E - I PROBLEMI DELLA FILOSOFIA: LA CONCEZIONE DI DIO.
11 - L’Ellenismo e la formazione del cristianesimo
7 - Agostino d’Ippona - Il conflitto della volontà e la conversione
12 - La filosofia medioevale
8 – U. Eco “Segni”
11 - L’ELLENISMO E LA FORMAZIONE DEL CRISTIANESIMO
0 - Il cristianesimo come fenomeno storico-culturale
1 – Dall’ellenismo al cristianesimo
1.0 L'ellenismo: le nuove caratteristiche della cultura e dell'intellettuale
1.1 Lo stoicismo
1.2 Il neopitagorismo
1.3 Il neoplatonismo e Plotino
1.4 Le religioni di salvezza e misteriche
1.5 L'ebraismo e la filosofia greco-giudaica
2 – La formazione del cristianesimo
2.0 Le tappe della formazione del cristianesimo
2.1 I Vangeli e la predicazione di Gesù
2.2 Paolo di Tarso
2.3 Il Vangelo di Giovanni
2.4 La Patristica
2.5 Agostino d’Ippona
IL CRISTIANESIMO COME
FENOMENO _______________________
0 - Il cristianesimo come fenomeno storico-culturale
In sede storico-filosofica il cristianesimo va visto, evidentemente, non con gli
occhi della fede bensì come un fenomeno storico-culturale e, quindi, studiato con
gli stessi strumenti e con la stessa ottica con cui si studiano tutti gli altri
fenomeni storico-culturali.
Da questo punto di vista l’elaborazione del cristianesimo deve innanzitutto
essere considerata non legata all’azione di un solo individuo, Gesù, quanto
invece un fenomeno collettivo. La sua elaborazione culturale è, infatti, il frutto
del coagularsi di idee presenti nelle culture e nelle società del bacino
mediterraneo durante l’ellenismo, provenienti in particolare, ma non solo, dalla
cultura greca e da quella ebraica.
Inoltre, la formazione del cristianesimo deve essere considerata come un
processo di lunga durata, in quanto non si esaurisce con la predicazione de Gesù
ma occupa l’intera epoca ellenistica (III sec. a.C. - IV sec. d.C. ).
Al termine del periodo che prenderemo in esame e quindi dopo il IV secolo, con
il consolidarsi della struttura ecclesiastica e la trasformazione del cristianesimo in
religione dello stato, il cristianesimo assunse un ruolo politico, destinato a
rafforzarsi dopo il crollo dell’Impero romano.
A – fenomeno _____________________
B - ________________________________
(_________ sec. a. C. - ______________)
IV sec. - __________: la ______________
________________________ della cultura
1
In effetti, fino a primi secoli dopo il mille nell’Europa occidentale la Chiesa
svolse un ruolo egemone sul piano politico e ancor più sul piano culturale,
caratterizzando un’intera fase dell’evoluzione della cultura occidentale, quella
medioevale, dando vita a una tradizione che ha imposto una mentalità, un modo
di vedere che possiamo definire religioso. Tale periodo coincide con quello che
abbiamo considerato il secondo macroperiodo della filosofia occidentale la
cristianizzazione della cultura, che avrà termine con il Rinascimento e la
Rivoluzione scientifica del Seicento destinati a dare inizio al processo di
laicizzazione della cultura.
DALL'ELLENISMO AL
CRISTIANESIMO
1 – Dall’ellenismo al cristianesimo
IL CRISTIANESIMO COME PRODOTTO
DELL’INCONTRO TRA LA ________________
Come abbiamo accennato l’epoca ellenistica è caratterizzata dall’incontro tra le
tradizioni culturali preesistenti nell’intera area mediterranea (in particolare
quella ebraica) e quella greca che integrandosi portarono alla formazione di
nuovi modelli culturali e nuovi valori, tra questi il cristianesimo che risulterà
determinante per il successivi sviluppo della civiltà europea.
Il processo di integrazione culturale fu, in epoca ellenistica, favorito dal nuovo
tipo di istituzione politica che si stava affermando, rappresentato dalle grandi
monarchie o dagli imperi che cercavano di imporre il dominio politico su zone
sempre più vaste del bacino del Mediterraneo.
Tali istituzioni infatti amministravano territori sempre più vasti e al loro interno
si realizzò una sempre maggior integrazione sia economica che amministrativa
fra aree geografiche e popolazioni diverse.
I principali centri sedi di queste istituzioni politiche divennero anche i nuovi
luoghi dell’elaborazione della cultura. Si affiancarono così ad Atene, che era
stato nei secoli precedenti il principale centro di elaborazione culturale, nuovi
centri inizialmente collocati sulle coste asiatiche (ad esempio Pergamo in
Turchia) e africane (Alessandria d’Egitto) e in seguito Roma, al centro del
bacino mediterraneo. Un centro primario fu sicuramente rappresentato da
Alessandria d’Egitto con il suo grande museo, costituito da un osservatorio
astronomico, un giardino zoologico, un orto botanico, sale per le dissezioni
anatomiche e la sua biblioteca che giunse a raccogliere da 500.000 a 700.000
testi e il cui nucleo originario fu costituito dalla biblioteca del liceo aristotelico
trasferito, significativamente, da Atene ad Alessandria.
L’azione della biblioteca fu importantissima in quanto in essa ed in altre
istituzioni culturali simili, sorte soprattutto in Asia minore, si affermarono due
importanti novità che caratterizzano l’epoca ellenistica.
La prima di questa è costituita dal definitivo prevalere della cultura scritta su
quella orale, cosa che per la cultura greca era un dato ormai acquisito sin dal
periodo platonico, fine V inizio IV secolo a. C., e che in questo periodo si
diffuse per tutta l’area mediterranea.
Avvenne, infatti, in epoca ellenistica la trascrizione di gran parte del patrimonio
culturale fino ad allora trasmesso oralmente; tra le opere frutto di questa
trascrizione vi è, come vedremo, anche la Bibbia, sicuramente uno dei grandi
testi della nostra cultura.
Dall’epoca ellenistica in poi, ed almeno fino all’attuale epoca della
multimedialità, il libro, dapprima riprodotto manualmente e dal XV secolo della
nostra era grazie alla stampa, ha rappresentato il principale mezzo per la
trasmissione della cultura.
Una delle conseguenze del prevalere della cultura scritta fu un mutamento della
figura dell’intellettuale, cioè di colui che elabora la cultura.
Infatti, mentre prima l’intellettuale si avvaleva di uno strumento comune a tutti,
DELL’AEREA ________________________
L'ELLENISMO: LE NUOVE
CARATTERISTICHE DELLA CULTURA
E DELL'INTELLETTUALE
Monarchie e _______________________:
l’unificazione _____________________
_________ del _____________________
I nuovi __________________ culturali
LE NUOVE CARATTERISTICHE DELLA
CULTURA E DELL'INTELLETTUALE
2
la parola orale, e si rivolgeva al ristretto pubblico dei suoi ascoltatori, a cui lo
legavano rapporti molto stretti, ora il nuovo intellettuale si rivolge a un pubblico
molto più vasto in quanto coincide, almeno tendenzialmente, con l’insieme degli
intellettuali del mondo ellenistico. Tale pubblico benché più vasto è però anche
decisamente più elitario, se non altro perché ristretto a chi utilizza la scrittura.
La nuova situazione comportò anche altre modifiche per ciò che riguarda il ruolo
dell’intellettuale. Innanzitutto, il nuovo intellettuale, che studia e scrive nelle
biblioteche per altri intellettuali, non era più organicamente inserito nella vita
politica della città come lo erano i filosofi ad Atene nell’epoca classica (i casi
più emblematici sono rappresentati da Socrate e Platone), in quanto le decisioni
politiche, monopolio delle monarchie regnanti, non erano più, come nell’Atene
classica, oggetto di discussione pubblica.
Il nuovo ruolo sociale dell’intellettuale, estromesso dalla politica e confinato
nelle biblioteche, favorì l’affermazione della concezione aristotelica del “sapere
per il sapere”, ovvero di un sapere disinteressato, astratto e non funzionale
all’esperienza.
L’affermazione del “sapere per il sapere”appare strettamente legata alla struttura
produttiva e sociale del mondo antico e medioevale. Infatti, tutte le società
occidentali fino al XVII-XVIII secolo sono state caratterizzate dall’esistenza di
una classe dominante, l’aristocrazia antica, la nobiltà feudale e moderna, che
controllava ciò che le altre classi producevano ed era quindi portata a considera
l’attività produttiva solo come un mezzo per potersi dedicare alle attività
superiori, tali perché del tutto estranee alla produzione, ovvero le attività
spirituali, non manuali, sostanzialmente la politica, l’attività militare e la cultura.
Tale concezione del sapere verrà superata solo con l’avvento della società
capitalista e l’emergere di una nuova classe egemone, la borghesia, che porrà
l’attività economica e produttiva al centro dei suoi interessi richiedendo alla
scienza di essere un’attività utile, volta a incrementare il dominio dell’uomo
sulla natura.
Tornando al periodo ellenistico il nuovo ruolo sociale dell’intellettuale favorì
anche l’affermarsi di nuove tematiche. Così, ad esempio, l’interesse politico fu
sostituito da quello religioso. Infatti l’intellettuale ellenistico non appare più,
come Socrate e Platone, interessato al destino sociale della città in cui vive
(anche perché non lo può più controllare direttamente), bensì al suo personale
destino, di qui l’interesse per le religioni salvifiche1, tra cui va posto anche il
cristianesimo.
Il sapere _______________________
e struttura __________________
La ____________________ moderna:
sapere e dominio _____________________
LE NUOVE CARATTERISTICHE DELLA CULTURA E DELL'INTELLETTUALE
Prevalere cultura ___________________:
1 - trascrizione del____________________________________________________________________________________
2 - ____________________: luogo di attività dell’intellettuale ( ctr ________________________)
3 - ____________________________________________________________________________________________________
A – pubblico più _________________ ma _______________________________________________________________
B – non ______________________________________________________________________________________________
a – prevalere del ______________________________________________________________________________
b - __________________________________________________________________________________________
1
Sono salvifiche tutte quelle religioni che promettono al fedele qualche forma di salvezza, ovvero di
esistenza migliore.
3
Dal punto di vista filosofico l’ellenismo è caratterizzato dalla compresenza di più
correnti di pensiero.
Nell’area greco-romana2 la riflessione filosofica rimase essenzialmente legata ai
temi emersi dalla filosofia greca e alle correnti che si erano già affermate ad
Atene nel secolo precedente, cioè l’epicureismo, lo stoicismo e lo scetticismo.
Lucrezio, Cicerone, Seneca, Marco Aurelio, forse i principali pensatori del
mondo latino, si muovo tutti all’interno di tali correnti.
Le novità più importanti si produssero, almeno nei primi secoli dell’Ellenismo,
nel medio oriente e sulle coste dell’Africa del nord dove avvenne l’incontro tra
la cultura greca e quella medio orientale.
Qui, e specialmente come si è detto ad Alessandria d’Egitto, sul piano scientifico
avvenne, tra il III e il II secolo a. C., la sistemazione delle maggiori conquiste
scientifiche avvenute nell’antichità.
Tale lavoro è legato ai nomi di Euclide per la geometria, Archimede per la fisica,
di Aristarco e Ipparco nell’astronomia che legarono i loro nomi rispettivamente
alla prima formulazione dell’ipotesi eliocentrica il primo e di quella geocentrica,
il secondo.
La moderna rivoluzione scientifica, avvenuta nel Seicento all’inizio dell’età
moderna, per molti versi si ricollegò direttamente alle conquiste di questo
periodo che per tantissimi secoli non subirono più alcuna rielaborazione.
L’incontro tra la tradizione greca e quella medio orientale si tradusse, sul piano
filosofico, in un riemergere, ma in una visione profondamente nuova di alcune
tematiche già presenti nella Grecia classica e legate in particolar modo alle
correnti pitagoriche e platoniche, tant’è che gli storici della filosofia parlano di
neopitagorismo e neoplatonismo. Dall’incontro tra la cultura greca e quella
ebraica sorse la filosofia greco-giudaica che rappresenta il primo tentativo di
conciliare la concezione biblica con quella elaborata dai filosofi greci.
Dal Medio oriente provennero anche una serie di culti che costituirono con il
loro patrimonio di riti, forme organizzative e modelli comportamentali una delle
fonti della formazione del cristianesimo.
Esamineremo ora gli apporti che le diverse componenti culturali e religiose
dell’ellenismo hanno dato alla formazione del cristianesimo, limitando l’esame
di tali componenti esclusivamente a questa tematica.
CULTURA ELLENISTICA
I poli culturali dell’ellenismo:
1 – area ____________________________
2 - _______________________________
a – sistemazione ____________________
_________________________________
b - piano filosofico:
- neo ____________________________
- ________________________________
- ________________________________
c – piano religioso
E FORMAZIONE CRISTIANESIMO
Alla formazione hanno contribuito:
1 - __________________ greco-romano
2 ________________________________________________
3 - _______________________________________________
4 _________________________________________________
5 - ________________________________________________
I CONTRIBUTI DELLO
STOICISMO ALLA
Della cultura greco-romana contribuirono alla formazione del cristianesimo
FORMAZIONE DEL ___________________:
soprattutto due concetti elaborati all’interno della filosofia stoica, ovvero quello
di provvidenza universale e quello di morale come dovere.
1 - ______________________________
Gli stoici3 pensavano che nel mondo si manifestasse l’azione di due principi
strettamente uniti e divisibili solo a livello conoscitivo: il principio attivo e Il principio _____________pensato come:
quello passivo. Rifacendosi ad Aristotele, consideravano il principio attivo come a - forma della ______________________
2
Roma sottomise politicamente la Grecia intorno alla metà del II secolo a. C..
Per la concezione della realtà degli stoici vedi “6 – I problemi della filosofia: la concezione della realtà.
Gli stoici e il vitalismo antico”
3
4
la forma delle cose e quella passivo come la materia. Il principio attivo era
pensato dagli stoici come la legge che governa la materia ed era identificato con
la divinità.
Si trattava di una concezione della divinità profondamente diversa da quella che
sarà fatta propria dal Cristianesimo. Infatti, la concezione stoica vedeva la
divinità come qualcosa di immanente, ovvero come qualcosa di coincidente,
insito nell’universo, mentre nella visione del cristianesimo Dio apparirà come un
principio trascendente, ovvero superiore, non riconducibile e comunque esterno
all’universo.
Un’ulteriore differenza tra la concezione stoica della divinità e quella cristiana è
rintracciabile nel fatto che la divinità stoica non coincide con quella del Dio
persona cristiano, in quanto esso rappresenta piuttosto la legge che governa
l’universo. Dio come persona e come principio trascendente sono tipici della
tradizione ebraica e da essa sono pervenuti al cristianesimo.
Gli stoici indicavano il principio attivo anche con il termine greco “logos”,
ovvero discorso/ragione, in quanto la legge che governa il mondo costituiva
anche un ordine razionale poiché coincidente con l’intelligenza divina.
Poiché era retto da un ordine razionale interno il mondo era, per gli stoici,
soggetto a un principio di causalità universale attraverso il quale si realizzava un
piano provvidenziale. Il principio di causalità universale sostiene che tutto ciò
che accade nell’universo ha una causa ed è a sua volta causa di qualcos’altro.
L’universo è dunque retto da un’unica catena causale per cui un evento privo di
causa è impensabile, in quanto ci sarebbe qualcosa di non determinato dalla
natura e dalla ragione divina insita in essa.
La provvidenza costituisce, per gli stoici, il piano razionale che, tramite la
causalità universale, regge e governa il mondo realizzando un mondo perfetto,
perché ordinato e armonico in cui il male stesso appare giustificato
nell’economia del tutto.
Sia per gli stoici che per i cristiani il concetto di provvidenza è strettamente
legato alla divinità per cui anche la provvidenza viene, a causa della diversa
concezione della divinità, concepita diversamente. La provvidenza costituisce un
piano impersonale in quanto determinato da una legge, mentre per i cristiani
sarà il frutto di una precisa volontà, quella divina. Inoltre, per gli stoici essa è,
come la divinità, un principio immanente all’universo, mentre per i cristiani essa,
come la divinità di cui rappresenta la volontà, è trascendente rispetto al mondo.
Alla visione del mondo elaborata dagli stoici è strettamente connessa la
concezione, anch’essa destinata a essere ripresa dal cristianesimo, della morale
come dovere.
Nella visione del mondo degli stoici l’uomo, come qualsiasi altra entità, non può
sottrarsi alla catena degli eventi previsti dal piano provvidenziale, per cui il
corretto comportamento, il comportamento morale, verrà a coincidere con
l’accettazione di ciò che esso comporta. Di conseguenza la morale stoica appare
fondata sul concetto di sforzo, di dovere in quanto questo è imposto dalla
necessità di adeguare il comportamento del saggio, dell’uomo virtuoso,
all’ordine universale.
