazione della _______________ La razionalità della ________________ Tommaso d’Aquino I VANGELI E LA PREDICAZIONE DI GESÙ I vangeli: la scelta dei _________________ testimonianza di _________ I VANGELI DAL PUNTO DI VISTA STORICOCULTURALE I VANGELI DAL PUNTO DI VISTA STORICO-CULTURALE Presupposti: 1 _________________________________________________________________________________________________ 2 __________________________________________________________________________________________________ Componenti dei Vangeli: 1 __________________________________________________________________________________________________________ 2 __________________________________________________________________________________________________________ 3 __________________________________________________________________________________________________________ Per quanto riguarda il Gesù storico egli fu sicuramente influenzato dalla cultura ebraico-ellenistica e da due movimenti presenti in Palestina in quel periodo, ovvero gli Esseni e gli Zeloti. Probabilmente Gesù appartenne inizialmente alla setta degli Esseni, una comunità filosofico-religiosa che praticava la vita in comune all’interno di strutture rigidamente gerarchiche. Essi erano in forte opposizione alla religione ufficiale: erano convinti che i tempi della salvezza annunciata dai Profeti IL GESÙ STORICO I movimenti di riferimento: A gli ______________________________ - vita comunitaria + rigide _____________ - opposizione ______________________ 14 fossero imminenti e si preparavano all’instaurazione del regno di Dio attraverso rinunce, astinenza e riti, quali il battesimo o il pasto in comune. In questo erano molto simili alle comunità filosofico-religiose presenti un po’ in tutto il mondo ellenistico. Una testimonianza del legame fra gli Esseni e Gesù è riscontrabile nei Vangeli, ad esempio, nella figura di Giovanni Battista e nell’importanza dell’Ultima Cena. Gli Zeloti, invece, erano un movimento politico di resistenza alla conquista della Palestina da parte dei Romani, essi lottavano contro le famiglie ebraiche che appoggiavano i Romani; nei Vangeli la loro presenza è richiamata dall’apostolo Simone lo Zelota. L’ambiente a cui Gesù appartiene è caratterizzato perciò da fermenti religiosi e politici, simili a quelli presenti in ambiente ellenistico. Il contenuto teologico non è prevalente all’interno della predicazione di Gesù. Egli si richiama alla tradizione ebraica, e identifica Dio come il padre dell’umanità, centrale è invece l’invito alla conversione, ovvero a un cambiamento della propria vita interiore e delle proprie relazioni con gli altri, solo essa può garantire all’uomo la salvezza. Per questo contenuto la predicazione di Gesù è simile alle proposte delle religioni salvifiche, ma si distingue da esse perché la conversione e quindi la salvezza vengono promesse indistintamente a tutti gli uomini, mentre, per le altre religioni di salvezza questa promessa era circoscritta al gruppo degli adepti. Il messaggio di Gesù non era nemmeno di attesa e speranza come quello della religione ebraica, poiché proponeva la testimonianza e l’impegno immediato. Infatti la religione ebraica comportava l’attesa della venuta del regno di Dio sulla terra, mentre per la prospettiva di Gesù il regno di Dio è già giunto e bisogna testimoniarlo. Inoltre, mentre per gli Ebrei era fondamentale il rispetto dei codici comportamentali e rituali, per Gesù l’atteggiamento religioso è innanzitutto interiore, caratterizzato dalla fede, cioè dal completo abbandono alla volontà di Dio. Gesù tende perciò a sostituire il binomio religione-rispetto delle regole e dei codici con un atteggiamento religioso che diventa lo stimolo per rinnovare il proprio rapporto con gli altri, infatti l’amore per Dio ha come conseguenza l’amore per gli altri uomini. È in questo quadro che si inserisce la polemica singolarmente dura di Gesù contro i sacerdoti e i farisei (un potente gruppo di osservanti assai rigidi e ortodossi), accusati di superbia, di sopravalutazione della dottrina sapienzale e delle pratiche rituali, e soprattutto di disprezzo erroneo e biasimevole nei confronti di quanti sono fuori dall'orizzonte della credenza e della legge. Non poche parabole sono dedicate a mostrare come spesso sono proprio i “poveri di spirito”, o gli stranieri, o i paria della società a manifestare significative doti spirituali. Così, ad esempio, la parabola del buon samaritano mostra che un modesto membro di questa popolazione, tradizionalmente assai disprezzata, è capace di un gesto di carità di contro alla colpevole indifferenza degli stessi sacerdoti. Su questi temi Gesù si scontrò con la classe sacerdotale e con i Farisei, il gruppo più rigidamente ortodosso. La predicazione di Gesù è infine caratterizzata da un contenuto etico-sociale, rispecchiato da alcuni principi non comunemente condivisi. Fra questi, la negatività della forza e della potenza in se stessa e della ricchezza e il richiamo alla fratellanza universale estesa anche ai nemici. Unite allo spirito di comprensione nei confronti dei peccatori, all’affermazione per molti sconcertante che ogni uomo è in verità peccatore (“chi è senza peccato scagli la prima pietra” ) e al principio che la misericordia di Dio può sovvertire la giustizia umana, queste tesi non potevano non apparire paradossali e - tempi della salvezza ________________ La presenza nei Vangeli: 1 _________________________________ 2 _________________________________ B – gli ____________________________ movimento _____________ anti - _______ La presenza nei Vangeli:_______________ ________________________ I TEMI DELLA PREDICAZIONE DI __________: 15 scandalose. Per questo Gesù venne guardato con avversione e odio crescente dai responsabili della morale corrente e della religione tradizionale. Non può sorprendere che, da ultimo, l'intreccio di complesse ragioni religiose e politiche arrivò a provocare il processo, la condanna e la crocifissione del predicatore di Nazareth. I TEMI DELLA PREDICAZIONE DI ____________: 1- Dio = __________________________ 2 – conversione come cambiamento ________________________________ e nelle ______________________________________ 3 - _______________________________________________________________________________________________________ 4 – dall’________________________________ (religione ebraica) alla _________________________________________________ 5 – dal ___________________________________________ (religione ebraica) alla __________________________: amore per Dio (fede) + ______________________________________________________ 6 - polemica contro ________________________________________________________________________________________ 7 - _________________________________________________________________________________________________________ PAOLO DI TARSO Paolo di Tarso ebbe un ruolo forse maggiore della predicazione di Gesù per la formazione del cristianesimo, infatti la sua predicazione ha influito sulla stessa stesura dei Vangeli (le cui fonti sono in parte anteriori, ma la cui redazione è posteriore alla predicazione paolina e risente in larga misura della sua teologia) e ha contribuito alla trasformazione del cristianesimo da fenomeno ebraico a fenomeno ellenico. Dopo la morte di Gesù attorno agli apostoli si era formata una comunità di fedeli che attendeva il ritorno di Gesù. Questa comunità si differenziava dalla religione tradizionale solo per la convinzione che Gesù fosse il Messia. Essi conducevano una vita ascetica in attesa del ritorno di Gesù e del regno di Dio, frequentavano le sinagoghe e si riunivano in case private per un pasto comune in ricordo dell’Ultima Cena. L’antico testamento rimaneva il libro considerato sacro, anche se venivano redatte le prime relazioni della morte e risurrezione di Gesù e le raccolte delle sue parole. Nacquero ben presto due tendenze: la più conservatrice proponeva un cristianesimo ebraizzante, in quanto voleva mantenersi in tutto fedele alla tradizioni ebraiche, essendo ostile a qualsiasi innovazione ed era capeggiata dall’apostolo Giacomo e quella del cristianesimo ellenizzante, in quanto voleva, invece, aprire la nuova comunità religiosa al mondo ellenico, essa faceva riferimento soprattutto a Stefano. Stefano predicava nelle sinagoghe dei giudei ellenisti ed era per questo accusato di scarsa fedeltà alle tradizioni. Le prime persecuzioni colpiranno soprattutto i cristiani “ellenisti” che abbandonarono Gerusalemme, fondando delle comunità in Asia Minore. Una di queste comunità fu frequentata da Paolo dopo la sua conversione. La sua attività si concentrò nella predicazione ai pagani, estendendo il messaggio di Gesù ai non ebrei. Ciò provocò l’ostilità della comunità di Gerusalemme, e quando Paolo vi si recò, non riuscì a trovare con essa un accordo. Egli iniziò quindi i suoi viaggi, predicando nell’intero mondo ellenistico. Nel 66 d.C. la comunità cristiana di Gerusalemme venne perseguitata e dispersa ad opera dei Romani. Ciò coincise con il prevalere del Cristianesimo ellenizzante. È soprattutto sul piano della novità teologica che il contributo di Paolo al cristianesimo risulta decisivo. L’insegnamento di Gesù, quale ce lo propongono i IL RUOLO DI PAOLO (vedi schema successivo) Le prime comunità __________________: cristianesimo _______________________ e cristianesimo _____________________ Le prime ___________________________ e la diffusione del cristianesimo ellenizzante in _______________________ Paolo e i tentativi di __________________ Paolo e la predicazione nel mondo ______________________________ La dispersione della comunità ebraizzante di _____________________________ Il ruolo di Paolo 16 Vangeli, non si discosta molto dal solco della tradizione ebraica, in particolare di quella profetica e apocalittica, che proclama l'avvento imminente di un regno messianico: regno di pace e di giustizia, di cui Dio stesso è il sovrano. Le novità maggiori del messaggio di Gesù sembrano riguardare più la morale che la teologia: carità e fratellanza universali, riscatto dei poveri e degli umili, abnegazione alla volontà di Dio, concepito come un padre misericordioso e sollecito alle nostre preghiere. Gli stessi Vangeli non forniscono indicazioni univoche sul problema cruciale della coscienza messianica del Gesù storico: di quale ruolo cioè egli assegnasse a se stesso nella storia della salvezza. Solo gradualmente, dopo la morte di Gesù, si sviluppa all'interno della primitiva comunità cristiana la fede nella sua divinità, confermata dalle testimonianze dei discepoli sulla risurrezione, e nel valore redentivo della sua morte in croce. Questa trasfigurazione del Gesù storico nel Cristo (in greco: l’unto) ha appunto Paolo per protagonista. A Paolo di Tarso si deve la prima interpretazione teologica della figura e del messaggio di Gesù. Questa interpretazione è strettamente legata alla sua cultura. Egli era romano di nascita, ma ebreo di religione. Ciò gli consentì di elaborare gli spunti provenienti dalla tradizione ebraica del messaggio di Gesù alla luce dei concetti tipicamente ellenistici, in particolare provenienti dallo stoicismo. In questa veste egli è il più adatto a ripensare il nucleo primitivo della fede cristiana, traducendola in forme culturali accettabili anche dai pagani. Inoltre, come egli stesso afferma nelle proprie lettere, questo processo di reinterpretazione teologica della figura storica di Cristo è stata in un certo senso facilitata dal non aver conosciuto personalmente il Gesù storico, in questo modo l’umanità di Gesù, che impediva a molti di quanti lo avevano conosciuto di persona il pieno riconoscimento della sua divinità, non costituiva per lui un ostacolo. IL RUOLO DI PAOLO NELLA FORMAZIONE DEL CRISTIANESIMO 1 - ______________________________________________________________________________________________________ 2 – ha trasformato il cristianesimo da fenomeno _______________ in un fenomeno __________________________ 3 – ha dato la prima interpretazione _____________________________ del messaggio e della figura di _____________________ I motivi del ruolo di Paolo: 1 - ______________________________________________________________________________________________________ 2 - ______________________________________________________________________________________________________ I concetti che Paolo utilizza per questa interpretazione teologica della figura di LA Gesù sono incentrati più che sulla predicazione di Gesù sul significato della sua morte. Tra questi concetti vi è quello della sofferenza vicaria che costituirà la prima giustificazione teologica alla morte di Gesù: accettando la sofferenza e la morte di un innocente, appunto Gesù, in espiazione dei peccati degli uomini, Dio ha istituito un nuovo patto con l’umanità, chiamata ora a una salvezza più universale di quella promessa nell’antico patto, stipulato con il popolo ebreo. Nella riflessione paolina l’elemento essenziale della nuova religione è costituito, dunque, non già dalla predicazione di Gesù, ma proprio dalla sua morte: Gesù è venuto nel mondo non per predicare, ma per morire. Accanto a questo concetto svolge un ruolo fondamentale quello di peccato originale. La teologia di Paolo è infatti costruita su questo schema fondamentale: l‘uomo è intimamente e originalmente peccatore (“in Adamo tutti hanno peccato”); la morte di Cristo era necessaria per riscattare il peccato TEOLOGIA POALINA 17 originale e per dare all’uomo una vita rinnovata; in, questo senso Gesù Cristo è il salvatore, anzi il redentore, che ha pagato col sangue per l’umanità intera. Il riferimento all’intera umanità è da sottolineare in modo particolare. La dottrina paolina fa infatti uscire la neonata religione dal ristretto ambito del giudaismo e la proietta così in una dimensione universale ripudiando esplicitamente la logica del “popolo eletto”. Se il peccato originale ha segnato definitivamente la natura dell’uomo, rendendolo peccatore, la grazia e la fede sono complementari al peccato originale. Se l’uomo è peccatore la sua salvezza non può essere opera sua e viene quindi a dipendere dall’azione divina tramite l’opera della Grazia di Dio, che opera in lui una conversione, donandogli la fede. L’iniziativa della salvezza è dunque di Dio, è un suo dono gratuito, un dono di fronte al quale è vano (e presuntuoso) chiedersi perché uno abbia fede ed un altro no, perché uno sia giustificato ed un altro condannato. Sulla natura del peccato, sul rapporto tra fede e grazia e quindi tra libertà e predestinazione divina si incentrerà tutta la posteriore riflessione cristiana da Agostino d’Ippona, il più notevole tra i primi pensatori cristiani, a Lutero, le cui divergenze su queste tematiche furono all’origine, dal punto di vista teologico, della Riforma protestante, a Pascal (XVII sec.) e Kierkegaard (XIX sec.), tra i filosofi che maggiormente hanno contributo alla formazione della sensibilità religiosa contemporanea. A esercitare una profonda influenza sul cristianesimo vi è, infine, la concezione antropologica di Paolo. Tale concezione è profondamente dualistica in quanto distingue nell’uomo due entità che Paolo chiama: l’uomo carnale e l’uomo LA TEOLOGIA POALINA L’interpretazione di Paolo è incentrata non sulla ____________________ ma sulla ____________ di Gesù 1 - ____________________________________: giustificazione teologica della __________________________ morte di un _________________________ in _________________ dei peccati di __________________ costituzione di un nuovo ___________ tra ______________________________ 2 - _______________________________________________________ l’uomo ________________________ può essere salvato dalla ______________ di Cristo 3 - ________________________________________________________ L’uomo non può salvarsi per __________________ deve essere salvato dalla _______________ che gli dona _______________________ 4 - _________________________________________________________ contrapposizione tra ____________________________ e _____________________________ spirituale. L’uomo carnale è l’uomo vecchio, non ancora convertito dalla Grazia di Dio, il cui prototipo è costituito da Adamo. L’uomo spirituale è invece, l’uomo nuovo in cui vive Dio e Gesù è il suo prototipo. Tale contrapposizione tra carne e spirito era tipica di quelle componenti della tradizione greco-romana che in qualche modo si rifaceva a Socrate e a Platone, sotto forma di contrapposizione tra anima e corpo. Essa era comunque presente nell’intera cultura greco-romana sotto forma della contrapposizione tra ragione e 18 istinto. IL VANGELO DI GIOVANNI I Vangeli di Marco, Matteo e Luca sono detti sinottici, perché contengono più o I Vangeli ___________________________ meno lo stesso materiale, ovvero sono testimonianze di fede simili. Essi sono comunque diversi, in quanto elaborati da e per comunità diverse. I titoli ____________________________ Queste differenze emergono, ad esempio, nei titoli cristologici, ovvero negli appellativi con cui è indicato Gesù. Luca, che scrive per i romani, chiama Gesù Signore, titolo che questo popolo attribuiva al sovrano ed era in questo contesto comprensibile per i suoi lettori, invece Matteo, che scrive per i cristiani della Palestina che erano di origine ebrea per cui tale titolo non significava nulla, Il Vangelo di Giovanni chiama Gesù Messia e figlio di Davide. Il Vangelo di Giovanni si distacca dagli altri, in quanto l’evangelista cerca di dare una maggiore interpretazione teologica al messaggio di Gesù. In effetti, mentre i Vangeli sinottici furono redatti fra il 65 e il 70 d.C., quello di Giovanni fu scritto verso la fine del I sec d. C., ed è perciò già molto influenzato dall’interpretazione teologica di Paolo da Tarso. L’apostolo ed evangelista Giovanni è l’unico a sostenere esplicitamente la divinità di Gesù; infatti, all’inizio del suo vangelo egli afferma che Cristo è il verbo, il Logos, e il Logos è Dio, mentre negli ultimi capitoli l’evangelista mette in bocca all’apostolo Tommaso le parole “mio Dio” rivolte a Gesù risorto. La figura di Gesù viene interpretata attraverso un massiccio ricorso ai concetti elaborati dalla cultura greco-romana. Così il già citato concetto di logos (ragione, parola, verbo) per cui Gesù rappresenta la parola di Dio. Inoltre è il Vangelo di Giovanni a introdurre il concetto di vita eterna che sostituisce il biblico regno di Dio che era pensato come un regno terreno. A tale concetto Giovanni oppone quello, di chiara derivazione platonica, di regno di Dio come sede della vita eterna dell’anima. Di derivazione platonica è anche l’assimilazione di Gesù alla “Luce”. Come per Platone il mondo delle idee è collegato alla luce (vedi mito della caverna) così, per Giovanni, Gesù rappresenta la vera Luce e proprio nel riconoscerlo si ottiene la vita eterna. IL VANGELO DI GIOVANNI 1 è l’unico a _______________________________________________________________________________________________ 2 interpreta la figura di Gesù ricorrendo a ____________________________ quali: a ___________________ che è per Giovanni _________________________________ b ___________________ che sostituisce per Giovanni ______________________________________________________ c _________________________________________________________________________________________________ LA PATRISTICA Durante il periodo, indicato dagli storici della filosofia come Patristica, vennero La definizione dei ____________________ definiti i testi sacri e i principali dogmi Entrambe queste funzioni furono svolte dai concili ecumenici, il primo dei quali e dei ____________________________ fu quello di Nicea del 325 d.C. (l’ultimo è costituito dal Concilio Vaticano II dei primi anni ’60 del secolo scorso). Sia l’opera di stesura dei testi sacri che la definizione delle dottrine ritenute __________________ e scarti autentiche sono risultati un’opera di scelta all’interno di un gruppo di testi e dottrine più vasto; le gerarchie sacerdotali, quindi, imposero un’unica interpretazione ufficiale, scartando tutte le altre interpretazioni. Tra i dogmi che vennero accettati dalla Chiesa Romana vi sono quelli della 19 Trinità, ovvero la contemporanea presenza nella divinità di tre persone, il peccato originale come colpa dell’intera umanità, la natura divina di Cristo, che non è stato creato da Dio, come affermava invece l’arianesimo 5 che venne condannato. Il “Credo”, preghiera recitata durante la celebrazione eucaristica, riassume i principali dogmi accettati dalla Chiesa Romana. Altre Chiese, come quella Ortodossa, definirono diversamente i propri dogmi e in questo sta la ragione del contrasto tra le diverse chiese cristiane. I Concili scelsero, quindi, le teorie ritenute corrette all’interno di una moltitudine di teorie che divennero eterodosse, cioè non vere. Dopo che il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’Impero Romano, le dispute filosoficoreligiose assunsero una valenza politica, testimoniata ad esempio, dall’interferenza degli imperatori nei concili (Costantino pur non essendo battezzato fu chiamato a presiedere il primo concilio, quello di Nicea). A questo dibattito diedero un contributo fondamentale i primi pensatori cristiani, i “Padri” a cui la Chiesa riconosce una particolare autorità. I padri della Chiesa Romana sono Ambrogio,Girolamo,Agostino e Gregorio Magno. La riflessione degli intellettuali cristiani sorse in polemica con gli scrittori pagani e lo gnosticismo6 e si ricollegò alla tradizione filosofica precedente in due modi. Il cristianesimo venne presentato come l’espressione compiuta e definitiva della verità che la filosofia greca aveva raggiunto in modo parziale. Questa continuità veniva giustificata ricorrendo all’unità della ragione che Dio ha dato identica a tutti gli uomini e alla quale la rivelazione ha dato un fondamento sicuro. Il fatto che fede e ragione fossero del tutto conciliabile è, per gli scrittori della Patristica, un dato scontato, infatti la fede illumina la ragione, poiché senza di essa la ragione non può ancorarsi a niente di sicuro (vedi Agostino d’Ippona). I filosofi cristiani, inoltre, utilizzarono concetti della filosofia pagana per elaborare le proprio posizioni. Gli autori a cui più frequentemente essi attinsero furono: Platone, gli Stoici, e Plotino e in genere il neoplatonismo. Qualsiasi religione rivelata comporta l’accettazione di un insieme di credenze ritenute non il frutto di una ricerca razionale, ma di una rivelazione diretta della divinità, e, proprio per questo, accolte e ritenute indubitabili. La ricerca razionale, in questo contesto, non deve raggiungere la verità, ma diventa una via attraverso la quale comprendere il messaggio rivelato e far diventare la rivelazione norma per la propria vita. Diventano quindi rilevanti due problemi: il problema della conoscenza, cioè della via per comprendere la verità, e quello di come comportarci per raggiungere la felicità eterna Questi due problemi erano condivisi anche dalla filosofia ellenistica, la filosofia, infatti, era intesa come la ricerca della felicità individuale, raggiungibile adottando una regola di vita (vedi Epicuro e gli stoici). I primi filosofi cristiani, oltre a trovare il campo delimitato dalla rivelazione, dovettero muoversi all’interno di una struttura, la Chiesa, che mirava a fissare in modo collettivo le dottrine che meglio esprimono il significato della rivelazione. Gli intellettuali erano quindi posti di fronte a due limiti: il contenuto della rivelazione e l’autorità della Chiesa LE CARATTERISTICHE DEL DIBATTITO: 1 la formazione delle ______________ 2 la distinzione tra ortodossia e _______________________________ 3 la valenza _____________________ 4 il contributo dei _________________ LA CONTINUITÀ TRA FILOSOFIA ______ _______ E FILOSOFIA _____________: a – la filosofia cristiana presentata come ________________________ b – l’utilizzo dei concetti di _________ _____, ____________, ____________ RICERCA FILOSOFICA E RELIGIONI ________________________ 5 L’arianesimo è stato un movimento eretico (quindi portatore di tesi che vennero rifiutate dai concili della chiesa) dell’antichità che prende il nome dal suo fondatore il prete Ario (256-336) 6 Gnostici sono coloro che credono che sia possibile una conoscenza completa della divinità, senza ricorrere alla rivelazione, quindi con la sola ragione. Il termine agnostico indica, invece, chi ritiene che non sia possibile conoscere nulla di Dio, né dimostrare la sua esistenza o la sua non esistenza. 20 RICERCA FILOSOFICA E RELIGIONI ________________________ Limiti della ricerca razionale: 1 - Religione _________________ = verità già __________________________________ Ricerca razionale = _______________________________________________________ _______________________________________________________ 2 – struttura ecclesiastica fissa in modo _______________________ il significato della rivelazione Agostino è una delle figure decisive per lo sviluppo del pensiero occidentale, uno degli autori che più hanno contribuito all'incontro tra la filosofia greca e la religione cristiana, determinando così la transizione dall'età antica a quella medievale e delineando il quadro all’interno del quale, almeno fino al XIII secolo, si mosse la filosofia cristiana. Quadro che Agostino ha costruito in gran parte riprendendo tematiche platoniche e neoplatoniche. Da questi autori Agostino trae innanzitutto un percorso della ricerca della verità che si rivolge non all’esterno, ma all’interno, in cui l’anima, nella luce di Dio, ritrova in se stessa sé e Dio: “accolsi il consiglio dì tornare in me stesso e con la tua guida entrai nel mio mondo interiore”. È il tema della valorizzazione dell'interiorità che costituisce il nodo nevralgico della vita e del pensiero di Agostino. L’essenziale del programma e del metodo di ricerca agostiniano è delineato dallo stesso in questo modo: ”Dio e l'anima: questo desidero conoscere. Nulla più? - Assolutamente nulla”. In questa dichiarazione vi è, in primo luogo, l’esclusione della conoscenza del mondo esterno dalla direttrice principale della ricerca: essa sarà tutt’al più una tappa di un percorso che conduce alla vera scienza dell’anima e di Dio. In secondo luogo, vi è posta la coincidenza, dal punto di vista metodologico, tra conoscenza di sé e conoscenza di Dio: solo a partire da sé , nella tradizione che parte da Socrate, l’uomo può giungere alla verità, a Dio. L'anima è il luogo dell'incontro con la verità: “Non andare fuori di te, ritorna in te stesso . La verità dimora nell’uomo interiore. E se scoprirai che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando trascendi te stesso, tu trascendi l’anima razionale. Tendi pertanto là donde s’accende il lume stesso della ragione”. In questo modo Agostino fa dell’anima, che per Socrate, che possiamo considerare lo scopritore dell’anima, era essenzialmente il centro della personalità dell’uomo e che era diventata nella riflessione platonica un’entità immortale il cui destino eterno si compiva nel mondo delle idee, il luogo privilegiato dell’incontro tra Dio e l’uomo. In questo modo si compie la cristianizzazione del concetto di anima ereditato dalla cultura greca. AGOSTINO D’IPPONA L’incontro tra filosofia __________ (neo ____________) e religione ____________ LA VALORIZZAZIONE ______________________________ Obiettivi della conoscenza _________ e ________________________ per cui: a – svalutazione ____________________ _________________________________ b – l’uomo incontra Dio nella _________ __________________________________ LA STORIA DELL’ANIMA DA SOCRATE A PLATONE LA STORIA DELL’ANIMA DA SOCRATE A PLATONE Socrate anima = ____________________________________________________________________________________ Platone anima = ____________________________________________________________________________________ Agostino anima = ___________________________________________________________________________________ Per la storia dell’anima vedi anche “ 6 - I problemi della filosofia: la concezione dell’uomo. Platone e l’idealismo antico”, pag. 17-18 Soltanto una riflessione assidua e sincera sulla propria esperienza interiore, che 21 non ne occulti gli aspetti problematici e inquietanti, può, dunque, dischiuderci secondo Agostino la via d'accesso alla verità: «in interiore homine habitat veritas», è una delle sue affermazioni più conosciute, in effetti una sorta di enunciazione programmatica della sua filosofia. Parte di questo cammino interiore ed esistenziale compiuto dallo stesso Agostino ci viene da lui raccontato nelle “Confessioni”, un'opera autobiografica di grande penetrazione psicologica nella quale ci racconta la sua vita fino alla conversione al cristianesimo. Agostino in esse rivela che mai avrebbe pensato di farsi cristiano. Formatosi nello studio dei classici latini, egli era troppo "snob", diremmo oggi, per accogliere in sé il messaggio di salvezza della Bibbia, un messaggio espresso con un linguaggio a cui sono estranee sia preoccupazioni di rigore concettuale sia ambizioni di eleganza stilistica: “Rivolsi la mia attenzione alle sacre scritture, per vedere come fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io non ero capace di superare l'ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei sentimenti, allorché li affrontai, non furono quali ora che parlo. Ebbi piuttosto l'impressione di un'opera indegna del paragone con la maestà [degli scritti di Cicerone]. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non penetrava i suoi recessi. Quell'opera invece è fatta per crescere con i piccoli; ma io disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande.” (Confessioni) Sarà invece proprio la conversione al cristianesimo a fornirgli l'impulso esistenziale e gli strumenti concettuali per porre sotto una nuova luce e risolvere in maniera originale quei problemi che fin da giovane l'avevano assillato, come quello relativo alla causa e al significato della presenza del male nel mondo. Come Agostino stesso ci racconta, l'interesse per la filosofia fu suscitato in lui, all'età di diciannove anni, dalla lettura dell'Hortensius di Cicerone, e fu inizialmente sostenuto dalla fiducia, tipicamente ellenistica, che la ragione e una condotta di vita disciplinata possano consentire all'uomo di affrontare e superare le circostanze avverse della vita. In questa prima fase del suo pensiero Agostino trova dunque nella filosofia quella saggezza che può soddisfare l'esigenza di dare senso alla nostra vita in un mondo che ci sembra ostile o indifferente. Ed è appunto in questa prospettiva ch'egli s'impegna ad inquadrare razionalmente il problema del male, inteso non solo come male esteriore, presente nel mondo che ci circonda, ma anche come esperienza interiore: la sua personale esperienza di una vita, prima della conversione, percepita come priva di senso, legata alla dimensione effimera del mondo materiale. Con l'obiettivo di affrontare il problema del male, Agostino aderisce dapprima alla setta gnostica dei manichei, i quali proponevano una spiegazione dell'origine del male con forti connotati mitologici. Secondo questa setta vi sono due principi cosmici ed eterni, il bene e il male, la luce e le tenebre, che sono perennemente in lotta tra loro. L'anima dell'uomo è una particella di luce intrappolata dentro le tenebre della materia. Attraverso la presa di coscienza di tale situazione e una vita improntata all'ascetismo, l'uomo può sperare però di liberarsi dalla prigione del corpo e di ricongiungersi al bene cosmico. Dopo avere frequentato per nove anni la setta manichea, Agostino se ne allontanò, trovando la cosmologia manichea priva di argomenti razionali e più vicina alla mitologia. Quando, in anni successivi, Agostino, ormai convertito, scriverà contro i manichei, emergeranno motivi di contrasto più profondi: in primo luogo, il concepire un principio del male coeterno a quello del bene è inconciliabile con la fede cristiana nell'esistenza di un unico Dio; in secondo luogo, poiché, per i manichei, l'anima dell'uomo è una particella del principio cosmico del bene, la differenza fra uomo e Dio viene annullata; infine, se il male deriva dalla materia, l'anima dell'uomo, imprigionata nel corpo, non può LE CONFESSIONI: il cammino interiore di _______________: 1 b – il primo incontro con _____________ 1 a – l’interresse per _________________ La ___________________ per guidare la nostra vita Il problema del _____________ 2 – l’adesione al __________________ 3 – ______________ dal manicheismo 22 essere ritenuta responsabile del male che compie. Il distacco dalle tesi manichee finisce col suscitare in Agostino una profonda sfiducia nei confronti della capacità della ragione umana di pervenire a un qualche genere di conoscenza certa: alla vigilia della sua partenza per andare a insegnare in Italia, fa propria la tesi scettica secondo cui all'uomo è concesso formulare esclusivamente ipotesi verosimili. In Italia, a Milano nel 384-385, avviene la conversione di Agostino al cristianesimo ed è determinata dall'incontro con il pensiero neoplatonico e con il platonismo cristiano di Ambrogio7, che dava un'interpretazione allegorica delle sacre Scritture basata su una rilettura in chiave fortemente neoplatonica. Nel contempo, Agostino scopre negli scritti neoplatonici una concezione dell'Intelletto come mediatore (sul piano metafisico e su quello conoscitivo) fra l'Uno e il mondo della molteplicità, che presenta evidenti analogie con il ruolo assegnato al Verbo (Lògos) divino (cioè alla seconda persona della Trinità, ovvero Cristo) nel prologo del Vangelo di Giovanni, in cui esso viene descritto come il mezzo attraverso cui il Padre crea il mondo. Negli stessi mesi in cui matura la sua decisione di abbracciare il credo cristiano, allora, Agostino giunge a convincersi che l'insegnamento della Chiesa sia una sorta di versione semplificata del platonismo, più adatta alla mentalità poco filosofica della maggioranza degli uomini: l'ammirazione per Plotino e Porfirio8 si salda a quella per Ambrogio e per la fede predicata dal vescovo milanese, in maniera tale che il lungo cammino compiuto da Agostino si conclude con una duplice conversione, al cristianesimo e al neoplatonismo. I testi dei neoplatonici gli mostrarono la possibilità di concepire un livello di realtà non fisica e lo indussero quindi ad abbandonare una concezione ingenuamente materialistica. Le concezioni platonica e neoplatonica, infatti, pongono una divisione fra il mondo fisico, conoscibile attraverso i sensi, il mondo spirituale, conoscibile attraverso l'intelletto. Il neoplatonismo intende questi due livelli dell'essere come ordini di una realtà unica gerarchicamente organizzata. In questa concezione, un essere assoluto e indivisibile dà origine a tutte le cose frammentandosi progressivamente fino ai livelli inferiori della realtà, costituiti dalla molteplicità degli oggetti che cogliamo mediante i sensi. Così Agostino giunge a concepire Dio come l'essere stesso, sorgente e origine sia della realtà sensibile, transitoria e soggetta ai mutamenti del tempo, sia del mondo intelligibile, eterno e incorruttibile. Dal neoplatonismo Agostino trae spunto anche per prospettare una nuova soluzione del problema del male. Se tutto ciò che esiste proviene da Dio non è possibile che il male abbia nel mondo un' esistenza autonoma e contrapposta a quella del bene. Come per i neoplatonici, così anche per Agostino il male è quindi solo assenza del bene: la cecità, ad esempio, non va considerata come un'altra cosa rispetto alla vista, esistente autonomamente con proprietà opposte a quelle della vista, ma come l'assenza o il venir meno della proprietà che ci permettono di vedere. Nel mondo dunque, a rigore il male non esiste: tutte le cose, essendo state create da Dio, sono per natura buone sia pure a livelli diversi, e concorrono all'armonia del creato. Nella storia del mondo, il male irrompe - nella forma di una perversione della volontà umana . allorché essa, creata libera, si distoglie da Dio, rifiutandogli obbedienza e amore, come nel caso del peccato originale, e subisce l'attrazione esercita dalle «cose più basse», cioè dalla realtà sensibile. e l’accettazione dello ______________ 4 – il viaggio in ______________ e l’adesione al _____________________ e al ____________________________ dall’________ (neoplatonico) a Dio come ________________________ (vedi anche par. successivo) dall’Intelletto al ______________ come intermediario tra ___________ e ______________ La distinzione tra _________________ _____ e ________________________ Il problema del _______________ il _____________ come assenza del ______________ Il male nel mondo come ___________ _____________________________ 7 Ambrogio (339-397), uno dei Padri della chiesa romana, santo; divenne vescovo di Milano nel contesto delle lotte contro il movimento ariano. 8 Porfirio (233-305), uno dei discepoli di Plotino di cui curò la pubblicazione delle opere (vedi anche “Vita e opere di Plotino” (pag. 31) 23 L’ANIMA In accordo con i principi del neoplatonismo, Agostino considera l'essere umano un composto di anima e di corpo. Ma in quanto entità spirituale, l'anima è superiore al corpo ed ha una funzione di governo e di controllo sul corpo. In opLa divisione tra anima e ____________ posizione ai manichei, Agostino ritiene che l'anima sia immateriale, creata e mutevole, una caratteristica quest'ultima che la distingue dal suo creatore. Il Anima = ________________________ fatto che l'anima possa cambiare spiega perché essa si può volgere verso il bene o verso il male e quindi come la responsabilità della presenza del male nel __________________________ mondo sia da attribuirsi all'uomo e non a Dio. Agostino discute a lungo la questione dell'origine dell'anima. Riguardo a tale questione erano diffuse ai suoi tempi quattro concezioni dell'anima: 1) l'anima è L'ORIGINE DELL'ANIMA stata creata da Dio prima del corpo, ed è stata inviata da Dio ad amministrare un corpo; 2) l'anima è stata creata prima del corpo, ma si incarna in un corpo per propria scelta; 3) tutte le anime discendono da quella originaria di Adamo esattamente come avviene per i corpi (traducianesimo); 4) Dio crea ex novo un'anima per ciascun corpo (creazionismo). A seconda dell'ipotesi adottata, si avrà un'idea diversa della condizione umana. Secondo le prime due ipotesi le anime preesistono ai corpi, ma in entrambe la vicenda terrena dell'anima è una sorta di esilio voluto da Dio o scelto dall'anima stessa; nella terza e nella quarta, il corpo è una sorta di involucro a cui l'anima è, almeno per un certo periodo di tempo, naturalmente destinata. Le prime due ipotesi sono scartate da Agostino in quanto il concetto di preesistenza era tradizionalmente associato con l'idea della reincarnazione, e questo avrebbe aperto la possibilità logica che anche l'avere vissuto una vita retta non garantisse la salvezza eterna. L'ipotesi traducianista viene respinta da Agostino perché è associata al materialismo, come in Tertulliano 9, uno dei suoi più autorevoli sostenitori. L'ipotesi restante, il creazionismo, è tuttavia ben lontana dall'essere priva di problemi. Se le anime sono direttamente create da Dio, allora come si spiega in esse la presenza del peccato originale? Il problema è particolarmente acuto quando gli essere umani muoiono senza aver avuto la possibilità di riscattarsi, come ne caso dei L'ORIGINE DELL'ANIMA 1 - incarnata da ___________ in un corpo l'anima è stata creata da Dio __________ del corpo corpo = _________________ 2 - si incarna in un corpo per _______________ critiche di Agostino: preesistenza ___________________________________; vita giusta non ________________________________ 3 - tutte le anime come i __________________ discendono da quella originaria di Adamo (____________________________) critiche di Agostino: presuppone concezione __________________________ dell’anima 4 - Dio crea ______________ un'anima per ________________ (creazionismo). problema: ___________________________________________________________________________________________________ ANIMA E CORPO bambini morti prima del battesimo. Nella Città di Dio Agostino sembra propendere per una concezione secondo la quale le anime sarebbero create da l’anima come _______________________ Dio come l'anima di Adamo ed erediterebbero il peccato quando si individuano in un corpo determinato. Ma anche questa possibilità, se di una vera alternativa alla concezione creazionista si tratta, sembra non soddisfare i diversi ________________ dell’anima 9 Tertulliano (160-220) uno dei primi scrittori e polemisti cristiani sia nei confronti della cultura pagana che degli gnostici. Primo tra gli scrittori latini ad adottare il concetto di Trinità come “unica sostanza e tre persone”, entrò in polemica anche contro il lassismo della Chiesa. 24 Agostino il quale, verso la fine della sua vita, riconosce la difficoltà del problema appare riluttante ad adottare una soluzione. L’anima _________________ dell’uomo Rifacendosi alla tradizione greca, Agostino considera l'anima come il principio che distingue gli esseri viventi dalle cose non viventi: vivere significa possedere un'anima e morire comporta il distaccarsi dell'anima dal Il rapporto fra l'anima e il corpo e la corpo. Così non solo gli esseri umani ma tutti gli organismi viventi sopravvivenza dell'anima dopo la morte possiedono un'anima, benché, secondo uno schema non dissimile da quello platonico, vi siano diversi gradi dell'anima, ognuno dei quali presiede ad una specifica attività (nutritiva, riproduttiva, sensitiva ecc.). L'anima razionale dell'uomo è il grado più elevato. Benché largamente condivisa nel pensiero classico, tuttavia, questa concezione dell'anima lasciava spazio a opinioni notevolmente divergenti circa il rapporto fra l'anima e il corpo e la sopravvivenza dell'anima dopo la morte di questo. Il materialismo degli atomisti, il dualismo platonico e l'ilomorfismo 10 di Aristotele ne sono solo gli esempi più celebri. Per Agostino è però scontato che l'anima umana sia immateriale e immortale. Mentre nelle sacre scritture del cristianesimo la sopravvivenza dell'anima dopo la morte del corpo è chiaramente affermata, nulla è detto circa la sua natura. Come dimostra l'esempio di Tertulliano (uno dei primi scrittori cristiani), che riteneva l'anima materiale, la tesi dell'immaterialità dell'anima giunse quindi nel cristianesimo da una fonte diversa. E infatti l'insistenza di Agostino sull'immaterialità dell'anima è dovuta al neoplatonismo. Naturalmente, per Agostino, affermare l'immaterialità dell'anima equivale a sostenere anche la sua immortalità, dal momento che, secondo un celebre argomento di Platone, l'anima è immortale proprio in quanto è immateriale: solo ciò che è costituito di materia infatti può scomporsi e quindi perire. IL RAPPORTO FRA L ' ANIMA E IL CORPO E LA SOPRAVVIVENZA DELL ' ANIMA DOPO LA MORTE 1 ________________________________: anima materiale e _________________________ come il corpo (Democrito- Epicuro) 2 _______________________________: anima _________________ e immortale diversa dal _____________ (________________) 3 ilomorfismo: _____________________________________________________________________________ (________________) (vedi nota) Agostino: anima _____________________________ e ______________________________ ANIME E RAGIONE Anche per quanto concerne la struttura dell'anima Agostino è debitore alla tradizione greca. La ragione è la facoltà suprema dell'anima ed è caratteristica dell'uomo. Essa domina tutte le altre capacità e facoltà umane. La concezione agostiniana della ragione è tipicamente classica: la ragione è la capacità di svolgere deduzioni logiche. In questo senso è la ragione che distingue l'uomo dagli altri esseri viventi, i quali possono essere capaci di impegnarsi in attività finalizzate a raggiungere gli scopi necessari per la loro sopravvivenza, ma non sono in grado di effettuare ragionamenti astratti, come quelli logici o matematici. La ragione così concepita diviene il mezzo con il quale l'uomo giunge a conoscere verità eterne, non soggette a cambiamento come invece sono quelle relative agli oggetti che possono essere conosciuti con i sensi. Accedere a queste verità significa accedere alla natura stessa della realtà: per Agostino, come per molti pensatori greci, le verità di ragione esprimono la struttura profonda dell'essere, della realtà. Agostino ha ben chiaro, tuttavia, che non tutte le nostre conoscenze hanno una base razionale. Di fatto l'uomo possiede più credenze di quanto gli La struttura dell’__________________ la ragione come ______________ suprema la ragione come ciò che distingue ________ ________________________________ la ragione come mezzo per _____________ ___________________________________ verità di ragione = struttura della ________ conoscenze e _______________________ 10 Ilomorfismo (o ilemorfismo) individua la tesi per cui i fattori costitutivi di ogni corpo fisici sono individuabili nella forma e nella materia, vedendo nell’anima la forma del corpo. 25 sia possibile dimostrare con la ragione o verificare con i sensi. Per ciò che sappiamo della storia, per esempio, dobbiamo in parte fidarci della veridicità delle testimonianze. È in tal modo che Agostino imposta la questione del rapporto tra fede e ragione. Come nella nostra vita quotidiana ci affidiamo e utilizziamo credenze che non abbiamo mai verificato o non possiamo verificare (come per esempio la nostra data di nascita), così anche in materia di religione dobbiamo affidarci all'autorità delle testimonianze. Perché non credere ai testimoni dell'opera di Cristo e alla sua parola, quando nella stessa vita quotidiana utilizziamo credenze senza averle mai dimostrate? La ragione senza fede è disperazione, esperienza di sconfitta che uccide la speranza della verità. Abbandonata a se stessa, la ragione si avvolge in una rete inestricabile di contraddizioni, si sfianca in una lotta che non può che condurre allo scetticismo. Bisogna credere per sapere: la ragione ha bisogno del soccorso della fede. Da sola può attingere le verità parziali delle matematiche e delle scienze, ma non può ascendere al fondamento di tali verità, a Dio e non può farsi sapienza. Agostino, tuttavia, è ben lontano dal negare la funzione della ragione, o dal confinarla in un ruolo accessorio: il pensiero è proprio ciò che maggiormente apparenta l’uomo a Dio e rivela, nell’uomo, l’immagine di Dio. Fede e ragione, credere e sapere, stanno piuttosto in un rapporto di circolarità: da un lato, il credere è condizione del comprendere; anzi l’intelligenza è ricompensa della fede. Ma dall’altro, l’uomo crede in quanto pensa, senza pensiero non vi è fede. L'esercizio dell’intelligenza deve dunque accompagnare la fede: la fede cerca, l’intelligenza trova. L’ascesa a Dio, la conquista della verità e della beatitudine, è un processo in cui fede e ragione interagiscono continuamente, perché è un processo in cui ogni conquista pone una domanda. L’intelligenza, così, chiarifica e fortifica la fede. Così, di fronte alle Scritture, si può, comprenderne il significato solo se già vi si crede, dunque a partire dall’auctoritas della Chiesa, ma la comprensione piena della parola di Dio richiede che l’intelletto che interpreta, compia l'esplorazione razionale dei contenuti della fede. All’interno di questa impostazione dei rapporti tra fede e ragione Agostino assume due posizioni che saranno largamente condivise da tutto il medioevo. Innanzitutto la svalutazione dello studio della natura. La conoscenza fine a se stessa, la scienza concepita autonomamente, è vana curiosità; non solo non è vera sapienza, ma addirittura allontana da questa. Nell’atteggiamento che vuole conoscere il mondo per se stesso vi è orgoglio e avarizia, legame con le cose esterne dunque allontanamento da Dio. E perciò da respingere ogni attività intellettuale che non sia rivolta a Dio. La scienza è accettabile e legittima nella misura in cui è volta a fortificare la fede, finalizzata integralmente all'analisi della Rivelazione. Inoltre, Agostino giustifica il recupero selettivo (il “furto sacro”) operato dalla patristica greca nei confronti della cultura pagana: come gli ebrei hanno portato con sé l’oro e l’argento egiziani, così la cultura cristiana può utilizzare nel servizio della fede quanto della cultura pagana è compatibile con questa e a essa utile. Agostino non rinnega la filosofia, soprattutto quella platonica, e ne fa parte importante del programma di formazione dell’intellettuale cristiano. Ma resta chiaro che la vera filosofia è quella cristiana, la cui superiorità consiste in questo: la filosofia pagana ha fallito il suo scopo di condurre l’uomo alla felicità, ha indicato un obiettivo, ma non ha dato, né poteva dare, i mezzi per raggiungerlo. Il filosofo, anche il più vicino alla verità, come il platonico muo ve infatti dalla superbia, cioè dalla presunzione che l'uomo possa compiere la sua ascesa da solo, il cristiano invece fonda il suo, pensiero sull’umiltà; sulla consapevolezza che il vero bene, la vera beatitudine, non può venire dall’uomo ma è dono di Dio. In un contesto simile nasce anche la dottrina agostiniana dell'illuminazione, volta a spiegare con l’intervento divino la facoltà umana del conoscere. Ci IL RAPPORTO FEDE - ___________________ Verità e ________________________ La priorità della __________________ Credere per _____________________ Il ruolo della ragione: la fede ___________ l’intelligenza __________________ l’intelligenza fortifica la ______________ Due conseguenze: 1 – la conoscenza della natura come vana ________________________ 2 – il furto _______________________ La superbia del filosofo _______________ e l’umiltà del filosofo ________________ 26 sono alcune conoscenze che non possono essere acquisite né attraverso i sensi né attraverso la ragione. Si tratta delle regole che sono presupposte da ogni forma di conoscenza o di dimostrazione ma che non possono a loro volta essere dimostrate (p. es. i postulati, gli assiomi, i numeri, le regole del ragionamento, le regole morali assolute). Esse dunque sono note all'uomo soltanto perché le riceve da Dio, mediante, appunto, l'illuminazione divina. L'illuminazione sta alla capacità umana di conoscere e all'oggetto conosciuto come la luce sta all'occhio e all'oggetto visto: senza la luce non è possibile che l'occhio veda l'oggetto. L'illuminazione divina fa sì che la mente dell'uomo conosca direttamente, ovvero senza la mediazione del ragionamento, le verità eterne, cioè le verità non sensibili. Questa forma di conoscenza è nota nella storia della filosofia anche come intuizione intellettuale, locuzione che individua una conoscenza immediata (cioè priva di passaggi logici, come quando vediamo un oggetto) di oggetti non sensibili (cioè accessibili solo all'intelletto). La teoria dell’illuminazione, implicando un intervento diretto della divinità nei processi razionali dell’uomo, consente quindi ad Agostino di riformulare in termini cristianizzati il problema della conoscenza umana. L'illuminazione divina riguarda però solo le conoscenze naturali ed è quindi presente in tutti gli uomini, non solo nel teologo ma anche nel matematico ateo o nel contadino che misura il suo campo. Le verità di fede sono invece accessibili solo a chi riceve un'altra specie di intervento divino: la grazia. Ma la grazia, a differenza dell'illuminazione, secondo Agostino non è data a tutti gli uomini. La tradizione greca e quella cristiana hanno affrontato in modo diverso il problema di dirigere il comportamento dell’uomo verso il bene. La prima affida all'indagine razionale il compito di trovare la via per orientare l'uomo al bene, la seconda ritiene che senza l'aiuto divino l'uomo non possa distogliersi dal male. La storia personale e quella intellettuale di Agostino riflettono questa duplicità di atteggiamenti: la sua riflessione sui motivi che spingono l'uomo ad agire è sempre stata consapevole dell'influenza dei fattori non razionali e dei limiti di una spiegazione dell'agire che chiami in causa solo la capacità razionale di scegliere. La ragione non è solo un mezzo di conoscenza, ma può indurci ad optare per un'azione piuttosto che per un'altra. Tuttavia, i fattori non razionali (come i desideri), spesso prevalgono su ciò che la ragione ci dice che è bene fare. Via via che il pensiero teologico di Agostino si precisa, tanto più si rafforza il suo convincimento che la volontà umana priva del sostegno divino sia incapace di volgersi al bene. Nelle Confessioni egli ci racconta come, nonostante fossero venute meno le sue riserve intellettuali contro il cristianesimo, non riuscisse ancora a intraprendere il giusto cammino. “Non desideravo acquistare ormai una maggiore certezza di te [Dio], quanto piuttosto una maggiore stabilità in te. Sennonché dalla parte della mia vita terrena tutto vacillava, e bisognava ripulirmi il cuore dal fermento vecchio. La via, ossia la persona del Salvatore, mi piaceva, ma ancora mi spiaceva passare per le sue strettoie”. Agostino compie una graduale evoluzione dalla fiducia nella forza della ragione come guida per la condotta pratica alla sottolineatura della debolezza della volontà, incapace di determinare l'uomo verso obiettivi che pure sa essere giusti. Tale debolezza non è un fatto individuale e transitorio, ma è costitutiva della volontà umana, conseguente al peccato originale: «da questa volontà incompleta [...] nasceva la mia lotta con me stesso. [...] Non ero neppure io a provocarla, ma il peccato che abitava in me quale punizione di un peccato commesso in maggior libertà; poiché ero figlio di Adamo» (Confessioni, VIII, 10.22). La corruzione dell'anima e della volontà umana dovuta al peccato originale è tale che Agostino si persuade dell'impossibilità per l'uomo di raggiungere la salvezza senza la grazia divina. Con questa graduale evoluzione dalla fiducia nella forza della ragione come guida per il comportamento umano (tipica della cultura greca) alla sottolineatura della debolezza della volontà Agostino compie la cristianizzazione di un’altra L’ORIGINE DELLA ______________ UMANA: le conoscenze che non derivano né ______ ____________ né ____________________ L’intervento divino: __________________ _________________ divina conoscenze ________________________ _______________ verità di __________ ANIMA E COMPORTAMENTO UMANO I fattori non ____________________ nel comportamento umano La volontà umana ha bisogno _______________________________ Dalla fiducia nella ___________________ alla debolezza ______________________ a causa del _________________________ Agostino e la _______________________ delle problematiche della filosofia antica 27 problematica della filosofia antica, accanto a quelle già esaminate legate al concetto di anima e al problema della conoscenza. Tale posizione matura nella mente di Agostino durante la sua polemica con il pelagianesimo, il movimento ispirato dal monaco britannico Pelagio, il quale riteneva che l'uomo fosse in grado di salvarsi con le sole sue forze. La posizione di Pelagio si fonda sul principio che "dovere implica potere" e che quindi nessuno può essere ritenuto responsabile di azioni che non ha commesso o che non può evitare di commettere. Pelagio tendeva dunque a sostenere che le sole forze dell'uomo fossero sufficienti a superare l'ostacolo posto dal peccato originale sulla via della salvezza: se non possiamo superarlo, non possiamo esserne ritenuti responsabili. Agostino, invece, richiamandosi agli scritti di S. Paolo, pone l'intervento della grazia divina come condizione necessaria per la salvezza. L'effetto del peccato originale è così devastante che l'uomo non può non peccare. L'umanità è una massa dannata, nella quale Dio ha scelto una minoranza da condurre alla salvezza. I motivi per cui Dio ha scelto chi debba essere salvato e chi dannato sono imperscrutabili. A chi chiedesse perché Dio abbia scelto alcuni per la salvezza e altri per la dannazione, si risponderà con quanto aveva scritto S. Paolo nella Lettera ai Romani (9, 19): «o uomo, chi sei tu per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?" Forse che il vasaio non è il padrone dell'argilla per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?». Emerge dunque, in Agostino, l'idea della predestinazione, secondo la quale gli uomini sono predestinati ab aeterno alla salvezza o alla dannazione, senza che nessuna buona azione compiuta nella vita terrena possa mutare l'originario decreto divino. Proprio il dibattito su quest'idea provocherà, undici secoli più tardi, uno scisma, quello protestante, nel cuore di quella Chiesa che Agostino stesso aveva strenuamente difeso dalle eresie del suo tempo. Nella lotta contro le eresie Agostino stabilì per primo il principio del compelle intrare: un'interpretazione di un passo dei Vangeli che giustificava l'uso della forza per indurre gli eretici a convertirsi. Nella parabola del banchetto, Cristo aveva detto al servo del padrone di casa: «vai per le strade e costringili [coloro che si rifiutano di partecipare] a entrare [compelle intrare] affinché la mia casa sia piena» (Luca, 14, 23). L'interpretazione di Agostino ebbe gravi conseguenze. Ben presto divenne un principio legale del diritto ecclesiastico quello per cui «gli eretici devono essere costretti alla loro salvezza, anche contro la loro volontà» (Decretum Gratiani). Questo principio costituì dunque la giustificazione teorica dell'Inquisizione e della persecuzione degli eretici in età medievale e moderna. La dottrina della predestinazione deve essere affrontata sullo sfondo della discussione di un problema che già era noto al pensiero classico. Cicerone, per esempio, nel De Divinatione e nel De Fato, discute della questione se sia conciliabile l'onniscienza divina con il libero arbitrio. Agostino si sforza di mostrare la compatibilità fra prescienza e responsabilità, sostenendo che la prescienza non toglie nulla alla nostra libertà perché non ci determina ad agire in un modo piuttosto che in un altro: la previsione che una cosa accadrà, non è la causa che la fa accadere. I suoi sforzi, spesso oscuri nei dettagli, non hanno prodotto però una soluzione convincente, se ancora più di dodici secoli dopo la questione continuerà ad essere lungamente discussa nel quadro delle controversie legate alla diffusione del protestantesimo. La polemica con _____________________ Pelagio l’uomo può salvarsi __________ Agostino l’uomo si salva solo ________ __________________________________ La _______________________________ La lotta contro le _____________________ e il principio de ______________________ La compatibilità tra __________________ divina e ____________________________ umana 28 ELEMENTI NEOPLATONICI E DELLA CULTURA GRECA NELLA FILOSOFIA CRISTIANA DI AGOSTINO (vedi da pag. 21) 1 – il mondo interiore come luogo della ______________________________________________ 2 – Dio come ________________________ come l’Uno di _______________________________ 3 – il Verbo (Cristo) come _________________________ come __________________________ 4 - _______________________________________________________________________________________________________ 5 – il male come ____________________________________________________________________________________________ 6 - _______________________________________________________________________________________________________ 7 – l’anima come ___________________________________________________________________________________________ 8 – la ragione come _________________________________________________________________________________________ 9 – le verità della ragione costituiscono contemporaneamente la struttura ____________________________________________ A differenza della cultura greca per Agostino l’uomo ________________________________________________________________ LA STORIA La divisione dell'umanità in una massa dannata e in un gruppo di eletti è a fondamento della concezione agostiniana della storia. L'atteggiamento della cultura greco-romana nei confronti della storia tendeva a sottolineare la ciclicità degli eventi dell'umanità. Agostino elabora invece una concezione lineare, nella quale gli eventi sono considerati nella loro irripetibilità, . Tucidide e Plutarco 11, per esempio, raccontano la guerra del Peloponneso e la vita degli uomini illustri del passato come casi esemplari utilizzabili per comprendere epoche storiche diverse, piuttosto che come racconto di fatti particolari e irripetibili. La ricerca di modelli ripetibili degli eventi storici è motivata dall'esigenza di reperire nella storia dell'uomo elementi di regolarità. La ripetibilità degli eventi facilita infatti la comprensione della storia, analogamente a quanto avviene nella spiegazione dei fenomeni naturali. Le scritture giudaico-cristiane propongono invece una serie di fatti unici e storicamente irripetibili: dalla genesi, alla nascita di Cristo e al giudizio finale, il cristianesimo presenta una successione di fatti che sono avvenuti e possono avvenire una sola volta nella storia. Agostino ci presenta così una concezione della storia di tipo decisamente lineare: la storia è cominciata in un tempo e in un luogo dati e finirà in un tempo e in un luogo altrettanto determinati. La storia si salda così con l'escatologia, cioè con un'idea della fine e del destino ultimo dell'uomo e del mondo. In generale, per Agostino, la storia umana è la storia della vicenda terrena dell'umanità che nell'ambito di un tempo determinato, con un inizio e una fine, si svolge lontano dalla giustizia divina, in una sorta di esilio. A causa del peccato originale, l'umanità si è allontanata da Dio per divenire una massa destinata alla dannazione dopo il giudizio finale. Il piccolo numero di persone destinate ad essere salvate non hanno più meriti di quelle che saranno dannate: la grazia divina, unico mezzo di salvezza, è grazia proprio perché gratis data. La storia umana diviene così la storia di due comunità umane: la Città di Dio e la Città dell'uomo. La prima è composta da coloro che saranno salvati, la seconda dai dannati. Nella sua vita terrena nessuno può sapere se è stato scelto per la salvezza o abbandonato alla perdizione, neppure i membri della Dalla _____________________________ degli eventi (concezione _____________ cultura greca) all’____________________ degli eventi (concezione _______________ cultura cristiana) La storia ha ________________________ e una _______________: dal ___________ originale al ________________________ La separazione tra la _________________ e la ___________________________ 11 Tucidide (460-396) e Plutarco (50-119), sicuramente i due storici più rappresentativa della cultura antica. 