L’esistenza del piano provvidenziale pone il problema della sua conciliazione
con la libertà dell’uomo. Per chiarire come gli stoici cerchino di spiegare tale
conciliazione possiamo partire dal seguente esempio. Un cane legato dietro un
carro appena questo si muove dovrà necessariamente seguirlo, egli può farlo
volontariamente oppure no, ma anche in questo caso verrà trascinato. L’uomo
non può sottrarsi alla catena di eventi che lo caratterizza, ma è in suo potere di
adeguarsi liberamente al piano nel momento in cui ne comprende la razionalità.
La libertà non consiste, infatti, nella scelta tra alternative ma nel seguire
deliberatamente di propria volontà ciò che è previsto dal piano.
Il piano provvidenziale prevede che tutti gli esseri tendano alla loro
conservazione sviluppando le caratteristiche che li distinguono. Tale
b - _______________________________
c - divinità
d - __________________________
e - causalità _______________________:
__________________________________
__________________________________
causalità universale e ________________
2 - ________________ come __________
Accettazione del ____________________
_______ e morale come ______________
La ________________________
5
caratteristica è individuata per l’uomo nella ragione, poiché essa nella misura in
cui comprende il piano rende l’uomo libero.
Poiché ciò che si oppone alla ragione sono innanzitutto gli istinti, i quali tendono
a sostituirsi ad essa nella guida del comportamento, il primo compito della
ragione sarà costituito dal loro controllo che le consente di assumere il controllo
del comportamento per adeguarlo al piano.
L’opposizione ____________________ e
_______________________
IL DIO DEGLI STOICI E IL DIO CRISTIANO
1 _____________________________________________ CTR ___________________________________________
2 _____________________________________________ CTR ___________________________________________
LA PROVVIDENZA PER GLI STOICI E PER I CRISTIANI
1 _____________________________________________ CTR ___________________________________________
2 _____________________________________________ CTR ___________________________________________
Molte delle tematiche nonché delle credenze e dei culti che confluiranno nel
I CONTRIBUTI DEL ___________________
cristianesimo hanno trovato una loro prima elaborazione all’interno
dell’ambiente alessandrino.
ALLA FORMAZIONE DEL _____________:
Ad Alessandria d’Egitto si ebbe una ripresa da un lato del platonismo e
dall’altro, e ancor di più, del pitagorismo. Il neopitagorismo comprendeva una
serie di concezioni matematico-filosofiche e una dottrina esoterica, di origine
orfica, che proponeva all’uomo la liberazione dalla catena della corporeità e
dell’impurità. All’interno del neopitagorismo troviamo figure di asceti e
taumaturghi, a cui sono stati attribuiti poteri molto simili a quelli che i racconti
evangelici hanno attribuito a Gesù o ai primi martiri cristiani.
Tra queste figure vi è, ad esempio, quella di Apollonio di Tiana, vissuto nel I
secolo, che da un testo del III secolo viene presentato come un sapiente che
compiva guarigioni e profezie e che riapparve dopo la morte per testimoniare
l’immortalità della sua anima.
Le notizie storiche ci attestano che Apollonio ebbe contatti con le religioni
orientali ed era ritenuto dai contemporanei un maestro di spiritualità. Il suo
neopitagorismo si configurava innanzitutto come un rigoroso stile di vita (non
mangiava carne, camminava a piedi nudi, si vestiva solo di lino, ecc…). Questo
stretto legame tra credenze e stile di vita sarà fatto proprio anche dal
cristianesimo.
Sempre in ambiente neopitagorico venne redatta la cosiddetta letteratura
ermetica, costituita da una serie di testi scritti tra il II secolo a.C. e il I d.C. e,
infine, raccolti e ordinati un secolo dopo. Questi testi propongono alcune forti
analogie con il cristianesimo, dimostrando che la sensibilità religiosa dell’epoca
aveva caratteristiche che esistevano autonomamente dall’elaborazione cristiana e
anzi contribuirono alla sua formazione.
Una delle analogie è costituita dall’attribuzione dei testi a Ermete, una divinità
che fungeva da messaggero degli dei, così come i Vangeli erano anch’essi
considerati un messaggio diretto di Dio.
Inoltre, anche in questi testi è stabilita una parentela fra Dio e gli uomini che
consente la comunicazione fra gli dei e gli uomini.
Una terza affinità sta nel fatto che nell’ambiente ermetico venne sviluppandosi
un tipo di rapporto con la divinità che trova il suo apice nell’estasi mistica che
verrà fatto proprio dai mistici cristiani. La comunicazione fra gli uomini e Dio
non è possibile né con la sola ragione, né attraverso le religioni tradizionali, ma
può avvenire attraverso la combinazione di pratiche magiche e di iniziazione
insieme a meditazioni sulla divinità. Al culmine di questo percorso l’individuo
6
raggiungeva, per pochi instanti, l’unione mistica con la divinità che comportava
il distacco completo dell’anima dalle cose terrene.
NEOPITAGORISMO:
1 – concezioni ______________________________________
2 - ________________________________________________
3 – figure di _______________________________________ :
a - __________________________________________________________________
b – rigoroso stile di vita
forme rintracciabili nel
ermetismo:
a - ____________________________________________________________________________
___________________
b - ____________________________________________________________________________
c - ____________________________________________________________________________
I CONTRIBUTI DEL ___________________
Anche le teorie di Platone in ambiente alessandrino vennero rielaborate alla luce
delle nuove esigenze. Il pensiero di Platone si prestava particolarmente a
soddisfare queste esigenze religiose, in quanto faceva sua una visione
trascendente.
Tra gli elementi che vennero utilizzati da questa rielaborazione, vi fu la figura
del Demiurgo che ispirandosi al mondo delle idee dà vita all’universo. Questo
mito venne interpretato come una sorta di creazione.
Un secondo elemento che venne ripreso fu la teoria delle idee che venne
rielaborate in senso religioso; le idee vennero viste così come i pensieri di Dio.
Il dualismo antropologico, cioè la tesi dualistica per cui l’uomo è composto di
anima e corpo, fu anch’esso ripreso. L’anima, a differenza di ciò che si
teorizzava in ambiente greco-romano, in cui dominavano lo stoicismo e
l’epicureismo, era considerata come qualcosa di radicalmente diverso dal corpo.
Perciò a differenza di quest’ultimi, che ritenevano l’uomo una realtà
essenzialmente mondana, i neoplatonici identificavano lo scopo della vita non
nell’adeguarsi alla natura ma alla realtà sovrannaturale.
Negli ultimi secoli dell’ellenismo il neoplatonismo svolse una duplice funzione:
da un lato, rappresentò l’ultima espressione della filosofia pagana (Plotino)
presentandosi come una spiegazione razionale, non basata sulla rivelazione.
Dall’altro, il neoplatonismo costituì la base per la costruzione delle prime
filosofie cristiane (vedi Agostino d’Ippona).
ALLA FORMAZIONE DEL
_____________:
la rielaborazione in chiave religiosa di:
1 - _______________________________
2 - _______________________________
3 - _______________________________
la funzione del _____________________:
1 spiegazione _________________ non
fondata sulla ______________________
2 _______________________________
PLOTINO
4
La dottrina filosofica di Plotino (205-270 d.C.) , senza dubbio il maggior
esponente del cosiddetto neoplatonismo, coincide totalmente con una Filosofia = ______________________
metafisica tra le più complesse e difficili dell'intera storia della filosofia. Plotino,
per quanto ne sappiamo, non ha coltivato specifici interessi filosofici in campo
naturalistico, né in campo etico-politico; dal suo punto di vista, il filosofare si
identifica, senza residui, con l'indagine metafisico-teologica. I profondi legami
che le sue idee hanno avuto prima di tutto con Platone, ma anche con Aristotele, Plotino: da Platone (e ________________)
riguardano i problemi metafisici e teologici e non altri aspetti della ricerca
filosofica. Il pensiero di Plotino eserciterà grande influenza- valga per tutti a ________________________
l'esempio di Agostino d’Ippona - sul pensiero cristiano antico e medievale, per
il quale varrà sostanzialmente l’identificazione tra filosofia e teologia operata da
4
Per la vita e le opere vedi pag. 31
7
primato della ragione (_______________)
Plotino.
Plotino visse durante il II secolo d.C., un tempo nel quale il cristianesimo si
Ctr
diffondeva sempre più in ogni parte dell'impero romano e cominciava ad
elaborare una sua posizione filosofica autonoma, centrata sulla giustificazione primato della __________ (___________)
della fede. Contemporaneamente, la tradizione della filosofia greca veniva a
contatto con le culture e le religioni del vicino e dell'estremo Oriente (ossia Persia
e India), culture e religioni lontane dal "primato della ragione" tipico della
tradizione greca e che Plotino, a suo modo, confermerà.
La filosofia di Plotino trova il suo punto di partenza in un problema irrisolto, che egli
ritiene fondamentale,: il problema dell'essere, presente già nelle filosofie
presocratiche. È possibile che il mondo sia una semplice raccolta di enti, l'uno
diverso dall'altro, che un giorno nascono e un giorno sono destinati a morire?
Non sarà invece, questa, solo l'apparenza, mentre la verità si trova al di là dei
fenomeni? A un tale quesito, come sappiamo, sono state fornite molte rispostePlotino ebbe come punto di riferimento quella platonica, cioè la dottrina delle idee
e la cosmologia delineata nel Timeo, dove Platone ipotizza che il mondo si sia
formato dall'opera di un Demiurgo, che avrebbe plasmato la materia informe sul
modello delle Idee.
Nelle Enneadi Plotino sostiene che la radice della molteplicità è l'unità. Ogni
singolo ente, con la particolare unità dei suoi caratteri, nasce da un altro ente
che l'ha preceduto e così, risalendo di causa in causa, si deve giungere all'Uno,
l'unità assoluta, che non deriva da nulla e dalla quale, invece, tutto deriva.
Essere autentico = realtà come appare CTR _____________________________________________________ (Platone)
Plotino = realtà come appare = ogni singolo ente nasce / è causato da un altro ______________
realtà vera =
____________________________________________________
Cos'è esattamente l'Uno? Plotino fornisce indicazioni che riguardano cosa non
è l'Uno e nessuna che veramente lo caratterizzi. Perché? Anzitutto l'Uno non ha
nulla a che fare con il motore immobile di Aristotele: dall'Uno, come vedremo, scaturisce tutto, mentre il motore aristotelico non è la fonte dalla
quale nasce l'universo. Neppure può essere avvicinato al Dio ebraicocristiano, che viene caratterizzato come creatore, come "persona", che p. es.
ama o è in collera. Per Plotino, questa è una concezione antropomorfica della
divinità, ch'egli respinge. Inoltre, dell'Uno non può dirsi né che sia pensiero,
né che sia essere, né che sia bene, poiché ogni caratterizzazione lo limiterebbe e
l'Uno sta al di là di ogni carattere e di ogni limitazione. In sintesi, è legittimo
dire dell'Uno solo che è origine di ogni cosa, non altro. Questa posizione è
stata anche definita teologia negativa. Resta da capire in che modo l'Uno è
origine.
L'Uno non crea, non agisce, da lui invece tutto ciò che esiste scaturisce per
emanazione o "irradiazione". Plotino è consapevole del fatto di ricorrere ad una
immagine, di usare un linguaggio metaforico, ma non esiste altro modo di descrivere questo processo. L'immagine dell'irradiazione non è casuale: così come
una fonte di luce illumina lo spazio fuori di sé, analogamente l'Uno diffonde
l'essere. Plotino, nelle Enneadi, si serve anche di un'altra immagine, quella
dell'albero e delle radici, secondo la quale dall'Uno/albero-radici, che se ne sta
immobile, si dipartono le varie forme d'essere/rami, foglie, frutti. Plotino definisce
l'Uno prima ipostasi (termine che in greco significa "ciò che sta sotto" o anche
"sostegno", "fondamento"; riprendendo la metafora dell'albero, potremmo anche
definirlo la "prima radice"). Se si parla di prima ipostasi, devono esservene altre e,
infatti, all'Uno segue, attraverso un processo di emanazione, l'Intelletto. Cos'è
L’Uno non è:
- ___________________________________
di Aristotele
- ___________________________________
del ____________________________
l’Uno è _____________________________
L’origine delle cose per ________________
__________ dall’ _________
L'UNO E LE EMANAZIONI:
A – L’ _________________________:
pensiero ________________
8
l'Intelletto? Pensiero puro, è la prima risposta che si può fornire. Dalle descrizioni
che ne fornisce Plotino, l'Intelletto appare simile, almeno in parte, al motore primo
aristotelico, che è, appunto, pensiero che pensa se stesso. Esso, inoltre, diventa
ipostasi, cioè fondamento rivolgendosi verso l'Uno, traendo da lui ispirazione.
All'ipostasi del pensiero puro segue l'Anima. Se l'Intelletto è "pensiero puro",
l'Anima è "vita pura" e si trova in una posizione intermedia fra il mondo delle
prime due ipostasi e la realtà sensibile, la materia. Plotino sostiene che l'Anima,
in un senso metaforico, "guarda" verso l'alto, ossia partecipa, attraverso l'Intelletto, all'Uno, ma dall'altro lato, essendo "Anima del mondo" si rivolge verso il
basso e dunque emana anche lei qualcosa, ovvero la materia, il mondo fisico che
tutti conosciamo. Qui compare la molteplicità, ossia i singoli corpi e le singole
anime, insomma la vita mortale, il pensiero parziale. In questa molteplicità si
riflette l'unità dell'Anima, perciò fra le parti vi è un collegamento, una simpatia ed
ognuna di esse svolge una precisa funzione. Non v'è nulla di casuale e di inutile
nel mondo, anche se spesso non ce ne accorgiamo, dato che si tende a
giudicare considerando solo i particolari e non il tutto. Questa visione della realtà
è stata definita ottimismo metafisico ed è opportuno notare come essa abbia
diversi punti di contatto con la metafisica stoica, secondo la quale la natura è retta
da un ordine universale e armonico.
L'itinerario dall'Uno all'Anima, e da questa fino alla materia, si può
considerare una riformulazione del racconto della "fabbricazione" del mondo
contenuto nel Timeo di Platone, con la differenza, non marginale, che mentre
Platone introduce la figura del Demiurgo, un supremo artefice e dunque una
figura "umana", Plotino elimina qualsiasi carattere antropomorfico: l'Uno non
crea, non causa ma emana. Sorge, a questo punto, una domanda: in che modo
Plotino considera la materia? Essendo ai margini estremi dell'emanazione, nel
punto più lontano possibile dall'Uno, il quale, in fin dei conti, è il Bene
assoluto - anche se Plotino si rifiuta di definirlo così - la materia è privazione
di bene. In altri termini, dal punto di vista di Plotino, la presenza del male nel
mondo è dovuta al fatto che la materia è priva di intelligenza, limitata, instabile. Sul piano morale, trattandosi di volontà, di colpa eccetera, si può parlare di
"male" quando l'anima dell'uomo rinuncia a cercare la strada per "tornare
all'Uno", una strada che Plotino si incaricherà di descrivere. Questa
soluzione del "problema del male" eserciterà una profonda influenza sulla
filosofia cristiana, in particolare su Agostino d’Ippona.
Così come esiste una "via in giù", dall'Uno alla materia, esiste anche una "via in
su", ovvero l'uomo è in grado di percorrere un viaggio - viaggio interiore, non
nello spazio - che porti la sua anima a ricongiungersi con l'Uno, poiché l'anima
individuale, pur essendo condizionata da necessità e bisogni materiali, sente il
richiamo, una vera e propria nostalgia, dell'Anima e dell'Uno. In questo viaggio
possiamo distinguere tre tappe, allo stesso modo in cui abbiamo distinto tre ipostasi
nel processo di emanazione dell'Uno.
La prima tappa, propedeutica a tutte le altre, è quella della conquista delle virtù,
mediante la liberazione dalle passioni. Diventare indipendenti dai beni materiali onori, ricchezze ecc. - è possibile se riusciamo a far prevalere l'intelligenza, la
temperanza, la giustizia, sull'ignoranza, l'incontinenza, l'egoismo. In tal modo,
realizzeremo una prima forma di purificazione.
La seconda tappa consiste nella scoperta e nella contemplazione della
bellezza. Riprendendo un tema squisitamente platonico, Plotino ci presenta due strade
per conoscere e contemplare la bellezza: l'arte e l'amore. L'arte ci fa scoprire la forma
nella materia, ovvero, platonicamente, il primato dell'intelligibile sul sensibile,
mentre l'amore ci conduce a superare il livello della bellezza corporea, per
arrivare a "vedere" la bellezza interiore, ovvero quella dell'anima.
Infine, con la pratica della filosofia, nella quale domina l'intelletto puro, arriviamo
ad intuire l'unità suprema dell'Uno. Questo itinerario, però, è condizione
necessaria ma non sufficiente per ritornare all'Uno. Necessaria perché, a
B – L’Anima : ________________________
posizione ___________________________
tra A-B e _______
C - ______________________: la
molteplicità
----------------------------- come collegamento
tra le parti di C
L’________________________ metafisico
Il processo di emanazione: dall’________
alla ______________________:
l’eliminazione dell’____________________
Uno = ______________
Materia = _________________________
Uomo tende all’Uno = ______________
Uomo tende _______________ = ________
IL RITORNO ALL'UNO
La via in su porta l’anima ____________
verso l’Anima e ____________
le tappe:
A – la liberazione dalle ________________
B – la contemplazione _________________:
l’arte e ______________________
C – l’intuizione dell’__________
filosofia = percorso ______________
9
differenza del cristianesimo, non è la fede il mezzo per arrivare all'Uno ma (intellettuale-conoscitivo)
la razionalità. Le tre tappe costituiscono, perciò, altrettante conquiste
+
intellettuali, la più importante delle quali è proprio la filosofia. Non
sufficiente, in quanto se restiamo sul piano intellettuale-conoscitivo ______________________
avremo sempre un soggetto da una parte - l'uomo - e un oggetto dall'altra l'Uno - mentre il "ritorno all'Uno" implica il superamento di questo dualismo.
=
A ciò si perviene attraverso l'estasi, in greco ékstasis, che significa "uscita da
sé". A prima vista, sembra impossibile fuoriuscire da se stessi, eppure di questo
si tratta, se vogliamo fonderci con l'unità originaria. Plotino, nelle Enneadi, fa
ricorso di nuovo a un'immagine: l'estasi viene descritta come la visione di una
luce, la Luce suprema, che tutto illumina. Non per caso, anche Platone, concludendo la descrizione del mito della caverna, paragonava la scoperta del
mondo delle idee alla smagliante luce solare, che all'inizio abbaglia ma alla l’incontro con ______________________
quale poi ci si abitua. L'estasi di Plotino non è un evento magico, non
dipende da una pratica ascetica del tipo di quella teorizzata nella tradizione
della santità cristiana ma è, invece, l'atto supremo di un percorso razionale.
D'altro canto, però, l'esperienza dell'estasi non appare come qualcosa di
razionale in senso stretto ma si colloca, in un certo senso, sul confine fra
razionale e irrazionale. Plotino, in definitiva, conduce alle estreme
conseguenze gli aspetti più metafisici delle dottrine di Platone e di
Aristotele assegnando alla sua filosofia uno scopo ultimo: l'incontro con
l'invisibile, il trascendente, ciò che si trova al di là di qualsiasi esperienza
ordinaria.
LE RELIGIONI DI SALVEZZA E
MISTERICHE
L’età dei grandi regni ellenistici e dell’impero romano è caratterizzata da un
grande senso di insicurezza e di smarrimento, dovuto anche alla perdita di Senso di insicurezza e diffusione delle
capacità politica da parte dei singoli cittadini, non più soggetti attivi nella religioni _______________________
dinamica della pólis, ma meri individui senza importanza all’interno di grandi
stati gestiti da piccoli gruppi di potenti e da dinastie ereditarie. Si tenga anche
presente che la conoscenza di religioni e culture delle più diverse origini e
provenienze aveva reso inattuali i culti locali, civici, di cui si percepiva ormai
tutta la ristrettezza e l’elementarità. Si diffusero così, provenendo sempre
dall’Oriente, alcune religioni la cui caratteristica essenziale è quella di offrire la
salvezza individuale, e misteriche, in quanto forniscono un’iniziazione del fedele
ai riti, culti e misteri la cui conoscenza è considerata la sola fonte di salvezza.
1 ___________________________________________________________________________________________
2 ___________________________________________________________________________________________
Senso di ________________________
diffusione _____________________
Queste religioni svilupparono una serie di riti, culti e credenze che entreranno a
far parte del cristianesimo rielaborati e riferiti alla figura di Gesù.
Tra questi culti vi è quello di Mitra, culto che proveniva dall’Iran ed era rivolto a
una divinità solare legata alla fecondità.
La mitologia faceva nascere il dio Mitra il 25 dicembre in una caverna.
L’episodio centrale del mito era costituito dal sacrificio di un toro che provocava
la nascita, dal suo midollo, delle piante benefiche per l’uomo, e, dal suo sangue,
del vino. Al termine del sacrificio Mitra e il sole bevevano il sangue e
mangiavano la carne del toro. Questo pasto veniva ripetuto dai fedeli durante le
celebrazioni e i culti.
Il culto di Mitra si diffuse soprattutto fra i soldati, traducendosi in un
comportamento ispirato alla disciplina e alla moralità che impressionava i
profani. Lo stesso cristianesimo ebbe nell’esercito romano un potente mezzo di
10
diffusione; come è testimoniato anche da numerose tradizioni presenti nel
cuneese che legano la diffusione del cristianesimo nelle nostre zone alla,
probabilmente leggendaria, legione tebana (vedi ad esempio le tradizioni del
santuario di S. Magno a Castelmagno).
Un altro culto che si diffuse, a partire dal II secolo a.C. fu quello di Iside e
Osiride, culto questo di origine egiziana. Si tratta del culto di un dio risorto,
Osiride, perché riportato in vita dalla moglie, Iside. La stessa immortalità del dio
veniva promessa anche ai fedeli.
I riti di iniziazione consistevano nel simulare per il fedele un’esperienza di morte
e resurrezione, al termine dei quali il fedele otteneva una identificazione mistica
con il dio e la certezza di una vita eterna. Forte è dunque l’analogia con il
battesimo cristiano.
Molto diretto appare invece il legame con il culto cristiano della Madonna, in
quanto alcuni elementi iconografici e mitologici della Vergine Maria sono stati
tratti dalla figura di Iside.
Culti che hanno contribuito alla formazione del cristianesimo:
1 ________________________________ Analogie con il cristianesimo
a - ______________________________________________________________________
b - ______________________________________________________________________
c - ______________________________________________________________________
2 ________________________________ Analogie con il cristianesimo
a - ______________________________________________________________________
b - ______________________________________________________________________
c - ______________________________________________________________________
L'EBRAISMO E LA FILOSOFIA
GRECO-GIUDAICA
Sempre in ambiente alessandrino avvenne l’incontro tra la cultura greca e quella
ebraica di cui uno dei risultati maggiori è la trascrizione della Bibbia.
Questa opera era già iniziata da alcuni secoli, promossa dalle gerarchie
sacerdotali ebraiche, ma in epoca alessandrina avvenne la sistemazione
definitiva dei testi sacri e la loro traduzione in greco che ne permise la
diffusione.
I libri inseriti all’interno della Bibbia furono scelti all’interno di un più vasto
patrimonio in base a criteri dettati dalle gerarchie sacerdotali. L’edizione
alessandrina diventò il punto di riferimento e la base della Bibbia come oggi la
conosciamo.
La Bibbia è composta da un insieme di testi ,che furono inizialmente tramandati
oralmente,
composti in epoche diverse. Questi testi vennero ordinati
cronologicamente, dalla creazione all’epoca ellenistica, e narrano principalmente
le vicende del popolo ebraico attraverso: la sua formazione ad opera dei
patriarchi, la schiavitù in Egitto e la liberazione ad opera di Mosè, la creazione
del regno di Israele in Palestina, la deportazione in Babilonia, infine gli ultimi
libri, narrano la resistenza contro i regni ellenistici.
All’interno della Bibbia hanno un ruolo importante i profeti che richiamavano le
classi dirigenti e il popolo alla fedeltà verso Dio, minacciando castighi e
punizioni. Alcuni di essi annunciavano un tempo finale in cui Dio salverà il suo
popolo, inviando un suo messia a costruire il regno di Israele. Venne così a
LA __________________________ DELLA
BIBBIA
la __________________ dei testi
il contenuto: la storia del mondo e del
__________________________________
i _______________________________
11
svilupparsi un genere letterario chiamato apocalittico (cioè che riguarda il tempo
futuro). Molti di questi scritti rimasero esclusi dall’edizione definitiva della
Bibbia in quanto non ritenuti ortodossi.
Il concetto biblico più lontano dalla concezione filosofica greca è rappresentato DIO NELLA CULTURA GRECA E IN QUELLA
EBRAICA
dall’idea che Dio sia il creatore del mondo e che lo abbia creato dal nulla.
Nella mentalità greca Dio e il mondo coesistono da sempre e sono entrambi di
origine divina. Platone, ad esempio, sostiene che la materia era preesistente
all’azione del Demiurgo. Invece nella cultura ebraica Dio e mondo erano su due
piani differenti: il mondo è perciò subordinato al suo creatore.
Un altro concetto non presente nella cultura greca è quella di un dio persona e
unico. Il Dio ebraico richiede venerazione e timore, dando agli uomini
protezione e norme da rispettare. È un Dio padre che svolge la duplice funzione
paterna, quella normativa e quella protettiva, e non già un principio astratto
come per la filosofia greca, (ad esempio, per gli stoici esso coincideva con la
legge di natura avendo la funzione di normare dall’interno l’universo).
Anche la descrizione
del rapporto Dio-uomo, strettamente legato alla
concezione del dio-persona, appare originale nella cultura ebraica. Tale rapporto
viene presentato come un patto promosso da Dio, ma che richiede la
DIO NELLA CULTURA GRECA E IN QUELLA EBRAICA
Cultura ebraica
Cultura greca
1 – Rapporto Dio – Mondo
- __________________________________________________
- ___________________________________________________
- __________________________________________________
- ___________________________________________________
2 – Concezione divinità
- __________________________________________________
- ___________________________________________________
- funzione ___________________________________________
- funzione ___________________________________________
3 - ___________________________________
- __________________________________________________
- __________________________/ nessun rapporto
- amore geloso
4 - ___________________________________
- __________________________________________________
- ___________________________________________________
5 - ___________________________________
- ___________________  pentimento  __________________ - offesa divinità: _________________________________________
partecipazione dell’uomo, che è quindi messo sullo stesso piano di Dio.
Dio dimostra un amore geloso, per cui messo di fronte all’infedeltà dell’uomo si
arrabbia, rimanendo però disponibile a accoglierlo nuovamente.
Per la cultura greca, invece, il rapporto con la divinità era semplicemente rituale,
oppure si riteneva che essa non si interessasse degli uomini (Epicurei).
Nonostante la presenza di questi concetti, la Bibbia non può essere considerata
un trattato di teologia, perché non si presenta come un ragionamento su Dio, ma
vuole essere la descrizione del rapporto tra Dio e il suo popolo.
Originale appare anche il modo in cui viene visto il rapporto uomo-Dio,
incentrato sulla fede dell’uomo in Dio, e le riflessioni morali che ruotano
attorno ai concetti di peccato, pentimento e conversione.
12
Per i greci credere in qualcosa era un atteggiamento soprattutto intellettuale,
mentre per gli ebrei credere in Dio significava aver fede in lui, ovvero
l’instaurarsi di un rapporto fondato sulla fiducia che l’uomo ripone in Dio.
Nelle Bibbia è il venir meno di questa fiducia a costituire il peccato, ovvero
l’infedeltà verso Dio. Il pentimento, il dolore che si prova per il proprio peccato,
per la propria mancanza di fiducia verso Dio, diventa la condizione necessaria
per la conversione, cioè la possibilità di riallacciare il proprio rapporto con Dio.
Il concetto di peccato come rottura del rapporto personale con Dio non era
presente nella cultura e nella mentalità greca, infatti, il peccato come offese alla
divinità per i greci era legato a una mancanza nei confronti del rituale.
Filone d’Alessandria pur essendo ebreo visse ad Alessandria (25 a.C. - 45 d.C.) e
alla sua figura è legata un’importante opera di conciliazione fra cultura greca e
ebraica, adattando alla sua cultura alcuni concetti greci. La sua opera per questo
rappresenta un momento del passaggio dalla cultura greco-romana a quella
cristiana.
Egli propose di leggere la Bibbia come un testo allegorico, ovvero come la
rappresentazione di idee e concetti mediante figure e simboli che li richiamano.
Così, ad esempio, la descrizione del paradiso terrestre e del peccato originale
non vanno prese alla lettera, ma come una allegoria della condizione umana
lacerata fra la tendenza al male e il richiamo divino.
Un secondo contributo di Filone è legato all’utilizzo del concetto greco di logos,
termine che indica la ragione e/o il discorso razionale. Filone adattò questo
concetto al contesto culturale ebraico vedendo in esso la parola di Dio. Il logos
diventa così l’intermediario tra Dio e gli uomini; nel Cristianesimo questo ruolo
di intermediario sarà svolto da Gesù, che rappresenta la parola di Dio e il
Vangelo di Giovanni lo indicherà come il logos.
Un altro concetto che Filone cercò di conciliare con la mentalità ebraica è
rappresentato da quello stoico di provvidenza. La provvidenza era un piano
impersonale che reggeva il mondo e che si attuava in base alle leggi del mondo,
Filone, invece, vide in essa il piano mediante il quale Dio interviene attivamente
nel mondo.
Infine, Filone esprime la convinzione, condivisa poi dai primi filosofi cristiani,
che esista una sostanziale concordia tra le verità bibliche e i risultati della
filosofia greca. A suo parere Mosè e Platone sono entrambi ispirati direttamente
da Dio; per Filone il primato rimane della Bibbia, ma le due concezioni sono
simili e conciliabili.
2 – La formazione del cristianesimo
FILONE D’ALESSANDRIA
La conciliazione tra ___________________
___________________________________
e il contributo alla formazione del
_________________________________:
1 – la lettura ________________________
della ________________
2 – logos
Greci =____ ________________________
Filone = __________________________
3 - _____________________________
Stoici = ____________________________
Filone = ____________________________
4 - ________________________________
2 - LA FORMAZIONE DEL
CRISTIANESIMO
LA PERIODIZZAZIONE DELLA
La cultura occidentale è stata caratterizzata per quasi 15 secoli da una visione
cristiana. Gli storici hanno individuato all’interno di questi secoli tre grosse fasi:
I secolo e primi decenni del II secolo d.C.
È considerato il periodo di formazione del Cristianesimo. Vengono elaborati i
nuovi testi (Nuovo testamento) che aggiunti ai testi biblici costituiranno la verità
rivelata.. Le figure maggiori di questo periodo sono Gesù e Paolo di Tarso, nella
cui opera si realizza il passaggio dal Gesù storico al Gesù della fede.
II-VIII secolo d.C.
Questo periodo viene chiamato Patristica. Avviene la definizione dei principali
dogmi di fede, definizione che non è contenuta nei testi sacri , ma è opera di
concili, cioè delle assemblee di vescovi, e dei Padri della Chiesa. I Padri della
Chiesa sono i primi pensatori cristiani ai quali la Chiesa riconosce particolare
autorità.
CRISTIANIZZAZIONE DELLA CULTURA:
A – (_____- ______ sec)
La formazione del _________________
elaborazione ____________________
Gesù + ______________________
B – (_____- ______ sec)
La Patristica
definizione ____________________
i Padri ______________________
13
Ciascuna Chiesa (Romana, Ortodossa, ecc..) riconosce l’autorità di padri diversi
e sulle loro orme si sono instaurate diverse interpretazioni del Cristianesimo.
Dal punto di vista filosofico il personaggio più importante in questo periodo è
Agostino d’Ippona, Padre della Chiesa romana.
IX-XV secolo d.C.
Per quanto riguarda la storia della filosofia il periodo è detto Scolastica. La
cultura cristiana subordina a se stessa tutti gli aspetti della vita e della cultura
occidentale.
Il periodo della cristianizzazione della cultura coincide con l’europeizzazione
della cultura occidentale in quanto i centri dell’elaborazione della cultura si
spostano verso l’Europa continentale. Il problema principale che viene affrontato
in questo periodo dalla filosofia è costituito dalla dimostrazione della razionalità
della fede. La figura più importante è rappresentata da Tommaso D’Aquino.
La principale testimonianza del Gesù storico è rappresentata dai Vangeli. I
quattro Vangeli che costituiscono parte del Nuovo Testamento non sono in realtà
gli unici testi dell’epoca scritti sulla figura di Gesù. Nel primo periodo del
Cristianesimo circolavano nelle comunità molti testi analoghi. I Vangeli ufficiali
furono scelti dalle autorità ecclesiastiche fra la massa di testi esistenti. I testi
scartati sono i cosiddetti Vangeli apocrifi che furono considerati non ispirati da
Dio.
I Vangeli furono scritti dopo la morte di Gesù e costituiscono il primo tentativo
di dare un’interpretazione teologica del Gesù storico, quindi sono già una
testimonianza di fede.
Dal punto di vista storico e culturale bisogna guardare ai Vangeli partendo da
due presupposti: essi non sono biografie, ma testimonianze di fede; non si
possono riferire ad un unico autore, ma sono una raccolta di narrazioni orali che
circolavano nelle comunità, unite in un’unica narrazione da un solo redattore,
che agiva per conto della comunità a cui apparteneva.