29 Chiesa che pure è l'istituzione umana più vicina a Dio. La storia tende alla separazione finale delle due Città; dopo il giudizio finale le anime saranno riunite ai loro corpi risuscitati. I salvati godranno della visione di Dio, i dannati subiranno il tormento eterno del fuoco che brucerà i loro corpi senza consumarli. Anche per quanto riguarda il concetto di storia Agostino compie, come abbiamo già sottolineato per altri concetti e altre tematiche, un’importante opera di cristianizzazione, inserendolo all’interno del contesto di una mentalità religiosa destinata a diventare l’orizzonte culturale della filosofia fino al XVI secolo. All’interno del quadro teorico tracciato da Agostino, come già detto, si muoveranno tutti i pensatori cristiani fino al XIII quando, per opera di Tommaso d’Aquino, la teologia verrà ripensata all’interno di un nuovo quadro teorico, questa volta non più di ispirazione platonico, bensì aristotelico. Tommaso compirà dunque un’operazione simile a quella di Agostino però nei confronti delle opere di Aristotele, che nel frattempo era stato riscoperto dalla cultura europea grazie alle opere dei filosofi arabi . Inizialmente osteggiato dalle gerarchie ecclesiastiche l’aristotelismo finirà, con l’opera di Tommaso d’Aquino, per essere l’ispiratore di quella che è ancora oggi la visione teologica ufficiale della Chiesa cattolica (vedi l’intero capitolo su Agostino) La cristianizzazione del concetto di _____________ Da Agostino (_________________) a _____________________ (Aristotele) LE TEMATICHE CRISTIANIZZATE DA AGOSTINO 1 - ______________________________________________________2 - ___________________________________________________ 3 - ______________________________________________________4 - ___________________________________________________ 30 Vita e opere di Plotino Plotino nacque nel 205 d.C., con ogni probabilità in Egitto. Apprendiamo da Porfirio, suo biografo ed editore, che all'età di 28 anni divenne in Alessandria discepolo di Ammonio Sacca, presso il quale rimase undici anni. Nel 243, spinto dalla curiosità di conoscere le filosofie persiana e indiana, si unì alla spedizione in Oriente di Gordiano III; nell'anno successivo, dopo la morte dell'imperatore, si trasferì ad Antiochia, e quindi a Roma, dove stabilì la sua scuola e rimase per quasi tutta la vita. Morì nel 270 in Campania, dove si era ritirato durante la fase finale della sua malattia e dove pochi anni prima aveva progettato, confidando nell'appoggio dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina, di fondare una città di filosofi: «Platonopoli». Plotino cominciò a scrivere tardi, quasi cinquantenne, per non infrangere per primo il patto di non rivelare le dottrine del maestro Ammonio stretto con i condiscepoli Erennio ed Origene. I suoi scritti, ispirati ai seminari e alle discussioni che avevano luogo nella scuola e destinati a circolare principalmente tra i suoi allievi, furono pubblicati agli inizi del IV secolo da Porfirio, che li ordinò, non senza tagli e aggiustamenti forzosi, in sei libri ciascuno di nove trattati. Il titolo Enneadi significa appunto: «gruppi di nove». Vita e opere di Agostino Aurelio Agostino (354-430 d.C.) nacque a Tagaste nella provincia romana della Numidia, attualmente in Algeria. Studiò a Madaura e a Cartagine. A diciotto anni ebbe un figlio, Adeodato, che gli premorì nel 389. Insegnò retorica a Cartagine ma poi, scarsamente gratificato dall'insegnamento, partì per l'Italia, ove soggiornò a Roma e a Milano. A Milano incontrò il vescovo Ambrogio che lo influenzò profondamente e dal quale si fece battezzare nel 387. II breve periodo trascorso in Italia fu decisivo per lo sviluppo dei suo pensiero. L'allontanamento dal manicheismo e dallo scetticismo, dottrine alle quali aveva in precedenza aderito, l'incontro con Ambrogio e la lettura di alcuni sunti neoplatonici gli consentirono di approfondire l'interpretazione della Bibbia e di sviluppare un pensiero cristiano originale. Nel 389 tornò in Africa dove venne ordinato prima sacerdote e poi vescovo d'Ippona. Nell'ultima parte della sua vita, oltre ad un'intensa attività pastorale e di studioso, si dedicò a combattere le varie eresie da cui la chiesa cattolica era dilaniata, particolarmente quelle donatista12 e pelagiana. Benché lontano dai centri politicamente e culturalmente più importanti dell'impero, Agostino esercitò ancora in vita una vasta e autorevole influenza sulla cultura cristiana dell'epoca. Morì mentre Ippona era assediata dai Vandali. L'opera che ci ha lasciato è vastissima: all'incirca settecento titoli che comprendono libri, alcuni di grande mole, lettere e sermoni. Fra le sue opere più importanti ricordiamo: Contra academicos, De libero arbitrio, De magistro, De vera religione, Coefessiones, De trinitate, De civitate Dei, Retractationes. 12 Il donatismo è stato un movimento religioso fiorito in Africa settentrionale durante il IV secolo. Fondamento della dottrina donatista era costituto dal principio che la validità dei sacramenti dipenda dalla dignità di chi li amministra. Principio che spesso nei movimenti eretici anche successivi si saldava facilmente, poiché contestava la gerarchia sacerdotale, con fermenti di protesta sociale. 31 7 - AGOSTINO D’IPPONA - IL CONFLITTO DELLA VOLONTÀ E LA CONVERSIONE Nel libro VIII delle Confessioni Agostino narra la propria conversione (estate 386). Si tratta di un passaggio decisivo della sua ricerca e della sua biografia: il momento della svolta, in cui la peregrinatio animae assume il senso e la direzione dei ritorno a Dio. Il contesto narrativo nel quale si collocano le pagine che proponiamo alla lettura è il seguente. Le esperienze milanesi - i sermoni di Ambrogio, l'incontro con il neoplatonismo, la lettura di Paolo - hanno creato in Agostino le condizioni per il superamento della crisi scettica e per il riavvicinamento alla Chiesa. Ma egli è tuttora travagliato dall'incapacità di risolversi al passo decisivo: l'abbandono della "carne", del "secolo" (carriera, matrimonio), per aderire totalmente alla parola divina. Alla ricerca di una guida spirituale, Agostino si reca da Simpliciano, padre spirituale di Ambrogio (cui succederà come vescovo di Milano dal 397 al 400). Simpliciano si rallegra con Agostino per le sue letture dei "libri platonici" e gli racconta la conversione di Vittorino, illustre retore e filosofo, traduttore in latino di Plotino, che alla metà del secolo aveva abbracciato la fede cristiana «mentre Roma guardava stupefatta e la chiesa esultava». Poco tempo dopo, un altro racconto di conversione scuote profondamente Agostino. Viene in visita Ponticiano, un africano battezzato, che scorgendo sul tavolo del suo ospite le Lettere di Paolo, gli racconta un episodio al quale lui stesso aveva assistito: due funzionari imperiali, entrati per caso in una capanna di monaci, vi avevano trovato una biografia di sant'Antonio e avevano preso a leggerla. L'esempio del santo li infiammò a tal punto, che essi decisero immediatamente di dedicarsi alla vita ascetica, abbandonando ogni interesse mondano. Così, attraverso il libro, si dipana il filo provvidenziale che guida Agostino alla sua conversione. Questo il racconto di Ponticiano. Ma tu13, Signore, mentre parlava mi torcevi su me stesso, mi strappavi da dietro le mie spalle, dove m'ero rifugiato per non guardarmi in faccia, e mi denunciavi ai miei stessi occhi, perché lo vedessi, quant'ero brutto, torto e sordido, butterato e piagato. E io vedevo e ne provavo orrore, e non trovavo scampo da me stesso14. E se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, Ponticiano era sempre lì e parlava, parlava e tu di nuovo mi mettevi di fronte a me stesso e mi cacciavi sotto i miei occhi, perché scoprissi la mia malvagità e l'odiassi. La conoscevo: ma me la dissimulavo, ne reprimevo l'idea e ne rimuovevo il ricordo. Ma ora più ardente era l'amore che sentivo per i due protagonisti dell'esperienza di salvezza che avevo appena sentito narrare, e più intenso era l'odio che provavo per me confrontandomi a loro, che per la loro guarigione si erano totalmente affidati a te. Mentre molti anni della mia vita erano scivolati via con me - forse dodici - da quando a diciott'anni avevo letto l'Ortensio di Cicerone e ne ero stato risvegliato alla filosofia, e ancora non mi decidevo a liberarmi, a trovare il tempo per ricercare, nel disprezzo della felicità terrena la sapienza15, quando questa semplice ricerca - per non parlare della sua scoperta - già era da preferire alla 13 L'uso del vocativo è la cifra stilistica fondamentale delle Confessioni, che non sono solo rimemorazione di un'esperienza ma, appunto, "confessione" resa a un interlocutore all'interno di un apporto personale d'amore. Sul piano letterario, si tratta di una scelta completamente originale, che congiunge l'epistola (non però nella forma della lettera ammaestramento caratteristica della cultura ellenistico-romana) e la preghiera, il colloquio diretto con Dio. 14 II "guardarsi dentro e in faccia", che è la confessione, presuppone l'intervento di una forza soprannaturale e obbliga a prendere coscienza della propria miseria, cioè a quell'umiltà che il filosofo non sa maturare. In assenza di questi due elementi non può esservi, secondo Agostino, la memoria di sé che fonda l'autentica consapevolezza. 15 Tema caratteristico della filosofia ellenistica, che tuttavia, come si vedrà subito sotto, è trattato da Agostino in modo del tutto nuovo. 32 scoperta di tesori e regni, o di una marea di piaceri sensuali tutt'intorno crescente, a un solo cenno... Ma l'infelice ragazzo che ero, infelice già sulla soglia della giovinezza, te l'aveva pur chiesta la castità16. Sì: "Dammi la castità e la continenza, ma non subito", dicevo. Avevo paura che tu mi esaudissi troppo presto, e troppo presto mi guarissi dal male del desiderio, che preferivo vedere soddisfatto piuttosto che estinto. E andavo per le male vie 17 di una falsa religiosità, non perché fosse per me una certezza, ma per farmene schermo in qualche modo a tutte le altre fedi: che non interrogavo con devozione, ma polemicamente attaccavo. E avevo creduto che la ragione per cui differivo di giorno in giorno18 la rinuncia alle speranze del secolo e la decisione di seguire te soltanto fosse che non vedevo nulla di certo, per orientarmi nel cammino. Ed era venuto il giorno che mi spogliava nudo di fronte a me stesso, mentre la mia coscienza gridava a gran morsi: "Dov'è la tua lingua? Non dicevi che era l'incertezza a impedirti di liberarti dal carico delle nullità? Guarda, adesso la verità è certa, e tu lo porti ancora addosso: a spalle più libere delle tue spuntano le ali, eppure non si sono consumate a questo modo nella ricerca e non hanno passato dieci e più anni curve a meditarci su!"19. Così mi rodevo nell'intimo, in uno spaventoso marasma di confusione e vergogna, mentre Ponticiano faceva questo suo racconto. Finito che ebbe di parlare e sbrigata la faccenda per cui era venuto, se ne andò, e io tornai a me stesso. Che cosa non dissi contro di me? Che frustate di parole risparmiai a quest'anima, perché mi seguisse nei miei sforzi di tenerti dietro? E resisteva, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano consumati e confutati. Le restava un tremito silenzioso, il terrore che aveva - come si teme la morte - d'essere sottratta al corso dell'abitudine che la consumava a morte. Allora nel mezzo di quella rissa violenta che nella mia casa interiore avevo ingaggiato con l'anima qui nella stanza più segreta, il cuore, con la faccia e la mente sconvolte, irrompo da Alipio: "Non se ne può più!" grido. "Cos'è che si sente? Gli ignoranti si alzano e ci rubano il cielo, e noi con tutta la nostra erudizione senz'anima, guardaci qui, a rivoltarci nella carne e nel sangue 20. Cos'è, vergogna di andargli dietro la nostra, di non essere i primi? E non ci vergogniamo a non seguirli neppure?" Cose del genere dissi, e poi la piena del cuore mi strappò via da lui, che mi fissava attonito, in silenzio. Neppure la mia voce era più la stessa. E più che le parole era la fronte, erano gli occhi e la faccia, il suo colore, il tono della voce a dire quello che provavo. La nostra casa aveva un piccolo giardino, di cui avevamo l'uso come di tutto il resto, perché il nostro ospite, il padrone di casa, non abitava lì. Là mi spinse quella sommossa del cuore, dove nessuno avrebbe posto freno alla furiosa lite che avevo ingaggiato con me stesso, finché avesse il suo esito: che tu conoscevi, io no. Io stavo semplicemente impazzendo per salvarmi e morivo per vivere. Sapendo cos'ero di male e ignorando cosa sarei divenuto di buono 16 La scelta del celibato non era obbligatoria per i cristiani, forse neanche per i preti e i vescovi (per coloro che avevano ricevuto il sacramento dell'ordine dal quarto secolo era certamente richiesta l'astensione dai diritti coniugali): era consigliata a chi avesse potuto «capirla», ma si deve notare come per Agostino vadano sempre in parallelo l'adesione alla fede e l'accettazione di una continenza sessuale assoluta, forse per quell'aspirazione alla leadership e al meglio che caratterizza Agostino fin dall'infanzia. È comunque da notare altresì, che l’atteggiamento negativo nei confronti della sessualità emerse nella Chiesa solamente durante il dibattito sul peccato originale scatenato dalla controversia sul pelagianesimo. 17 Ecclesiastico, 2, 16. Tutte le Confessioni sono intessute di citazioni e di riferimenti, espliciti o impliciti, alle Scritture. Ciò va messo in relazione, oltre che al gusto letterario dell'epoca, alla tonalità "orante", di colloquio interiore-preghiera, che contraddistingue quest'opera (non a caso, gran parte delle citazioni è tratta dai Salmi). 18 Tema fondamentale agostiniano: l'impotenza della ragione a determinare le scelte decisive. Non basta la conoscenza di ciò che è giusto per fondare la virtù: è l'intera persona (intelligenza e volontà-amore) che, sorretta dalla grazia divina, attua la sua conversione al bene. Ci troviamo dunque in una prospettiva etica diversa da quella elaborata dal pensiero greco, centrata sull'identificazione tra conoscenza vera e vita giusta. 19 Matteo, 10, 12. Si riferisce ai due funzionari del racconto di Ponticiano. 20 Agostino contrappone qui, con atteggiamento tipico della fase matura del suo pensiero, la fede dei semplici, quella del pescatore Pietro, all'orgoglio dei dotti, degli eruditi. 33 poco dopo21. Mi rifugiai in giardino, dicevo, e Alipio dietro, passo dopo passo. Non c'era alcuna indiscrezione nella sua presenza, e poi come avrebbe potuto lasciarmi solo in quello stato. Ci sedemmo il più lontano possibile dalla casa. Io fremevo nell'intimo, sdegnato fino al furore più incontenibile, per non riuscire a venire incontro a te, al tuo piacere come alla tua alleanza, Dio mio, quando tutte le mie ossa gridavano sì e li esaltavano fino al cielo. Non era un viaggio con navi o quadrighe, e neppure a piedi, non richiedeva neppure quei pochi passi che separavano da casa il luogo dove eravamo seduti. Perché non solo l'andare, ma anche l'arrivare là non era altro che voler andare: ma volere con forza e integralmente, non con i rigiri e le impennate di una volontà mezzo acciaccata dalla lotta, una volontà che si rialza da una parte per crollare dall'altra 22. Fra i marosi dell'indecisione facevo molti dei gesti che gli uomini talvolta vogliono fare senza riuscirvi, o perché privati di qualche loro membro, o perché legati o estremamente indeboliti o in qualche modo impediti. Se mi strappai i capelli, se mi battei la fronte, se mi abbracciai le ginocchia con le dita intrecciate, lo feci di mia volontà. Ma avrebbe anche potuto accadere che volessi senza riuscirci, se non fossi stato assecondato dalla mobilità degli arti. Dunque compii molte azioni per le quali volere non è potere: e non facevo quello che mi sarebbe stato incomparabilmente più caro, e che appena avessi voluto avrei potuto fare: perché appena avessi voluto avrei senza dubbio potuto23. In quel caso infatti aver volontà era lo stesso che aver facoltà, e lo stesso volere era già fare; eppure non si faceva. Ed era più facile al corpo obbedire alla volontà dell'anima, per debole che fosse, e far muovere gli arti a un solo cenno, che all'anima obbedire a se stessa, alla sua propria volontà intensissima, per realizzarla semplicemente volendo. Come nasce questo paradosso? E perché? Accendi il sole della compassione, e io lo chiederò ai recessi del dolore umano, al buio folto, avvilito in cui s'aggirano i figli di Adamo. Chissà che non mi possano rispondere. Come nasce questo paradosso? E perché? Comanda al corpo, la mente, e viene subito obbedita: comanda a se stessa, e incontra resistenza. La mente ordina alla mano di muoversi, e la cosa è così presto fatta che a fatica si distingue il comando dal servizio: e la mente è mente, la mano è corpo. La mente ordina di volere alla mente: non è altra cosa, eppure non lo fa. Come nasce questo paradosso? E perché? Chi ordina di volere non l'ordinerebbe se non volesse: eppure non esegue l'ordine. Ma il fatto è che non vuole del tutto: e perciò non comanda del tutto. Perché in tanto comanda, in quanto vuole, e in tanto il comando non viene eseguito, in quanto non vuole. Infatti la volontà comanda proprio che la volontà ci sia, e sia quella, non un'altra. Dunque non è già tutta intera a comandare: e per questo il suo comando non viene eseguito 24. Se fosse tutta intera, non comanderebbe di essere, perché già sarebbe. Non è dunque un paradosso volere in parte e in parte non volere, ma è una malattia della mente, che la verità solleva ma non fa alzare del tutto, accasciata com'è sotto il peso dell'abitudine25. E perciò ci sono due volontà, perché nessuna è tutta intera, e ciò che ha l'una manca all'altra. Siamo spazzati via dalla tua vista, Dio, come i ciarlatani e i seduttori della 21 E la distanza che separa la conoscenza umana, limitata e vincolata al farsi dell'esperienza, dall'onniscienza divina. 22 Dopo aver chiarito i limiti della conoscenza in ordine all'azione (conoscere non è volere), Agostino passa a esplorare il campo delle dinamiche della volontà. 23 Nei movimenti del corpo, volere un'azione non significa poterla compiere, perché può esservi qualche impedimento o costrizione esterna; la volontà sperimenta in questo caso un suo limite oggettivo. Ma nella sfera degli atti interiori, la volontà coincide con la facoltà: perché dunque - si chiede Agostino - non riuscivo ad attuare la mia conversione a Dio, che pure volevo? 24 La risposta al paradosso (monstrum) va dunque ricercata all'interno della volontà stessa, che è debole e impotente perché non è piena e sperimenta in sé una scissione che è vera e propria malattia. 25 Il concetto di abitudine è centrale nell'antropologia e nella psicologia di Agostino. La volontà non si presenta mai dinanzi all'atto morale come assolutamente libera e attiva; nell'abitudine, infatti, sedimenta una passività che è all'origine della scissione della volontà stessa. Perciò la conversione non può essere altro che trasformazione totale (metanoia), nascita di un uomo nuovo dalle ceneri del vecchio. 34 mente26, quelli che si rendono conto, sì, della presenza di due volontà nel corso di una deliberazione, ma affermano l'esistenza di due menti distinte per natura, una buona, l'altra maligna27. Mentre deliberavo se mettermi finalmente al servizio del mio Signore, come da un pezzo progettavo di fare, ero io a volere, io a non volere: io, sempre io. Non ero tutto nel volere e non ero tutto nel non volere. Per questo lottavo con me stesso e da me stesso mi spaccavo, e questa spaccatura avveniva senza dubbio mio malgrado: ma non per questo rivelava la sostanza di una mente estranea, bensì la pena della mia. E in questo senso non ero io a produrla, quella spaccatura, ma il peccato che abitava in me 28 dalla condanna di un peccato più libero, perché ero figlio di Adamo29. [...] Quando da un fondo arcano la profonda meditazione ebbe scavata tutta la mia tristezza e l'ebbe accumulata sotto gli occhi del cuore, una tempesta si scatenò violenta, e greve d'un diluvio di lacrime. E mi levai, perché fluisse libero e alto il suono di quel grande pianto. Ma il pianto consigliava solitudine, e mi scostai da Alipio di quel tanto che bastava perché la sua presenza non mi fosse gravosa. Io ero in quello stato, e lui se ne rendeva conto: forse perché sentiva in qualche mia parola una voce già carica di pianto. Rimase dunque dove eravamo seduti, muto di meraviglia. Io mi trovai non so come disteso sotto un albero di fico, e diedi libero sfogo alle lacrime, due fiumi in piena nel cavo degli occhi, come un'offerta che forse apprezzavi. E a lungo ti parlai, se non con queste esatte parole, in questo spirito: E tu, Signore, fino a quando. E durerà per sempre la tua ira, Signore? Non ricordare le colpe degli avi. Perché sentivo che eran quelle a possedermi. Rompevo in poveri singhiozzi: "Quanto tempo ancora, per quanto tempo 'domani e domani'? Perché non oggi, perché non adesso farla finita con questa abiezione?" Così parlavo e piangevo, il cuore a piombo nella tristezza più amara. Ed ecco all'improvviso dalla casa vicina il canto di una voce come di bambino, o di bambina forse, lenta cantilena: "Prendi e leggi, prendi e leggi" 30... Mutai subito in 26 Salmi, 67, 3. 17 Paolo, Lettera a Tito, 1, 10. 27 Si riferisce ai manichei e alla loro concezione dualistica che ripropone all'interno dell'animo umano il conflitto cosmico fra luce e tenebre. Una posizione che, secondo Agostino, impedisce di cogliere la debolezza della volontà e quindi preclude ogni reale rinnovamento. 28 Paolo, Romani, 7, 17-20: «Se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora non sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me. Difatti, io so che in me, vale a dire nella mia carne, non abita alcun bene; poiché il volere si trova in me, ma il modo di compiere il bene, no. Perché il bene che voglio non lo faccio; ma faccio il male che non voglio». 29 Attraverso la citazione della Lettera ai Ro ma n i, che Agostino meditò intensamente e commentò a partire dal 395, si profila la radice ultima dell'impotenza della volontà: il peccato originale, che grava sulla natura decaduta, e quindi sottomessi al giogo dell’ignoranza, della concupiscenza, dell’abitudine. Un'impotenza della mente e del cuore che non può essere sanata senza l'intervento della grazia. 30 Su questo punto, come su tutta la pagina della conversione, si è aperto fra gli studiosi un ampio dibattito: taluni ritengono che si debba interpretare la narrazione di Agostino in senso realistico, come descrizione complessivamente fedele di eventi accaduti; altri invece sottolineano la letterarietà e il valore simbolico di questo testo, e propendono quindi per un'interpretazione allegorica. Così, ad esempio, l'ambientazione: da un lato questa è sembrata troppo «adeguata» alla scena. È stato osservato come solo in un giardino, luogo della grazia come il Paradiso terrestre, si sarebbe potuta svolgere una scena di conversione, così come il primo peccato è avvenuto tra gli alberi (e la vegetazione selvatica rappresenterebbe proprio il peccato opposto alla grazia del giardino). D'altra parte, il realismo della scena, porta altri a ipotizzare un resoconto sincero. Ma è poi importante sapere se esisteva o no un giardino nella casa di Milano, quando lo scopo della narrazione è quello di riportare eventi utili alla vita di chi legge o ascolta la lettura dell’opera? Agostino, infatti, si propone di scrivere un’opera che provochi nei fedeli lo stesso effetto prodotto in lui dai racconti della conversione di Vittorino o dei due funzionari imperiali. Non è possibile entrare qui nel merito di tale discussione: si può osservare che il testo ha subito senza dubbio un trattamento letterario altissimo (è infarcito di reminiscenze della letteratura classica, dalla diatriba, ai "modelli di conversione" della letteratura agiografica, ed è costruito con evidente intenzione teatrale e drammatica). Ciò corrisponde allo stile dell'epoca, all'educazione letteraria e retorica di Agostino, nonché all'intento apologetico dell'opera. Tutto questo non mette in discussione il significato 35 volto e mi raccolsi in uno sforzo estremo di ricordare se in un qualche gioco di ragazzi c'era una cantilena come quella, e non mi sovveniva af fatto d'aver udito mai niente del genere: e allora soffocai il mio pianto e mi levai in piedi. Non altro, interpretai, era il comando divino, che di aprire un libro e leggere il primo capoverso che trovassi. Così sapevo di Antonio 31 che sopraggiungendo per caso durante una lettura del Vangelo si sentì personalmente chiamato, come si rivolgessero proprio a lui quelle parole: Vai, vendi tutte le cose che hai, dalle ai poveri e avrai un tesoro nei cieli: e poi vieni, seguimi 32. E quella voce divina l'aveva immediatamente indotto a convertirsi a te. Così tornai con emozione grande al luogo dove era seduto Alipio: era lì infatti che avevo posato il libro dell'Apostolo, alzandomi. Lo afferrai e lo apersi e in silenzio lessi il primo passo sul quale mi caddero gli occhi: Non più bagordi e gozzoviglie, letti e lascivie, contese e invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non fate caso alla carne e ai suoi desideri 33. Non volli leggere oltre e neppure occorreva. Con le parole finali di questa proposizione una luce come fatta di calma mi fu distillata in cuore e ne cacciò quel buio folto di incertezze. Chiusi allora il libro tenendoci un dito o non so che cos'altro come segno, e ormai rasserenato in volto lo mostrai ad Alipio. Ma in questo stesso modo lui mostrò quello che succedeva a lui - a mia insaputa. Volle vedere che cosa leggevo: glielo mostrai, e lui portò la sua attenzione anche sul seguito di quello che avevo letto io. Io lo ignoravo, ma quel passo proseguiva: E accogliete chi è incerto nella fede. Lo riferì a se stesso, e me lo disse. L'esortazione lo incoraggiò nel suo proponimento, buono e quanto mai rispondente al suo modo di vivere, per cui già era da tempo ben più avanti di me. E senza tormento, senza esitazione mi seguì. Subito entriamo da mia madre, le parliamo: grande gioia per lei. Le raccontiamo come sia accaduto: esultanza e trionfo. Benediceva te, che puoi fare ben oltre ciò che noi chiediamo e comprendiamo 34. Perché riguardo a me si vedeva concesso molto di più di quello che chiedeva tutto il suo povero piangere sommesso. Infatti avevi convertito a te il mio essere al punto che non cercavo più moglie né tenevo più ad alcuna speranza del mondo, posando ormai su quel metro di fede sul quale tanti anni prima mi avevi in sogno rivelato a lei 35. E convertisti il suo dolore in gioia molto più grande di quanto sperava, e molto più cara e più pura di quella che attendeva dai nipoti del mio sangue. da Agostino, Confessioni, VIII, 7.16-12.30, trad. di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 1990. spirituale e filosofico della narrazione: intorno al 400, quando scrive le Confessioni, Agostino interpreta decisamente la propria conversione come un evento soprannaturale, reso possibile dall'intervento della grazia. La vera novità del pensiero agostiniano rispetto alla dialettica platonica sarebbe il personale aiuto di Dio, che non solo rimette i peccati, ma con un intervento diretto dello Spirito eccita e perfeziona quello che comunque rimane il libero desiderio dell'uomo. La rivelazione diventa una «vocazione», davanti alla quale la libera volontà può avere solo il merito di dare l'assenso della fede alla volontà divina: un merito relativo, di fronte alla rivelazione tremenda della irresistibile grazia operante. 31 Antonio. eremita del III-IV secolo, la cui Vita, scritta da Atanasio di Alessandria e tradotta in latino, costituiva un classico della letteratura ascetica tardo-antica. 32 Il motivo dell'apertura a caso del libro per trarne ispirazione è tipico: così si faceva con Omero, con Virgilio e con la stessa Bibbia. 33 Paolo. Romani, 13, 13. 27 34 Agostino cita qui un passo paolino di lode a Dio. La lode del Signore accompagna, come un registro continuo e fondamentale, tutta la confessione dei peccati agostiniana. 35 Si riferisce a un sogno fatto da Monica nel momento in cui, dopo l'adesione di Agostino al manicheismo, aveva rifiutato di accoglierlo in casa (Confessioni III, 11.19). Monica sogna di trovarsi, afflitta per la perdita del figlio, sopra un metro (regna), un'assicella di legno; le si fa incontro un giovane sorridente che le mostra come anche Agostino si trovi in realtà sulla stessa assicella, ovvero condivida la stessa fede. 36 12 - LA FILOSOFIA MEDIOEVALE 1 - CULTURA E MENTALITA' NELL'ETA' MEDIOEVALE LO SVILUPPO STORICO Europeizzazione della cultura occidentale Cristianizzazione della cultura occidentale Rinascita della città e la mentalità laica LA MENTALITA' MEDIOEVALE Il prevalere della dimensione religiosa Il prevalere della cultura orale La mentalità simbolica DALLE SCUOLE MONASTICHE ALL'UNIVERSITA' Scuole monastiche e l’ascolto dei testi dell’auctoritas Dialettici e antidialettici Università, chierici e commento dei testi dell’auctoritas Scuole cittadine e università La condizione clericale La lectio e la disputa 2 - FEDE E RAGIONE LA CONCILIABILITA' DI FEDE E RAGIONE Superiorità della fede o della ragione Anselmo d'Aosta Credere per capire La fondazione razionale della fede: le prove dell’esistenza di Dio Le prove a posteriori La prova a priori Le obiezioni alle prove di Anselmo Pietro Abelardo Abelardo e lo scontro tra scuole monastiche e cittadine Capire per credere: l’uso della ragione nelle discussioni teologiche La ragione di fronte ai contrasti fra le auctoritates Tommaso d'Aquino La teologia come scienza L’utilità della ragione e la regula fidei Le cinque prove dell’esistenza di Dio La cristianizzazione di Aristotele Essenza e esistenza L’esistenza come libero atto cognitivo di Dio L’universo gerarchico Il tomismo come teologia ufficiale della Chiesa L'INCONCILIABILITA' DI FEDE E RAGIONE La superiorità della fede Bernardo di Chiaravalle Superbia e umiltà L'autonomia di fede e ragione Gli aristotelici radicali La riscoperta di Aristotele e le censure ecclesiastiche Boezio di Dacia: la diversità degli ambiti e dei metodi della scienza I francescani I nuovi ordini religiosi cittadini Bonaventura di Bagnoregio e Duns Scoto Guglielmo Ockham La fede come unica via di avvicinamento a Dio L'onnipotenza di Dio Esperienza e conoscenza umana 37 3 - OCKHAM E LA FORMAZIONE DELL'ATTEGGIAMENTO LAICO OCKHAM E IL PROCESSO DI LAICIZZAZIONE DELLA CULTURA LA TEORIA DELLA CONOSCENZA: EMPIRISMO E NOMINALISMO L'empirismo Il nominalismo Il dibattito medioevale sugli universali Realismo e nominalismo La formazione dei concetti come processo mentale e linguistico: il segno Le parole come segno naturale Il nuovo oggetto della conoscenza e il primato della logica LA CRITICA AL SAPERE TRADIZIONALE Ockham e la mentalità cittadina Il rasoio di Ockham La critica alla metafisica 4 - RUGGERO BACONE E LA NECESSITÀ DI UN NUOVO SAPERE SCIENTIFICO La Scuola di Chartres e lo studio della natura Il sapere umano come approfondimento delle Scritture Le critiche al sapere dei magistri Le finalità pratiche della scienza e il valore dell’esperienza 5 - LA FILOSOFIA POLITICA DALL'EDITTO DI TESSALONICA ALLA RIFORMA PROTESTANTE LA CONQUISTA DEL PRIMATO DA PARTE DELLA CHIESA La “pienezza di potere” del papa e la teoria delle due spade LA RIAFFERMAZIONE DELL’AUTONOMIA DEL POTERE POLITICO Marsilio da Padova Il fine della società e l’inevitabilità dei conflitti Il potere legislativo appartiene al popolo La legge divina non è coercitiva L‘unicità del potere coercitivo Vita e opere di Anselmo d’Aosta, Pietro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle, Tommaso d’Aquino, Ruggero Bacone, Guglielmo d’ Ockham 8 – U. ECO - “SEGNI” 10 - LA FILOSOFIA MEDIOEVALE 1 – Cultura e mentalità nell’età medioevale Lo sviluppo storico La mentalità medioevale Dalle scuole monastiche alle università 1 - CULTURA E MENTALITA' NELL'ETA' MEDIOEVALE LO SVILUPPO STORICO Gli apporti del ______________________ Da un punto di vista storico-culturale l’età medioevale ha avuto sul lungo periodo due importanti effetti: l’europeizzazione e la cristianizzazione della alla _______________________________ cultura. In epoca ellenistica il bacino Mediterraneo aveva trovato un’uniformità politica 1 - ________________________________ (grazie all’Impero romano) e culturale (grazie alla cultura ellenistica). Questa della cultura uniformità nel corso dei primi secoli dell’epoca cristiana venne a mancare e si 38 vennero a creare tre diverse civiltà o culture: quella bizantina, con centro a Bisanzio (Istanbul), che rappresentava la più diretta continuazione della cultura greca e romana; la civiltà islamica, nata in Arabia, che nel VI-VII sec d.C. si affacciava sul Mediterraneo. Essa rappresentava la civiltà egemone sia dal punto di vista tecnologico che culturale e militare (dal VII secolo). E, infine, quella europea da cui deriva l’attuale civiltà occidentale, infatti dal IX secolo in poi l’Europa continentale divenne il centro di elaborazione della cultura occidentale. Il periodo di formazione della cultura occidentale, dal VII al XV secolo, coincide con la cristianizzazione dell’intera civiltà europea; a partire, invece, dal Rinascimento, la cultura occidentale sarà caratterizzata da un processo di laicizzazione. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente si determinò un vuoto di potere che fu occupato dalla Chiesa che costituiva l’unico punto di riferimento per l’intera civiltà europea. La sua autorità si estendeva sul piano religioso, ma anche politico, economico e culturale. La prima struttura politica che l’Europa si diede fu, infatti, l’impero di Carlo Magno (IX sec) che si fondava proprio sull’unità religiosa dell’Europa. Il condizionamento della Chiesa agiva sul piano culturale ritenendo la verità già data dalla rivelazione e imponendo un controllo collegiale che, per i singoli, diventava insuperabile. Da un punto di vista storico-culturale il Medioevo è suddivisibile in due grossi periodi: - L’Alto Medioevo ( V-X secolo), periodo di forte crisi dovuta al disfacimento dell’Impero Romano e all’arretratezza economica. Questa crisi europea si manifestava, ad esempio, nel fatto che l’Europa era soggetta alle razzie della civiltà islamica. - Il Basso Medioevo (XI-XV secolo), in cui rinasce la vita urbana fatto che è considerato il momento iniziale di un processo di rafforzamento che porterà l’Europa ad imporre la sua egemonia a livello mondiale (XVI sec). La civiltà occidentale si staccava definitivamente dall’alveo medio orientale in cui era nata e iniziava ad assumere le caratteristiche che ancora oggi la caratterizzano. Infatti con la rinascita delle città: - dal punto di vista economico nasceva il sistema capitalista che ha le sue origini nelle attività dei mercanti medioevali volte non più alla semplice sussistenza ma a creare un profitto; - dal punto di vista politico iniziava la sua affermazione lo stato nazionale che rappresenta l’entità politica tipica delle società occidentali e che nelle società contemporanea ha assunto la forma di una democrazia indiretta; - dal punto di vista culturale la civiltà occidentale ha, invece, prodotto la mentalità scientifica che trova anch’essa le sue origini nella mentalità formatasi nelle città medioevali. La rinascita delle città comportò il graduale superamento del sistema feudale; dopo il mille chi abitava nei borghi non aveva un’esatta collocazione sociale, in quanto la società feudale era basata sull’esistenza di tre classi: i monaci, i cavalieri e i contadini. Questa suddivisione risultava funzionale ai compiti che la società prevedeva: pregare, combattere e lavorare. Mercanti e artigiani, gli abitanti dei nuovi borghi (da cui deriva il termine borghesia) non avevano, invece, un riconoscimento sociale e giuridico. La liberazione dai vincoli feudali delle città e dei suoi abitanti provocò uno scontro tra la nascente borghesia e le gerarchie sia civili che ecclesiastiche, scontro che si manifestò a livello socio-politico ma anche culturale. La borghesia iniziò a farsi promotrice di una diversa visione del mondo, fondata su valori mondani e non religiosi. La prima elaborazione vera e propria di questa visione avvenne solo nel Rinascimento, essa fu però il frutto di fermenti già presenti nella cultura dell’Europa medievale. Durante il Medioevo queste nuove idee conobbero una prima sintesi nell’opera di Guglielmo Ockham. il supermento dell’____________________ e la formazione di tre _________________: a - ________________________: continuazione _______________________ b - _______________________: egemone c – europea cultura ________________ 2 - ________________________________ L’autorità della ______________________ sul piano _________________________: a – verità = _______________________ b – controllo _____________________ I _____________ della cultura medioevale: A - ________________________________ __________________ B - ______________________________ - rinascita _________________________ distacco __________________________ e produzione caratteristiche della ________ ___________________________________ a - _____________________: mercanti _____________________________ b – politica: stato ________________ _________________________________ c - ______________________________: mentalità _______________________ ___________________________________ Rinascita della città e _________________ - scontro _________________________ - scontro culturale: la nascita della mentalità _______________ 39 La mentalità medioevale è caratterizzata dall’essere una mentalità religiosa, allegorica e dal prevalere della cultura orale. La mentalità religiosa è rintracciabile in tutti gli aspetti della vita dell’uomo medioevale. Anche a livello quotidiano la vita era organizzata in vista degli aspetti religiosi e liturgici. L’anno era scandito dalle festività religiose, l’intera vita era organizzata unicamente in relazione alla sua dimensione ultraterrena . Ciò comportò una visione pessimista dell’uomo che è ben rappresentata dalle due immagini che più spesso venivano collegate all’uomo: il pellegrino e il peccatore. L’uomo è pellegrino in quanto la terra non è la sua vera dimensione ed egli è in viaggio verso la vita eterna. Il peccatore rappresenta, invece, la paura che ossessiona l’uomo medioevale, in quanto peccare significa perdere la vita eterna. Da questa paura nasce l’esigenza di espiare il peccato e quindi il modello di vita per eccellenza diventa quello ascetico e la figura del monaco penitente è il modello di uomo. Il pessimismo antropologico è legato alla teologia di Paolo di Tarso, infatti, come per Paolo l’uomo lasciato a se stesso non può staccarsi dalla carne e dal peccato, la sua salvezza avviene solo mediante la grazia di Dio. Inoltre, come la sua teologia è incentrata sulla morte di Gesù, così per l’uomo medioevale la morte è il momento centrale della vita. Questa centralità divenne sempre più evidente soprattutto nel XIV secolo, in contemporanea con la presenza endemica della peste, culminando in una situazione psicologica - culturale particolare per i nuovi ceti emergenti nella vita cittadina. Infatti, il mercante che provava a vivere al di fuori della dimensione religiosa, finalizzando le sue attività non in vista di Dio e quindi della sua salvezza eterna ma delle sue ricchezze materiali, si sentiva per questo peccatore temendo quindi in modo particolare la morte. Per questo una delle forme più tipiche della religiosità medioevale è costituita dal sacramento dell’estrema unzione. L’introduzione di questo sacramento sottolinea la paura di fronte alla morte e rappresentava per il mercante la possibilità di rientrare nella mentalità prevalente, di conciliare in tempo i suoi comportamenti con quelli voluti dalla Chiesa, in quanto con l’estrema unzione l’uomo ha la possibilità di pentirsi e riconciliarsi con Dio. Al mercante che in vita non aveva accettato i modelli proposti la chiesa offriva in questo modo la possibilità di riconciliarsi con essa e guadagnarsi la vita eterna. L’estrema unzione e l’enfatizzazione dell’agonia sono il sintomo della difficile situazione psicologica dell’uomo che, da un lato, rompe con i valori della tradizione, e dall’altro si sente a disagio proprio a causa di questa rottura. Un fattore importante per capire la mentalità medioevale è costituito certamente dal prevalere della cultura orale. Nel Medioevo la capacità di leggere e scrivere un testo in latino o greco ( le lingue della cultura) era riservato praticamente ai soli uomini della chiesa. Nella società laica la scrittura era scomparsa; contratti di vendita e testamenti, nonché patti di alleanza, non venivano trascritti, lo stesso Carlo Magno imparò a scrivere il suo nome solo da adulto. Di fronte a questa marginalità della scrittura nella vita pratica essa aveva, invece, grande importanza nella vita religiosa. Il Cristianesimo, infatti, si fondava su una rivelazione divina tramandata in testi scritti. Il saper leggere e comprendere la scrittura dava ai chierici una notevole importanza nella società medioevale, i monaci erano, infatti, il mezzo attraverso i quali la parola di Dio arrivava ai fedeli. Il fatto che la cultura medioevale fosse in gran parte orale è dovuta ad un fattore tecnico: la difficoltà di riprodurre testi scritti. La società medioevale, a differenza di quella antica, non era così ricca da poter investire risorse in questa attività. Il prevalere della cultura orale perdurerà fino all’invenzione della stampa ( XV secolo), perchè fino ad allora il libro rimase un bene di lusso, e quindi scarsamente reperibile. L’importanza della parola orale è testimoniata dal fatto che anche la lettura LA MENTALITÀ MEDIOEVALE __ – Mentalità _______________________ a – Prevalere dimensione ______________ _________________________________ b - _______________________________ _____________________________: - ________________________ = in viaggio verso ____________________________ - peccatore = paura di _______________ __________________________________ Origini pessimismo antropologico: a – teologia ______________________ - salvezza mediante la ________________ - incentrata sulla _____________________ b - ________________________________ c – situazione _______________________ ________________ dei _______________ l’estrema ________________________ __ - _______________________________ L’irrilevanza della scrittura nella ________ _________________________________ la rilevanza nella vita _________________ Il libro come ________________________ 40 avveniva ad alta voce. Spesso uno leggeva per tutti gli altri, ma si leggeva ad alta voce anche solo per se stessi. Ciò è dovuto alla scarsità dei libri stessi, ma anche alle caratteristiche psichiche dell’uomo medioevale. Infatti gli psicologi dell’età evolutiva hanno osservato che il passaggio alla lettura interiore è un vero e proprio passaggio evolutivo nel bambino, ovvero questa capacità richiede una strutturazione delle capacità cerebrali che avviene solo ad un determinato stadio della vita del bambino. E’ quindi supponibile che le capacità cerebrali dell’uomo medioevale fossero diverse dalle nostre. Il prevalere della cultura orale comporta il prevalere di un atteggiamento conservatore che è testimoniato nella cultura medievale dal ricorso all’autorità della parola scritta e delle tradizioni. Ciò che è scritto è per l’uomo medioevale la verità. Questo atteggiamento non stimola le capacità elaborative, anche perché gran parte delle energie dell’ individuo più che a interpretare ciò che è scritto sono impiegate per ricordarlo. Una terza caratteristica della mentalità medioevale è costituita dal prevalere della mentalità allegorica. L’allegoria è una figura retorica in cui si attribuisce ad un’immagine, a un concetto o ad un testo un significato diverso da quello letterale. L’atteggiamento allegorico dell’uomo medioevale è strettamente legato alla sua mentalità religiosa per cui la rivelazione, e quindi le sacre scritture, contengono tutto ciò che gli uomini devono sapere. Indagare oltre sarebbe inutile e pericoloso, ma allo stesso tempo occorre che nulla di ciò che Dio ha voluto far sapere agli uomini sia dimenticato. La parola di Dio va quindi interpretata allegoricamente, cercando la verità che sta dietro all’apparenza letterale alla quale si fermano le persone semplici. Questo tipo di interpretazione della Bibbia risale a Filone di Alessandria. Anche la situazione sociale è vista allegoricamente. L’uomo medievale non si limita a constatare che all’ interno della società vi sono tre gruppi sociali, ciascuno con una specifica funzione ( i cavalieri combattono , i monaci pregano e i contadini producono ), infatti questa suddivisione viene vista come un’allegoria della Trinità . Anche la natura è vista come un mezzo attraverso cui Dio comunica con gli uomini. Essa costituisce un libro da interpretare allegoricamente per cui dietro ad ogni elemento naturale si nasconde un significato mistico - religioso: il sole è il simbolo di Cristo, il tramonto e l’alba rappresentano la morte e la resurrezione . Da questo tipo di visione nacquero i bestiari e lapidari, raccolte dei significati allegorici di animali e pietre , si diffusero le rappresentazioni di mostri come ornamenti di chiesa . Con il passaggio all’ epoca moderna e con la rivoluzione scientifica la natura da libro allegorico diventò un libro scritto con un linguaggio matematico. scarsità libri + ______________________ ____________ = lettura a ______________ prevalere atteggiamento _______________ ( + _________________________ - ____________________________) ricorso _________________________ __ - _______________________________ La lettura allegorica: a – delle ____________________________ b - ______________________________ c - ________________________________ bestiari e _______________________ dall’ ________________________alla ________________________________ LE SCUOLE MONASTICHE VIII-XI sec - SCUOLE _______________________ presso __________________________________ ( in campagna) strutture ___________________________ (clero monastico) Verità ________________ opere ____________________ (_________________________) - lettura __________________ - _______________________e ______________________ copiatura + _____________________ (interpretazione _____________) DALLE SCUOLE MONASTICHE ALL’UNIVERSITÀ Dagli storici la filosofia medioevale è detta scolastica, poiché l’unico centro di 41 elaborazione della filosofia era costituito dalle scuole. Fino al XII secolo, secolo che separa alto e basso medioevo con la rinascita delle città, le scuole dipendevano dalle strutture ecclesiastiche e servivano per la formazione del clero ed erano localizzate in abbazie e monasteri. In queste scuole si manifesta tipicamente la mentalità medioevale; infatti si partiva dall’idea che la verità fosse già conosciuta in quanto rivelata. Questa verità era contenuta nelle opere delle auctoritates: la Bibbia, che contiene direttamente la rivelazione e gli scritti dei Padri della Chiesa. In queste scuole medioevali l’organizzazione delle lezioni rispecchiava questo atteggiamento: venivano, infatti, lette ad alta voce le opere dell’auctoritates per memorizzarle e farle divenire oggetto di meditazione, sforzandosi di cercare di comprenderne la verità . L’intera attività culturale del monaco si esauriva copiando i testi che non poteva alterare, in quanto contenevano la verità, ma al massimo arricchire iconograficamente. Le miniature così trasformavano il testo in un’opera d’arte, arricchendolo di un’ulteriore interpretazione allegorica. Già all’interno della cultura monastica a partire dall'XI secolo, in concomitanza con la ripresa economica e demografica che seguì l'anno Mille, ripresero gli studi filosofici che si manifestarono innanzitutto nel dibattito intorno ai dogmi cristiani, condotto con l'uso della dialettica. Il termine dialettica non aveva allora un significato specifico; denotava in genere i processi argomentativi razionali attraverso cui l'uomo analizzava ogni idea, ogni presupposto, ogni nesso fra idee diverse, fino a quando i problemi assumevano una limpidezza tale da suggerirgli spontaneamente una soluzione accettabile. Le argomentazioni non venivano ancora inserite in veri e propri sistemi filosofici, ma rimanevano connesse al patrimonio culturale dell'epoca, sullo sfondo della fede comune. In questo patrimonio, però, fece ingresso qualcosa di nuovo: il gusto per l'indagine più spregiudicata, il riconoscimento del valore della ragione in quanto capace di spiegare le stesse verità di fede. In questo campo la storiografia ha tradizionalmente delineato uno scontro tra due fazioni: i sostenitori di una piena applicabilità dell'analisi filosofica al dogma (i dialettici) e coloro che sostenevano l'inadeguatezza degli strumenti logici di fronte ai contenuti della fede (gli antidialettici). Tra gli "antidialettici" dobbiamo ricordare Pier Damiani (1007-1072)36, che nelle sue opere utilizza tutti gli strumenti propri della dialettica per sostenere la superiorità della fede su ogni sapere liberale e mettere in guardia dalla tentazione di ridurre la libertà di Dio entro i limiti della logica umana. In un celebre passaggio del suo trattato Sull'onnipotenza di Dio egli arriva ad attribuire a Dio il potere di mutare ciò che è già avvenuto, ovvero far sì che «ciò che è stato non sia mai stato», superando così i limiti del principio di non contraddizione (per cui qualcosa non può essere p e non-p contemporaneamente e sotto lo stesso rispetto). Dal XII secolo, contemporaneamente alla rinascita della vita urbana, nacquero nuove scuole presso le cattedrali, sedi vescovili, destinate alla formazione del clero vescovile e, nel secolo successivo, le università, quali corporazioni di cui 36 Pier Damiani (1007 - 1072), monaco italiano, dottore della chiesa; santo. Dopo un periodo di ritiro e di impegno monastico, trascorso nell'eremo camaldolese di Fonte Avellana, venne creato cardinale-vescovo di Ostia (1057) assumendo un ruolo di rilievo tra i riformatori della chiesa nel movimento culminante con il pontificato di Gregorio VII (riforma gregoriana). Al suo contributo, come anche a quello di altri esponenti del rinnovamento benedettino del sec. XI, si devono alcuni fondamentali aspetti dell'assetto che il cattolicesimo ha mantenuto per tutto il secondo millennio: appoggio dei centri monastici alla supremazia papale, pratiche monastiche imposte anche al clero secolare. 42 facevano parte maestri e allievi, costituendo quindi una forma di autoregolazione dell’insegnamento. Le università medievali si articolavano in quattro facoltà: Diritto, Medicina, Filosofia e Teologia. Per ciascuna di esse veniva fissato un percorso di studio, centrato sull'analisi sistematica di testi classici (per esempio Aristotele per la filosofia o Galeno37 per la medicina) e sulla discussione dei nodi teorici e problematici che ne emergevano. A differenza di quanto accadeva con le scuole cittadine del XII secolo, gli statuti universitari fissavano la durata dei corsi e la tipologia delle prove di esame; inoltre i titoli rilasciati erano giuridicamente riconosciuti dalle autorità civili ed ecclesiastiche in Italia e in tutta Europa. È impossibile fissare una data precisa di fondazione delle singole università, poiché molte di esse si svilupparono gradualmente, estendendo le attività di scuole già esistenti. Le prime università sono nate sul finire del XII secolo in Italia (Bologna e Salerno), in Francia (Parigi, Montpellier e Tolosa) e in Inghilterra (Oxford). Alcune importanti università sorsero poi in seguito all'allontanamento volontario di alcuni maestri che, in seguito ad attriti con l'autorità civile, decidevano di fondare una propria scuola altrove. In questo modo nel 1209 è nata l'università di Cambridge, staccatasi da Oxford, e quella di Padova, fondata nel 1222 da maestri che avevano lasciato Bologna. Molte sedi universitarie si distinguevano per l'eccellenza in una particolare disciplina: Salerno e Montpellier erano rinomate per la medicina, Bologna per lo studio del diritto, Parigi e Oxford per gli studi filosofici e teologici. Ogni sede universitaria aveva comunque un carattere internazionale, con studenti e docenti di ogni nazionalità europea, uniti dall'uso tecnico del latino, lingua culturale sovranazionale, impiegata a ogni livello dell'attività didattica, amministrativa e giuridica. Un tratto distintivo della popolazione universitaria era la condizione clericale. Nel linguaggio medievale il termine "clero" non è sinonimo di "insieme dei sacerdoti", ma designa "coloro che hanno ricevuto la tonsura clericale”, cioè un taglio rituale di cinque ciocche di capelli, in seguito al quale da laici si diventava chierici. Questa condizione era la premessa per l'accesso agli ordini religiosi, ma di per sé non comportava particolari obblighi. Si trattava, semmai, di un privilegio: i chierici non erano più soggetti alla giustizia civili e solo in parte lo erano a quella episcopale (avevano la possibilità, infatti, di appellarsi direttamente al papa). Soltanto una minoranza dei chierici accedeva al sacerdozio, mentre la maggior parte di loro viveva come i laici, senza rinunciare nemmeno al matrimonio. La differenza principale tra chierici e laici era che i primi avevano accesso a una formazione culturale, erano dunque letterati; da qui deriva l'identificazione che nel XIII secolo vedeva accomunare le figure del "chierico" e dell'intellettuale". Essi costituivano spesso un gruppo sociale eversivo: gli studenti facevano una vita itinerante in base alla fama delle scuole, spesso erano poveri, perché i ricchi studiavano generalmente nelle scuole monastiche, per vivere o mendicavano o facevano dei piccoli lavori. La loro mentalità è ben espressa dai Carmina burana; canti che spesso esaltano il vino, il gioco, l’amore e che attaccano in modo sarcastico i monaci, dimostrando l’allontanamento dalla mentalità proposta dalla chiesa. Nelle scuole cittadine si formò un nuovo tipo di studio: non ci si accontentava di leggere e meditare i testi delle auctoritates, il maestro ora commentava i testi e discuteva, con gli altri maestri e con gli allievi, le questioni che tali testi ponevano, riconoscendo un maggior spazio all’indagine personale. Veniva ancora riconosciuto che la verità era contenuta negli scritti delle auctoritates, ma si riconosceva anche che questa verità andava raggiunta con uno sforzo 37 Galeno Claudio (129 - 200 ca), medico e filosofo greco. Fino al rinascimento Galeno, che dopo Ippocrate fu il medico più famoso dell'antichità, costituì un'autorità non solo in campo medico ma anche sul piano filosofico. 43 personale il cui frutto era il commento e la discussione. L'università medievale perfezionò ben presto forme altamente strutturate di analisi testuale (la lectio) e di discussione teorica (la disputatio), dalle quali derivano rispettivamente i generi letterari del commento e della quaestio. Gran parte della letteratura filosofica del XIII secolo (e dei tre secoli successivi), infatti, mostra stretti legami con le tecniche di insegnamento da cui deriva. La lectio è l'analisi sistematica di un testo fondamentale secondo tre livelli di approfondimento progressivo: la spiegazione letterale, una prima parafrasi del suo significato e l'approfondimento della posizione teorica dell'autore (sententia). La spiegazione letterale era un momento cruciale, dato che si avevano di fronte traduzioni estremamente letterali che rendevano necessari chiarimenti lessicali e grammaticali. L'altra pratica intellettuale tipica dell'università medievale è la disputa. Nella facoltà delle Arti (filosofia) e nella facoltà teologica (ma anche in medicina e in diritto) si tenevano dispute accuratamente strutturate intorno ai temi più rilevanti e problematici di ogni area disciplinare. Tutto partiva da un quesito del maestro formulato come interrogativa disgiuntiva, per esempio: «Ci si chiede se l'umiltà sia una virtù o no». Entravano poi in gioco due gruppi di studenti divisi nel gruppo del "no" e nel gruppo del "sì", che dovevano formulare i diversi argomenti, presentando le prove correnti a favore di entrambe le posizioni. Solo a questo punto il maestro offriva la propria soluzione, replicando infine anche agli argomenti contrari avanzati nel corso del dibattito. Sull'imitazione della struttura delle dispute orali nascerà poi il genere letterario della quaestio (anche se non ogni quaestio giunta fino a noi nasce da dispute realmente discusse). Si tratta, com'è evidente, di un metodo ben diverso da quello praticato nei monasteri, dove l'importanza maggiore veniva data alla "lettura della Sacra Scrittura" (lectio divina), orientata alla meditazione e alla preghiera. È da osservare, come ha scritto J. Leclercq38, che "meditazione" significava ripetizione a voce bassa del testo, per esercitare «più che una memoria visiva delle parole scritte, una memoria uditiva delle parole ascoltate»; una ripetuta masticazione della parola divina, che i monaci chiamavano anche "ruminazione" (in latino ruminatio). Nonostante l'espansione della civiltà urbana, gli ordini monastici legati alla civiltà rurale non scomparvero. Al contrario, anche nell'ambito culturale si profilò una contrapposizione tra rinnovamento legato alla città e tradizionalismo legato alla campagna. Il maggior rappresentate delle nuove scuole cittadine fu Pietro Abelardo il cui razionalismo fu combattuto da Bernardo di Chiaravalle39, che ottenne la condanna delle dottrine di Abelardo senza però riuscire a limitare l'influenza notevole che esse esercitarono sulla filosofia successiva. 38 Jacques Leclercq ( 1891- 1971), filosofo belga, rappresentante del neotomismo novecentesco, corrente filosofica che ispirandosi al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui filosofia era visto come la certezza da cui la Chiesa avrebbe dovuto partire nell’affrontare le sfide della modernità, si proponeva di restituire dignità filosofica alle grandi questioni teologiche. 39 Per Abelardo vedi pag. 47, per Bernardo pag.54. 44 2 – Fede e Ragione 2.1.0 La conciliabilità di fede e ragione 2.1.1 Anselmo d’Aosta 2.1.2 Pietro Abelardo 2.1.2 Tommaso d’Aquino 2.2.0 L’inconciliabilità di fede e ragione 2.2.1 La superiorità della fede 2.2.2 L’autonomia di fede e ragione 2 - FEDE E RAGIONE LA CONCILIABILITÀ DI FEDE E RAGIONE Il maggior argomento di dibattito dei filosofi medioevali è sicuramente costituito dal problema dei rapporti tra fede e ragione. La posizione maggioritaria è stata quella che ritiene fede e ragione conciliabili, poiché fondamentalmente la ragione e la rivelazione hanno la stessa fonte che è Dio e quindi non possono contraddirsi. La conciliabilità di fede e ragione non implica però che esse siano sullo stesso piano. La priorità della fede era già stata sostenuta da Agostino D’Ippona (V sec.), filosofo di ispirazione platonica, e venne ripresa nel Medioevo da Anselmo D’Aosta (XI sec.). Per essi la superiorità della fede è dovuta al fatto che essa guida la ragione. Questa stessa tesi è riaffermata da Tommaso d’Aquino nel XIII secolo in forma però attenuata, in quanto egli sostiene che la fede stabilisce i limiti del corretto uso della ragione. Secondo la prima interpretazione la fede ha un ruolo più attivo, mentre nella seconda essa lo è meno, poiché la ragione, nei limiti fissati dalla fede, procede da sola. Pietro Abelardo (XI-XII sec.) è stato, invece, il maggior sostenitore della priorità della ragione in quanto, rovesciando la formula di Anselmo d’Aosta, che aveva affermato che occorre “credere per capire”, egli sosteneva che è necessario “capire per credere”. Agostino d’Ippona aveva così impostato il rapporto ragione-fede: senza la guida della fede la ragione viene sconfitta. Sconfitta che si esprime nel fatto che la ragione senza fede finisce per accettare posizioni scettiche. Si giunge a queste posizione scettiche poiché la sola ragione non può che contraddirsi, si incammina per strade diverse senza mai trovare la via della verità. Agostino riconosce comunque che la ragione può essere utile alla fede; infatti, se la fede illumina la ragione può a sua volta chiarire la fede e renderla più forte. CONCILIABILITÀ FEDE E RAGIONE perché: __________________________________________________________ + __________________________ __ __________________________ __________________: ___________________________________________________ Anselmo d’Aosta: ____________________________________________________ ___________________: ___________________________________________________ ___________________: capire per credere Profondamente influenzato dalla tradizione patristica, e in particolare da Agostino, Anselmo d’Aosta (1033-1109)40 è convinto che ci sia un'armonia 40 Per la vita e le opere vedi pag. 73. 45 profonda tra le verità della fede e i risultati ottenibili con rigorose procedure filosofiche. Il punto di partenza di questo suo pensiero è espresso da due celebri formule: «la fede che cerca l'intelligibilità» (fides quaerens intellectum) e «credo per capire» (credo ut intelligam). Il suo metodo consiste nell'analizzare quelle stesse verità alle quali prestiamo assenso per fede cercando però di dedurle con procedimenti puramente razionali, dunque prescindendo del tutto dalle fonti della rivelazione e della tradizione patristica. Questo non significa che l'indagine razionale sia autonoma rispetto ai contenuti della fede, ma che la mente umana, una volta indirizzata dalla fede, può comprendere la corrispondenza tra dati della Rivelazione (contenuti nella Bibbia) e risultati ottenuti per via dimostrativa. Inoltre occorre tener conto che, per Anselmo, il credente dovendo cercare le ragioni di ciò che ritiene vero per fede, nel caso in cui pervenga a conclusioni che contraddicono ciò che crede per fede, subito deve ricerca l’errore che lo ha condotto a quella che lui sa essere una falsa conoscenza. Non c'è dunque alcuna equivalenza tra la fede e la ragione: nessun essere umano potrà mai penetrare, con le sole sue forze, i misteri del divino; ogni credente ha però la legittima aspirazione di comprendere quelle verità che conosce per mezzo della rivelazione biblica. Sebbene le più importanti dottrine di Anselmo siano presentate con l'asciuttezza e il rigore dell'argomentazione filosofica, non si deve tuttavia pensare a un astratto razionalismo: i procedimenti argomentativi scaturiscono da un contesto di preghiera, di meditazione biblica e di rispetto dei precetti che costituiscono, insieme alla fede, i presupposti per poter intraprendere la ricerca filosofica. Anselmo D’Aosta fu tra i primi a impegnarsi nella dimostrazione dell’esistenza di Dio senza ricorrere alle sacre scritture o alla mentalità allegorica e simbolica tipica del medioevo, ma come « meditazione sulla ragione della fede da parte di chi silenziosamente fra sé ricerca ciò che non conosce», per arrivare a una fondazione positiva della propria fede. Queste prove hanno una notevole rilevanza in quanto hanno per la prima volta formalizzato due tipologie di dimostrazione che verranno riprese anche in seguito. La prima tipologia è costituita dalla dimostrazione a posteriori, cosiddetta perché parte dai dati dell’esperienza che riguardano le cose sensibili. Lo schema del ragionamento è di derivazione platonica: noi possiamo constatare che abbiamo esperienza di diversi gradi di perfezione; proprio perché siamo in grado di individuare i diversi livelli di perfezione occorre che esista la perfezione assoluta in quanto metro di giudizio della perfezione delle altre cose, tale perfezione assoluta è costituita da Dio. A questa tipologia appartengono le prove esaminate da Tommaso d’Aquino che esamineremo in seguito41. La tipologia a priori parte dal concetto stesso di Dio, senza far ricorso all’esperienza. La seconda tipologia verrà detta, da Kant (1724-1804), a priori proprio perché il punto di partenza non è più l’esperienza bensì il concetto stesso di Dio. La prova anselmiana in sostanza è questa: se intendiamo correttamente il significato del termine "Dio", sarà inevitabile pensare Dio come esistente. Anselmo sviluppa la sua prova come una riduzione all'assurdo della posizione dell'avversario. Questi è l'"insipiente", che, secondo i Salmi 14 e 53, «ha detto in cuor suo "Dio non esiste"» ( perciò qualunque individuo che rifiuti di ammettere l'esistenza di Dio è detto insipiente, stolto). Il procedimento di Anselmo, si diceva, consiste proprio nel condurre all'assurdo la tesi dell'insipiente che sostiene che «Dio non esiste», ricavando da essa conseguenze contraddittorie. Il punto di partenza di Anselmo è un'esplicitazione del significato del termine "Dio": «Noi crediamo che Tu sia qualcosa di cui non si può pensare niente di 41 Vedi pag. 50. 