Partendo da questi presupposti, l’analisi dei testi ha messo in evidenza tre
componenti dei Vangeli: il materiale proveniente dal Gesù storico; il materiale
elaborato dalla comunità in cui e per cui è stato scritto il Vangelo stesso, in cui si
aggiunge il punto di vista della comunità; il materiale elaborato dal singolo
redattore, che rispecchia l’interpretazione dell’autore.
Agostino d’Ippona
C - (_____- ______ sec)
La _____________________
l’europeizzazione della _______________
La razionalità della ________________
Tommaso d’Aquino
I VANGELI E LA
PREDICAZIONE DI GESÙ
I vangeli: la scelta dei _________________
testimonianza di _________
I VANGELI DAL PUNTO DI VISTA STORICOCULTURALE
I VANGELI DAL PUNTO DI VISTA STORICO-CULTURALE
Presupposti: 1 _________________________________________________________________________________________________
2 __________________________________________________________________________________________________
Componenti dei Vangeli:
1 __________________________________________________________________________________________________________
2 __________________________________________________________________________________________________________
3 __________________________________________________________________________________________________________
Per quanto riguarda il Gesù storico egli fu sicuramente influenzato dalla cultura
ebraico-ellenistica e da due movimenti presenti in Palestina in quel periodo,
ovvero gli Esseni e gli Zeloti.
Probabilmente Gesù appartenne inizialmente alla setta degli Esseni, una
comunità filosofico-religiosa che praticava la vita in comune all’interno di
strutture rigidamente gerarchiche. Essi erano in forte opposizione alla religione
ufficiale: erano convinti che i tempi della salvezza annunciata dai Profeti
IL GESÙ
STORICO
I movimenti di riferimento:
A gli ______________________________
- vita comunitaria + rigide _____________
- opposizione ______________________
14
fossero imminenti e si preparavano all’instaurazione del regno di Dio attraverso
rinunce, astinenza e riti, quali il battesimo o il pasto in comune. In questo erano
molto simili alle comunità filosofico-religiose presenti un po’ in tutto il mondo
ellenistico.
Una testimonianza del legame fra gli Esseni e Gesù è riscontrabile nei Vangeli,
ad esempio, nella figura di Giovanni Battista e nell’importanza dell’Ultima
Cena.
Gli Zeloti, invece, erano un movimento politico di resistenza alla conquista della
Palestina da parte dei Romani, essi lottavano contro le famiglie ebraiche che
appoggiavano i Romani; nei Vangeli la loro presenza è richiamata dall’apostolo
Simone lo Zelota.
L’ambiente a cui Gesù appartiene è caratterizzato perciò da fermenti religiosi e
politici, simili a quelli presenti in ambiente ellenistico.
Il contenuto teologico non è prevalente all’interno della predicazione di Gesù.
Egli si richiama alla tradizione ebraica, e identifica Dio come il padre
dell’umanità, centrale è invece l’invito alla conversione, ovvero a un
cambiamento della propria vita interiore e delle proprie relazioni con gli altri,
solo essa può garantire all’uomo la salvezza.
Per questo contenuto la predicazione di Gesù è simile alle proposte delle
religioni salvifiche, ma si distingue da esse perché la conversione e quindi la
salvezza vengono promesse indistintamente a tutti gli uomini, mentre, per le altre
religioni di salvezza questa promessa era circoscritta al gruppo degli adepti.
Il messaggio di Gesù non era nemmeno di attesa e speranza come quello della
religione ebraica, poiché proponeva la testimonianza e l’impegno immediato.
Infatti la religione ebraica comportava l’attesa della venuta del regno di Dio sulla
terra, mentre per la prospettiva di Gesù il regno di Dio è già giunto e bisogna
testimoniarlo.
Inoltre, mentre per gli Ebrei era fondamentale il rispetto dei codici
comportamentali e rituali, per Gesù l’atteggiamento religioso è innanzitutto
interiore, caratterizzato dalla fede, cioè dal completo abbandono alla volontà di
Dio.
Gesù tende perciò a sostituire il binomio religione-rispetto delle regole e dei
codici con un atteggiamento religioso che diventa lo stimolo per rinnovare il
proprio rapporto con gli altri, infatti l’amore per Dio ha come conseguenza
l’amore per gli altri uomini.
È in questo quadro che si inserisce la polemica singolarmente dura di Gesù
contro i sacerdoti e i farisei (un potente gruppo di osservanti assai rigidi e
ortodossi), accusati di superbia, di sopravalutazione della dottrina sapienzale e
delle pratiche rituali, e soprattutto di disprezzo erroneo e biasimevole nei
confronti di quanti sono fuori dall'orizzonte della credenza e della legge. Non
poche parabole sono dedicate a mostrare come spesso sono proprio i “poveri di
spirito”, o gli stranieri, o i paria della società a manifestare significative doti
spirituali. Così, ad esempio, la parabola del buon samaritano mostra che un
modesto membro di questa popolazione, tradizionalmente assai disprezzata, è
capace di un gesto di carità di contro alla colpevole indifferenza degli stessi
sacerdoti.
Su questi temi Gesù si scontrò con la classe sacerdotale e con i Farisei, il gruppo
più rigidamente ortodosso.
La predicazione di Gesù è infine caratterizzata da un contenuto etico-sociale,
rispecchiato da alcuni principi non comunemente condivisi. Fra questi, la
negatività della forza e della potenza in se stessa e della ricchezza e il richiamo
alla fratellanza universale estesa anche ai nemici.
Unite allo spirito di comprensione nei confronti dei peccatori, all’affermazione
per molti sconcertante che ogni uomo è in verità peccatore (“chi è senza peccato
scagli la prima pietra” ) e al principio che la misericordia di Dio può sovvertire
la giustizia umana, queste tesi non potevano non apparire paradossali e
- tempi della salvezza ________________
La presenza nei Vangeli:
1 _________________________________
2 _________________________________
B – gli ____________________________
movimento _____________ anti - _______
La presenza nei Vangeli:_______________
________________________
I TEMI DELLA PREDICAZIONE DI __________:
15
scandalose. Per questo Gesù venne guardato con avversione e odio crescente dai
responsabili della morale corrente e della religione tradizionale. Non può
sorprendere che, da ultimo, l'intreccio di complesse ragioni religiose e politiche
arrivò a provocare il processo, la condanna e la crocifissione del predicatore di
Nazareth.
I TEMI DELLA PREDICAZIONE DI ____________:
1- Dio = __________________________
2 – conversione come cambiamento ________________________________ e nelle ______________________________________
3 - _______________________________________________________________________________________________________
4 – dall’________________________________ (religione ebraica) alla _________________________________________________
5 – dal ___________________________________________ (religione ebraica) alla __________________________: amore per Dio
(fede) + ______________________________________________________
6 - polemica contro ________________________________________________________________________________________
7 - _________________________________________________________________________________________________________
PAOLO DI TARSO
Paolo di Tarso ebbe un ruolo forse maggiore della predicazione di Gesù per la
formazione del cristianesimo, infatti la sua predicazione ha influito sulla stessa
stesura dei Vangeli (le cui fonti sono in parte anteriori, ma la cui redazione è
posteriore alla predicazione paolina e risente in larga misura della sua teologia) e
ha contribuito alla trasformazione del cristianesimo da fenomeno ebraico a
fenomeno ellenico.
Dopo la morte di Gesù attorno agli apostoli si era formata una comunità di fedeli
che attendeva il ritorno di Gesù. Questa comunità si differenziava dalla religione
tradizionale solo per la convinzione che Gesù fosse il Messia.
Essi conducevano una vita ascetica in attesa del ritorno di Gesù e del regno di
Dio, frequentavano le sinagoghe e si riunivano in case private per un pasto
comune in ricordo dell’Ultima Cena. L’antico testamento rimaneva il libro
considerato sacro, anche se venivano redatte le prime relazioni della morte e
risurrezione di Gesù e le raccolte delle sue parole.
Nacquero ben presto due tendenze: la più conservatrice proponeva un
cristianesimo ebraizzante, in quanto voleva mantenersi in tutto fedele alla
tradizioni ebraiche, essendo ostile a qualsiasi innovazione ed era capeggiata
dall’apostolo Giacomo e quella del cristianesimo ellenizzante, in quanto voleva,
invece, aprire la nuova comunità religiosa al mondo ellenico, essa faceva
riferimento soprattutto a Stefano. Stefano predicava nelle sinagoghe dei giudei
ellenisti ed era per questo accusato di scarsa fedeltà alle tradizioni.
Le prime persecuzioni colpiranno soprattutto i cristiani “ellenisti” che
abbandonarono Gerusalemme, fondando delle comunità in Asia Minore.
Una di queste comunità fu frequentata da Paolo dopo la sua conversione. La sua
attività si concentrò nella predicazione ai pagani, estendendo il messaggio di
Gesù ai non ebrei. Ciò provocò l’ostilità della comunità di Gerusalemme, e
quando Paolo vi si recò, non riuscì a trovare con essa un accordo. Egli iniziò
quindi i suoi viaggi, predicando nell’intero mondo ellenistico.
Nel 66 d.C. la comunità cristiana di Gerusalemme venne perseguitata e dispersa
ad opera dei Romani. Ciò coincise con il prevalere del Cristianesimo
ellenizzante.
È soprattutto sul piano della novità teologica che il contributo di Paolo al cristianesimo risulta decisivo. L’insegnamento di Gesù, quale ce lo propongono i
IL RUOLO DI PAOLO (vedi schema
successivo)
Le prime comunità __________________:
cristianesimo _______________________
e cristianesimo _____________________
Le prime ___________________________
e la diffusione del cristianesimo
ellenizzante in _______________________
Paolo e i tentativi di __________________
Paolo e la predicazione nel mondo
______________________________
La dispersione della comunità ebraizzante
di _____________________________
Il ruolo di Paolo
16
Vangeli, non si discosta molto dal solco della tradizione ebraica, in particolare di
quella profetica e apocalittica, che proclama l'avvento imminente di un regno
messianico: regno di pace e di giustizia, di cui Dio stesso è il sovrano. Le novità
maggiori del messaggio di Gesù sembrano riguardare più la morale che la
teologia: carità e fratellanza universali, riscatto dei poveri e degli umili,
abnegazione alla volontà di Dio, concepito come un padre misericordioso e
sollecito alle nostre preghiere. Gli stessi Vangeli non forniscono indicazioni
univoche sul problema cruciale della coscienza messianica del Gesù storico: di
quale ruolo cioè egli assegnasse a se stesso nella storia della salvezza. Solo
gradualmente, dopo la morte di Gesù, si sviluppa all'interno della primitiva
comunità cristiana la fede nella sua divinità, confermata dalle testimonianze dei
discepoli sulla risurrezione, e nel valore redentivo della sua morte in croce.
Questa trasfigurazione del Gesù storico nel Cristo (in greco: l’unto) ha appunto
Paolo per protagonista.
A Paolo di Tarso si deve la prima interpretazione teologica della figura e del
messaggio di Gesù. Questa interpretazione è strettamente legata alla sua cultura.
Egli era romano di nascita, ma ebreo di religione. Ciò gli consentì di elaborare
gli spunti provenienti dalla tradizione ebraica del messaggio di Gesù alla luce dei
concetti tipicamente ellenistici, in particolare provenienti dallo stoicismo. In
questa veste egli è il più adatto a ripensare il nucleo primitivo della fede
cristiana, traducendola in forme culturali accettabili anche dai pagani.
Inoltre, come egli stesso afferma nelle proprie lettere, questo processo di
reinterpretazione teologica della figura storica di Cristo è stata in un certo
senso facilitata dal non aver conosciuto personalmente il Gesù storico, in questo
modo l’umanità di Gesù, che impediva a molti di quanti lo avevano conosciuto di
persona il pieno riconoscimento della sua divinità, non costituiva per lui un
ostacolo.
IL RUOLO DI PAOLO NELLA FORMAZIONE DEL CRISTIANESIMO
1 - ______________________________________________________________________________________________________
2 – ha trasformato il cristianesimo da fenomeno _______________ in un fenomeno __________________________
3 – ha dato la prima interpretazione _____________________________ del messaggio e della figura di _____________________
I motivi del ruolo di Paolo:
1 - ______________________________________________________________________________________________________
2 - ______________________________________________________________________________________________________
I concetti che Paolo utilizza per questa interpretazione teologica della figura di LA
Gesù sono incentrati più che sulla predicazione di Gesù sul significato della sua
morte.
Tra questi concetti vi è quello della sofferenza vicaria che costituirà la prima
giustificazione teologica alla morte di Gesù: accettando la sofferenza e la morte
di un innocente, appunto Gesù, in espiazione dei peccati degli uomini, Dio ha
istituito un nuovo patto con l’umanità, chiamata ora a una salvezza più
universale di quella promessa nell’antico patto, stipulato con il popolo ebreo.
Nella riflessione paolina l’elemento essenziale della nuova religione è
costituito, dunque, non già dalla predicazione di Gesù, ma proprio dalla sua
morte: Gesù è venuto nel mondo non per predicare, ma per morire.
Accanto a questo concetto svolge un ruolo fondamentale quello di peccato
originale. La teologia di Paolo è infatti costruita
su questo schema
fondamentale: l‘uomo è intimamente e originalmente peccatore (“in Adamo tutti
hanno peccato”); la morte di Cristo era necessaria per riscattare il peccato
TEOLOGIA POALINA
17
originale e per dare all’uomo una vita rinnovata; in, questo senso Gesù Cristo è il
salvatore, anzi il redentore, che ha pagato col sangue per l’umanità intera. Il
riferimento all’intera umanità è da sottolineare in modo particolare. La
dottrina paolina fa infatti uscire la neonata religione dal ristretto ambito del
giudaismo e la proietta così in una dimensione universale ripudiando
esplicitamente la logica del “popolo eletto”.
Se il peccato originale ha segnato definitivamente la natura dell’uomo,
rendendolo peccatore, la grazia e la fede sono complementari al peccato
originale.
Se l’uomo è peccatore la sua salvezza non può essere opera sua e viene quindi a
dipendere dall’azione divina tramite l’opera della Grazia di Dio, che opera in lui
una conversione, donandogli la fede. L’iniziativa della salvezza è dunque di Dio,
è un suo dono gratuito, un dono di fronte al quale è vano (e presuntuoso) chiedersi
perché uno abbia fede ed un altro no, perché uno sia giustificato ed un
altro condannato.
Sulla natura del peccato, sul rapporto tra fede e grazia e quindi tra libertà e
predestinazione divina si incentrerà tutta la posteriore riflessione cristiana da
Agostino d’Ippona, il più notevole tra i primi pensatori cristiani, a Lutero, le cui
divergenze su queste tematiche furono all’origine, dal punto di vista teologico,
della Riforma protestante, a Pascal (XVII sec.) e Kierkegaard (XIX sec.), tra i
filosofi che maggiormente hanno contributo alla formazione della sensibilità
religiosa contemporanea.
A esercitare una profonda influenza sul cristianesimo vi è, infine, la concezione
antropologica di Paolo. Tale concezione è profondamente dualistica in quanto
distingue nell’uomo due entità che Paolo chiama: l’uomo carnale e l’uomo
LA
TEOLOGIA POALINA
L’interpretazione di Paolo è incentrata non sulla ____________________ ma sulla ____________ di Gesù
1 - ____________________________________: giustificazione teologica della __________________________
morte di un _________________________ in _________________ dei peccati di __________________
costituzione di un nuovo ___________ tra ______________________________
2 - _______________________________________________________
l’uomo ________________________ può essere salvato dalla ______________ di Cristo
3 - ________________________________________________________
L’uomo non può salvarsi per __________________ deve essere salvato dalla _______________ che gli dona
_______________________
4 - _________________________________________________________
contrapposizione tra ____________________________ e _____________________________
spirituale. L’uomo carnale è l’uomo vecchio, non ancora convertito dalla Grazia
di Dio, il cui prototipo è costituito da Adamo. L’uomo spirituale è invece,
l’uomo nuovo in cui vive Dio e Gesù è il suo prototipo.
Tale contrapposizione tra carne e spirito era tipica di quelle componenti della
tradizione greco-romana che in qualche modo si rifaceva a Socrate e a Platone,
sotto forma di contrapposizione tra anima e corpo. Essa era comunque presente
nell’intera cultura greco-romana sotto forma della contrapposizione tra ragione e
18
istinto.
IL VANGELO DI GIOVANNI
I Vangeli di Marco, Matteo e Luca sono detti sinottici, perché contengono più o I Vangeli ___________________________
meno lo stesso materiale, ovvero sono testimonianze di fede simili.
Essi sono comunque diversi, in quanto elaborati da e per comunità diverse. I titoli ____________________________
Queste differenze emergono, ad esempio, nei titoli cristologici, ovvero negli
appellativi con cui è indicato Gesù. Luca, che scrive per i romani, chiama Gesù
Signore, titolo che questo popolo attribuiva al sovrano ed era in questo contesto
comprensibile per i suoi lettori, invece Matteo, che scrive per i cristiani della
Palestina che erano di origine ebrea per cui tale titolo non significava nulla,
Il Vangelo di Giovanni
chiama Gesù Messia e figlio di Davide.
Il Vangelo di Giovanni si distacca dagli altri, in quanto l’evangelista cerca di
dare una maggiore interpretazione teologica al messaggio di Gesù. In effetti,
mentre i Vangeli sinottici furono redatti fra il 65 e il 70 d.C., quello di Giovanni
fu scritto verso la fine del I sec d. C., ed è perciò già molto influenzato
dall’interpretazione teologica di Paolo da Tarso.
L’apostolo ed evangelista Giovanni è l’unico a sostenere esplicitamente la
divinità di Gesù; infatti, all’inizio del suo vangelo egli afferma che Cristo è il
verbo, il Logos, e il Logos è Dio, mentre negli ultimi capitoli l’evangelista mette
in bocca all’apostolo Tommaso le parole “mio Dio” rivolte a Gesù risorto.
La figura di Gesù viene interpretata attraverso un massiccio ricorso ai concetti
elaborati dalla cultura greco-romana. Così il già citato concetto di logos (ragione,
parola, verbo) per cui Gesù rappresenta la parola di Dio.
Inoltre è il Vangelo di Giovanni a introdurre il concetto di vita eterna che
sostituisce il biblico regno di Dio che era pensato come un regno terreno. A tale
concetto Giovanni oppone quello, di chiara derivazione platonica, di regno di
Dio come sede della vita eterna dell’anima.
Di derivazione platonica è anche l’assimilazione di Gesù alla “Luce”. Come per
Platone il mondo delle idee è collegato alla luce (vedi mito della caverna) così,
per Giovanni, Gesù rappresenta la vera Luce e proprio nel riconoscerlo si ottiene
la vita eterna.
IL VANGELO DI GIOVANNI
1 è l’unico a _______________________________________________________________________________________________
2 interpreta la figura di Gesù ricorrendo a ____________________________ quali:
a ___________________ che è per Giovanni _________________________________
b ___________________ che sostituisce per Giovanni ______________________________________________________
c _________________________________________________________________________________________________
LA PATRISTICA
Durante il periodo, indicato dagli storici della filosofia come Patristica, vennero La definizione dei ____________________
definiti i testi sacri e i principali dogmi
Entrambe queste funzioni furono svolte dai concili ecumenici, il primo dei quali e dei ____________________________
fu quello di Nicea del 325 d.C. (l’ultimo è costituito dal Concilio Vaticano II dei
primi anni ’60 del secolo scorso).
Sia l’opera di stesura dei testi sacri che la definizione delle dottrine ritenute __________________ e scarti
autentiche sono risultati un’opera di scelta all’interno di un gruppo di testi e
dottrine più vasto; le gerarchie sacerdotali, quindi, imposero un’unica
interpretazione ufficiale, scartando tutte le altre interpretazioni.
Tra i dogmi che vennero accettati dalla Chiesa Romana vi sono quelli della
19
Trinità, ovvero la contemporanea presenza nella divinità di tre persone, il
peccato originale come colpa dell’intera umanità, la natura divina di Cristo, che
non è stato creato da Dio, come affermava invece l’arianesimo 5 che venne
condannato. Il “Credo”, preghiera recitata durante la celebrazione eucaristica,
riassume i principali dogmi accettati dalla Chiesa Romana.
Altre Chiese, come quella Ortodossa, definirono diversamente i propri dogmi e
in questo sta la ragione del contrasto tra le diverse chiese cristiane.
I Concili scelsero, quindi, le teorie ritenute corrette all’interno di una moltitudine
di teorie che divennero eterodosse, cioè non vere. Dopo che il cristianesimo
divenne la religione ufficiale dell’Impero Romano, le dispute filosoficoreligiose assunsero una valenza politica, testimoniata ad esempio,
dall’interferenza degli imperatori nei concili (Costantino pur non essendo
battezzato fu chiamato a presiedere il primo concilio, quello di Nicea).
A questo dibattito diedero un contributo fondamentale i primi pensatori cristiani,
i “Padri” a cui la Chiesa riconosce una particolare autorità. I padri della Chiesa
Romana sono Ambrogio,Girolamo,Agostino e Gregorio Magno.
La riflessione degli intellettuali cristiani sorse in polemica con gli scrittori pagani
e lo gnosticismo6 e si ricollegò alla tradizione filosofica precedente in due modi.
Il cristianesimo venne presentato come l’espressione compiuta e definitiva della
verità che la filosofia greca aveva raggiunto in modo parziale. Questa continuità
veniva giustificata ricorrendo all’unità della ragione che Dio ha dato identica a
tutti gli uomini e alla quale la rivelazione ha dato un fondamento sicuro. Il fatto
che fede e ragione fossero del tutto conciliabile è, per gli scrittori della Patristica,
un dato scontato, infatti la fede illumina la ragione, poiché senza di essa la
ragione non può ancorarsi a niente di sicuro (vedi Agostino d’Ippona).
I filosofi cristiani, inoltre, utilizzarono concetti della filosofia pagana per
elaborare le proprio posizioni. Gli autori a cui più frequentemente essi attinsero
furono: Platone, gli Stoici, e Plotino e in genere il neoplatonismo.
Qualsiasi religione rivelata comporta l’accettazione di un insieme di credenze
ritenute non il frutto di una ricerca razionale, ma di una rivelazione diretta della
divinità, e, proprio per questo, accolte e ritenute indubitabili.
La ricerca razionale, in questo contesto, non deve raggiungere la verità, ma
diventa una via attraverso la quale comprendere il messaggio rivelato e far
diventare la rivelazione norma per la propria vita.
Diventano quindi rilevanti due problemi: il problema della conoscenza, cioè
della via per comprendere la verità, e quello di come comportarci per
raggiungere la felicità eterna
Questi due problemi erano condivisi anche dalla filosofia ellenistica, la filosofia,
infatti, era intesa come la ricerca della felicità individuale, raggiungibile
adottando una regola di vita (vedi Epicuro e gli stoici).
I primi filosofi cristiani, oltre a trovare il campo delimitato dalla rivelazione,
dovettero muoversi all’interno di una struttura, la Chiesa, che mirava a fissare in
modo collettivo le dottrine che meglio esprimono il significato della rivelazione.
Gli intellettuali erano quindi posti di fronte a due limiti: il contenuto della
rivelazione e l’autorità della Chiesa
LE CARATTERISTICHE DEL DIBATTITO:
1 la formazione delle ______________
2 la distinzione tra ortodossia e
_______________________________
3 la valenza _____________________
4 il contributo dei _________________
LA CONTINUITÀ TRA FILOSOFIA ______
_______ E
FILOSOFIA _____________:
a – la filosofia cristiana presentata
come ________________________
b – l’utilizzo dei concetti di _________
_____, ____________, ____________
RICERCA FILOSOFICA E RELIGIONI
________________________
5
L’arianesimo è stato un movimento eretico (quindi portatore di tesi che vennero rifiutate dai concili
della chiesa) dell’antichità che prende il nome dal suo fondatore il prete Ario (256-336)
6
Gnostici sono coloro che credono che sia possibile una conoscenza completa della divinità, senza
ricorrere alla rivelazione, quindi con la sola ragione. Il termine agnostico indica, invece, chi ritiene che
non sia possibile conoscere nulla di Dio, né dimostrare la sua esistenza o la sua non esistenza.
20
RICERCA FILOSOFICA E RELIGIONI ________________________
Limiti della ricerca razionale:
1 - Religione _________________ = verità già __________________________________
Ricerca razionale = _______________________________________________________
_______________________________________________________
2 – struttura ecclesiastica fissa in modo _______________________ il significato della rivelazione
Agostino è una delle figure decisive per lo sviluppo del pensiero occidentale,
uno degli autori che più hanno contribuito all'incontro tra la filosofia greca e la
religione cristiana, determinando così la transizione dall'età antica a quella
medievale e delineando il quadro all’interno del quale, almeno fino al XIII secolo,
si mosse la filosofia cristiana. Quadro che Agostino ha costruito in gran parte
riprendendo tematiche platoniche e neoplatoniche.
Da questi autori Agostino trae innanzitutto un percorso della ricerca della verità
che si rivolge non all’esterno, ma all’interno, in cui l’anima, nella luce di Dio,
ritrova in se stessa sé e Dio: “accolsi il consiglio dì tornare in me stesso e con la
tua guida entrai nel mio mondo interiore”.
È il tema della valorizzazione dell'interiorità che costituisce il nodo nevralgico
della vita e del pensiero di Agostino.
L’essenziale del programma e del metodo di ricerca agostiniano è delineato
dallo stesso in questo modo: ”Dio e l'anima: questo desidero conoscere. Nulla più? - Assolutamente nulla”. In questa dichiarazione vi è, in primo luogo,
l’esclusione della conoscenza del mondo esterno dalla direttrice principale della
ricerca: essa sarà tutt’al più una tappa di un percorso che conduce alla vera
scienza dell’anima e di Dio. In secondo luogo, vi è posta la coincidenza, dal
punto di vista metodologico, tra conoscenza di sé e conoscenza di Dio: solo a
partire da sé , nella tradizione che parte da Socrate, l’uomo può giungere alla
verità, a Dio. L'anima è il luogo dell'incontro con la verità: “Non andare fuori
di te, ritorna in te stesso . La verità dimora nell’uomo interiore. E se scoprirai
che la tua natura è mutevole, trascendi anche te stesso. Ma ricorda, quando
trascendi te stesso, tu trascendi l’anima razionale. Tendi pertanto là donde
s’accende il lume stesso della ragione”.
In questo modo Agostino fa dell’anima, che per Socrate, che possiamo
considerare lo scopritore dell’anima, era essenzialmente il centro della
personalità dell’uomo e che era diventata nella riflessione platonica un’entità
immortale il cui destino eterno si compiva nel mondo delle idee, il luogo
privilegiato dell’incontro tra Dio e l’uomo. In questo modo si compie la
cristianizzazione del concetto di anima ereditato dalla cultura greca.
AGOSTINO D’IPPONA
L’incontro tra filosofia __________ (neo
____________) e religione ____________
LA VALORIZZAZIONE
______________________________
Obiettivi della conoscenza _________ e
________________________ per cui:
a – svalutazione ____________________
_________________________________
b – l’uomo incontra Dio nella _________
__________________________________
LA STORIA DELL’ANIMA DA SOCRATE A
PLATONE
LA STORIA DELL’ANIMA DA SOCRATE A PLATONE
Socrate  anima = ____________________________________________________________________________________
Platone  anima = ____________________________________________________________________________________
Agostino  anima = ___________________________________________________________________________________
Per la storia dell’anima vedi anche “ 6 - I problemi della filosofia: la concezione dell’uomo. Platone e l’idealismo antico”, pag. 17-18
Soltanto una riflessione assidua e sincera sulla propria esperienza interiore, che
21
non ne occulti gli aspetti problematici e inquietanti, può, dunque, dischiuderci
secondo Agostino la via d'accesso alla verità: «in interiore homine habitat
veritas», è una delle sue affermazioni più conosciute, in effetti una sorta di
enunciazione programmatica della sua filosofia.
Parte di questo cammino interiore ed esistenziale compiuto dallo stesso Agostino ci
viene da lui raccontato nelle “Confessioni”, un'opera autobiografica di grande
penetrazione psicologica nella quale ci racconta la sua vita fino alla conversione
al cristianesimo.
Agostino in esse rivela che mai avrebbe pensato di farsi cristiano. Formatosi nello
studio dei classici latini, egli era troppo "snob", diremmo oggi, per accogliere in
sé il messaggio di salvezza della Bibbia, un messaggio espresso con un linguaggio
a cui sono estranee sia preoccupazioni di rigore concettuale sia ambizioni di
eleganza stilistica: “Rivolsi la mia attenzione alle sacre scritture, per vedere come
fossero. Ed ecco cosa vedo: un oggetto oscuro ai superbi e non meno velato ai
fanciulli, un ingresso basso, poi un andito sublime e avvolto di misteri. Io
non ero capace di superare l'ingresso o piegare il collo ai suoi passi. Infatti i miei
sentimenti, allorché li affrontai, non furono quali ora che parlo. Ebbi piuttosto
l'impressione di un'opera indegna del paragone con la maestà [degli scritti di
Cicerone]. Il mio gonfio orgoglio aborriva la sua modestia, la mia vista non
penetrava i suoi recessi. Quell'opera invece è fatta per crescere con i piccoli; ma io
disdegnavo di farmi piccolo e per essere gonfio di boria mi credevo grande.”
(Confessioni)
Sarà invece proprio la conversione al cristianesimo a fornirgli l'impulso
esistenziale e gli strumenti concettuali per porre sotto una nuova luce e risolvere in
maniera originale quei problemi che fin da giovane l'avevano assillato, come quello
relativo alla causa e al significato della presenza del male nel mondo.
Come Agostino stesso ci racconta, l'interesse per la filosofia fu suscitato in lui,
all'età di diciannove anni, dalla lettura dell'Hortensius di Cicerone, e fu
inizialmente sostenuto dalla fiducia, tipicamente ellenistica, che la ragione e una
condotta di vita disciplinata possano consentire all'uomo di affrontare e superare
le circostanze avverse della vita.
In questa prima fase del suo pensiero Agostino trova dunque nella filosofia
quella saggezza che può soddisfare l'esigenza di dare senso alla nostra vita in un
mondo che ci sembra ostile o indifferente. Ed è appunto in questa prospettiva ch'egli
s'impegna ad inquadrare razionalmente il problema del male, inteso non solo come
male esteriore, presente nel mondo che ci circonda, ma anche come esperienza
interiore: la sua personale esperienza di una vita, prima della conversione,
percepita come priva di senso, legata alla dimensione effimera del mondo
materiale.
Con l'obiettivo di affrontare il problema del male, Agostino aderisce dapprima
alla setta gnostica dei manichei, i quali proponevano una spiegazione
dell'origine del male con forti connotati mitologici. Secondo questa setta vi
sono due principi cosmici ed eterni, il bene e il male, la luce e le tenebre, che
sono perennemente in lotta tra loro. L'anima dell'uomo è una particella di luce
intrappolata dentro le tenebre della materia. Attraverso la presa di coscienza di
tale situazione e una vita improntata all'ascetismo, l'uomo può sperare però
di liberarsi dalla prigione del corpo e di ricongiungersi al bene cosmico. Dopo
avere frequentato per nove anni la setta manichea, Agostino se ne allontanò, trovando la cosmologia manichea priva di argomenti razionali e più vicina alla
mitologia. Quando, in anni successivi, Agostino, ormai convertito, scriverà
contro i manichei, emergeranno motivi di contrasto più profondi: in primo
luogo, il concepire un principio del male coeterno a quello del bene è
inconciliabile con la fede cristiana nell'esistenza di un unico Dio; in secondo
luogo, poiché, per i manichei, l'anima dell'uomo è una particella del principio
cosmico del bene, la differenza fra uomo e Dio viene annullata; infine, se il male
deriva dalla materia, l'anima dell'uomo, imprigionata nel corpo, non può
LE
CONFESSIONI:
il cammino interiore di _______________:
1 b – il primo incontro con _____________
1 a – l’interresse per _________________
La ___________________ per guidare la
nostra vita
Il problema del _____________
2 – l’adesione al __________________
3 – ______________ dal manicheismo
22
essere ritenuta responsabile del male che compie.
Il distacco dalle tesi manichee finisce col suscitare in Agostino una profonda sfiducia
nei confronti della capacità della ragione umana di pervenire a un qualche genere di
conoscenza certa: alla vigilia della sua partenza per andare a insegnare in Italia, fa
propria la tesi scettica secondo cui all'uomo è concesso formulare esclusivamente
ipotesi verosimili.
In Italia, a Milano nel 384-385, avviene la conversione di Agostino al
cristianesimo ed è determinata dall'incontro con il pensiero neoplatonico e con il
platonismo cristiano di Ambrogio7, che dava un'interpretazione allegorica delle
sacre Scritture basata su una rilettura in chiave fortemente neoplatonica. Nel
contempo, Agostino scopre negli scritti neoplatonici una concezione
dell'Intelletto come mediatore (sul piano metafisico e su quello conoscitivo) fra
l'Uno e il mondo della molteplicità, che presenta evidenti analogie con il ruolo
assegnato al Verbo (Lògos) divino (cioè alla seconda persona della Trinità, ovvero
Cristo) nel prologo del Vangelo di Giovanni, in cui esso viene descritto come il
mezzo attraverso cui il Padre crea il mondo. Negli stessi mesi in cui matura la sua
decisione di abbracciare il credo cristiano, allora, Agostino giunge a convincersi
che l'insegnamento della Chiesa sia una sorta di versione semplificata del
platonismo, più adatta alla mentalità poco filosofica della maggioranza degli
uomini: l'ammirazione per Plotino e Porfirio8 si salda a quella per Ambrogio e per la
fede predicata dal vescovo milanese, in maniera tale che il lungo cammino compiuto
da Agostino si conclude con una duplice conversione, al cristianesimo e al
neoplatonismo.