46 maggiore». È importante tener presente che Anselmo non sta parlando della cosa più grande esistente (perché è sempre pensabile qualcosa di più grande di questa), ma di una sorta di concetto limite, rispetto al quale non possiamo pensare niente di maggiore. Ora, anche chi non crede nell'esistenza di Dio, come l'insipiente biblico, comprende la formula «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore»: egli però ritiene che nessuna realtà corrisponda a questo pensiero. Però, ribatte Anselmo, «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore» non può essere solo nel pensiero, perché, se fosse solo nel pensiero, ne potremmo pensare una versione esistente anche nella realtà e questa sarebbe maggiore: «Infatti, se esistesse nel solo intelletto, si potrebbe pensarlo anche nella realtà e questo allora sarebbe maggiore». La conclusione di questo ragionamento è dunque che, ammessa la definizione di Dio come «ciò di cui non si può pensare niente di maggiore», questo qualcosa non può esistere solo sul piano del pensiero, ma deve necessariamente esistere sul piano della realtà: dunque Dio non può non esistere. Il limite di entrambe queste prove è dovuto al fatto che esse presuppongono una concezione realistica dei concetti per cui i concetti veri esistono indipendentemente dalla nostra mente. Ad esempio, se noi abbiamo in mente la bontà assoluta questa deve necessariamente esistere. Questa concezione realistica delle idee è di derivazione platonica, in essa viene meno la distinzione fra il piano del pensiero e il livello della realtà effettiva. Nella prova a priori, dopo aver constatato sul piano logico che l’essere perfetto per essere tale deve anche esistere, si conclude che esiste effettivamente senza preoccuparsi di verificare con l’esperienza questa conclusione. Kant, nel XVIII secolo, affermerà che per quanto possiamo pensare a dei talleri (gli euro dell’epoca) perfetti non si può concludere che questi esistono nelle nostre tasche se non tirandoli fuori. Così le argomentazioni contrarie a questo tipo di prove, già avanzate da alcuni contemporanei di Anselmo seguono questo schema: ammesso che si abbia il concetto di Dio come essere perfetto da esso non è possibile dedurre la sua esistenza come dal concetto di isola perfetta, come esemplificava un monaco contemporaneo di Anselmo, Gaunilone di Marmoutier (sec. XI), non si può concludere che essa esista veramente. Anche nella sua vicenda umana (maestro itinerante spesso in contrasto con altri maestri e per questo costretto ad allontanarsi, condanne delle sue tesi, il rapporto con Eloisa) il bretone Pietro Abelardo (1079-1142)42, il maestro di logica e teologia più noto della sua epoca, incarna pienamente i contrasti di un'età in cui alla cultura monastica si affianca il rinnovamento delle scuole cittadine. II nuovo modello al quale si ispirava la riflessione teologica di Abelardo provocò infatti la dura reazione dell'uomo che in quegli anni rappresentava meglio di chiunque un'altra frontiera della cristianità e si batteva strenuamente a difesa della tradizione culturale erede del monachesimo altomedievale: l'abate cistercense Bernardo di Clairvaux (1091-1153), noto anche come san Bernardo di Chiaravalle (la figura che accoglie Dante al culmine della sua ascesa nel Paradiso). Bernardo, dopo aver più volte denunciato alle autorità gli “errori” di Abelardo, riuscì, nel 1140, ad ottenere una condanna ufficiale delle sue tesi dal Sinodo di Sens. Abelardo si appellò al papa per ottenere un giudizio più favorevole, ma durante il viaggio per Roma, già malato, si fermò all'abbazia di Cluny, dove 42 A differenza della maggior parte degli autori medievali, di Abelardo ci è fortunatamente pervenuta una documentazione autobiografica molto ampia (un carteggio e uno scritto, La storia delle mie disgrazie), in cui si intrecciano memorie personali e ricerca filosofica. Per la vita e le opere vedi pag. 73. 47 Pietro il Venerabile lo accolse e lo riconciliò con la Chiesa e con Bernardo. Morì nell'aprile del 1142 nell'abbazia di Saint Marcel a Chalon-sur-Saone. Con Abelardo, la formula credo ut intelligam di Anselmo si rovescia nel primato dell’intelligo ut credam: egli, infatti, sostiene che è necessario innanzitutto capire ciò che si deve credere. Riconosce, dunque, la centralità della rivelazione e il suo rapporto con la ragione, ma intende tale rapporto nel senso di credere a ciò che si comprende. Il suo atteggiamento di fondo è espresso in questi termini: «Sotto il pungolo del dubbio si intraprende la ricerca e per mezzo della ricerca si raggiunge la conoscenza della verità». Proprio la capacità di dubitare e la tensione nella ricerca della verità costituiscono, ai suoi occhi, la dignità peculiare dell'uomo. Abelardo ricorda che Aristotele raccomanda di dubitare e che la prima apparizione pubblica di Gesù ha avuto luogo nel tempio, dove interrogava i dottori: tanto il filosofo quanto la «Sapienza di Dio incarnata» sono dunque concordi nell'incoraggiar pratica del porre domande. Applicando la logica alla teologia, Abelardo mostra di fatto che quest'ultima non si identifica semplicemente con l'insieme delle verità di fede; essa consiste piuttosto nel complesso delle spiegazioni di quelle verità. Tali spiegazioni, condotte con argomenti razionali, possono essere accettate o rifiutate (come accade per tutti i ragionamenti), e perciò risultano discutibili. Si confermano così i timori degli antidialettici che i contenuti della fede, trattati razionalmente, possano essere travolti da dubbi e discussioni. È vero — riconosce Abelardo — che esistono contenuti della fede riguardanti la realtà divina per i quali la ragione da sola è insufficiente, ma questo non significa che non si debba discutere sulle cose della fede; per credere bisogna capire ciò che si crede, bisogna cioè capire se è giusto o no prestare fede a un determinato contenuto. Il ricorso all'autorità serve laddove manca la capacità di analizzare razionalmente ciò che la fede insegna, ma diventa inutile quando la ragione è in grado, con le proprie forze, di accertare la verità. Per Abelardo, anzi, la ragione assume un ruolo fondamentale nell'esaminare e risolvere i contrasti insorgenti tra le autorità. La novità più dirompente nel lavoro di Abelardo, rispetto ad altri maestri del tempo, è nel modo di accostarsi agli auctores, letti non con reverente soggezione, senza discuterli, alla ricerca solo di conferme alle proprie tesi, ma indagati con l'intelligenza oltre che con il cuore, senza la paura di far emergere le dissonanze, cioè le voci contrastanti all'interno della tradizione cristiana. Sulla base di queste posizioni Abelardo, in una sua opera intitolata “Sic et non” (Si e no), elabora un vero e proprio metodo di discussione razionale dei problemi teologici che dice essere nato dalle necessità dell’insegnamento. Nel prologo Abelardo afferma a chiare lettere che la tradizione cristiana non va accettata acriticamente in blocco, ma indagata e soppesata con tutte le tecniche della razionalità. Nel suo testo raccoglie le opinioni dei Padri della Chiesa e le ordina in modo da farle apparire come la risposta positiva e negativa allo stesso problema. In tal modo Abelardo può innanzitutto mettere in evidenza come i pareri dei Padri della Chiesa possano essere in disaccordo tra di loro e quindi occorra discutere, ricercare per dissolvere o ridurre le contraddizioni nelle soluzioni proposte dalla tradizione. A tal fine occorre : considerare le opinioni espresse nel contesto dell’opera dell’autore; tenere conto del fatto che le medesime parole possono essere usate con significati diversi; nel caso poi che il contrasto sia insanabile occorre dar preferenza alle tesi che hanno maggior argomenti a loro favore. In questo modo Abelardo rivendica la libertà di giudizio nei confronti dei Padri 48 della Chiesa, cioè della tradizione cristiana, le loro opere, a differenza delle Sacre Scritture, non devono essere lette con l’obbligo di credere. Il modello del Sic et non testimonia un altro modo di accostarsi ai testi dottrinali, diverso dalla lettura meditativa e spirituale del mondo monastico. È un modo nuovo che si adatta ai metodi di insegnamento e dibattito delle scuole cittadine 43. Tommaso d’Aquino (1225-1274)44 costituisce sicuramente un punto di non ritorno: con lui la fiducia, caratteristica di tanti maestri medioevali, nella possibilità di conciliare fede e ragione raggiunge l’apice. In questa prospettiva, la sua scelta a favore dell'aristotelismo — una filosofia. che nel mondo cristiano era oggetto di sospetti e riserve — si legava alla convinzione che proprio la filosofia aristotelica fosse quella capace di pervenire al maggior numero di verità accessibili alla ragione45. Il problema fede-ragione è discusso da Tommaso d’Aquino chiedendosi, innanzitutto, se la teologia sia una scienza o se non lo sia. Chiaramente la risposta è affermativa. Per dimostrare la sua tesi ricorre al concetto di scienza subalterna: se consideriamo i rapporti tra ottica e geometria si capisce che l’ottica nel dimostrare i suoi teoremi prende in prestito i concetti della geometria (es. raggio luminoso = retta), in tal modo l’ottica si serve di principi che non dimostra. Questo è lo stesso rapporto che vi è tra teologia e fede: la teologia è una scienza che si serve di principi provenienti dalla fede. Come una scienza subalterna non è tenuta a provare i suoi principi, in quanto ricevuti da una scienza superiore, così le verità di fede sono immediatamente accolte dal credente, senza alcun bisogno di dimostrazione. Tali verità rivelate sono infatti indimostrabili scientificamente e sono dette "articoli di fede". Gli articoli di fede sono tramandati dalla Bibbia e costituiscono i principi propri della teologia, che, dopo averli accettati, costruisce dimostrazioni rigorose al pari di ogni altra scienza. Ecco che la teologia scientifica può porre in relazione sistematica tutto il contenuto della fede e quello delle verità filosofiche raggiungibili dalla ragione naturale. È da sottolineare che gli articoli di fede che possono valere come principi del discorso teologico non sono tutto ciò in cui crede un cristiano, ma solo le verità fondamentali contenute nella professione di fede nota come "Credo". Per Tommaso la ragione naturale ha una sua propria verità incontrovertibile. I principi su cui si basa — i principi primi che stanno a fondamento della verità — le sono stati dati da Dio in quanto creatore dell'uomo. Perciò la verità della ragione non può essere in contrasto con quella della fede: sarebbe come dire che la verità — la quale ha il suo unico fondamento in Dio, creatore (per quanto riguarda la ragione) e rivelatore (per quanto riguarda la fede) — è in contrasto 43 L'uso di raccogliere in maniera sistematica, ordinandole per materia e per problemi, le affermazioni dei Padri della Chiesa e dei principali pensatori cristiani circa il nucleo fondamentale della dottrina cristiana si andò progressivamente diffondendo, nel corso del XII secolo, dando luogo a una nuova forma di letteratura filosofica: le Sententiae (Sentenze, nel senso di "affermazioni autorevoli"). Il caso più celebre è quello dei Quattro libri delle Sentenze (1152) scritti dal novarese Pietro Lombardo (1095 ca. .- 1160), il quale trascorse buona parte della vita a Parigi, dove fu allievo di Abelardo e, dal 1140 circa, insegnò teologia. Mezzo secolo dopo la sua morte, un concilio generale (il quarto concilio lateranense del 1215) menzionò il testo del Lombardo, che grazie a questa sorta di approvazione ufficiale conobbe una fortuna straordinaria, tanto da divenire per secoli il libro più commentato e più influente nell'Occidente cristiano, dopo la Bibbia. Fu così che, sin dalla metà del Duecento, il confronto con i pareri illustri raccolti e commentati dal Lombardo divenne un passaggio obbligato lungo la strada che conduceva ogni teologo a maturare un proprio pensiero originale 44 Per la vita e le opere vedi pag. 74. 45 Sulla riscoperta di Aristotele vedi pag. 56. 49 con se stessa. Anzi, la ragione può essere in vario modo utile alla stessa fede, là dove questa intenda porsi come scelta consapevole. La ragione può servire, secondo Tommaso d’Aquino, alla fede in due modi, dimostrando alcune verità di fede, tra cui la più importante è l’esistenza di Dio, e inoltre dimostrando come non siano razionalmente fondate le tesi che non accettano le verità di fede. In questo quadro di piena armonia tra la ragione naturale e la fede, se accade che quanto sostenuto dai filosofi sia talvolta contrario ai contenuti della verità rivelata, significa che c'è un abuso, un difetto della ragione, la quale, quando è correttamente intesa e impiegata, non può non essere in accordo con i dati della rivelazione. Le conclusioni della ricerca filosofica che contraddicono la parola delle sacre scritture sono sicuramente false, frutto di un errore o di un fraintendimento della ragione, la quale deve quindi tornare sui propri passi per ritrovare il punto in cui ha deviato; per Tommaso vale, infatti, il principio della regula fidei, ovvero il principio secondo cui la fede è il criterio ultimo di valutazione della correttezza dei procedimenti razionali. Un esempio d'integrazione profonda tra discorso teologico e argomenti filosofici lo troviamo nella Somma teologica, nelle cosiddette cinque prove dell'esistenza di Dio, dette «cinque vie» (Somma teologica, 1, q.2, art.3). A differenza di buona parte della tradizione teologica precedente, Tommaso non ritiene che l'uomo possieda una nozione innata o intuitiva dell'essenza di Dio, dalla quale ricavare una deduzione della sua esistenza. Infatti queste prove non partono dall'analisi della natura di Dio, ma dalla nostra esperienza del mondo fisico, per mostrare come questa rimandi a un principio primo, identificabile con Dio; proprio perché partono dagli effetti, vengono dette prove a posteriori (cioè "a partire da ciò che è successivo"). La prima via assume come punto di partenza il mutamento delle cose di questo mondo (è da tenere presente che quando il testo parla di "moto" intende, come già faceva Aristotele, non solo il movimento locale, ma ogni tipo di mutamento). Nella nostra esperienza quotidiana, noi possiamo constatare facilmente che in natura ci sono moltissimi enti in mutamento. Ora, come insegna Aristotele, «tutto ciò che si muove è mosso da altro», in quanto ha bisogno di una causa motrice esterna, che lo porti dalla potenza all'atto (infatti un ente non può passare dalla potenza all'atto da solo, ma lo fa grazie a qualcosa che è già in atto, come il fuoco, che è caldo in atto e rende caldo in atto il legno, che è caldo in potenza). Tuttavia tale causa esterna a sua volta si rivela mossa da un'altra causa ancora precedente. Se non vogliamo che questo schema causale vada a ritroso in una catena infinita di cause ed effetti del movimento, dobbiamo postulare un principio primo (il primo movente) che muove senza, tuttavia, essere mosso (quindi un «primo motore immobile»). Questo principio primo, che muove senza essere mosso, è "ciò che tutti intendono per Dio". La seconda via assume come punto di partenza la nozione di causa efficiente e procede in modo analogo. Il mondo è una concatenazione di cause efficienti ed effetti; ogni causa è, a sua volta, un effetto di un'altra causa, ma il processo non può risalire all'infinito; perciò è inevitabile riconoscere che debba esistere una prima causa efficiente, «che tutti chiamano Dio». La terza via prende spunto dall'analisi del possibile e del necessario. Molte cose sono contingenti, possibili, cioè possono essere o anche non essere, possono venire a essere e venir meno, o addirittura non esistere affatto. Se gli enti fossero tutti di questo tipo, la realtà nella sua interezza non sarebbe mai venuta all'esistenza, ma visto che la realtà esiste, dobbiamo riconoscere l'esistenza di qualche ente necessario. Gli enti necessari sono di due tipi: possono avere la causa della loro necessità in altro o in se stessi; ma la serie degli enti necessari che hanno la loro causa in altro non può procedere all'infinito, «quindi bisogna porre qualcosa che sia necessario per sé e non abbia la causa della propria necessità altrove, ma che sia causa di necessità agli altri. E 50 questo tutti lo dicono Dio». La quarta via prende in esame la gradazione delle perfezioni: si dice, per esempio, che una cosa è più o meno buona (o vera o nobile) a seconda di quanto è vicina al sommamente buono (o al sommamente vero, o al sommamente nobile). Esisterà allora qualcosa che è il massimo in queste perfezioni, dunque «c'è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di ogni perfezione. E questo lo diciamo Dio». La quinta via parte dall'ordine finalistico della natura: ci sono cose, anche corpi fisici privi di intelligenza, che operano con regolarità e realizzano il fine della loro natura. Questo non avverrebbe se non venissero guidati e ordinati al loro fine «da qualcosa che abbia intelletto e conoscenza, come fa l'arciere con la freccia [...]. E questo lo diciamo Dio». Tutti gli argomenti impiegati da Tommaso muovono dalla considerazione di un determinato aspetto della realtà che richiede di essere spiegato e si concludono delineando una serie causale la cui base è la realtà dell'esperienza e il cui vertice è Dio. La loro struttura rivela che tutti condividono alcuni presupposti aristotelici: l'impossibilità di una serie causale infinita; l'assunto secondo cui il primo termine di una serie è causa di tutti gli altri. Alcune prove, oltre all'influenza diretta di Aristotele, presentano ascendenze diverse. La terza ripropone l'argomento modale (basato cioè sull'opposizione tra contingente e necessario), di origine avicenniana46. La quarta via, fondata sui gradi di perfezione, è invece di derivazione platonica e richiama argomentazioni analoghe svolte da Agostino e da Anselmo. La quinta via, che raggiunge Dio prendendo le mosse dal finalismo della natura, presenta delle affinità con lo scritto aristotelico Sulla filosofia e con lo stoicismo. Le cinque vie pervengono alla dimostrazione dell'esistenza di una causa prima universale. L'identificazione di questa causa prima universale con Dio, con la quale terminano le prove, non è oggetto delle prove stesse, né è implicato dalle rispettive premesse. Tuttavia, si deve riconoscere che concetti quali quelli di «primo motore immobile», «ente assolutamente necessario» ecc. indicano sempre qualcosa che determina tutto il resto e, quindi, esprimono caratteri che competono solo a ciò che si intende come Dio. Da ciascuno di questi caratteri, poi, è possibile dedurre tutti gli altri (come Tommaso mostra nella Somma contro i Gentili a partire dall'idea di «primo motore immobile»), dimostrando così che essi competono a un ente solo. L’affermazione della conciliabilità tra fede e ragione non solo fonda la scientificità della teologia e quindi l’utilità della ragione per la fede, come dimostra la possibilità di giungere a dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio, ma pone a Tommaso anche il problema di dimostrare che il pensiero di Aristotele (riscoperto in quel periodo e considerato il massimo della razionalità ) non è in contraddizione col cristianesimo. Il modello aristotelico rappresentava per l’uomo medievale europeo, che lo riscoprì grazie agli arabi, il massimo della razionalità, perché proponeva un modello di conoscenza fondato solo sulle proprie argomentazioni, senza ricorrere a concetti non dimostrati. Proprio per questo motivo il suo pensiero doveva essere modificato cosicché i suoi concetti (materia, atto, potenza, …) potessero essere utilizzato nelle discussione teologiche. Ciò che mancava all’aristotelismo era il concetto di un Dio creatore, infatti per Aristotele, come per tutta la cultura 46 Avicenna (980 - 1037) filosofo e scienziato persiano. Avicenna riuscì a coordinare i principi medici di Ippocrate e di Galeno con le teorie biologiche di Aristotele, esercitando un influsso enorme nelle facoltà di medicina fino al sec. XVI. La sua opera, sul piano filosofico, fu uno dei tramiti, per la cultura europea, della riscoperta di Aristotele. 51 greca, Dio e il mondo erano coesistenti. Per Tommaso, se ci si limita a considerare le cose come costituite da forma e materia come voleva Aristotele, si può solo giungere all’essenza della cosa, a definirla concettualmente. Negli enti reali, nelle cose infatti occorre distinguere fra la loro essenza e la esistenza effettiva. L’essenza, in quanto definizione di un ente, non comporta necessariamente l’esistenza dell’ente oggetto della definizione. Infatti io posso pensare alla natura di qualcosa senza che la cosa esista realmente (ad esempio, l’ippogrifo, pur essendo stato definito concettualmente non esiste); dunque l'essenza di una cosa non implica necessariamente l'esistenza in atto di questa. Perché una cosa esista in senso pieno, sono richieste sia l'essenza (la natura della cosa stessa) sia l'esistenza. Potremmo dire che rispetto all'esistenza attuale (ossia effettiva), l'essenza sia solo potenza. In una formula chiude Tommaso: «essenza : esistenza = potenza : atto». Ogni ente, in cui si distinguono l'essenza e l'esistenza, ha l'essere ma non è l'essere, ovvero l'essere (l'atto vero e proprio di esistere) non è implicito nell'essenza di una cosa, ma sopravviene a essa, e l'essenza, che dapprima è solo in potenza, viene a essere, a esistere in atto. Come si realizza questo passaggio? Per passare all'essere, l'essenza deve ricevere l'esistenza da un ente che, non derivando a sua volta l'esistenza da altro, è l'essere stesso, l'ente in cui l'essenza e l'esistenza coincidono o, come lo chiama Tommaso, l'essere stesso sussistente (esse ipsum subsistens), cioè Dio. Perché si passi dall’essenza all’esistenza, o dalla potenza all’atto, occorre quindi l’intervento creatore di Dio. Egli è l’unico ente in cui essenza e esistenza coincidono, quindi è anche l’unico essere che può dare l’esistenza alle cose . Nella definizione di essere sussistente, Tommaso crede di ravvisare la definizione che Dio dà di se stesso a Mosè nell'Antico Testamento: «Io sono colui che sono» (Esodo, 3,14). Poiché in Dio essenza ed esistenza coincidono, egli è per definizione da sempre esistente, perciò necessario ed eterno. _____________________________________________________________________________ Aristotele = ___________________________________________ se fede e _______________________ sono _______________________ allora ______________________________________________ ad Aristotele manca _______________________________________________________________ come inserire nell’aristotelismo la necessità di __________________________________________ ? ____________________________ = forma + ____________________ (Aristotele) ma __________________________ ≠ ___________________________: ___________________________ non comporta necessariamente ________________________ perché -__________________________ ________________________________ intervento di ________ (unico essere in cui _______________________________) visione ___________________________ dell’universo (vedi dopo) _____________________________________________________________________________ Aristotele = ___________________________________________ Tutto ciò che non è Dio, invece, trae da lui il proprio essere, lo riceve da Dio se fede e _______________________ sono _______________________ allora ______________________________________________ «per partecipazione» (come il ferro si arroventa a contatto con il fuoco): ha l'essere (nella misura in cui "partecipa" dell'essere di Dio), ma non è l'essere ad Aristotele manca _______________________________________________________________ stesso (non essendo Dio). Nella descrizione di Tommaso, dunque, l'esistenza come inserire nell’aristotelismo la necessità di __________________________________________ ? ____________________________ = forma + ____________________ (Aristotele) ma __________________________ ≠ ___________________________: 52 appare una perfezione comunicata liberamente da Dio a ogni cosa, mediante la creazione. Questa perfezione («l'atto di esistere») si unisce («compone») in ciascun ente con la sua essenza e la attualizza: conferisce cioè all'essenza (che sino all'intervento creatore divino era semplice potenzialità d'essere) un'esistenza effettiva, e nel contempo riceve un contenuto oggettivo: non è più puro essere, ma viene determinata come essere di una specifica res. Ma quale è la modalità attraverso cui la molteplicità degli enti creati riceve la propria esistenza da Dio? Secondo Tommaso, ciò non avviene in virtù di un processo necessario, giacché Dio, ente perfettissimo e purezza d'essere, non ha bisogno di nessun'altra cosa e non mancherebbe di nulla nel caso in cui non vi fosse alcun mondo. Quest'ultimo, dunque, viene portato all'esistenza attuale in seguito a una scelta libera e consapevole di Dio, ossia — più precisamente — a partire da un suo atto conoscitivo. Causa e principio ordinatore di un mondo dove ogni cosa agisce in vista di un fine, infatti, Dio è senza dubbio dotato di una conoscenza intellettiva, che però non può riguardare cose contraddistinte da potenzialità e imperfezione; l'oggetto immediato di questa conoscenza deve perciò essere l'idea che Dio ha della propria essenza. Tuttavia, egli conosce questa idea non solo in se stessa, ma anche in quanto partecipabile (e imitabile) dalle creature in varia misura. Ecco allora che l'intelligenza divina contiene in sé tutte le essenze a cui la creazione conferisce l'attualità concreta dell'esistenza: conoscendosi, Dio conosce ogni altra realtà, di cui è la causa efficiente (come provato dalla seconda «via»). Nello stesso tempo, ogni ente esiste solo in quanto è conosciuto — e voluto — da Dio. Nel pensiero di Tommaso, quindi, assumono grande rilievo le idee (o modelli) di ciascuna creatura contenute nella mente divina: egli spiega l'origine di queste idee con il fatto che Dio conosce ogni possibile modo in cui le creature "partecipano" della sua perfezione. Tommaso, però, respinge con forza la tesi di chi considera gli esseri naturali solo un pallido riflesso delle idee divine e, così facendo, li priva di qualsiasi autonomia e valore. Più in generale, il fatto che gli enti finiti siano fondati e sostenuti nel loro essere (e nel loro operare) da Dio, come si è visto, non autorizza assolutamente a negare loro ogni efficacia causale: privarli della capacità di produrre effetti — sostenendo, per esempio, che non sia il fuoco a scaldare, ma Dio a generare il calore ogniqualvolta si è in presenza di un fuoco — equivale, secondo Tommaso, a misconoscere la bontà e la perfezione di Dio, il quale ha voluto che le cose create gli fossero simili («analoghe») anche per quanto concerne l'agire (e non solo per quanto concerne l'essere). In polemica con la svalutazione del mondo naturale tipica della tradizione platonica medievale, il pensatore domenicano insiste sul fatto che le creature sono dotate di una natura piena e di un'attività loro propria. Egli condivide perciò con i filosofi naturali del XII secolo l'idea che i fenomeni fisici possano e debbano essere spiegati riconducendoli a cause naturali, senza presupporre continui interventi soprannaturali. Sulla base della distinzione fra essenza ed esistenza Tommaso costruisce una visione gerarchica della realtà al cui vertice vi è Dio che non può non esistere in quanto in lui essenza ed esistenza coincidono. Gli enti finiti si distinguono in semplici o incorporei e composti o corporei: i primi, rappresentati dalle sostanze angeliche, (di cui parla la Bibbia) e le anime separate dal corpo (cioè quelle anime che, dopo la dissoluzione dei corpi, rimangono in attesa dell'Ultimo giorno, quello del giudizio finale in cui Dio assegnerà la loro destinazione). Sia gli angeli sia le anime separate sono privi di materia; pertanto non potranno essere composti, al pari degli altri enti, di forma e materia. E tuttavia nessuna creatura può essere del tutto semplice (altrimenti sarebbe come Dio); ecco che la formula «essenza : esistenza = potenza : atto» ha il vantaggio di essere applicabile a tutte le sostanze (sia quelle corporee dotate di materia, sia quelle 53 che invece sono pure forme), in quanto permette di assegnare a tutte un grado di composizione minimo, poiché tutte risultano dalla composizione di essenza ed esistenza. Solo nella semplicità di Dio essenza ed esistenza coincidono, mentre tutti gli altri enti dovranno invece ricevere il loro essere da altro (non potrebbero darsi ciò che per essenza non possiedono). Al III° livello vi sono, infine, le sostanze corporee, tra le quali l’uomo. Nelle sostanze incorporee, essendo la materia ciò che allontana da Dio, l'essenza (che, abbiamo detto, è diversa dall'esistenza) coincide con la sola forma. Per questo motivo nelle nature angeliche a ogni specie corrisponde un solo individuo, e non una molteplicità. Nelle sostanze corporee l'essenza, è costituita da forma + materia, e questo determina la moltiplicazione di più individui all'interno di una stessa specie. La materia presente nel singolo ente corporeo costituisce infatti il "principio di individuazione", cioè ciò che permette l'individuazione di ogni ente. Si tratta della materia intesa in senso concreto, che Tommaso definisce materia signata quantitate (materia "misurabile", effettivamente distribuita nello spazio). Se avessi davanti a me due enti assolutamente indiscernibili, fatti dello stesso tipo di materiale, si differenzierebbero proprio perché la materia signata quantitate posseduta dall'uno non è quella posseduta dall'altro. In base ai concetti di ente e di essenza, Tommaso ricostruisce dunque l'intero quadro ontologico e la sua gerarchia interna. Le posizioni di Tommaso furono inizialmente osteggiate dalla chiesa, in quanto utilizzavano concetti aristotelici e quindi erano considerate incompatibili con la fede. Questa iniziale ostilità fu presto superata e Tommaso fu santificato solo 50 anni dopo la sua morte. La sua filosofia divenne quella ufficiale della chiesa, anche perché egli apparteneva all’ordine più potente i Domenicani ai quali era affidato la Santa Inquisizione e quindi il controllo dell’uniformità ideologica dei cristiani e la lotta alle eresie. La lotta all’eresia in epoca controriformista coincise con la proclamazione ufficiale della filosofia di Tommaso come teologia della chiesa cattolica. Fra i sostenitori dell’inconciliabilità fra fede e ragione possiamo distinguere due gruppi di cui il primo, presente soprattutto nei primi secoli dopo il mille, sostiene l’inutilità della ragione. Il credere, e quindi la fede, è superiore alla ragione. La superiorità della fede rende inutile la ragione, poiché la fede costituisce l’unica modalità che l’uomo possiede per rapportarsi con Dio. La più tipica espressione di questa tesi è riscontrabile nelle opere dei mistici e tra questi nel XII secolo in Bernardo di Chiaravalle (1091-1153)47. L’INCONCILIABILITÀ DI FEDE E RAGIONE Bernardo di Chiaravalle, di cui abbiamo già detto a proposito del suo scontro con Abelardo, nominato abate del monastero di Clairvaux diede un impulso decisivo all’affermazione dell’ordine dei cistercensi che voleva riproporre l’ideale della vita monastica richiamandosi alla regola di San Benedetto. Bernardo fu uno dei protagonisti dello scontro tra coloro che difendevano il modello di vita monastico e la società del basso Medioevo, fondata sulla tripartizione dei compiti (chierici, cavalieri e lavoratori), contro la nuova realtà urbana, le nuove attività artigianali e commerciali che essa promuoveva, la nuova 47 Per la vita e le opere vedi pag. 74. 