I testi dei neoplatonici gli mostrarono la possibilità di concepire un livello di
realtà non fisica e lo indussero quindi ad abbandonare una concezione ingenuamente materialistica. Le concezioni platonica e neoplatonica, infatti,
pongono una divisione fra il mondo fisico, conoscibile attraverso i sensi, il
mondo spirituale, conoscibile attraverso l'intelletto. Il neoplatonismo intende
questi due livelli dell'essere come ordini di una realtà unica gerarchicamente
organizzata. In questa concezione, un essere assoluto e indivisibile dà origine a
tutte le cose frammentandosi progressivamente fino ai livelli inferiori della
realtà, costituiti dalla molteplicità degli oggetti che cogliamo mediante i sensi.
Così Agostino giunge a concepire Dio come l'essere stesso, sorgente e origine sia
della realtà sensibile, transitoria e soggetta ai mutamenti del tempo, sia del
mondo intelligibile, eterno e incorruttibile.
Dal neoplatonismo Agostino trae spunto anche per prospettare una nuova
soluzione del problema del male. Se tutto ciò che esiste proviene da Dio non
è possibile che il male abbia nel mondo un' esistenza autonoma e contrapposta
a quella del bene. Come per i neoplatonici, così anche per Agostino il male è quindi
solo assenza del bene: la cecità, ad esempio, non va considerata come un'altra
cosa rispetto alla vista, esistente autonomamente con proprietà opposte a quelle
della vista, ma come l'assenza o il venir meno della proprietà che ci
permettono di vedere. Nel mondo dunque, a rigore il male non esiste: tutte le
cose, essendo state create da Dio, sono per natura buone sia pure a livelli
diversi, e concorrono all'armonia del creato. Nella storia del mondo, il male
irrompe - nella forma di una perversione della volontà umana . allorché essa,
creata libera, si distoglie da Dio, rifiutandogli obbedienza e amore, come nel
caso del peccato originale, e subisce l'attrazione esercita dalle «cose più basse»,
cioè dalla realtà sensibile.
e l’accettazione dello ______________
4 – il viaggio in ______________ e
l’adesione al _____________________
e al ____________________________
dall’________ (neoplatonico) a Dio
come ________________________
(vedi anche par. successivo)
dall’Intelletto al ______________
come intermediario tra ___________ e
______________
La distinzione tra _________________
_____ e ________________________
Il problema del _______________
il _____________ come assenza del
______________
Il male nel mondo come ___________
_____________________________
7
Ambrogio (339-397), uno dei Padri della chiesa romana, santo; divenne vescovo di Milano nel contesto
delle lotte contro il movimento ariano.
8
Porfirio (233-305), uno dei discepoli di Plotino di cui curò la pubblicazione delle opere (vedi anche
“Vita e opere di Plotino” (pag. 31)
23
L’ANIMA
In accordo con i principi del neoplatonismo, Agostino considera l'essere umano un
composto di anima e di corpo. Ma in quanto entità spirituale, l'anima è
superiore al corpo ed ha una funzione di governo e di controllo sul corpo. In opLa divisione tra anima e ____________
posizione ai manichei, Agostino ritiene che l'anima sia immateriale, creata e
mutevole, una caratteristica quest'ultima che la distingue dal suo creatore. Il Anima = ________________________
fatto che l'anima possa cambiare spiega perché essa si può volgere verso il bene o
verso il male e quindi come la responsabilità della presenza del male nel __________________________
mondo sia da attribuirsi all'uomo e non a Dio.
Agostino discute a lungo la questione dell'origine dell'anima. Riguardo a tale
questione erano diffuse ai suoi tempi quattro concezioni dell'anima: 1) l'anima è
L'ORIGINE DELL'ANIMA
stata creata da Dio prima del corpo, ed è stata inviata da Dio ad amministrare un
corpo; 2) l'anima è stata creata prima del corpo, ma si incarna in un corpo per propria scelta; 3) tutte le anime discendono da quella originaria di Adamo
esattamente come avviene per i corpi (traducianesimo); 4) Dio crea ex novo
un'anima per ciascun corpo (creazionismo). A seconda dell'ipotesi adottata, si
avrà un'idea diversa della condizione umana.
Secondo le prime due ipotesi le anime preesistono ai corpi, ma in entrambe la
vicenda terrena dell'anima è una sorta di esilio voluto da Dio o scelto
dall'anima stessa; nella terza e nella quarta, il corpo è una sorta di involucro a
cui l'anima è, almeno per un certo periodo di tempo, naturalmente destinata.
Le prime due ipotesi sono scartate da Agostino in quanto il concetto di
preesistenza era tradizionalmente associato con l'idea della reincarnazione, e
questo avrebbe aperto la possibilità logica che anche l'avere vissuto una
vita retta non garantisse la salvezza eterna. L'ipotesi traducianista viene respinta da Agostino perché è associata al materialismo, come in Tertulliano 9,
uno dei suoi più autorevoli sostenitori. L'ipotesi restante, il creazionismo, è
tuttavia ben lontana dall'essere priva di problemi. Se le anime sono
direttamente create da Dio, allora come si spiega in esse la presenza del
peccato originale? Il problema è particolarmente acuto quando gli essere
umani muoiono senza aver avuto la possibilità di riscattarsi, come ne caso dei
L'ORIGINE DELL'ANIMA
1 - incarnata da ___________ in un corpo
l'anima è stata creata da Dio __________ del corpo
corpo = _________________
2 - si incarna in un corpo per _______________
critiche di Agostino: preesistenza  ___________________________________; vita giusta non ________________________________
3 - tutte le anime come i __________________ discendono da quella originaria di Adamo (____________________________)
critiche di Agostino: presuppone concezione __________________________ dell’anima
4 - Dio crea ______________ un'anima per ________________ (creazionismo).
problema: ___________________________________________________________________________________________________
ANIMA E CORPO
bambini morti prima del battesimo. Nella Città di Dio Agostino sembra
propendere per una concezione secondo la quale le anime sarebbero create da
l’anima come _______________________
Dio come l'anima di Adamo ed erediterebbero il peccato quando si individuano
in un corpo determinato. Ma anche questa possibilità, se di una vera
alternativa alla concezione creazionista si tratta, sembra non soddisfare i diversi ________________ dell’anima
9
Tertulliano (160-220) uno dei primi scrittori e polemisti cristiani sia nei confronti della cultura pagana
che degli gnostici. Primo tra gli scrittori latini ad adottare il concetto di Trinità come “unica sostanza e tre
persone”, entrò in polemica anche contro il lassismo della Chiesa.
24
Agostino il quale, verso la fine della sua vita, riconosce la difficoltà del
problema appare riluttante ad adottare una soluzione.
L’anima _________________ dell’uomo
Rifacendosi alla tradizione greca, Agostino considera l'anima come il
principio che distingue gli esseri viventi dalle cose non viventi: vivere
significa possedere un'anima e morire comporta il distaccarsi dell'anima dal Il rapporto fra l'anima e il corpo e la
corpo. Così non solo gli esseri umani ma tutti gli organismi viventi sopravvivenza dell'anima dopo la morte
possiedono un'anima, benché, secondo uno schema non dissimile da quello
platonico, vi siano diversi gradi dell'anima, ognuno dei quali presiede ad una
specifica attività (nutritiva, riproduttiva, sensitiva ecc.). L'anima razionale
dell'uomo è il grado più elevato. Benché largamente condivisa nel pensiero
classico, tuttavia, questa concezione dell'anima lasciava spazio a opinioni
notevolmente divergenti circa il rapporto fra l'anima e il corpo e la
sopravvivenza dell'anima dopo la morte di questo. Il materialismo degli
atomisti, il dualismo platonico e l'ilomorfismo 10 di Aristotele ne sono solo gli
esempi più celebri. Per Agostino è però scontato che l'anima umana sia
immateriale e immortale. Mentre nelle sacre scritture del cristianesimo la
sopravvivenza dell'anima dopo la morte del corpo è chiaramente affermata,
nulla è detto circa la sua natura. Come dimostra l'esempio di Tertulliano (uno
dei primi scrittori cristiani), che riteneva l'anima materiale, la tesi
dell'immaterialità dell'anima giunse quindi nel cristianesimo da una fonte
diversa. E infatti l'insistenza di Agostino sull'immaterialità dell'anima è
dovuta al neoplatonismo. Naturalmente, per Agostino, affermare
l'immaterialità dell'anima equivale a sostenere anche la sua immortalità, dal
momento che, secondo un celebre argomento di Platone, l'anima è immortale
proprio in quanto è immateriale: solo ciò che è costituito di materia infatti può
scomporsi e quindi perire.
IL RAPPORTO FRA L ' ANIMA E IL CORPO E LA SOPRAVVIVENZA DELL ' ANIMA DOPO LA MORTE
1 ________________________________: anima materiale e _________________________ come il corpo (Democrito- Epicuro)
2 _______________________________: anima _________________ e immortale diversa dal _____________ (________________)
3 ilomorfismo: _____________________________________________________________________________ (________________)
(vedi nota)
Agostino: anima _____________________________ e ______________________________
ANIME E RAGIONE
Anche per quanto concerne la struttura dell'anima Agostino è debitore alla
tradizione greca. La ragione è la facoltà suprema dell'anima ed è caratteristica
dell'uomo. Essa domina tutte le altre capacità e facoltà umane. La
concezione agostiniana della ragione è tipicamente classica: la ragione è la
capacità di svolgere deduzioni logiche. In questo senso è la ragione che distingue l'uomo dagli altri esseri viventi, i quali possono essere capaci di
impegnarsi in attività finalizzate a raggiungere gli scopi necessari per la loro
sopravvivenza, ma non sono in grado di effettuare ragionamenti astratti, come
quelli logici o matematici. La ragione così concepita diviene il mezzo con il
quale l'uomo giunge a conoscere verità eterne, non soggette a cambiamento come invece sono quelle relative agli oggetti che possono essere
conosciuti con i sensi. Accedere a queste verità significa accedere alla
natura stessa della realtà: per Agostino, come per molti pensatori greci, le
verità di ragione esprimono la struttura profonda dell'essere, della realtà.
Agostino ha ben chiaro, tuttavia, che non tutte le nostre conoscenze hanno
una base razionale. Di fatto l'uomo possiede più credenze di quanto gli
La struttura dell’__________________
la ragione come ______________ suprema
la ragione come ciò che distingue ________
________________________________
la ragione come mezzo per _____________
___________________________________
verità di ragione = struttura della ________
conoscenze e _______________________
10
Ilomorfismo (o ilemorfismo) individua la tesi per cui i fattori costitutivi di ogni corpo fisici sono
individuabili nella forma e nella materia, vedendo nell’anima la forma del corpo.
25
sia possibile dimostrare con la ragione o verificare con i sensi. Per ciò che
sappiamo della storia, per esempio, dobbiamo in parte fidarci della veridicità
delle testimonianze. È in tal modo che Agostino imposta la questione del
rapporto tra fede e ragione. Come nella nostra vita quotidiana ci affidiamo e
utilizziamo credenze che non abbiamo mai verificato o non possiamo verificare (come per esempio la nostra data di nascita), così anche in materia di
religione dobbiamo affidarci all'autorità delle testimonianze. Perché non
credere ai testimoni dell'opera di Cristo e alla sua parola, quando nella stessa
vita quotidiana utilizziamo credenze senza averle mai dimostrate?
La ragione senza fede è disperazione, esperienza di sconfitta che uccide la speranza della verità. Abbandonata a se stessa, la ragione si avvolge in una rete
inestricabile di contraddizioni, si sfianca in una lotta che non può che condurre
allo scetticismo. Bisogna credere per sapere: la ragione ha bisogno del soccorso
della fede. Da sola può attingere le verità parziali delle matematiche e delle
scienze, ma non può ascendere al fondamento di tali verità, a Dio e non può
farsi sapienza. Agostino, tuttavia, è ben lontano dal negare la funzione della
ragione, o dal confinarla in un ruolo accessorio: il pensiero è proprio ciò che
maggiormente apparenta l’uomo a Dio e rivela, nell’uomo, l’immagine di Dio.
Fede e ragione, credere e sapere, stanno piuttosto in un rapporto di circolarità: da
un lato, il credere è condizione del comprendere; anzi l’intelligenza è
ricompensa della fede. Ma dall’altro, l’uomo crede in quanto pensa, senza
pensiero non vi è fede. L'esercizio dell’intelligenza deve dunque accompagnare
la fede: la fede cerca, l’intelligenza trova. L’ascesa a Dio, la conquista della
verità e della beatitudine, è un processo in cui fede e ragione interagiscono
continuamente, perché è un processo in cui ogni conquista pone una domanda.
L’intelligenza, così, chiarifica e fortifica la fede. Così, di fronte alle Scritture, si
può, comprenderne il significato solo se già vi si crede, dunque a partire
dall’auctoritas della Chiesa, ma la comprensione piena della parola di Dio
richiede che l’intelletto che interpreta, compia l'esplorazione razionale dei
contenuti della fede.
All’interno di questa impostazione dei rapporti tra fede e ragione Agostino assume
due posizioni che saranno largamente condivise da tutto il medioevo.
Innanzitutto la svalutazione dello studio della natura. La conoscenza fine a se
stessa, la scienza concepita autonomamente, è vana curiosità; non solo non è
vera sapienza, ma addirittura allontana da questa. Nell’atteggiamento che vuole
conoscere il mondo per se stesso vi è orgoglio e avarizia, legame con le cose
esterne dunque allontanamento da Dio. E perciò da respingere ogni attività
intellettuale che non sia rivolta a Dio. La scienza è accettabile e legittima nella
misura in cui è volta a fortificare la fede, finalizzata integralmente all'analisi
della Rivelazione.
Inoltre, Agostino giustifica il recupero selettivo (il “furto sacro”) operato
dalla patristica greca nei confronti della cultura pagana: come gli ebrei hanno
portato con sé l’oro e l’argento egiziani, così la cultura cristiana può utilizzare
nel servizio della fede quanto della cultura pagana è compatibile con questa e a
essa utile. Agostino non rinnega la filosofia, soprattutto quella platonica, e ne fa
parte importante del programma di formazione dell’intellettuale cristiano. Ma
resta chiaro che la vera filosofia è quella cristiana, la cui superiorità consiste in
questo: la filosofia pagana ha fallito il suo scopo di condurre l’uomo alla
felicità, ha indicato un obiettivo, ma non ha dato, né poteva dare, i mezzi per
raggiungerlo. Il filosofo, anche il più vicino alla verità, come il platonico
muo ve infatti dalla superbia, cioè dalla presunzione che l'uomo possa
compiere la sua ascesa da solo, il cristiano invece fonda il suo, pensiero
sull’umiltà; sulla consapevolezza che il vero bene, la vera beatitudine, non può
venire dall’uomo ma è dono di Dio.
In un contesto simile nasce anche la dottrina agostiniana dell'illuminazione,
volta a spiegare con l’intervento divino la facoltà umana del conoscere. Ci
IL RAPPORTO FEDE - ___________________
Verità e ________________________
La priorità della __________________
Credere per _____________________
Il ruolo della ragione: la fede ___________
l’intelligenza __________________
l’intelligenza fortifica la ______________
Due conseguenze:
1 – la conoscenza della natura come vana
________________________
2 – il furto _______________________
La superbia del filosofo _______________
e l’umiltà del filosofo ________________
26
sono alcune conoscenze che non possono essere acquisite né attraverso i sensi
né attraverso la ragione. Si tratta delle regole che sono presupposte da ogni
forma di conoscenza o di dimostrazione ma che non possono a loro volta essere
dimostrate (p. es. i postulati, gli assiomi, i numeri, le regole del ragionamento,
le regole morali assolute). Esse dunque sono note all'uomo soltanto perché le
riceve da Dio, mediante, appunto, l'illuminazione divina. L'illuminazione sta
alla capacità umana di conoscere e all'oggetto conosciuto come la luce sta
all'occhio e all'oggetto visto: senza la luce non è possibile che l'occhio veda l'oggetto. L'illuminazione divina fa sì che la mente dell'uomo conosca
direttamente, ovvero senza la mediazione del ragionamento, le verità eterne,
cioè le verità non sensibili. Questa forma di conoscenza è nota nella storia della
filosofia anche come intuizione intellettuale, locuzione che individua una
conoscenza immediata (cioè priva di passaggi logici, come quando vediamo
un oggetto) di oggetti non sensibili (cioè accessibili solo all'intelletto).
La teoria dell’illuminazione, implicando un intervento diretto della divinità
nei processi razionali dell’uomo, consente quindi ad Agostino di riformulare
in termini cristianizzati il problema della conoscenza umana.
L'illuminazione divina riguarda però solo le conoscenze naturali ed è quindi
presente in tutti gli uomini, non solo nel teologo ma anche nel matematico ateo o
nel contadino che misura il suo campo. Le verità di fede sono invece accessibili
solo a chi riceve un'altra specie di intervento divino: la grazia. Ma la grazia, a
differenza dell'illuminazione, secondo Agostino non è data a tutti gli uomini.
La tradizione greca e quella cristiana hanno affrontato in modo diverso il
problema di dirigere il comportamento dell’uomo verso il bene. La prima affida
all'indagine razionale il compito di trovare la via per orientare l'uomo al bene, la
seconda ritiene che senza l'aiuto divino l'uomo non possa distogliersi dal male.
La storia personale e quella intellettuale di Agostino riflettono questa duplicità di
atteggiamenti: la sua riflessione sui motivi che spingono l'uomo ad agire è sempre
stata consapevole dell'influenza dei fattori non razionali e dei limiti di una
spiegazione dell'agire che chiami in causa solo la capacità razionale di scegliere.
La ragione non è solo un mezzo di conoscenza, ma può indurci ad optare per
un'azione piuttosto che per un'altra. Tuttavia, i fattori non razionali (come i
desideri), spesso prevalgono su ciò che la ragione ci dice che è bene fare. Via via
che il pensiero teologico di Agostino si precisa, tanto più si rafforza il suo convincimento che la volontà umana priva del sostegno divino sia incapace di volgersi
al bene. Nelle Confessioni egli ci racconta come, nonostante fossero venute meno
le sue riserve intellettuali contro il cristianesimo, non riuscisse ancora a intraprendere il giusto cammino. “Non desideravo acquistare ormai una maggiore certezza di te [Dio], quanto piuttosto una maggiore stabilità in te. Sennonché dalla
parte della mia vita terrena tutto vacillava, e bisognava ripulirmi il cuore dal
fermento vecchio. La via, ossia la persona del Salvatore, mi piaceva, ma ancora
mi spiaceva passare per le sue strettoie”.
Agostino compie una graduale evoluzione dalla fiducia nella forza della ragione
come guida per la condotta pratica alla sottolineatura della debolezza della
volontà, incapace di determinare l'uomo verso obiettivi che pure sa essere giusti.
Tale debolezza non è un fatto individuale e transitorio, ma è costitutiva della
volontà umana, conseguente al peccato originale: «da questa volontà
incompleta [...] nasceva la mia lotta con me stesso. [...] Non ero
neppure io a provocarla, ma il peccato che abitava in me quale
punizione di un peccato commesso in maggior libertà; poiché ero figlio di
Adamo» (Confessioni, VIII, 10.22). La corruzione dell'anima e della volontà
umana dovuta al peccato originale è tale che Agostino si persuade
dell'impossibilità per l'uomo di raggiungere la salvezza senza la grazia divina.
Con questa graduale evoluzione dalla fiducia nella forza della ragione come guida
per il comportamento umano (tipica della cultura greca) alla sottolineatura della
debolezza della volontà Agostino compie la cristianizzazione di un’altra
L’ORIGINE DELLA ______________ UMANA:
le conoscenze che non derivano né ______
____________ né ____________________
L’intervento divino: __________________
_________________ divina  conoscenze
________________________
_______________  verità di __________
ANIMA E COMPORTAMENTO UMANO
I fattori non ____________________
nel comportamento umano
La volontà umana ha bisogno
_______________________________
Dalla fiducia nella ___________________
alla debolezza ______________________
a causa del _________________________
Agostino e la _______________________
delle problematiche della filosofia antica
27
problematica della filosofia antica, accanto a quelle già esaminate legate al
concetto di anima e al problema della conoscenza.
Tale posizione matura nella mente di Agostino durante la sua polemica con il
pelagianesimo, il movimento ispirato dal monaco britannico Pelagio, il quale
riteneva che l'uomo fosse in grado di salvarsi con le sole sue forze. La posizione di
Pelagio si fonda sul principio che "dovere implica potere" e che quindi nessuno può
essere ritenuto responsabile di azioni che non ha commesso o che non può evitare
di commettere. Pelagio tendeva dunque a sostenere che le sole forze dell'uomo fossero sufficienti a superare l'ostacolo posto dal peccato originale sulla via della
salvezza: se non possiamo superarlo, non possiamo esserne ritenuti responsabili.
Agostino, invece, richiamandosi agli scritti di S. Paolo, pone l'intervento della
grazia divina come condizione necessaria per la salvezza. L'effetto del peccato
originale è così devastante che l'uomo non può non peccare. L'umanità è una massa
dannata, nella quale Dio ha scelto una minoranza da condurre alla salvezza. I
motivi per cui Dio ha scelto chi debba essere salvato e chi dannato sono
imperscrutabili. A chi chiedesse perché Dio abbia scelto alcuni per la salvezza e
altri per la dannazione, si risponderà con quanto aveva scritto S. Paolo nella Lettera ai
Romani (9, 19): «o uomo, chi sei tu per disputare con Dio? Oserà forse dire
il vaso plasmato a colui che lo plasmò: "Perché mi hai fatto così?" Forse
che il vasaio non è il padrone dell'argilla per fare con la medesima pasta un
vaso per uso nobile e uno per uso volgare?».
Emerge dunque, in Agostino, l'idea della predestinazione, secondo la quale gli
uomini sono predestinati ab aeterno alla salvezza o alla dannazione, senza
che nessuna buona azione compiuta nella vita terrena possa mutare l'originario
decreto divino. Proprio il dibattito su quest'idea provocherà, undici secoli più
tardi, uno scisma, quello protestante, nel cuore di quella Chiesa che Agostino
stesso aveva strenuamente difeso dalle eresie del suo tempo.
Nella lotta contro le eresie Agostino stabilì per primo il principio del compelle
intrare: un'interpretazione di un passo dei Vangeli che giustificava l'uso della
forza per indurre gli eretici a convertirsi. Nella parabola del banchetto, Cristo
aveva detto al servo del padrone di casa: «vai per le strade e costringili [coloro
che si rifiutano di partecipare] a entrare [compelle intrare] affinché la mia
casa sia piena» (Luca, 14, 23). L'interpretazione di Agostino ebbe gravi
conseguenze. Ben presto divenne un principio legale del diritto ecclesiastico
quello per cui «gli eretici devono essere costretti alla loro salvezza, anche
contro la loro volontà» (Decretum Gratiani). Questo principio costituì
dunque la giustificazione teorica dell'Inquisizione e della persecuzione degli eretici
in età medievale e moderna.
La dottrina della predestinazione deve essere affrontata sullo sfondo della
discussione di un problema che già era noto al pensiero classico. Cicerone,
per esempio, nel De Divinatione e nel De Fato, discute della questione se sia
conciliabile l'onniscienza divina con il libero arbitrio. Agostino si sforza di
mostrare la compatibilità fra prescienza e responsabilità, sostenendo che la
prescienza non toglie nulla alla nostra libertà perché non ci determina ad agire in
un modo piuttosto che in un altro: la previsione che una cosa accadrà, non è la
causa che la fa accadere. I suoi sforzi, spesso oscuri nei dettagli, non hanno
prodotto però una soluzione convincente, se ancora più di dodici secoli dopo la
questione continuerà ad essere lungamente discussa nel quadro delle
controversie legate alla diffusione del protestantesimo.
La polemica con _____________________
Pelagio  l’uomo può salvarsi __________
Agostino  l’uomo si salva solo ________
__________________________________
La _______________________________
La lotta contro le _____________________
e il principio de ______________________
La compatibilità tra __________________
divina e ____________________________
umana
28
ELEMENTI NEOPLATONICI E DELLA CULTURA GRECA NELLA FILOSOFIA CRISTIANA DI AGOSTINO (vedi da pag. 21)
1 – il mondo interiore come luogo della ______________________________________________
2 – Dio come ________________________ come l’Uno di _______________________________
3 – il Verbo (Cristo) come _________________________ come __________________________
4 - _______________________________________________________________________________________________________
5 – il male come ____________________________________________________________________________________________
6 - _______________________________________________________________________________________________________
7 – l’anima come ___________________________________________________________________________________________
8 – la ragione come _________________________________________________________________________________________
9 – le verità della ragione costituiscono contemporaneamente la struttura ____________________________________________
A differenza della cultura greca per Agostino l’uomo ________________________________________________________________
LA STORIA
La divisione dell'umanità in una massa dannata e in un gruppo di eletti è a
fondamento della concezione agostiniana della storia. L'atteggiamento della
cultura greco-romana nei confronti della storia tendeva a sottolineare la
ciclicità degli eventi dell'umanità. Agostino elabora invece una concezione
lineare, nella quale gli eventi sono considerati nella loro irripetibilità, .
Tucidide e Plutarco 11, per esempio, raccontano la guerra del Peloponneso e
la vita degli uomini illustri del passato come casi esemplari utilizzabili per
comprendere epoche storiche diverse, piuttosto che come racconto di fatti
particolari e irripetibili. La ricerca di modelli ripetibili degli eventi storici è
motivata dall'esigenza di reperire nella storia dell'uomo elementi di regolarità. La ripetibilità degli eventi facilita infatti la comprensione della storia,
analogamente a quanto avviene nella spiegazione dei fenomeni naturali. Le
scritture giudaico-cristiane propongono invece una serie di fatti unici e
storicamente irripetibili: dalla genesi, alla nascita di Cristo e al giudizio finale,
il cristianesimo presenta una successione di fatti che sono avvenuti e possono
avvenire una sola volta nella storia. Agostino ci presenta così una concezione
della storia di tipo decisamente lineare: la storia è cominciata in un tempo e
in un luogo dati e finirà in un tempo e in un luogo altrettanto determinati. La
storia si salda così con l'escatologia, cioè con un'idea della fine e del destino
ultimo dell'uomo e del mondo.
In generale, per Agostino, la storia umana è la storia della vicenda terrena
dell'umanità che nell'ambito di un tempo determinato, con un inizio e una fine,
si svolge lontano dalla giustizia divina, in una sorta di esilio. A causa del
peccato originale, l'umanità si è allontanata da Dio per divenire una massa
destinata alla dannazione dopo il giudizio finale. Il piccolo numero di persone
destinate ad essere salvate non hanno più meriti di quelle che saranno
dannate: la grazia divina, unico mezzo di salvezza, è grazia proprio perché gratis
data. La storia umana diviene così la storia di due comunità umane: la Città di
Dio e la Città dell'uomo. La prima è composta da coloro che saranno salvati,
la seconda dai dannati. Nella sua vita terrena nessuno può sapere se è stato
scelto per la salvezza o abbandonato alla perdizione, neppure i membri della
Dalla _____________________________
degli eventi (concezione _____________
cultura greca) all’____________________
degli eventi (concezione _______________
cultura cristiana)
La storia ha ________________________
e una _______________: dal ___________
originale al ________________________
La separazione tra la _________________
e la ___________________________
11
Tucidide (460-396) e Plutarco (50-119), sicuramente i due storici più rappresentativa della
cultura antica.
29
Chiesa che pure è l'istituzione umana più vicina a Dio. La storia tende alla
separazione finale delle due Città; dopo il giudizio finale le anime saranno
riunite ai loro corpi risuscitati. I salvati godranno della visione di Dio, i dannati
subiranno il tormento eterno del fuoco che brucerà i loro corpi senza
consumarli.
Anche per quanto riguarda il concetto di storia Agostino compie, come
abbiamo già sottolineato per altri concetti e altre tematiche, un’importante
opera di cristianizzazione, inserendolo all’interno del contesto di una
mentalità religiosa destinata a diventare l’orizzonte culturale della filosofia
fino al XVI secolo.
All’interno del quadro teorico tracciato da Agostino, come già detto, si
muoveranno tutti i pensatori cristiani fino al XIII quando, per opera di Tommaso
d’Aquino, la teologia verrà ripensata all’interno di un nuovo quadro teorico,
questa volta non più di ispirazione platonico, bensì aristotelico. Tommaso
compirà dunque un’operazione simile a quella di Agostino però nei confronti
delle opere di Aristotele, che nel frattempo era stato riscoperto dalla cultura
europea grazie alle opere dei filosofi arabi . Inizialmente osteggiato dalle
gerarchie ecclesiastiche l’aristotelismo finirà, con l’opera di Tommaso
d’Aquino, per essere l’ispiratore di quella che è ancora oggi la visione teologica
ufficiale della Chiesa cattolica
(vedi l’intero capitolo su Agostino)
La cristianizzazione del concetto di
_____________
Da Agostino (_________________)
a _____________________ (Aristotele)
LE TEMATICHE CRISTIANIZZATE DA AGOSTINO
1 - ______________________________________________________2 - ___________________________________________________
3 - ______________________________________________________4 - ___________________________________________________
30
Vita e opere di Plotino
Plotino nacque nel 205 d.C., con ogni probabilità in Egitto. Apprendiamo da Porfirio, suo biografo ed
editore, che all'età di 28 anni divenne in Alessandria discepolo di Ammonio Sacca, presso il quale rimase
undici anni. Nel 243, spinto dalla curiosità di conoscere le filosofie persiana e indiana, si unì alla spedizione
in Oriente di Gordiano III; nell'anno successivo, dopo la morte dell'imperatore, si trasferì ad Antiochia,
e quindi a Roma, dove stabilì la sua scuola e rimase per quasi tutta la vita. Morì nel 270 in Campania, dove
si era ritirato durante la fase finale della sua malattia e dove pochi anni prima aveva progettato, confidando
nell'appoggio dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina, di fondare una città di filosofi:
«Platonopoli».
Plotino cominciò a scrivere tardi, quasi cinquantenne, per non infrangere per primo il patto di non rivelare
le dottrine del maestro Ammonio stretto con i condiscepoli Erennio ed Origene. I suoi scritti, ispirati ai
seminari e alle discussioni che avevano luogo nella scuola e destinati a circolare principalmente tra i
suoi allievi, furono pubblicati agli inizi del IV secolo da Porfirio, che li ordinò, non senza tagli e
aggiustamenti forzosi, in sei libri ciascuno di nove trattati. Il titolo Enneadi significa appunto: «gruppi di
nove».
Vita e opere di Agostino
Aurelio Agostino (354-430 d.C.) nacque a Tagaste nella provincia romana della Numidia, attualmente in
Algeria. Studiò a Madaura e a Cartagine. A diciotto anni ebbe un figlio, Adeodato, che gli premorì nel 389.
Insegnò retorica a Cartagine ma poi, scarsamente gratificato dall'insegnamento, partì per l'Italia, ove soggiornò
a Roma e a Milano. A Milano incontrò il vescovo Ambrogio che lo influenzò profondamente e dal quale si
fece battezzare nel 387. II breve periodo trascorso in Italia fu decisivo per lo sviluppo dei suo pensiero.
L'allontanamento dal manicheismo e dallo scetticismo, dottrine alle quali aveva in precedenza aderito,
l'incontro con Ambrogio e la lettura di alcuni sunti neoplatonici gli consentirono di approfondire
l'interpretazione della Bibbia e di sviluppare un pensiero cristiano originale. Nel 389 tornò in Africa dove
venne ordinato prima sacerdote e poi vescovo d'Ippona. Nell'ultima parte della sua vita, oltre ad un'intensa
attività pastorale e di studioso, si dedicò a combattere le varie eresie da cui la chiesa cattolica era dilaniata,
particolarmente quelle donatista12 e pelagiana. Benché lontano dai centri politicamente e culturalmente più
importanti dell'impero, Agostino esercitò ancora in vita una vasta e autorevole influenza sulla cultura
cristiana dell'epoca. Morì mentre Ippona era assediata dai Vandali. L'opera che ci ha lasciato è vastissima:
all'incirca settecento titoli che comprendono libri, alcuni di grande mole, lettere e sermoni. Fra le sue opere più
importanti ricordiamo: Contra academicos, De libero arbitrio, De magistro, De vera religione, Coefessiones,
De trinitate, De civitate Dei, Retractationes.
12
Il donatismo è stato un movimento religioso fiorito in Africa settentrionale durante il IV secolo.
Fondamento della dottrina donatista era costituto dal principio che la validità dei sacramenti dipenda dalla
dignità di chi li amministra. Principio che spesso nei movimenti eretici anche successivi si saldava
facilmente, poiché contestava la gerarchia sacerdotale, con fermenti di protesta sociale.
31
7 - AGOSTINO D’IPPONA - IL CONFLITTO DELLA VOLONTÀ E LA
CONVERSIONE
Nel libro VIII delle Confessioni Agostino narra la propria conversione (estate 386).
Si tratta di un passaggio decisivo della sua ricerca e della sua biografia: il
momento della svolta, in cui la peregrinatio animae assume il senso e la direzione
dei ritorno a Dio.