54 cultura che si stava affermando nelle scuole cittadine e nelle prime università. Il mondo urbano, agli occhi di Bernardo, proprio perché trasgrediva le regole e i valori del vecchio sistema sociale rischiava di smarrire con questo anche il senso del sacro. Questo scontro a livello filosofico-teologico è ben rappresentato dalla polemica di Bernardo con Abelardo che era il maestro di quelle scuole cittadine che più aveva difeso i diritti della ragione. Egli difese il vecchio modello di società facendosi persecutore, come inquisitore, non solo delle scuole cittadine ma anche delle eresie popolari che coinvolgevano le masse attaccando le gerarchie ecclesiastiche in nome dell’egualitarismo evangelico. In base a questa sua mentalità Bernardo, riaffermando le posizioni di Agostino d’Ippona, condanna qualsiasi tipo di conoscenza che non sia finalizzata alla vita religiosa. Le forme di indagine e di sapere svincolate dalle tematiche della fede sono curiosità, ovvero il frutto della superbia dell’uomo. Alla superbia dei nuovi maestri Bernardo contrappone l’antica virtù monastica dell’umiltà: l’uomo deve essere umile, deve riconoscere che la sua conoscenza è nulla e che la verità non deve essere ricercata in quanto è già stata rivelata. Secondo Bernardo la ragione non può essere utile alla fede, in quanto la fede stessa non può essere accresciuta dalla ragione, non ha bisogno di essere rafforzata dall’esterno. Riprendendo un altro tema tipico di Agostino, egli ritiene che l’unica forma di conoscenza utile all’uomo sia quella della propria anima; l’indagine intellettuale deve essere una meditazione interiore che ci consente di discendere in noi e di conoscere la nostra anima. Ciò che l’uomo scopre discendendo in se stesso è l’amore per Dio che rappresenta l’unica disposizione utile per arrivare a conoscerlo. L’ultima tappa del viaggio interiore è l’estasi nella quale l’anima, perdendo il contatto con il proprio corpo, riesce a unirsi a Dio. Bernardo è in effetti uno fra i più rappresentativi mistici medioevali. Egli descrive l’estasi ricorrendo ad allegorie quali: il perdersi di una goccia di vino in un bicchiere d’acqua, il fondersi del ferro per il calore o, ancora, con dei richiami al Cantico dei Cantici, uno dei libri della Bibbia, vedendo nell’amore tra i due giovani protagonisti l’allegoria del rapporto mistico tra l’anima e Dio. A sostenere l’inconciliabilità di fede e ragione vi erano anche coloro che ritenevano che esse fossero tali perché si applicavano a campi diversi. Già nel XII secolo all’interno della Scuola della cattedrale di Chartres si erano affermate le prime tesi relative all’autonomia della conoscibilità della natura. Ancora vista in un’ottica neoplatonica come ciò che rivela la saggezza e la bellezza di Dio, a Chartres la natura, a cui veniva riconosciuto il ruolo di completare la creazione divina, non veniva più interpretata in modo allegorico, ma studiata razionalmente, utilizzando i testi dell’antichità rielaborati dalla cultura araba48. Nel XIII secolo alla tesi della perfetta conciliabilità tra fede e ragione e ai tentativi del domenicano Tommaso di “cristianizzare” Aristotele si opposero, da un lato, gli averroisti e, dall’altro, coloro che si ispiravano all’agostinismo prevalente soprattutto tra i francescani. 48 Vedi anche pag. 69. 55 L’INCONCILIABILITÀ FEDE E RAGIONE A - ________________________________________ - ___________________________ : _______________________________________ _______________________________________ - ___________________________: _______________________________________ _______________________________________ Boezio di Dacia: ____________________________________ ____________________________________ ____________________________:____________________________________ B - ______________________________________ ____________________________________ _____________________________: ___________________________________ ___________________________________ _____________________________: ___________________________________ ___________________________________ Sulla scena filosofica del secolo XIII irrompe Aristotele. Accanto alle opere di logica, già circolanti nell'alto Medioevo, si diffondono gli scritti di fisica, di metafisica, di etica, di politica. Per la prima volta il medioevo latino conosce nelle sue linee complessive un sistema filosofico elaborato prima della rivelazione e perciò del tutto indipendente da essa, basato solo sugli strumenti profani dell'esperienza e della ragione. Con la conoscenza di Aristotele gli studiosi cristiani si trovano di fronte una filosofia pura, priva di legami con la teologia. Di qui le difficoltà che incontrano la diffusione e la lettura dei testi aristotelici, per l'impianto generale `pagano', per alcuni specifici contenuti che appaiono in evidente contrasto con i principi della dottrina cristiana (per esempio l'affermazione dell'eternità del mondo), per il tramite attraverso cui giungono all'Occidente cristiano,'cioè gli `infedeli' arabi. Tuttavia, proprio la mediazione di un filosofo islamico, Avicenna49, facilita l'incontro tra aristotelismo e pensiero cristiano. Nel pensiero di Avicenna, infatti, l'aristotelismo si intreccia con motivi neoplatonici e con principi della religione islamica non lontani da quelli della religione cristiana (come l'affermazione dell'immortalità dell'anima). Con la conoscenza pressoché integrale del corpus delle opere di Aristotele e dei commenti di Averroè50 e Avicenna, il confronto sul rapporto tra fede e sapere divenne sempre più acceso, in particolare nell'ambiente universitario parigino. Gli iniziali divieti di lettura persero, nel giro di pochi anni, ogni efficacia. La Fisica e 49 Vedi nota n 46. Averroè (1126 - 1198), filosofo e scienziato arabo spagnolo. Averroè è celebre per i suoi commentari sugli scritti aristotelici, che in Occidente gli valsero l'appellativo di Commentatore per antonomasia. Sono pervenuti tre tipi di commento: il Grande commento (dopo il 1180), in cui egli spiega frase per frase il testo aristotelico; il Medio, in cui si limita a chiarire complessivamente il testo, e il Commento piccolo o parafrasi (1169-78), in cui riassume il testo aristotelico, che non viene riportato. Egli sostiene i che esiste un'unica verità, quella raggiunta dai filosofi, i quali esigono sempre rigorose dimostrazioni fondate sul rapporto causale, quindi assolutamente necessarie. I teologi disputano su argomenti probabili, di tipo dialettico, mentre la maggioranza degli uomini si accontenta di discorsi esortativi, retorici, quali sono quelli del Corano. 50 56 la Metafisica di Aristotele non solo continuarono a essere lette e commentate, ma — specialmente nella facoltà delle arti (diversa dalla facoltà di teologia) — costituivano, verso la metà del secolo, i testi principali di insegnamento. Nei confronti dell'aristotelismo e, in particolare, del suo rapporto con la fede cristiana, si delinearono posizioni diverse, per molti aspetti inconciliabili: i domenicani, con Tommaso d'Aquino, cercarono di conciliare Aristotele con il pensiero cristiano, dando vita a un aristotelismo cristiano; i francescani, il cui maggiore rappresentante fu Bonaventura da Bagnoregio, accettarono alcune dottrine aristoteliche, ma subordinandole a un'opzione fondamentale a favore del platonismo e della tradizione agostiniana; gli esponenti dell'averroismo latino, così detti perché nell'interpretare Aristotele si riferivano soprattutto ai commenti di Averroè, si proposero di dare voce all'aristotelismo autentico, senza preoccuparsi di risolvere le questioni filosofiche nel senso indicato dalla fede cristiana. Essi furono attaccati sia dai francescani sia dai domenicani. L'avversione nei confronti della concezione averroistica dell'aristotelismo aveva la sua ragion d'essere non solo in alcune tesi specifiche dell'averroismo (per esempio quella dell'unicità dell'intelletto, contraria al dogma dell'immortalità dell'anima individuale), ma anche nella separazione che esso introduceva tra verità filosofica e verità teologica. Le figure più rilevanti di questo orientamento sono due maestri attivi alla facoltà parigini delle Arti tra il 1266 e il 1280: Sigieri di Brabante (1240 ca.-1281-84) e Boezio di Dacia (suo contemporaneo). Nella storiografia tradizionale sono spesso rappresentati come averroisti latini, tendenzialmente eterodossi se non antireligiosi, sostenitori della dottrina del doppia verità (la verità della ragione e la verità della fede), come venne bollata dalla Chiesa, che non ammetteva il contrasto fra fede a ragione, la loro posizione. La storiografia contemporanea ha però messo in luce che non erano irreligiosi, né legati in tutto e per tutto ad Averroè; e per questo oggi si preferisce parlare di aristotelici radicali, sottolineando così il loro impegno a filosofare in prospettiva puramente aristotelica, tenendo distinte la dottrina cristiana (alla quale anche i maestri radicali aderivano, a titolo personale, con un atto di fede) e le pratiche filosofiche fondate sulla ragione naturale e sulla logica della dimostrazione. Già nel 1272 l'autorità ecclesiastica aveva preso delle misure che rafforzano il suo controllo sull'insegnamento universitario: era stato infatti proibito ai maestri delle Arti di disputare su temi di natura teologica; e a loro imposto, qualora il maestro dovesse incontrare nei testi filosofici da lui commentati dottrine in contrasto con le verità di fede, di confutare quei passi (se possibile), dichiararli falsi oppure ancora, come misura cautelativa di base, non affrontarli affatto. Questa censura (anche preventiva) limitava pesantemente la libertà di interpretazione e di argomentazione filosofica dei maestri delle Arti. È probabilmente in questo clima che Boezio scrive il suo L'eternità del mondo, una lunga quaestio in cui il tema dell'eternità del mondo è quasi un pretesto emblematico per ridefinire gli spazi dell'autonomia filosofica: era infatti uno di quei temi su cui la dottrina aristotelica, che riteneva che il mondo esistesse da sempre, e la verità cristiana, che voleva il mondo creato nel tempo, sembravano entrare in collisione. Il trattato L'eternità del mondo è centrato su un'esplicita affermazione di pluralismo scientifico e metodologico: ciò significa che tra filosofia e teologia non si ha mai un vero e proprio contrasto perché il sapere razionale (che comprende fisica, matematica e metafisica) raggiunge le proprie conclusioni a partire da principi suoi propri. Ne consegue che nessuno scienziato dimostra in assoluto, ma solo entro i limiti del sistema di cause e dell'ambito della sua disciplina. Egli dunque non ammetteva due verità, ma più ambiti e più metodi, sottolineando che ogni scienza muove da principi propri. In altre parole, la verità di ogni scienza è solo relativa a quella scienza. La 57 teologia, invece, fondandosi sulla rivelazione divina, si pone su un piano più alto e raggiunge la verità assoluta. Tuttavia, i dati della rivelazione, proprio per la loro diversa origine (non sono infatti principi propri della scienza), non possono entrare nel discorso filosofico e modificarne le conclusioni. Così, di fronte a una divergenza tra dottrina religiosa e conclusioni filosofiche lo stesso individuo potrà, in quanto scienziato, dichiarare inspiegabili entro i limiti del sapere fisico fenomeni come la creazione del mondo nel tempo, l'esistenza di un primo uomo o la resurrezione del singolo che da corruttibile diventa incorruttibile, ma, in quanto credente, potrà accettarli e riconoscerli come veri Molti intellettuali del XIII secolo appartengono ai nuovi ordini religiosi "mendicanti" (chiamati così per l'obbligo di non possedere nulla e vivere di carità): i francescani (o "frati minori") e i domenicani (o "frati predicatori"). A differenza dei tradizionali ordini monastici, che erano espressione di un mondo ruralizzato e feudale (infatti il monastero si trovava nella maggior parte dei casi in aperta campagna, al centro di un'isola di produzione agricola), i nuovi ordini "mendicanti" nascono nella realtà urbana e qui esercitano il loro apostolato. Il loro centro è il convento, situato in città (il termine latino conventus, da cumvenio, significa "luogo di incontro", mentre monastero, dal greco monastèrion, significa "luogo in cui si sta soli"). I frati degli ordini mendicanti rivolgono la loro azione pastorale specificamente ai nuovi ceti urbani, principalmente nella forma della predicazione, ma ben presto acquistano prestigio anche nel campo dell'istruzione superiore, dell'università. Sul piano filosofico, mentre i domenicani, per opera soprattutto di Tommaso d’Aquino, elaborarono la tesi della conciliazione tra fede e ragione che costituì la posizione della Chiesa, i francescani, a partire dall’iniziale affermazione dell’impossibilità per la ragione di cogliere in modo completo le verità di fede, si fecero promotori della tesi dell’autonomia della ragione. L’emergere di questa posizione può essere schematizzato, un po’ rigidamente, attraverso il pensiero di Bonaventura di Bagnoregio, di Duns Scoto e Guglielmo da Ockham. La formulazione dei capisaldi della visione francescana risale a Bonaventura di Bagnoregio (1217-1274) 51, magister a Parigi e ministro generale dell’ordine francescano. Per Bonaventura, il cui misticismo è molto vicino a quello dei vittorini in quanto non svaluta il sapere pratico, il fine ultimo del sapere è costituito dalla conoscenza di Dio e ogni sapere è subordinato e finalizzato alla sua conoscenza. La ragione può dimostrare solo alcune delle verità che crediamo per fede. Inoltre, la fede possiede una certezza superiore a quella della scienza, perché comporta un’adesione che coinvolge anche la sfera dell’affettività e della volontà essendo quest’ultime a muovere l’intelletto a dare il suo assenso alla verità. In tal modo gli studi teologici acquistano un valore più religioso e ascetico che propriamente filosofico, diventano uno strumento della ricerca individuale della salvezza. Ricerca che scopre Dio dapprima nelle creature, poi nell’anima dell’uomo e nella conoscenza di Dio che però può avvenire solo per similitudine. L’ultimo grado dell’elevazione a Dio è la contemplazione mistica con l’uscita dell’anima da se stessa per unirsi al creatore. In tal modo Bonaventura manteneva, seppur con una carica eversiva molto 51 Bonaventura da Bagnoregio (1217 - 1274) è un contemporaneo di Tommaso d'Aquino e, come lui, insegna a Parigi, dove aveva studiato filosofia e teologia. Nel 1253 diventa maestro reggente nella facoltà di teologia, fino al 1257, anno in cui viene eletto ministro generale dei francescani. Per aver guidato l'Ordine, per aver scritto una significativa Vita di San Francesco e per aver presieduto il capitolo generale (cioè la riunione dei membri dell'Ordine) di Narbona del 1260, che codifica gli statuti legali dei francescani, Bonaventura è ritenuto il "secondo fondatore dell'Ordine". 58 minore, alcuni dei temi che avevano caratterizzato la predicazione e la vita di Francesco d’Assisi: la dimensione religiosa che assume un significato che non coincide con la disputa razionale, coincidendo con una scelta di vita; l’interesse per la natura come immagine di Dio. Duns Scoto (1265-1308), un francescano scozzese che insegnò a Oxford e a Parigi nella seconda metà del XIII secolo, accentua ancora l’alterità tra fede e ragione, teologia e filosofia senza però svilire quest’ultima, cercando invece di delimitare i rispettivi ambiti. La riflessione filosofica dimostra la necessità di un essere trascendente, ma il suo oggetto non è il Dio della rivelazione, essa è metafisica e non teologia. La teologia è per gli uomini non la conoscenza assoluta di Dio, impossibile su questa terra, non una scienza speculativa volta alla conoscenza, come voleva Tommaso, bensì una scienza pratica che richiede un’adesione spontanea, una scelta di fede. Sistematizzando la distinzione di ambito tra fede e ragione, Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347)52 ha dissolto per la cultura non strettamente ecclesiastica l’importanza del problema dei rapporti tra i due, centrale per la Scolastica, contribuendo al superamento di questo lungo periodo della storia della filosofia, benché la mentalità scolastica stessa abbia continuato a egemonizzare per molti versi l’insegnamento universitario della filosofia almeno fino al XVIII secolo, determinando la marginalizzazione dell’università dall’elaborazione filosofica. L’università di Oxford, dove Guglielmo studiò e insegnò logica, era egemonizzata dai francescani e si caratterizzava, rispetto all’università parigina, per il crescente interesse per le scienze della natura e per una valorizzazione dei saperi pratici e dell’esperienza concreta, gli unici ambiti in cui, come vedremo, secondo il francescano inglese agisce la ragione umana. L'autonomia della ragione viene teorizzata a partire dall’affermazione dell'impossibilità per essa di dimostrare le verità di fede, in questo modo Ockham spinge alle estreme conseguenze la tesi dell’impotenza della ragione di fronte della fede senza però svalutarla. Le verità della fede non sono né evidenti ( come lo sono invece, ad esempio, i principi geometrici), né possono essere, come lo sono le conclusioni delle dimostrazioni razionali, dimostrate e quindi non possono essere utilizzati in una dimostrazione di qualcos’altro. Di conseguenza, a differenza di Tommaso d’Aquino, la teologia non può essere una scienza; d’altronde, osserva Guglielmo, se le verità di fede fossero raggiungibili dalla ragione umana Dio non sarebbe ricorso alla rivelazione per farle conoscere agli uomini. L’unica via d’accesso a Dio è quindi costituita dalle fede che infatti è amore per Dio e non conoscenza razionale di Dio. La conoscenza di Dio è d’altra parte impossibile all’uomo sulla terra sia perché l’unico attributo che possiamo riconoscere a Dio è la sua onnipotenza sia per le condizioni in cui avviene la conoscenza umana. Con molta decisione Ockham afferma che ogni discorso su Dio che non si fonda sulla rivelazione è vano e infondato. La teologia nel suo complesso deve essere fondata sule Sacre scritture e parlando di Dio occorre essere consapevoli che si tratta di un modo nostro di rappresentarlo, attraverso concetti che sono derivati dalla nostra esperienza ma che possono essere riferibili anche a Dio. Con questa consapevolezza, in coincidenza con la formula del Credo (“Credo in Dio Padre onnipotente …”), possiamo attribuire a Dio l’onnipotenza che rende Dio imprevedibile nella sua volontà, cosa che impedisce la possibilità stessa di una scienza che lo definisca o lo limiti. Sulla base dell’assoluta libertà divina Ockham rivendica anche la libertà del credente e attacca polemicamente le strutture di potere della Chiesa del suo tempo, la chiesa avignonese, soprattutto nel secondo periodo della sua produzione, dopo la fuga da 52 Per la vita e le opere vedi pag. 75. 59 Avignone dove era stato convocato in seguito all’accusa di eresia. La Chiesa non può essere identificata nelle gerarchie ecclesiastiche, l’insieme dei beni e dei poteri della Chiesa, essa deve essere invece l’insieme dei credenti che decidono liberamente di vivere in comunità secondo i dettami della fede. La povertà è, per Guglielmo, il segno principale di questa rinuncia al potere perché la Chiesa possa ritornare da istituzione politica a comunità di fedeli. Ockham si ricollega in questo modo alla tradizione del francescanesimo radicale che rivendicava la necessità di una trasformazione reale della chiesa nella direzione di un ritorno alla purezza delle origini. Nella prospettiva di Guglielmo, l'affermazione dell'onnipotenza e dell'assoluta libertà di Dio sottolineano infine la contingenza del mondo, di questo mondo, e delle leggi che lo governano. Di fatto Dio ha creato questo mondo, ma avrebbe potuto dare forma a un mondo diverso da quello effettivamente esistente. Guglielmo, sulla base del dibattito teologico contemporaneo, distingue tra la potenza assoluta di Dio, che intende come l’insieme delle possibilità tra cui Dio ha scelto, e la potenza ordinata di Dio, ovvero l’insieme delle possibilità che Dio ha realizzato. Il dibattito teologico sull'onnipotenza divina finì per legittimare l’analisi di modelli ipotetici di realtà possibili, in contrasto con l'esperienza e con la fisica aristotelica. Così si iniziava a esplorare teoricamente anche ciò che, pur non esistendo di fatto, è possibile all'onnipotenza di Dio. È in questo contesto che si sviluppa un nuovo modo di impostare la scienza della natura, in cui avevano grande importanza le congetture e gli esperimenti mentali. Si iniziano inoltre a discutere ipotesi come la possibilità di un moto diurno della Terra intorno al Sole, la pluralità dei mondi. Così, ad esempio, Nicola di Oresme (1320 ca. – 1382), maestro a Parigi, ripropose una concezione atomistica della materie e nel Libro del cielo e del mondo (redatto in francese entro il 1377) sostenne che il passaggio dal giorno alla notte può essere spiegato anche se non è il Sole a ruotare intorno alla Terra, ma la Terra intorno al Sole. Al di là delle suggestive anticipazioni delle ipotesi che verranno affermate dalla Rivoluzione scientifica occorre osservare che comunque esse, per lo studioso medievale, risultavano concepibili esclusivamente all’interno di un ben preciso quadro teologico, determinato in questo caso dal riconoscimento dell’onnipotenza divina. A determinare l’inconoscibilità di Dio vi sono per Ockham, come abbiamo detto, non solo motivi teologici ma anche le condizioni in cui avviene la conoscenza umana. Infatti l’unica forma di conoscenza umana che può dare la certezza dell’esistenza di una cosa è la percezione sensibile, resa possibile dall’esperienza che ha per oggetto enti contingenti e sensibili, per cui Dio non può essere oggetto di un tal tipo di conoscenza. Queste posizioni partono da presupposti simili a quelli di coloro che, come Bernardo di Chiaravalle, ritenevano che la ragione fosse inutile alla fede, ma le loro conclusioni sono opposte: la conoscenza non viene svalutata, quanto invece si cerca di delimitare i campi in cui la ragione può essere applicata legittimamente. La ragione infatti, se non può avere come fine la conoscenza di Dio, può comunque dar vita a una conoscenza certa basata sull'esperienza. Il pensiero medioevale, dopo aver riconosciuto nel sapere pratico la via di accesso al sapere religioso (vittorini, Bonaventura) e dopo aver riconosciuto che il Dio a cui giunge la ragione non è quello della fede (Duns Scoto) giunge con Ockham a riconoscere la piena autonomia del sapere umano fondato sull’esperienza ritenendo che esso rappresenti l’unica forma di conoscenza certa per l’uomo. 60 3 - Ockham e la formazione dell’atteggiamento laico 3.0. Ockham e il processo di laicizzazione della cultura 3.1 La teoria della conoscenza: empirismo e nominalismo 3.2 La critica al sapere tradizionale L'opera di Ockham è considerata l’espressione sul piano filosofico della nuova mentalità formatosi con la rinascita delle città; una mentalità tendenzialmente più laica in contrapposizione alla tradizionale mentalità religiosa. La differenza fondamentale fra le due mentalità è dovuta al fatto che mentre la mentalità religiosa coincide con una visione che considera fondamentale la dimensione ultraterrena, per cui la dimensione terrena è in funzione di quella ultraterrena, la mentalità laica invece, pur non negando necessariamente la dimensione ultraterrena, considera la dimensione terrena come autonoma. Questa contrapposizione ha caratterizzato la mentalità occidentale almeno fino al Settecento, quando con l’Illuminismo la mentalità laica si è generalizzata in ogni aspetto della cultura e, in seguito, anche della mentalità europea. Occorre comunque osservare, come abbiamo fatto per Nicola di Oresme, che in Ockham la nuova mentalità è ancora giustificata dal riferimento a un ben preciso quadro teologico, dal momento che la concezione della divinità sta alla base di tutta la filosofia occamista. Infatti, l’interpretazione di Dio come onnipotenza risulta, come abbiamo già visto, fondamentale rispetto alla concezione della realtà in quanto ne deriva che ogni ordine e regolarità consueta riscontrabile nel mondo è una delle realizzazioni delle infinite possibilità aperte a quella infinita potenza a cui nulla è impossibile. Ne discende inoltre che tutte le leggi di regolarità del mondo non sono qualcosa di assoluto, che Dio ha voluto perché costituivano una intrinseca razionalità, ma si fondano unicamente sul volere di Dio. Il mondo creato è quindi radicalmente contingente. Dio è assolutamente onnipotente: l'ordine di questo mondo non è necessario in se stesso, ma deriva dalla volontà divina. Di conseguenza alla conoscenza umana non è possibile esplicare la razionalità del mondo, ma solo descriverlo nelle sue connotazioni essenziali e osservarlo direttamente attraverso l’esperienza. OCKHAM E LA FORMAZIONE DELL'ATTEGGIAMENTO LAICO Mentalità religiosa = privilegia __________ _____________________________ a cui è subordinata la _______________________ Mentalità laica = autonomia ___________ ___________________________________ non nega ___________________________ LA TEORIA DELLA CONOSCENZA Emerge in questo modo, all’interno di questo quadro teologico, il maggior contributo di Ockham alla laicizzazione della cultura che è costituito dall'elaborazione di un nuovo modo di intendere la conoscenza definibile come empirista e nominalista. Sono dette empiriste tutte quelle teorie che ritengono che le nostre conoscenze abbiano origine dall'esperienza costituita dai dati che ci provengono dalla realtà mediante i sensi. Ockham rompeva così con la tradizione medioevale che, in linea con Agostino d’Ippona, invece privilegiava una concezione razionalista della conoscenza, evidenziando dunque soprattutto il ruolo della ragione e svalutando l’esperienza legata al mondo esterno poiché i principi di cui la conoscenza si serve sono pensati come indipendenti dall'esperienza posti nella mente dell'uomo direttamente da Dio. La verità, per gli empiristi come Guglielmo, non può essere dedotta logicamente (come invece sostenevano, ad esempio, coloro che ritenevano valida la prova a priori dell'esistenza di Dio), ma deve essere testimoniata dai sensi. La mente umana non può perciò, come abbiamo detto, conoscere Dio, ma ciò non significa che la ragione sia inutile, infatti la ragione, se applicata ai dati dell'esperienza, può produrre una conoscenza vera. L’EMPIRISMO la conoscenza fondata sull’_____________ (dati dai ____________________) Razionalismo La conoscenza fondata sulla ____________ 61 Il nostro processo della conoscenza inizia con l'esperienza di realtà individuali e contingenti (siano esse oggetti dei sensi o dell'intelletto, esterni o mentali). Ockham chiama "cognizione intuitiva" l'atto mentale con cui cogliamo con evidenza la presenza di un fatto singolare e delle sue caratteristiche (sia esso un oggetto esterno o uno stato interiore). Questa conoscenza è certa perché basata sull'evidenza di ciò che mi è presente. Se però penso a qualcosa che non è presente (come un oggetto che ho visto mezz'ora fa), ho una "cognizione astrattiva" del singolare, che prescinde dalla sua presenza ed esistenza. Intuizione e astrazione non differiscono per l'oggetto (anzi possono rivolgersi anche allo stesso oggetto), tuttavia la prima lo considera nella sua presenza, la seconda prescinde da essa. È chiaro che la cognizione astrattiva è una conoscenza, per così dire, indiretta e di secondo livello, che può darsi solo se si è già avuta una cognizione intuitiva diretta di un oggetto. Entrambe comunque continuano a rivolgersi a oggetti individuali. Tuttavia, oltre alla conoscenza astrattiva del singolare, si può avere anche una cognizione astrattiva dell'universale. Questa si ha quando si prescinde dalla particolarità di un oggetto singolare e si considera, in un singolo atto di pensiero, una nozione che vale per una molteplicità di oggetti. Prima di esaminare il nominalismo, l’altro contributo di Ockham ad una nuova teoria della conoscenza, occorre fare alcune precisazioni circa la “nozione che vale per una molteplicità di oggetti”, ovvero circa i concetti. I concetti utilizzati dalla conoscenza non corrispondono esattamente alle singole cose che l’esperienza ci consente di conoscere nel loro essere qui e ora davanti a noi. I concetti svolgono un'operazione cognitiva molto importante in quanto consentono di catalogare in un unico insieme una moltitudine di cose singole. Così, ad esempio, il concetto di albero ci consente di catalogare in un unico insieme cose diverse come una quercia o un pino. Gran parte di questo lavoro di classificazione della realtà viene svolta dal linguaggio che ci mette a disposizione i concetti. Se non esistesse questa classificazione tramite il linguaggio la nostra esperienza non potrebbe avere la continuità che la caratterizza, sarebbe frammentata in moltissimi aspetti singolari senza cogliere l'unitarietà degli aspetti. Questa capacità del linguaggio di astrarre dall'esperienza le caratteristiche comuni è un aspetto evolutivo del linguaggio stesso. Esistono, infatti, culture primitive che usano tantissimi nomi per identificare le diverse parti di un oggetto (un fiume, ad esempio) senza avere un nome collettivo per identificare l'oggetto. La natura di questi concetti, o nomi collettivi, è stato uno dei temi più dibattuti della filosofia occidentali, infatti già Socrate e Platone si interrogavano su cosa fosse un concetto o un'idea. Nella filosofia medioevale nei dibattiti sulla natura dei concetti essi vennero chiamati universali. Quindi nel dibattito medioevale il termine universale indica le caratteristiche comuni di una pluralità di cose appartenenti ad un certo insieme. Gli universali, da questo punto di vista, corrispondono all’essenza, al concetto, all’idea, termini che appartengono a filosofi diversi ma che indicano la stessa cosa. L'essenza è il termine utilizzato da Tommaso d'Aquino, concetto da Socrate, idea da Platone. Aristotele li indicò invece come forma della cose. L'universale ha, comunque indicato, come riferimento una classe di oggetti particolari le cui caratteristiche comuni sono alla base dell'universale che li rappresenta. La filosofia medioevale si è chiesta che tipo di esistenza abbiano gli universali. Ognuno di noi, da bambino, si è sentito chiedere infinite volte se avesse un animale preferito: qualunque fosse la risposta per esempio: «l'animale che più mi piace è l'ippopotamo»), conteneva due termini nel caso citato, "animale" e 62 "ippopotamo") universali, vale a dire riferibili a una molteplicità di individui. Ora, la domanda a proposito di questi termini di genere ("animale") e specie ("ippopotamo"), predicabili di più enti (i singoli animali, ippopotami, ecc.), è se ciò a cui essi rimandano siano semplicemente costruzioni mentali o, invece, vere e proprie realtà. Il termine servitù, per esempio, è solo un espediente linguistico utile a semplificare i nostri discorsi, permettendoci di indicare con un'unica parola tutti gli individui che si trovano in una condizione servile, oppure indica anche una res ("cosa") universale, la Servitù, che sta al di là delle realtà particolari ed è l'essenza di ognuna di esse? La Servitù esiste unicamente nei nostri pensieri, oppure è qualcosa di reale e costituisce il nucleo profondo, il nocciolo di ogni singolo servo, il quale risulta una semplice parte di quella realtà superiore? A prima vista, la questione può sembrare del tutto astratta, ma le cose stanno in maniera diversa. La tesi "realista", quella secondo cui gli individui che rientrano sotto un medesimo universale (per esempio, i singoli servi) non hanno ciascuno una propria essenza particolare ma ne possiedono soltanto una comune, conduce a conferire maggiore importanza a un insieme ordinato (la comunità politica, la Chiesa, le corporazioni delle arti e dei mestieri, ecc.) o a una classe (i signori, i servi, i mercanti, i contadini, ecc.) che non alle sue componenti (ogni membro della comunità, ecclesiastico, signore e così via); la tesi opposta, invece, quella di chi pensa che non esistano essenze universali, pone l'accento sugli individui, attribuendo realtà solo alle singole parti della totalità. Un conto, però, è sostenere che il Comune sono i cittadini, che la Chiesa s'identifica con l'insieme dei credenti, che lo Stato siamo noi; un altro è riconoscere al Comune, alla Chiesa o allo Stato una realtà in sé, che va al di là degli individui da cui sono formati. Nel primo caso, per esempio, si tenderà a privilegiare il bene e i diritti dei singoli cives ("cittadini") o fideles ("credenti"), mentre chi fa proprio il secondo punto di vista è naturalmente portato ad anteporre il bene della comunità agli interessi individuali; in un caso, si attribuirà la responsabilità giuridica per l'eventuale reato commesso da un membro di una corporazione al singolo, nell'altro si riterrà responsabile l'intero gruppo di cui fa parte, che verrà punito per la sua colpa. A seconda delle risposte date al problema degli universali, dunque, variano anche le posizioni assunte in merito a un gran numero di questioni di natura etico-politica, religiosa e giuridica. All'interno del dibattito filosofico sulla natura degli universali sono state elaborate queste due posizioni dette rispettivamente realismo e nominalismo UNIVERSALE Ciò che hanno in comune una pluralità ' _____________________________________________________________ (l’essenza ______________________________________________ di una cosa) Particolare Uomo, asino, cane, animale, _________ Universale ____________________ Concetti espressi ______________________ ci consentono di __________________________________________ _______________________ cogliendo __________________________________ che tipo di esistenza hanno gli universali? ________________________ 63 All'interno del realismo si può poi distinguere un realismo ingenuo (prevalente fino al XII sec.) e un realismo sofisticato. La posizione realista è caratterizzata dall'attribuzione agli universali di un'esistenza reale, autonoma dalla mente umana. Nella forma più ingenua si afferma che la realtà degli universali è tale per cui essi esistono prima e indipendentemente dalle cose nella mente di Dio. Questa teoria è di derivazione platonica; infatti, Platone aveva teorizzato l'esistenza del mondo delle idee in cui vi sono gli universali costituiti dalle idee delle cose. I filosofi cristiani, invece, pongono il mondo delle idee nella mente di Dio. Il realismo ingenuo si sviluppò soprattutto nelle prime fasi della Scolastica, fin dall'età carolingia, per via dell'influenza dominante delle teorie platoniche e neoplatoniche. Il dibattito, tuttavia, assunse fin dall'inizio un carattere teologico: il realismo, infatti, fu accolto come dottrina ortodossa dalla Chiesa, perché permetteva di difendere in termini razionali alcuni dogmi fondamentali, a partire da quello del peccato originale, in quanto si presta meglio a spiegare come l'intera umanità abbia potuto peccare in un solo uomo (Adamo). Guglielmo di Champeaux (1070 ca.-1122) sostenne un realismo di ispirazione teologica, che può essere considerato un'espressione caratteristica dei primi decenni del XII secolo. La sua posizione è nota attraverso la testimonianza del suo allievo Abelardo, poi divenuto suo fiero avversario. Guglielmo rappresentante della forma più radicale di realismo attribuiva agli universali una realtà sostanziale separata (la Servitù, l'Umanità, la Cavallinità), una res dotata di esistenza autonoma, che prescinde dall'esistenza dei singoli (servi, uomini, cavalli ecc.). Secondo tale tesi, gli individui di una stessa specie (i diversi ippopotami) o le specie di uno stesso genere (l'ippopotamo, l'elefante e ogni altro animale) hanno un'essenza comune e si distinguono solo per le qualità accidentali (l'ippopotamo A è più grasso dell'ippopotamo B) o le differenze specifiche (l'uomo differisce dagli altri animali in virtù dell'attributo della razionalità). La rinnovata conoscenza di Aristotele finì per soppiantare le forme di realismo di ispirazione platonica, favorendo il «realismo sofisticato o moderato», di cui Tommaso d'Aquino è l'espressione tipica. Per questa posizione «moderata», l'universale è innanzitutto concetto (in intellectu), ma a esso corrisponde un'effettiva unità di natura nelle cose (in re), in quanto l’universale rappresenta la forma delle cose. L'universale sussiste poi anche fuori delle cose, ma solo come archetipo della creazione presente nella mente di Dio (ante rem) 53. REALISMO ________________________ Universali = enti ______________________ 1 - prima ________________________________ come _________________________________ 2 - nelle _____________________________ come _________________________________ 3 - ______________________________________ come ____________________________________ In confronto a quella realistica, la soluzione nominalistica si sviluppò soprattutto nel periodo conclusivo della Scolastica (principalmente con Guglielmo di Ockham), ma fu sostenuta anche in precedenza da Roscellino e soprattutto da Abelardo (la cui concezione è tuttavia di solito definita «concettualista»). Il termine «nominalismo», in effetti, comprende posizioni storicamente diverse, 53 Vedi pag. 53. 64 unificate essenzialmente dal rifiuto della soluzione realistica, ossia dell'identificazione degli universali come realtà in sé. La prima, ma anche la più rigorosa e radicale formulazione del nominalismo fu quella di Roscellino di Compiègne (ca. 1050-1123), secondo il quale la realtà è costituita di individui, i quali solo hanno esistenza effettiva. Gli universali non sono res, ma solo voces, cioè parole applicabili a più individui diversi tra loro; sarebbero cioè, secondo alcuni interpreti, flatus vocis, meri suoni senza significato. Contro la posizione realistica, Roscellino negò la possibilità di distinguere le proprietà dagli oggetti cui appartengono, così come la distinzione delle parti dal tutto: il colore, per esempio, è parte integrante del corpo colorato, come la parete è parte integrante della casa. Abelardo ritiene invece che gli universali siano termini dotati di significato, vale a dire che si riferiscano a qualcosa. La loro funzione significativa, tuttavia, non consiste in un rapporto diretto fra la parola e la cosa da essa indicata, come avviene per i termini singolari (il nome Napoleone rimanda a uno specifico personaggio storico), bensì nella capacità di generare, in chi ascolta, un concetto generale (ad esempio, Impero): un concetto che in quanto tale rimanda a un insieme di enti individuali (l'impero britannico, quello di Napoleone, ecc.) considerati nei loro aspetti comuni, e non a qualcuno di loro in particolare. Chi sente pronunciare un termine universale, quindi, si forma un'immagine, confusa, di molte cose che condividono determinati elementi. Abelardo osserva che, se le cose stessero come volevano i realisti, l'individuo sarebbe solo il risultato della somma di aspetti accidentali, inessenziali (il colore della pelle, le dimensioni e così via), tolti i quali non rimarrebbe nulla. Inoltre, fatto ancor più paradossale, una medesima essenza (l'Animalità) potrebbe comprendere cose fra loro contrarie (l'uomo e l'ippopotamo) e trovarsi ad avere accidenti contraddittori (nel caso citato, la razionalità e la non-razionalità): si verrebbe cioè a determinare una simultaneità di contrari, in contrasto con il principio di non contraddizione Abelardo riconosce comunque agli universali un qualche tipo di fondamento nella realtà: secondo Abelardo, tale fondamento va ricercato nel «modo d'essere» comune a una pluralità di individui, nell'insieme di caratteristiche che li accomuna e li rende simili, sebbene siano e restino distinti. È nel «modo d'essere» comune ai vari imperi succedutisi nel corso della storia, per esempio, che Abelardo individua il motivo per cui li designiamo con un unico termine. II significato dei termini universali non è quindi una res, un'essenza, come pensavano i realisti, ma, appunto, uno stato di cose (status rei, "il modo in cui stanno le cose"): una "quasi-cosa", che giustifica il ricorso all'espressione "quasirealismo" (o concettualismo) utilizzata da alcuni studiosi per definire la posizione di Abelardo. Marco e Andrea, per citare un altro esempio, sono simili nel loro stato umano, «convengono».(cioè "s'incontrano") in certa misura nel fatto di essere uomini, senza che ciò implichi l'esistenza di un'essenza comune a entrambi (l'Umanità), di una cosa universale nella quale questi due individui separati s’incontrino • La teoria nominalista elaborata da Guglielmo di Ockham è considerata la più completa e rigorosa in quanto, invece di far riferimento al " modo in cui stanno le cose" come Abelardo, coerentemente con la sua impostazione empirista, ricorre alla percezione empirica. Guglielmo sostiene che gli universali sono reazioni della nostra mente di fronte alla presenza di aspetti simili della realtà che si esprimono in segni linguistici, cioè parole. Noi veniamo a contatto con la realtà mediante le percezioni sensoriali che ci consentono di conoscere i singoli aspetti, qualora questi aspetti abbiano caratteristiche simili provocano in noi una reazione che prende esistenza quando 65 la colleghiamo a una parola che la indica. Gli universali non sono, dunque, altro che segni o nomi elaborati dalla nostra mente la cui funzione è quella di “stare per” un gruppo di percezioni simili. Essi indicano più oggetti della percezione empirica e non possono essere considerati in nessun modo qualità generali sussistenti al di fuori della nostra mente. NOMINALISMO DI GUGLIELMO OCKHAM Universali: non sono____________________________________________________________________ sono ____________________________________________________________________________________________________ Vi è quindi uno stretto legame fra concetti e parole che ci consentono di conoscere la realtà. Per analizzare questo rapporto Ockham ha elaborato uno schema triadico (a tre termini) che è stato ripreso nel XX sec. per essere posto alla base di tutte le scienze contemporanee che studiano queste tematiche (linguistica, semiologia, semiotica, …). Parole e concetti rappresentano dei segni e in quanto tali sono qualcosa che stanno al posto di qualcos’altro, essi rimandano sempre a un referente che costituisce il loro significato. Un termine, un segno linguistico è, quindi, un significante che rimanda al concetto come suo significato, ma il concetto è a sua volta un significante abbreviato e astratto il cui referente sono le singole cose colte nell’esperienza dai sensi. La parola può rimandare direttamente a una realtà empirica, a un oggetto: allora essa è un nome individuale che ha come referente un singolo ente della realtà. La parola può anche essere un nome collettivo e riferirsi a un concetto che a sua volta rimanda alla realtà empirica descritta in termini di aspetti comuni di enti singoli. La parola, infine, può avere se stessa come referente, o meglio il simbolo grafico che la rappresenta. Dunque il processo per cui si arriva a formulare un concetto è uguale a quello per cui si arriva a formulare un segno. referente ____________ segno ______________________ segno _______________________ referente Segno = ______________________________________________________________________________(referente/significato) Una parola in quanto segno può stare al posto di: 1 - ________________________________________ “Un uomo che corre” 2 - ________________________________________ “L’uomo è una specie aggressiva” 3 - ________________________________________ “Uomo ha quattro lettere” Il nominalismo superava la posizione dei realisti che corrisponde ad un atteggiamento ingenuo, proponendo invece una posizione più sofisticata che non 66 corrisponde alle impressioni immediate. La contrapposizione fra posizione ingenua e sofisticata è un criterio utilizzato dagli storici per analizzare l’evoluzione della cultura che va da atteggiamenti spontanei ad atteggiamenti che vedono nella realtà qualcosa di più complesso. Ad esempio, l’immagine del mondo aristotelico che vede il sole girare intorno alla terra stessa, corrisponde alla nostra percezione immediata, mentre la concezione copernicana non ha un’immediata e diretta percezione sensoriale di riferimento. Allo stesso modo un rapporto diretto fra parole, concetti e realtà corrisponde ad un atteggiamento spontaneo e ingenuo. Infatti, lo schema triadico risulta più sofisticato in quanto sostituisce il rapporto immediato con una serie di rapporti mediati. La posizione di Ockham pur essendo meno ingenua di quella dei realisti per altri versi continua comunque a conservare atteggiamenti ingenui. Ingenuo è il suo atteggiamento quando pensa che il rapporto tra parole e cose non sia arbitrario bensì naturale. Una parola è un segno naturale delle cose in quanto, da un lato, le parole possono richiamare la realtà che rappresenta il referente come il fumo richiama il fuoco (questa spiegazione fa riferimento alle parole onomatopeiche che hanno un riferimento fonetico con la realtà che rappresentano), dall’altro, il processo di formazione delle parole è naturale in quanto l’uomo è naturalmente capace di utilizzarle. Per Ockham, inoltre, il processo di formazione dei segni e delle parole è un processo individuale e non collettivo come ritengono le moderne scienze del linguaggio. Infatti, per Ockham il concetto è un immagine, un riflesso delle cose che si forma spontaneamente, naturalmente nella mente dell’individuo di fronte a esperienze simili, mentre per le scienze del linguaggio contemporanee il concetto appare un costrutto selettivo (e non il riflesso passivo delle cose) che trova il suo significato solo all’interno di un sistema complessivo, la cultura, elaborato non dall’individuo e che, anzi, si impone all’individuo come il codice che gli consente rapportarsi al mondo, di avere delle esperienze. Conseguentemente alla posizione empiristica e nominalista, per Ockham la conoscenza non può che essere raggiunta osservando il comportamento delle singole cose. L'osservare porta a dedurre le regole che ne stabiliscono il comportamento. Questa stessa idea verrà ripresa da Galileo che su di essa fonderà la scienza moderna. L’atteggiamento di Galileo è però ancora una volta più raffinato di quello di Ockham. Infatti, per Ockham è necessario osservare le cose così come si presentano nella esperienza quotidiana. Per Galileo, invece, l’osservazione è sperimentale, in quanto le condizioni in cui avviene l’esperienza sono controllate dallo sperimentatore in modo da poter verificare le variabili che intervengono nell’esperimento. Inoltre, coerentemente con il suo nominalismo, Ockham pensa che, dal momento che è la logica a stabilire le regole per costruire un discorso vero e siccome tutte le scienze usano dei discorsi, tutte le scienze debbano subordinarsi alla logica e seguire le sue regole. Questo atteggiamento non sarà condiviso dalla scienza moderna, infatti i fondatori della scienza moderna riterranno che sia la matematica ad essere alla base di tutte le scienze, in quanto consente di esprimere in modo preciso e controllabile i dati dell’osservazione. La caratteristica peculiare della mentalità prodotta dalla rinascita delle città è costituita dal tentativo di rivalutare l’esperienza terrena e mondana dell’uomo. L’opera di Ockham ha forti legami con questa nuova mentalità. Innanzitutto, così come la borghesia cittadina ridava importanza all’esperienza terrena, egli rivalutava l’esperienza. Infatti, separando fede e ragione Ockham non svaluta la 67 ragione, ma le attribuisce come campo d’azione la conoscenza della realtà concreta che deve essere indagata sulla base dei principi della ragione e non sulla base delle verità di fede. Inoltre, il nominalismo impedisce alla ragione di ricercare al di là delle cose, e quindi dell’esperienza, l’essenza delle cose, la loro struttura razionale in quanto gli universali non sono altro che segni linguistici. Anche la critica alla cultura tradizionale da parte di Ockham parte da un presupposto tipico della mentalità concreta della borghesia urbana. Egli come metodo utilizza il cosiddetto rasoio di Ockham che si realizza in un atteggiamento che prevede di non utilizzare nelle spiegazioni i concetti che non siano strettamente necessari. Questo principio ha, come l’intera teoria della conoscenza di Ockham, una impostazione empirista e nominalista. La realtà è costituita da ciò di cui abbiamo conoscenza immediata tramite i sensi. Il principio del rasoio vieta l’uso di concetti che non abbiano riferimenti nella realtà mentalità città = rivalutare esperienza ______________________ Ockham = borghesia cittadina = ______________________________ 1 - empirismo ___________________ tramite i ___________ ci consente di conoscere ___________________ 2 - ___________ ______________________________________ _______________________________________ 3 il _______________________: non si devono usare ______________________________________________________ evitando _______________________________________________________________________ applicato alla metafisica di Aristotele: a - ___________________: non ha __________________________________- perché di una cosa conosciamo solo _______ _____________________________________________________________________________ b - Causa finale: _______________________________________________________________________________________ sensibile. Il legame con la posizione nominalista è costituita dal fatto che questo metodo vuole evitare la confusione fra linguaggio e realtà. Ockham denuncia così la tendenza dell’uomo a trasformare deduzioni, concetti e fatti linguistici in fatti reali (reificazione dei segni linguistici). Ockham utilizza il principio del rasoio per effettuare una critica alla fisica e alla metafisica di Aristotele che coincidevano con il modo tradizionale di vedere le cose. Vengono sottoposti a critica, ad esempio, il principio della sostanza e il concetto di causa finale. La sostanza era intesa come il substrato che tiene unità le diverse qualità di una cosa. Secondo Ockham, stando ai dati che ci vengono dall’esperienza, di una cosa conosciamo unicamente le qualità e gli accidenti che la costituiscono. Ipotizzare che esista anche la sostanza significa introdurre un concetto che non ha un referente nella realtà e che quindi non può essere descritto positivamente ed è inutile alla spiegazione. (La sostanza è un esempio di reificazione). La causa finale era ammessa in quanto si riteneva che ogni oggetto avesse un fine. Ockham osserva che non ha alcun senso pensare, ad esempio, che il fuoco bruci in vista di un fine, dal momento che non è necessario ipotizzare un fine per 68 ottenere questo effetto. Proprio perché la causa finale non contribuisce alla spiegazione è un concetto che deve essere abbandonato. 4 – Ruggero Bacone e la necessità di un nuovo sapere scientifico Ancora prima che tutte le opere di Aristotele venissero tradotte in latino, il XII secolo conosce una prima assimilazione della scienza greco-araba. Cominciavano infatti allora a circolare testi filosofici, scientifici, medici e astronomici che ispirarono un'analisi del mondo fisico che ci circonda in termini puramente naturali (e non simbolici o allegorici). Come abbiamo già ricordato la Scuola di Chartres rappresenta uno dei maggior centri in cui si affermò questo nuovo approccio alla natura. Ad essa si deve anche l’elaborazione di una concezione progressiva del sapere, a partire dalla profonda conoscenza e armonizzazione di tutte le fonti letterarie, filosofiche e scientifiche disponibili, ben espresso da una similitudine di Bernardo di Chartres: «Noi siamo come nani seduti sulle spalle dei giganti. Vediamo più cose degli antichi e più lontane non per una maggiore acutezza della nostra vista o per una maggiore statura, ma perché essi ci sollevano e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza». A mettere al centro della sua riflessione la necessità di un nuovo sapere fu, nel secolo successivo, soprattutto il francescano Ruggero Bacone (1214-1292)54. La concezione progressiva del sapere conserva una giustificazione teologica ma al suo interno sono comunque rintracciabili nuovi atteggiamenti. Negli scritti composti per presentare a papa Clemente IV il grandioso progetto enciclopedico che aveva in mente (ma non realizzò mai), Bacone individua il fondamento di ogni sapere nella sapienza che Dio ha voluto rivelare all'umanità, con lo scopo di mostrarle la via verso la salvezza. In questa prospettiva, il sapere umano deve consistere in un continuo e ininterrotto approfondimento della Scrittura, nella quale tutta la verità si trova racchiusa come «in un pugno chiuso», che attende di essere aperto e svelare ciò che si cela al suo interno. Partendo da simili presupposti, Bacone polemizza vivacemente con gran parte della cultura universitaria del suo tempo (specialmente con quella parigina, da lui definita «la feccia dei dotti»), che a suo dire vive in una barbarie da cui è possibile uscire solo attraverso un'opera di riedificazione del sapere e di riorganizzazione delle università. I docenti universitari sono criticati da Bacone in particolare per aver perso di vista l'unità di fondo del sapere e aver isolato le singole discipline, facendone l'oggetto di uno studio specialistico: uno studio sterile, privo di qualsiasi scopo (come i giochi dei fanciulli), poiché ogni scienza, se è separata dal contesto di cui è parte, viene a trovarsi nella stessa condizione di un piede amputato. In particolare Bacone contesta il fatto di aver separato l'ambito della ricerca filosofica da quello della ricerca teologica; secondo il francescano inglese, invece, il vero compito della filosofia è penetrare nell'infinito sapere contenuto nei testi sacri. Nel contempo, Bacone accusa gli intellettuali della sua epoca di ricorrere in maniera eccessiva e ingiustificata al principio di autorità: di essere cioè inclini ad accettare passivamente l'opinione di taluni autori di riferimento (in primis, Aristotele), senza verificarne l'effettivo valore. A suo giudizio, ciò accade perché essi rifiutano di riconoscere l'infinita distanza che separa ogni uomo dalla pienezza della verità. Di fronte alla sapienza rivelata, infatti, non esistono posti 54 Per la vita e le opere vedi pag. 74. 69 "in prima fila" né monopoli: non è assolutamente lecito (anzi, è pura follia) vantare una presunta superiorità intellettuale per il fatto di richiamarsi a una dottrina o una scuola filosofica del passato, vista come la tappa conclusiva nel cammino verso la verità. All'arroganza e alla superbia dei maestri aristotelici, i quali credono che il resto del genere umano non possa dare alcun contributo alla ricerca della verità, Bacone contrappone l'idea che chiunque può arrivare a cogliere qualche frammento di verità, purché vi si accosti con modestia e umiltà. Assistiamo così a una forte rivalutazione del sapere dei «semplici»: «sebbene ritenuti ignoranti — scrive frate Ruggero — costoro sanno spesso cose importanti che restano oscure ai sapienti». Il fatto che questi umili acquisiscano le proprie conoscenze «per via di esperienza», cioè grazie alle competenze tecniche maturate nell'esercizio dei loro mestieri, suggerisce a Bacone un ulteriore argomento di polemica contro la cultura ufficiale del tempo: fra le colpe dei magistri, infatti, spicca quella di tenere artificiosamente separate ragione ed esperienza, di proclamare la natura esclusivamente teorico-speculativa del sapere, dissociandolo da ogni finalità pratica. Bacone è invece convinto che una scienza è tanto più utile quanto più è funzionale al conseguimento di risultati concreti, sia sul piano di un riordino complessivo della società, che ne individui e ne curi i mali, sia su quello delle innovazioni tecniche. Occorre quindi dare vita a una nuova forma di sapere, interamente orientato a intervenire sulla realtà naturale e a manipolarla in modo da migliorare le condizioni di vita dell'uomo: una scienza che permetta di cogliere i segreti della natura e conferisca potere su di essa. Nello stesso tempo, Bacone pone l'accento sull'apporto essenziale dato al sapere da quella che egli chiama scientia experimentalis ("scienza sperimentale"). In Bacone, ovviamente, tale espressione non ha il significato tecnico che essa assumerà poi all'epoca di Galileo (non si riferisce, cioè, al ricorso all'esperimento tipico della scienza moderna), bensì indica, da un lato, la necessità di prestare grande attenzione alle applicazioni pratiche del sapere e, dall'altro, l'importanza da assegnare all'osservazione diretta dei fenomeni: quest'ultima (per esempio, la sensazione di bruciore provata da chi accosta una mano al fuoco) è infatti decisiva per convincerci intimamente che le conclusioni a cui giungono le scienze basate su dimostrazioni rigorose (come la matematica) sono davvero valide e certe. 5 – La filosofia politica 5.0 Dall'editto di Tessalonica alla Riforma protestante 5.1.0 La conquista del primato da parte della Chiesa 5.2.0 La riaffermazione dell’autonomia del potere politico Nei mille anni trascorsi dall'editto di Tessalonica, con cui nel 380 il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell'impero romano, al cosiddetto Grande Scisma del 1378, che infranse per la prima volta l'unità religiosa dell’Occidente cristiano e vide contrapporsi due papi, l'"agenda politica" fu quasi sempre dettata dalla Chiesa e da chi ne era alla guida, ossia il papa: quest'ultimo, infatti, prese progressivamente consapevolezza del proprio peso politico e, ben presto, si trovò a impostare da una posizione di forza i rapporti con re e imperatori, spesso ridotti al ruolo di comprimari. Ripercorrere l'evoluzione del pensiero politico medievale, allora, significa in primo luogo ricostruire le tappe che condussero all'affermazione dell'egemonia papale sul mondo cristiano, per poi passare in rassegna le strategie adottate dai 70 detentori del potere politico al fine di riaffermare la propria indipendenza dai vertici ecclesiastici. Questa seconda linea di sviluppo del discorso politico medievale raggiunse il culmine nel Trecento, quando la teoria dell'assolutismo papale venne messa in discussione con argomenti particolarmente efficaci ed entrò in un declino che si sarebbe concluso in maniera traumatica all'inizio dell'età moderna, con la Riforma protestante. Lo scontro tra Papato e Impero (ricordiamo ad esempio quello tra Gregorio VII e Enrico IV) e poi tra papato e nascenti stati nazionali (Bonifacio VIII e Filippo Il Bello re di Francia) fu accompagnato dall’elaborazione dei presupposti teologici che stanno alla base dell'azione politica del Papato e della sua superiorità sul potere temporale55. In una celebre presa di posizione ufficiale del 1075 (nota come Dictatus papae, Pronunciamento papale) Gregorio VII giunge a formulare la tesi della «pienezza di potere» (plenitudo potestatis) del pontefice: questi non può essere giudicato da nessuno, mentre ha la facoltà di deporre gli imperatori, poiché spetta solo a lui stabilire se l'eventuale malvagità di un governante autorizzi i sudditi a infrangere il vincolo di obbedienza. Nel XII secolo Bernardo di Chiaravalle elaborò compiutamente la concezione ierocratica con la sua teoria delle due spade. Secondo questa Dio aveva dato entrambi i poteri - sia quello spirituale sia quello temporale – a Pietro e ai suoi successori, cioè i papi. I pontefici, dal canto loro, mentre usavano personalmente la spada (= il potere) spirituale, avevano invece delegato ai sovrani la spada temporale, cioè l'esercizio del potere politico. Dunque, in virtù di tale mediazione ecclesiastica, Bernardo chiedeva ai monarchi una sottomissione pressoché totale, visto che i re esercitano la sovranità solo nella misura in cui il papa conferisce loro il diritto di far uso del potere temporale. All’inizio del Trecento Bonifacio VIII, richiamandosi alla dottrina delle due spade, emanò la bolla Unam Sanctam (18 novembre 1302), la più ampia e solenne rivendicazione mai fatta da un papa della superiorità del potere spirituale. Riprendendo le teorie di Bernardo di Chiaravalle, Bonifacio VIII sosteneva che le spade erano sì due, quella spirituale e quella temporale, ma che Gesù le aveva consegnate entrambe a san Pietro e ai suoi successori; l'uso di quella temporale era effettivamente riservato ai re, ma questa veniva loro consegnata dal papa, affinché se ne servissero secondo la volontà del papa stesso. Il primo a scagliarsi contro la presunta «pienezza di potere» papale fu Marsilio da Padova (1280 ca.-1343)56, il cui Defensor Pacis (Il difensore della pace, ultimato a Parigi nel 1324) è considerato uno dei grandi classici del pensiero politicooccidentale. L'intento di Marsilio è quello di smascherare l'infondatezza delle pretese assolutistiche del Papato, così da estirpare il male oscuro che, a suo giudizio, tormentava l'Italia del tempo e tentava di insinuarsi in tutti gli altri regni; il Defensor Pacis, tuttavia, contiene alcune tesi il cui valore va ben al di là di questa funzione polemica. In particolare la riflessione marsiliana si fonda sull'idea che le diverse forme di comunità politica traggano origine dal desiderio innato che qualsiasi individuo ha 55 Vedi dispensa “Dal Medioevo all’età moderna 2. L’evoluzione politica dal XIV al XVI secolo: il processo di formazione dello stato nazionale”, pag. 8-9 56 Marsilio da Padova (1280 – 1343), maestro presso la facoltà delle arti e poi rettore dell'università di Parigi, Marsilio, con la collaborazione dell'amico Jean de Jandun, compone nel 1324 il Difensore della Pace (Defensor pacis), un testo che suscita aspre polemiche, costringendo l'autore a lasciare Parigi e a rifugiarsi presso la corte imperiale. In Italia, al seguito dell’Imperatore Ludovico il Bavaro, conosce i francescani Guglielmo di Ockham e Michele da Cesena, anch’essi rifugiati alla corte dell’imperatore e avversari del papa. In linea nella loro polemica contro la Chiesa insieme seguiranno l’imperatore nel suo ritorno in Germania. 71 di raggiungere e conservare "un'esistenza degna di essere vissuta". A detta di Marsilio, infatti, gli uomini farebbero volentieri a meno di associarsi, ma scoprono che non c'è altro mezzo per spingersi oltre la semplice sopravvivenza: da soli non si va lontano. Pertanto, se è vero che ogni aggregazione politica nasce per mettere i suoi membri in condizione di realizzare nel modo migliore le loro potenzialità, essa rimane costantemente esposta al pericolo della rottura della pace civile, senza la quale nessuno può conseguire l'obiettivo per cui è entrato in comunità (cioè un livello di vita soddisfacente). In disaccordo con la tesi della naturale socievolezza dell'uomo, Marsilio insiste sulla presenza di tensioni e contese come tratto dominante delle società umane. La pace, quindi, può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua esclusivamente il proprio vantaggio a spese degli altri, come sarebbe invece portato a fare: se non vi fossero leggi, sulla cui base giudicare gli inevitabili conflitti fra membri della stessa comunità, e un «guardiano» incaricato di applicarle e farle rispettare, nessuno società potrebbe sopravvivere a lungo. A proposito delle leggi, Marsilio assume una posizione fortemente originale. Definendole «norme per la cui osservanza viene stabilito un comando coercitivo», individua la loro essenza nel fatto di essere imposte con la forza da chi ne ha l'autorità, qualunque sia il loro contenuto; la validità delle leggi umane, perciò, non dipende dal loro uniformarsi a qualche norma di giustizia superiore (per esempio, alla legge di natura), bensì soltanto dall'essere emanate in maniera corretta. Ora, secondo Marsilio, la facoltà di fissare le norme che regolano la vita di una comunità spetta all'assemblea dei cittadini (universitas civium) o alla sua "parte preponderante" (pars valentior), chiamata a valutare le diverse proposte di legge formulate da apposite commissioni di esperti e a decidere quali approvare. L'idea che il potere legislativo appartenga al popolo, autentico principio cardine del credo politico di Marsilio, discende ancora una volta dal dato da cui egli è partito, ossia dal desiderio naturale che ogni essere umano ha di garantirsi una vita degna di questo nome: poiché infatti, come si è detto, le società sono indispensabili per soddisfare tale desiderio e le leggi contribuiscono in misura decisiva a mantenere in pace (e in vita) tali società, occorre coinvolgere tutti i membri della comunità nella scelta delle norme del vivere comune, dal momento che ognuno è in grado di riconoscere, meglio di chiunque altro, le leggi che tutelano i suoi interessi. Stando così le cose, le uniche leggi in vigore entro i confini di uno Stato sono quelle stabilite dalla volontà popolare. Di per sé, invece, la legge divina non è affatto vincolante in questo mondo, nel quale manca di forza coercitiva; non soltanto, infatti, l'obbedienza di chi fosse costretto ad attenersi a tale legge non gioverebbe alla sua salvezza (non essendo spontanea), ma lo stesso Cristo ha voluto che i trasgressori dei precetti evangelici fossero puniti solo nell'altra vita, per lasciare a tutti la possibilità di pentirsi sino all'ultimo istante della loro esistenza terrena. Ciò non esclude che ragioni politiche possano indurre lo Stato a considerare reato la violazione di uno specifico ordine divino, ma Marsilio tiene a precisare che esistono molti atti proibiti dalle sacre Scritture che i legislatori non hanno ritenuto di vietare, e viceversa. Comunque sia, si tratta di decisioni che competono solo a chi detiene l'autorità sovrana, vale a dire all'insieme dei cittadini. Nel sottolineare la natura rigorosamente non coercitiva dei precetti divini, Marsilio mira a contestare qualsiasi ricorso alla forza da parte del clero, in polemica con la pretesa del Papato di esercitare funzioni di governo temporale. A suo giudizio, invece, il ruolo di qualunque membro della gerarchia ecclesiastica consiste unicamente nell'insegnare quello che gli uomini devono credere, fare o evitare per raggiungere la salvezza eterna; se poi qualcuno dei fedeli si allontana dalla via indicata, non può essere costretto a farvi ritorno con la minaccia di una punizione, così come un medico non ha mai il diritto di obbligare i pazienti a seguire le sue prescrizioni . 72 Nello stesso tempo, per debellare l'indebita intromissione del papa nelle vicende politiche della cristianità, Marsilio denuncia come essa sia in aperto contrasto con una delle condizioni indispensabili per la sopravvivenza di qualsiasi corpo politico: quest'ultimo, infatti, può preservare la propria tranquillità solo in presenza di un unico governo supremo, al quale tutti i membri della comunità attribuiscano l'autorità coercitiva necessaria ad applicare le leggi approvate dal popolo. Alla tesi secondo cui il pontefice avrebbe ereditato da Pietro una supremazia indiscussa su tutte le comunità civili del mondo cristiano, dunque, Marsilio oppone la convinzione che ciascun organismo politico può avere una sola testa, cioè un solo centro di potere esecutivo, e che la nomina (come pure la correzione e l'eventuale revoca) di tale esecutivo spetta esclusivamente all'assemblea dei cittadini. Semmai, è quest'ultima — e non certo il papa — a disporre di una «pienezza di potere» che l'autorizza a regolare ogni aspetto della vita spirituale della comunità che possa minarne la stabilità e, quindi, compromettere il benessere terreno dei suoi membri (come nel caso della comparsa di dissensi dottrinali). Vita e opere di Anselmo d’Aosta Nato ad Aosta nel 1033, Anselmo studia nell'abbazia benedettina di Bec (Normandia) sotto la guida di Lanfranco di Pavia (di cui però non condivide le tesi), succedendogli nel 1078 nella carica di abate. La più fervida attività filosofica coincide con gli anni di insegnamento all'abbazia di Bec, dove Anselmo scrive le sue opere più famose e rilevanti: il Monologion (Soliloquio) e il Proslogion (Colloquio). Nel 1093 Anselmo diventa arcivescovo di Canterbury; per difendere l'autonomia e le prerogative della Chiesa, entra in conflitto con la corte d'Inghilterra e viene temporaneamente costretto all'esilio in Italia, dove scrive varie opere teologiche. Tornato a Canterbury, muore nel 1109. Vita e opere di Pietro Abelardo Nato a Le Pallet in Bretagna nel 1079, dopo aver studiato a Tours e a Loches, si trasferisce nel 1095 a Parigi per seguire le lezioni di logica presso la scuola cattedrale di Nótre-Dame. Giovane brillante e straordinariamente dotato, egli non esita a mettere in difficoltà più volte i più noti maestri dell'epoca (come Guglielmo di Champeaux); in seguito Pietro Abelardo fonda una propria scuola attirando studenti che spesso, per seguirlo, abbandonavano maestri più anziani. Questo era possibile perché i curricula scolastici non erano ancora rigorosamente istituzionalizzati (come avverrà a partire dal secolo successivo, con la nascita delle università) e i maestri più carismatici si sentivano liberi di aprire nuove scuole, anche di breve durata, le une in concorrenza con le altre. Pienamente consapevole della propria forte personalità speculativa e appassionato dallo scontro intellettuale, Abelardo si gettava a capofitto in provocazioni culturali: un'indiscussa intelligenza si accompagnava (per sua stessa ammissione) a una buona dose di imprudenza e sfrontatezza, che lo ha condotto a diverse peregrinazioni nelle più note scuole francesi dell'epoca. Abelardo è al culmine del successo quando incontra Eloisa, una ragazza giovanissima, bella e insolitamente colta per l'epoca, di cui diventa precettore per volere dello zio Fulberto, un canonico di Nôtre-Dame. I. due s'innamorano, hanno un figlio e, per non creare scandalo nell'ambiente di Nôtre -Dame, si sposano segretamente. Successivamente, Abelardo invia Eloisa al monastero dell'Argenteuil; ella accetta per amore questo doloroso allontanamento per consentire ad Abelardo di continuare a dedicarsi a tempo pieno ai suoi impegni professionali. Fulberto, fraintendendo questo gesto come un ripudio da parte di Abelardo, decide di punirlo e, assoldati due uomini, fa evirare Abelardo durante il sonno. In seguito a questi drammatici eventi Abelardo si ritira nell'abbazia di Saint-Denis, ma le sue traversie non terminano con questa decisione. Egli continua a insegnare, dedicandosi alla teologia, ma la sua dottrina trinitaria viene condannata in un sinodo a Soissons nel 1121. Trasferitosi nel 1123 a Troyes, fonda il Paracleto, un piccolo monastero con una scuola. Dopo un breve periodo, durante il quale viene eletto abate del monastero di SaintGildas, nel 1133 torna a Parigi a insegnare. A causa del suo rigoroso impiego della logica nella teologia trinitaria Abelardo guadagna consensi ma anche parecchie critiche e sospetti. Così, nel 1139, su segnalazione di un confratello e noto teologo dell'epoca, Abelardo viene denunciato dal cistercense Bernardo di Chiaravalle, fondatore e abate del prestigioso omonimo monastero 73 (in francese Clairvaux, una località situata nella Francia nord-orientale). Le sue opere vengono quindi condannate durante il concilio di Sens, nel 1140 e, gli viene vietato l'insegnamento. Ritiratosi a Cluny, negli ultimi anni della sua vita conduce una vita di rigorosa penitenza, dedicata alla preghiera, alle letture e alla scrittura; muore in Borgogna, nel piccolo monastero di Saint-Marcel, il 21 aprile 1142. Vita e opere di Bernardo di Chiaravalle Nel 1098 viene fondato a Citeaux l'ordine cisterciense, che ripropone in tutto il suo rigore la regola di Benedetto: lavoro manuale, studio e meditazione scandiscono la giornata del monaco. Qui si forma Bernardo. Di origine nobile, egli nasce nel 1090 presso Digione, in Borgogna. Nel 1112 entra a Cîteaux, con un gruppo di parenti e amici, e l'anno successivo prende l'abito monastico. La sua salute delicata peggiora ed egli non può compiere i più duri lavori manuali nel monastero. L'abate di Citeaux, Stefano Harding, decide di espandere l'ordine, come era successo con Cluny, così nel 1115 si costituisce Clairvaux (in italiano Chiaravalle) e Bernardo ne diventa abate, sino alla morte che avverrà nel 1153. La fama di Bernardo si diffonde anche fuori della Francia: nel 1133 egli si reca in Italia chiamato dal papa Innocenzo II, presso cui gode grande credito. Con la nomina a papa di Eugenio III, già monaco a Clairvaux, il prestigio di Bernardo raggiunge il culmine. Nel frattempo, Bernardo lotta non solo contro teologi e filosofi ma anche contro i movimenti eretici popolari, che contestano la Chiesa gerarchica, i sacramenti e invitano alla povertà e alla semplicità evangelica, tra questi i catari (letteralmente: i puri). L'altro fronte sul quale Bernardo impegna la sua azione è la crociata. Nel 1144 cade Odessa e l'anno successivo il papa Eugenio bandisce una crociata, che sarà la seconda; nel 1146 Bernardo predica a Vézelay a favore di essa e poi continua la sua predicazione anche nelle Fiandre. Nell'anno successivo le armate partono, ma ben presto la spedizione fallisce, Bernardo giustifica l'insuccesso con la tesi che esso è voluto da Dio per mettere i cristiani alla prova. Nel 1153 muore dapprima Eugenio e poi Bernardo stesso, che sarà santificato e chiamato doctor mellifluus per la sua eloquenza. Dante né farà la figura che lo accoglie al culmine della sua ascesa nel Paradiso. Vita e opere di Tommaso d’Aquino Tommaso, della famiglia dei conti d'Aquino, nasce a Roccasecca (presso Gassino) nel 1225 e riceve la sua prima educazione al monastero benedettino di Montecassino. Nel 1243 entra nell'ordine domenicano, studia presso le università di Napoli e Parigi, dove entra in contatto con Alberto Magno, che segue quando questi passa a insegnare a Colonia. Dal 1252 al 1256 Tommaso studia a Parigi per diventare dottore in teologia, e, dopo avere conseguito il titolo di dottore in teologia, inizia l'insegnamento che mantiene fino al 1259. In seguito è chiamato in Italia con incarichi diversi all'interno dell'ordine e presso la curia papale. A Viterbo presumibilmente conosce il confratello Guglielmo di Moerbeke, uno studioso fiammingo che proprio in quegli anni dà un grande contributo alla conoscenza di Aristotele traducendone direttamente le opere dal greco. Nel 1268 Tommaso è di nuovo all'università di Parigi, dove rimane fino al 1272 e dove si impegna in varie polemiche: contro i francescani che rifiutano il pensiero aristotelico, contro il diffondersi delle tesi, averroiste, che rischiano di compromettere l'immagine dell'aristotelismo a causa delle interpretazioni contrastanti su alcuni punti fondamentali con il pensiero cristiano. Nel 1272 Tommaso è chiamato a insegnare a Napoli presso lo Studio generale dei domenicani e lì resta fino al 1274, quando, nonostante le precarie condizioni di salute, riceve dal papa l'ordine di recarsi al Concilio di Lione. Ma, durante il viaggio, muore nell'abbazia cistercense di Fossanova, presso Terracina. Dopo la sua morte, nel 1277 il francescano Stefano Tempier, vescovo di Parigi, condanna varie tesi aristoteliche, per lo più di origine averroistica, alcune delle quali sono sostenute anche da Tommaso. Altre condanne dello stesso tenore sono pronunciate a Canterbury. Ma ben presto la Chiesa riconosce la piena ortodossia delle tesi tomiste e nel 1323 Tommaso è proclamato santo. Chiamato dapprima doctor angelicus per la sua sapienza, riceve poi l'appellativo di doctor communis, il maestro comune a tutti i cattolici, per i quali il tomismo diventa un punto di riferimento filosofico essenziale. Vita e opere di Ruggero Bacone Ruggero Bacone, (1214-1292), studia e pio insegna sia a Oxford che a Parigi. In questo periodo commenta varie opere aristoteliche e compone scritti di medicina, alchimia, astronomia. Intorno al 1257 entra nell'ordine francescano, all'interno del quale vive non facili rapporti sia per le sue aperture all'aristotelismo sia per l'insofferenza verso il nuovo corso impresso all'ordine su ispirazione di Bonaventura, che impone agli appartenenti di comunicare all'esterno solo se autorizzati dai loro superiori. Una norma, quest'ultima, che dal punto di vista baconiano appare un ostacolo alla circolazione delle conoscenze. 74 Gli interessi di Bacone si concentrano intorno a progetti di carattere scientifico-filosofico, a cui egli lavora alacremente, convinto di avere una missione da compiere contro eretici e infedeli, allo scopo di instaurare il regno di Dio sulla Terra attraverso gli strumenti della ragione. Da qui nasce l'idea di una grande opera, che raccolga ed esponga in modo organico il saper del tempo allo scopo di instaurare il regno di Dio sulla terra. Tra il 1266 e il 1268, sollecitato dal nuovo pontefice Clemente IV, che ha avuto notizia delle sue iniziative filosofico-scientifiche, Bacone elabora e invia al papa un'ampia presentazione dell'Opus maius, la grande enciclopedia del sapere da lui progettata (e mai realizzata). Successivamente egli ne riassume il contenuto in due scritti più brevi, l'Opus minus e l'Opus tertium, che pure invia al papa. Ma la morte di Clemente IV nel 1268 fa svanire la speranza baconiana di dare un contributo concreto alla rigenerazione del mondo attraverso le scienze. Negli anni successivi l'impegno di Bacone consiste soprattutto nella rielaborazione di scritti precedenti. Nel 1277, in seguito alla condanna di alcune sue tesi sull'astrologia (nel quadro di un'offensiva delle autorità ecclesiastiche parigine contro l'aristotelismo), Bacone è imprigionato, mentre viene imposto il divieto di diffusione dei suoi scritti. L'ultima testimonianza sull'attività di Bacone risale al 1292, probabile anno della morte. Vita e opere di Guglielmo d’ Ockham Guglielmo nasce a Ockham (a sud di Londra) in un anno imprecisato tra il 1280 e il 1290. Entra nell'ordine francescano, studia a Oxford, dove poi insegna. Nel 1324 Guglielmo è costretto a lasciare l'Inghilterra e a trasferirsi in Francia, presso la sede papale di Avignone, per rispondere all'accusa di eresia che gli era stata mossa da uno zelante e polemico difensore dell'ortodossia, John Lutterell. In una documentazione inviata a papa Giovanni XXII, Lutterell aveva messo insieme molti estratti dai commenti di Ockham, che riteneva eterodossi e dottrinalmente pericolosi. Una commissione papale, dopo aver studiato questi documenti per alcuni anni, vi trova non solo molte tesi erronee ma anche alcune tesi eretiche. Nello stesso periodo il papa aveva fatto inquisire ad Avignone anche altri teologi francescani per le loro tesi radicalmente evangeliche sulla povertà (sostenevano che la vita di povertà ed elemosina dei francescani fosse l'imitazione dello stile di vita di Gesù e degli apostoli). Uno di loro, Michele da Cesena, ministro generale dell'ordine francescano, chiede a Guglielmo di esaminare il contenuto delle accuse del papa da un punto di vista teologico, ne conclusero che il pontefice sia su posizioni estranee alla coerenza evangelica e in alcuni casi addirittura in eresia. Non considerando il papa più degno di tale carica veniva meno il vincolo dell'obbedienza: la notte del 26 maggio 1328 Guglielmo decide di fuggire da Avignone, insieme a Michele da Cesena e altri due confratelli. Il gruppo cerca rifugio a Pisa, dove in quel momento si trovava con la sua corte l'imperatore Ludovico il Bavaro, allora impegnato nella polemica con il papa sui rapporti tra potere civile (imperiale) e potere ecclesiastico (pontificio). I16 giugno 1328 Guglielmo di Ockham viene scomunicato (non per le sue idee, ma per aver lasciato Avignone senza permesso). Inizia così una nuova fase della produzione di Ockham che, divenuto sostenitore militante della povertà francescana e critico verso le teorie sulla "pienezza di potere" del papa, da qui in avanti si dedicò esclusivamente a opere teologico-politiche. Guglielmo segue l'imperatore in Germania, a Monaco di Baviera, dove muore nel 1347. 75 SCOLASTICA Scuole monastiche Pier Damiani (1007-1072) Anselmo d'Aosta (1033-1109) antidialettico Platonismo cristiano Bernardo di Chiaravalle (10911153) Guglielmo di Champeaux (1070 ca.-1122) Roscellino di Compiègne (ca. 10501123) Pietro Abelardo (1079-1142) Avversario della mentalità urbana Tommaso d’Aquino (1225-1274) Università Bonaventura di Bagnoregio (12171274) Boezio di Dacia (XIII sec.) Guglielmo di Ockham (1280 ca.1347) Marsilio da Padova (1280 ca.-1343) Conciliabilità superiorità fede Inconciliabilità superiorità fede Universali Realismo ingenuo Nominalismo Avversario della mentalità monastica Aristotelismo cristiano Filosofia Chiesa cattolica Duns Scoto (1265-1308) Ruggero Bacone (1214-1292) Fede e ragione Valorizzazione sapere pratico Autonomia potere politico Conciliabilità superiorità ragione Conciliabilità superiorità fede Inconciliabilità ambiti diversi Inconciliabilità ambiti diversi Inconciliabilità ambiti diversi Nominalismo Inconciliabilità ambiti diversi Nominalismo Realismo sofisticato 76 8 - U. ECO - SEGNI Les paroles seules comptent. Le reste est bavardage (Ionesco) Supponiamo che il signor Sigma, durante un soggiorno a Parigi, cominci ad avvertire dei disturbi alla "pancia". Ho usato un termine generico perché il signor Sigma ha ancora una sensazione confusa. Ora fa mente locale e cerca di definire il disturbo: bruciori di stomaco? Spasimi? Dolori viscerali? Egli cerca di dare un nome a stimoli imprecisi: dando loro un nome li culturalizza, cioè riassume quello che era un fenomeno naturale sotto precise rubriche " codificate ", cerca quindi di dare a una sua esperienza personale una qualifica che la renda simile ad altre esperienze già nominate nei libri di medicina o negli articoli di giornale. Ora ha trovato la parola che gli sembra giusta: questa parola sta per il disturbo che egli avverte. Visto che intende comunicare i suoi disturbi a un medico, egli sa che potrà usare la parola (che il medico è in grado di capire) in luogo del disturbo (che il medico non avverte e forse non ha mai avvertito in vita sua). Chiunque sarebbe disposto a dire che questa parola, che il signor Sigma ha individuato, sia un segno. Ma il nostro problema è più complesso. Il signor Sigma decide di chiedere un appuntamento a un dottore. Consulta la guida telefonica di Parigi: segni grafici precisi gli dicono chi sia medico e come raggiungerlo. Esce di casa, cerca con gli occhi un segnale particolare che ben conosce: entra in un bar. Se fosse un bar italiano cercherebbe di individuare un angolino immediatamente vicino alla cassa dove dovrebbe esserci un telefono, di colore metallico. Siccome sa di essere in un bar francese, ha a propria disposizione altre regole interpretative dell'ambiente: cerca l'imboccatura di una scala che scenda nello scantinato. Lì, egli sa, in ogni bar parigino che si rispetti, ci sono le toelette e i telefoni. L'ambiente gli si presenta quindi come un sistema di segni orientativi che gli dicono dove potrà parlare. Sigma scende e si trova di fronte a tre cabine piuttosto anguste. Un altro sistema di regole gli dice come introdurre uno dei gettoni che ha in tasca (che sono diversi, e non tutti sono adatti a quel tipo di telefono: deve quindi leggere il gettone x come " gettone adatto al telefono di tipo y ") e finalmente un segnale sonoro gli dice se la linea è libera: questo segnale è diverso da quello che si ode in Italia, e quindi egli deve possedere un'altra regola per " decodificarlo " : anche quel rumore (quel bourdonnement, come lo chiamano i francesi) sta per l'equivalente verbale " via libera ". Ora egli ha di fronte il disco con le lettere dell'alfabeto e i numeri: egli sa che il medico che cerca corrisponde a DAN 0019, questa sequenza di lettere e numeri corrisponde al nome del medico, ovvero significa " casa tal dei tali ". Ma introdurre il dito nei fori del disco e farli girare in corrispondenza a numeri e lettere volute ha ancora un altro significato: vuol dire che il dottore sarà avvertito del fatto che Sigma lo chiama. Sono due ordini di segni diversi, tanto è vero che posso annotare un numero di telefono, sapere a chi corrisponde e non chiamare mai; e posso fare un numero a caso, senza sapere a chi corrisponde, e sapere che facendolo chiamo qualcuno. Questo numero poi è regolato da un codice molto sottile: le lettere per esempio si riferiscono a un quartiere particolare della città, ma ogni lettera a sua volta significa un numero, e se chiamassi Parigi in diretta da Milano dovrei sostituire DAN con i numeri corrispondenti, perché il mio telefono italiano ubbidisce a un altro codice. In ogni caso Sigma fa il numero: un nuovo suono gli dice che il numero è libero. E finalmente ode una voce: questa voce parla in francese, che non è la lingua di Sigma. Sigma, per chiedere l'appuntamento (e anche dopo, quando spiegherà al medico quello che si sente) deve passare da un codice all'altro, e tradurre in francese quello che ha pensato in italiano. Ora il medico gli ha dato un appuntamento e un indirizzo. L'indirizzo è un segno che rinvia a una posizione 77 precisa nella città, a un piano preciso in un edificio, a una porta precisa dì questo piano; l'appuntamento si regge sulla possibilità, da parte di entrambi, di far riferimento a un sistema di segni di uso universale, che è l'orologio. Ci sono poi diverse operazioni che Sigma deve compiere per riconoscere un taxi come tale, i segni che deve comunicare al tassista; c'è il modo in cui un tassista interpreta i segnali stradali, sensi vietati, semafori, svolte a sinistra o a destra, la comparazione che deve attuare tra indirizzo ricevuto verbalmente e indirizzo scritto su una targa stradale...; e poi ci sono le operazioni che deve compiere Sigma per riconoscere l'ascensore nel palazzo, identificare il bottone corrispondente al piano, premerlo per ottenere il trasferimento verticale, e infine il riconoscimento dell'appartamento del medico in base alla targa sulla porta. Sigma deve anche riconoscere, tra due pulsanti posti vicino alla porta, quello che corrisponde al campanello e quello che corrisponde alla luce delle scale: essi possono essere riconoscibili in base alla forma diversa, alla posizione più o meno ravvicinata alla porta, oppure in base a un disegno schematico che portano inciso sul tasto, campanella in un caso, lampadina nell'altro... Insomma, Sigma deve conoscere molte regole, che fanno corrispondere a una data forma una data funzione, o a dati segni grafici date entità, per poter finalmente avvicinare il medico. Finalmente è seduto davanti al medico, e tenta di spiegargli cosa ha capito quella mattina: " J'ai mal au ventre". Il medico capisce le parole, ma non si fida: non è sicuro cioè che Sigma abbia indicato con le parole giuste la sensazione precisa. Fa domande, nasce uno scambio verbale, Sigma è portato a precisare il tipo di male, la posizione. Il medico ora palpa lo stomaco e il fegato di Sigma: alcune esperienze tattili hanno per lui un significato che per altri non hanno, perché ha studiato su libri che spiegano come a una certa esperienza tattile debba corrispondere una data alterazione organica. Il medico interpreta le sensazioni che Sigma ha avuto (e che lui non prova) e le compara alle sensazioni tattili che lui sta avendo. Se i suoi codici di semeiotica medica sono giusti, i due ordini di sensazioni dovrebbero corrispondere. Ma le sensazioni di Sigma arrivano al medico attraverso i suoni della lingua francese; il medico deve stabilire se le parole che si manifestano sotto forma di suoni sono coerenti, secondo gli usi verbali correnti, con le sensazioni di Sigma; ma nutre il dubbio che Sigma usi parole imprecise non perché abbia sensazioni imprecise, ma perché traduce male dall'italiano in francese. Sigma dice " ventre ", ma forse vuole dire " foie " (e d'altra parte può darsi che Sigma sia un incolto, e che per lui anche in italiano fegato e pancia siano una certa entità indifferenziata). Il medico ora guarda le palme delle mani di Sigma e le vede maculate irregolarmente di rosso : " Brutto segno " – mormora - " Lei non beve un po' troppo? ". Sigma ammette: " Come ha fatto a capirlo? ". Domanda ingenua, il medico sta interpretando dei sintomi come fossero dei segni molto eloquenti : egli sa cosa corrisponde a una certa macchia, a un certo rigonfiamento. Però non lo sa con assoluta esattezza: attraverso le parole di Sigma e le sue esperienze tattili e visive ha individuato dei sintomi, e li ha definiti nei termini scientifici a cui lo ha abituato la sintomatologia studiata all'università, ma sa anche che a sintomi uguali possono corrispondere malattie diverse e viceversa. Deve ora passare dal sintomo alla malattia di cui è segno, e questo è affar suo. Speriamo che non debba fare anche una lastra, perché in tal caso dovrebbe passare da segni grafico-fotografici al sintomo che essi rappresentano, e dal sintomo all'alterazione organica. Non lavorerebbe su un solo sistema di convenzioni segni che, ma su più sistemi. La cosa è così difficile, che è facilissimo che sbagli diagnosi. Del che non ci preoccuperemo. Possiamo abbandonare Sigma al suo destino (con i nostri migliori auguri) : se riuscirà a leggere la ricetta che il medico gli darà (cosa non facile, perché la scrittura dei clinici pone non pochi problemi di decifrazione), forse potrà rimettersi in sesto e godersi la sua vacanza a Parigi. Può darsi tuttavia che Sigma sia un testardo imprevidente; e che di fronte all'ingiunzione " O lei smette di bere o non garantisco per il suo fegato! ", 78 concluda che è molto meglio godersi la vita senza preoccuparsi per la salute, che ridursi nelle condizioni di un malato cronico che pesa cibi e bevande col bilancino. Sigma in tal caso opererebbe una opposizione tra Bella Vita e Salute, che non è omologa a quella consueta tra Vita e Morte: la Vita, vissuta senza preoccupazioni, col suo rischio permanente che è la Morte, gli apparirebbe come la stessa faccia di un valore primario, la Spensieratezza, a cui si opporrebbero d'altro canto Salute e Preoccupazione, entrambe apparentate alla Noia. Sigma avrebbe dunque un suo sistema di idee (così come lo ha in politica o in estetica) che si manifesta come una particolare organizzazione di valori o contenuti. Nella misura in cui questi contenuti gli si manifestano sotto forma di concetti o categorie mentali, anch'essi stanno per qualcos'altro, per le decisioni che implicano, per le esperienze che contrassegnano. Secondo alcuni, anch'essi si manifestano nella vita personale e interpersonale di Sigma come segni. Se sia vero, lo vedremo. Il fatto è che molti lo pensano. Ma per il momento quello che ci interessava rilevare era come un individuo normale, messo di fronte a un problema così spontaneo e naturale come un comune " mal di pancia ", fosse costretto a entrare immediatamente in un reticolo di sistemi di segni: alcuni connessi con la possibilità di compiere operazioni pratiche, altri più direttamente coinvolti con atteggiamenti che definiremmo " ideologici ". Tutti, in ogni caso, fondamentali ai fini dell'interazione sociale, e a tal punto da chiederci se i segni permettessero a Sigma di vivere in società o se la società in cui Sigma vive e si costituisce come essere umano altro non sia che un complesso sistema di sistemi di segni. Infine, ci sarebbe stata per Sigma coscienza razionale del proprio dolore, possibilità di pensarlo e classificarlo, se la società e la cultura non lo avessero umanizzato come animale capace di elaborare e comunicare segni? Tuttavia l'esempio a cui si è fatto ricorso potrebbe invogliare a pensare che questa invadenza dei segni sia tipica soltanto di una civiltà industriale, si verifichi nel cuore di una città, rutilante di luci, insegne, segnaletica stradale, suoni e segnali di ogni tipo: come se, infine, si avessero segni solo quando c'è civiltà, nel senso più banale del termine. Invece Sigma vivrebbe in un universo di segni anche se fosse un contadino isolato dal mondo. Egli percorrerebbe la campagna di prima mattina, e dalle nuvole che si stagliano all'orizzonte saprebbe già predire il tempo che farà. Il colore delle foglie lo rassicurerebbe sul volger della stagione, una serie di striature sul terreno che si profila lontano sulle colline gli direbbe a quale tipo di coltivazione quel terreno è stato addetto. Un germoglio in un cespuglio gli segnalerebbe lo spuntare di un certo tipo di bacche, saprebbe distinguere i funghi velenosi da quelli commestibili, il muschio su un dato lato degli alberi, nel bosco, gli direbbe da che parte sta il nord, posto che non lo avesse già inferito dal movimento del sole. Sprovvisto come è di orologio, sarebbe sempre il sole a segnalargli l'ora che volge, e un filo di vento gli direbbe tante cose che un cittadino di passaggio non saprebbe decifrare; così come la percezione di un certo profumo (per lui che sa dove crescono certi fiori) gli direbbe forse da che parte spira il vento. Se fosse cacciatore, un'orma sul terreno, un ciuffo di peli lasciato su un ramo spinoso, una qualsiasi traccia infinitesimale, gli rivelerebbero quale selvaggina è passata di lì, e persino quando... Insomma Sigma, anche immesso nella natura, vivrebbe in un mondo di segni. Questi segni non sono fenomeni naturali: i fenomeni naturali in sé non dicono niente. I fenomeni naturali " parlano " a Sigma nella misura in cui tutta una tradizione contadina gli ha insegnato a leggerli. E dunque Sigma vive in un mondo di segni non perché vive nella natura ma perché, anche quando è solo, vive nella società: quella società contadina che non si sarebbe costituita e non avrebbe potuto sopravvivere se non avesse elaborato i propri codici, i propri sistemi di interpretazione dei dati naturali (che per ciò stesso diventavano dati culturali). 79 Naturalmente un linguista potrebbe osservare che, se incominciamo a chiamare segno ogni artificio che permette in qualche modo una interazione tra due soggetti, e addirittura le solitarie traduzioni che Sigma compiva nella sua mente, allora non ci si ferma più. Ci sono degli artifici che sono segni in senso proprio, come le parole, qualche sigla, qualche convenzione segnaletica, e c'è tutto il resto, che segno non è, e sarà esperienza percettiva, capacità di trarre ipotesi e previsioni da esperienze, e così via. La proposta avrebbe l'aria di essere molto sensata; potrebbe essere confutata da quanto si leggerà nelle pagine che seguono, ma esse non sono ancora state lette. Sta di fatto tuttavia che due fenomeni ci inducono a pensare che l'obbiezione linguistica sia troppo restrittiva (a parte il fatto che questa obbiezione è stata liquidata in parte proprio da un grande linguista come Ferdinand de Saussure). Da un lato sta il fatto che lungo tutta la storia del pensiero filosofico il concetto di segno è stato usato in modo molto ampio, così da coprire molte delle esperienze che abbiamo esaminato nel nostro esempio. Dall'altro sta il fatto che l'uso comune, quello che viene registrato fedelmente dai dizionari, ci abitua ad un uso della parola " segno " che sembra fatto apposta per accreditarne un impiego assai generalizzato. da U. Eco “Segno”, Mondadori 80