Il contesto narrativo nel quale si collocano le pagine che proponiamo alla lettura è
il seguente. Le esperienze milanesi - i sermoni di Ambrogio, l'incontro con il
neoplatonismo, la lettura di Paolo - hanno creato in Agostino le condizioni per il
superamento della crisi scettica e per il riavvicinamento alla Chiesa. Ma egli è
tuttora travagliato dall'incapacità di risolversi al passo decisivo: l'abbandono della
"carne", del "secolo" (carriera, matrimonio), per aderire totalmente alla parola
divina. Alla ricerca di una guida spirituale, Agostino si reca da Simpliciano, padre
spirituale di Ambrogio (cui succederà come vescovo di Milano dal 397 al 400).
Simpliciano si rallegra con Agostino per le sue letture dei "libri platonici" e gli
racconta la conversione di Vittorino, illustre retore e filosofo, traduttore in latino di
Plotino, che alla metà del secolo aveva abbracciato la fede cristiana «mentre Roma
guardava stupefatta e la chiesa esultava». Poco tempo dopo, un altro racconto di
conversione scuote profondamente Agostino. Viene in visita Ponticiano, un africano
battezzato, che scorgendo sul tavolo del suo ospite le Lettere di Paolo, gli racconta
un episodio al quale lui stesso aveva assistito: due funzionari imperiali, entrati per
caso in una capanna di monaci, vi avevano trovato una biografia di sant'Antonio e
avevano preso a leggerla. L'esempio del santo li infiammò a tal punto, che essi
decisero immediatamente di dedicarsi alla vita ascetica, abbandonando ogni
interesse mondano. Così, attraverso il libro, si dipana il filo provvidenziale che guida
Agostino alla sua conversione.
Questo il racconto di Ponticiano. Ma tu13, Signore, mentre parlava mi torcevi su me
stesso, mi strappavi da dietro le mie spalle, dove m'ero rifugiato per non guardarmi
in faccia, e mi denunciavi ai miei stessi occhi, perché lo vedessi, quant'ero brutto,
torto e sordido, butterato e piagato. E io vedevo e ne provavo orrore, e non trovavo
scampo da me stesso14. E se tentavo di distogliere lo sguardo da me stesso, Ponticiano
era sempre lì e parlava, parlava e tu di nuovo mi mettevi di fronte a me stesso
e mi cacciavi sotto i miei occhi, perché scoprissi la mia malvagità e l'odiassi.
La conoscevo: ma me la dissimulavo, ne reprimevo l'idea e ne rimuovevo il
ricordo. Ma ora più ardente era l'amore che sentivo per i due protagonisti dell'esperienza di salvezza che avevo appena sentito narrare, e più intenso era l'odio che
provavo per me confrontandomi a loro, che per la loro guarigione si erano totalmente
affidati a te. Mentre molti anni della mia vita erano scivolati via con me - forse dodici
- da quando a diciott'anni avevo letto l'Ortensio di Cicerone e ne ero stato
risvegliato alla filosofia, e ancora non mi decidevo a liberarmi, a trovare il tempo
per ricercare, nel disprezzo della felicità terrena la sapienza15, quando questa
semplice ricerca - per non parlare della sua scoperta - già era da preferire alla
13
L'uso del vocativo è la cifra stilistica fondamentale delle Confessioni, che non sono solo rimemorazione di
un'esperienza ma, appunto, "confessione" resa a un interlocutore all'interno di un apporto personale d'amore.
Sul piano letterario, si tratta di una scelta completamente originale, che congiunge l'epistola (non però nella
forma della lettera ammaestramento caratteristica della cultura ellenistico-romana) e la preghiera, il colloquio
diretto con Dio.
14
II "guardarsi dentro e in faccia", che è la confessione, presuppone l'intervento di una forza soprannaturale e
obbliga a prendere coscienza della propria miseria, cioè a quell'umiltà che il filosofo non sa maturare. In assenza di
questi due elementi non può esservi, secondo Agostino, la memoria di sé che fonda l'autentica consapevolezza.
15
Tema caratteristico della filosofia ellenistica, che tuttavia, come si vedrà subito sotto, è trattato da Agostino in
modo del tutto nuovo.
32
scoperta di tesori e regni, o di una marea di piaceri sensuali tutt'intorno crescente, a
un solo cenno... Ma l'infelice ragazzo che ero, infelice già sulla soglia della
giovinezza, te l'aveva pur chiesta la castità16. Sì: "Dammi la castità e la continenza,
ma non subito", dicevo. Avevo paura che tu mi esaudissi troppo presto, e troppo
presto mi guarissi dal male del desiderio, che preferivo vedere soddisfatto piuttosto
che estinto. E andavo per le male vie 17 di una falsa religiosità, non perché fosse per
me una certezza, ma per farmene schermo in qualche modo a tutte le altre fedi: che
non interrogavo con devozione, ma polemicamente attaccavo.
E avevo creduto che la ragione per cui differivo di giorno in giorno18 la rinuncia
alle speranze del secolo e la decisione di seguire te soltanto fosse che non vedevo
nulla di certo, per orientarmi nel cammino. Ed era venuto il giorno che mi spogliava
nudo di fronte a me stesso, mentre la mia coscienza gridava a gran morsi: "Dov'è la
tua lingua? Non dicevi che era l'incertezza a impedirti di liberarti dal carico delle
nullità? Guarda, adesso la verità è certa, e tu lo porti ancora addosso: a spalle più
libere delle tue spuntano le ali, eppure non si sono consumate a questo modo nella
ricerca e non hanno passato dieci e più anni curve a meditarci su!"19. Così mi rodevo
nell'intimo, in uno spaventoso marasma di confusione e vergogna, mentre Ponticiano
faceva questo suo racconto. Finito che ebbe di parlare e sbrigata la faccenda per cui
era venuto, se ne andò, e io tornai a me stesso. Che cosa non dissi contro di me?
Che frustate di parole risparmiai a quest'anima, perché mi seguisse nei miei sforzi
di tenerti dietro? E resisteva, ricusava e non si scusava. Tutti gli argomenti erano
consumati e confutati. Le restava un tremito silenzioso, il terrore che aveva - come si
teme la morte - d'essere sottratta al corso dell'abitudine che la consumava a morte.
Allora nel mezzo di quella rissa violenta che nella mia casa interiore avevo
ingaggiato con l'anima qui nella stanza più segreta, il cuore, con la faccia e la
mente sconvolte, irrompo da Alipio: "Non se ne può più!" grido. "Cos'è che si
sente? Gli ignoranti si alzano e ci rubano il cielo, e noi con tutta la nostra erudizione
senz'anima, guardaci qui, a rivoltarci nella carne e nel sangue 20. Cos'è, vergogna di
andargli dietro la nostra, di non essere i primi? E non ci vergogniamo a non seguirli
neppure?" Cose del genere dissi, e poi la piena del cuore mi strappò via da lui,
che mi fissava attonito, in silenzio. Neppure la mia voce era più la stessa. E più
che le parole era la fronte, erano gli occhi e la faccia, il suo colore, il tono della
voce a dire quello che provavo. La nostra casa aveva un piccolo giardino, di cui
avevamo l'uso come di tutto il resto, perché il nostro ospite, il padrone di casa, non
abitava lì. Là mi spinse quella sommossa del cuore, dove nessuno avrebbe posto
freno alla furiosa lite che avevo ingaggiato con me stesso, finché avesse il suo esito:
che tu conoscevi, io no. Io stavo semplicemente impazzendo per salvarmi e morivo
per vivere. Sapendo cos'ero di male e ignorando cosa sarei divenuto di buono
16
La scelta del celibato non era obbligatoria per i cristiani, forse neanche per i preti e i vescovi (per coloro
che avevano ricevuto il sacramento dell'ordine dal quarto secolo era certamente richiesta l'astensione
dai diritti coniugali): era consigliata a chi avesse potuto «capirla», ma si deve notare come per Agostino
vadano sempre in parallelo l'adesione alla fede e l'accettazione di una continenza sessuale assoluta, forse
per quell'aspirazione alla leadership e al meglio che caratterizza Agostino fin dall'infanzia. È comunque
da notare altresì, che l’atteggiamento negativo nei confronti della sessualità emerse nella Chiesa
solamente durante il dibattito sul peccato originale scatenato dalla controversia sul pelagianesimo.
17
Ecclesiastico, 2, 16. Tutte le Confessioni sono intessute di citazioni e di riferimenti, espliciti o impliciti, alle
Scritture. Ciò va messo in relazione, oltre che al gusto letterario dell'epoca, alla tonalità "orante", di colloquio
interiore-preghiera, che contraddistingue quest'opera (non a caso, gran parte delle citazioni è tratta dai Salmi).
18
Tema fondamentale agostiniano: l'impotenza della ragione a determinare le scelte decisive. Non basta la
conoscenza di ciò che è giusto per fondare la virtù: è l'intera persona (intelligenza e volontà-amore) che,
sorretta dalla grazia divina, attua la sua conversione al bene. Ci troviamo dunque in una prospettiva etica
diversa da quella elaborata dal pensiero greco, centrata sull'identificazione tra conoscenza vera e vita giusta.
19
Matteo, 10, 12. Si riferisce ai due funzionari del racconto di Ponticiano.
20
Agostino contrappone qui, con atteggiamento tipico della fase matura del suo pensiero, la fede dei
semplici, quella del pescatore Pietro, all'orgoglio dei dotti, degli eruditi.
33
poco dopo21. Mi rifugiai in giardino, dicevo, e Alipio dietro, passo dopo passo. Non
c'era alcuna indiscrezione nella sua presenza, e poi come avrebbe potuto
lasciarmi solo in quello stato. Ci sedemmo il più lontano possibile dalla casa. Io
fremevo nell'intimo, sdegnato fino al furore più incontenibile, per non riuscire a
venire incontro a te, al tuo piacere come alla tua alleanza, Dio mio, quando tutte le
mie ossa gridavano sì e li esaltavano fino al cielo. Non era un viaggio con navi o
quadrighe, e neppure a piedi, non richiedeva neppure quei pochi passi che
separavano da casa il luogo dove eravamo seduti. Perché non solo l'andare, ma
anche l'arrivare là non era altro che voler andare: ma volere con forza e
integralmente, non con i rigiri e le impennate di una volontà mezzo acciaccata dalla
lotta, una volontà che si rialza da una parte per crollare dall'altra 22.
Fra i marosi dell'indecisione facevo molti dei gesti che gli uomini talvolta vogliono
fare senza riuscirvi, o perché privati di qualche loro membro, o perché legati o
estremamente indeboliti o in qualche modo impediti. Se mi strappai i capelli, se mi
battei la fronte, se mi abbracciai le ginocchia con le dita intrecciate, lo feci di mia
volontà. Ma avrebbe anche potuto accadere che volessi senza riuscirci, se non
fossi stato assecondato dalla mobilità degli arti. Dunque compii molte azioni per
le quali volere non è potere: e non facevo quello che mi sarebbe stato
incomparabilmente più caro, e che appena avessi voluto avrei potuto fare: perché
appena avessi voluto avrei senza dubbio potuto23. In quel caso infatti aver volontà era
lo stesso che aver facoltà, e lo stesso volere era già fare; eppure non si faceva. Ed
era più facile al corpo obbedire alla volontà dell'anima, per debole che fosse, e far
muovere gli arti a un solo cenno, che all'anima obbedire a se stessa, alla sua propria
volontà intensissima, per realizzarla semplicemente volendo. Come nasce questo
paradosso? E perché? Accendi il sole della compassione, e io lo chiederò ai recessi
del dolore umano, al buio folto, avvilito in cui s'aggirano i figli di Adamo. Chissà
che non mi possano rispondere. Come nasce questo paradosso? E perché? Comanda
al corpo, la mente, e viene subito obbedita: comanda a se stessa, e incontra resistenza.
La mente ordina alla mano di muoversi, e la cosa è così presto fatta che a fatica si
distingue il comando dal servizio: e la mente è mente, la mano è corpo. La mente
ordina di volere alla mente: non è altra cosa, eppure non lo fa. Come nasce questo paradosso? E perché? Chi ordina di volere non l'ordinerebbe se non volesse: eppure non
esegue l'ordine. Ma il fatto è che non vuole del tutto: e perciò non comanda del
tutto. Perché in tanto comanda, in quanto vuole, e in tanto il comando non viene
eseguito, in quanto non vuole. Infatti la volontà comanda proprio che la volontà ci
sia, e sia quella, non un'altra. Dunque non è già tutta intera a comandare: e per
questo il suo comando non viene eseguito 24. Se fosse tutta intera, non
comanderebbe di essere, perché già sarebbe. Non è dunque un paradosso volere in
parte e in parte non volere, ma è una malattia della mente, che la verità solleva ma
non fa alzare del tutto, accasciata com'è sotto il peso dell'abitudine25. E perciò ci
sono due volontà, perché nessuna è tutta intera, e ciò che ha l'una manca all'altra.
Siamo spazzati via dalla tua vista, Dio, come i ciarlatani e i seduttori della
21
E la distanza che separa la conoscenza umana, limitata e vincolata al farsi dell'esperienza,
dall'onniscienza divina.
22
Dopo aver chiarito i limiti della conoscenza in ordine all'azione (conoscere non è volere), Agostino
passa a esplorare il campo delle dinamiche della volontà.
23
Nei movimenti del corpo, volere un'azione non significa poterla compiere, perché può esservi qualche
impedimento o costrizione esterna; la volontà sperimenta in questo caso un suo limite oggettivo. Ma nella
sfera degli atti interiori, la volontà coincide con la facoltà: perché dunque - si chiede Agostino - non riuscivo
ad attuare la mia conversione a Dio, che pure volevo?
24
La risposta al paradosso (monstrum) va dunque ricercata all'interno della volontà stessa, che è debole e
impotente perché non è piena e sperimenta in sé una scissione che è vera e propria malattia.
25
Il concetto di abitudine è centrale nell'antropologia e nella psicologia di Agostino. La volontà non si
presenta mai dinanzi all'atto morale come assolutamente libera e attiva; nell'abitudine, infatti, sedimenta
una passività che è all'origine della scissione della volontà stessa. Perciò la conversione non può essere
altro che trasformazione totale (metanoia), nascita di un uomo nuovo dalle ceneri del vecchio.
34
mente26, quelli che si rendono conto, sì, della presenza di due volontà nel corso di una
deliberazione, ma affermano l'esistenza di due menti distinte per natura, una buona,
l'altra maligna27. Mentre deliberavo se mettermi finalmente al servizio del mio
Signore, come da un pezzo progettavo di fare, ero io a volere, io a non volere: io,
sempre io. Non ero tutto nel volere e non ero tutto nel non volere. Per questo lottavo
con me stesso e da me stesso mi spaccavo, e questa spaccatura avveniva senza
dubbio mio malgrado: ma non per questo rivelava la sostanza di una mente estranea,
bensì la pena della mia. E in questo senso non ero io a produrla, quella spaccatura,
ma il peccato che abitava in me 28 dalla condanna di un peccato più libero, perché
ero figlio di Adamo29. [...]
Quando da un fondo arcano la profonda meditazione ebbe scavata tutta la mia tristezza
e l'ebbe accumulata sotto gli occhi del cuore, una tempesta si scatenò violenta, e
greve d'un diluvio di lacrime. E mi levai, perché fluisse libero e alto il suono di quel
grande pianto. Ma il pianto consigliava solitudine, e mi scostai da Alipio di quel
tanto che bastava perché la sua presenza non mi fosse gravosa. Io ero in quello
stato, e lui se ne rendeva conto: forse perché sentiva in qualche mia parola una
voce già carica di pianto. Rimase dunque dove eravamo seduti, muto di
meraviglia. Io mi trovai non so come disteso sotto un albero di fico, e diedi libero
sfogo alle lacrime, due fiumi in piena nel cavo degli occhi, come un'offerta che forse
apprezzavi. E a lungo ti parlai, se non con queste esatte parole, in questo spirito: E
tu, Signore, fino a quando. E durerà per sempre la tua ira, Signore? Non
ricordare le colpe degli avi. Perché sentivo che eran quelle a possedermi.
Rompevo in poveri singhiozzi: "Quanto tempo ancora, per quanto tempo 'domani e
domani'? Perché non oggi, perché non adesso farla finita con questa abiezione?"
Così parlavo e piangevo, il cuore a piombo nella tristezza più amara. Ed ecco
all'improvviso dalla casa vicina il canto di una voce come di bambino, o di
bambina forse, lenta cantilena: "Prendi e leggi, prendi e leggi" 30... Mutai subito in
26
Salmi, 67, 3.
17 Paolo, Lettera a Tito, 1, 10.
27
Si riferisce ai manichei e alla loro concezione dualistica che ripropone all'interno dell'animo umano il
conflitto cosmico fra luce e tenebre. Una posizione che, secondo Agostino, impedisce di cogliere la
debolezza della volontà e quindi preclude ogni reale rinnovamento.
28
Paolo, Romani, 7, 17-20: «Se faccio quello che non voglio, ammetto che la legge è buona; allora non
sono più io che lo faccio, ma il peccato che abita in me. Difatti, io so che in me, vale a dire nella mia carne,
non abita alcun bene; poiché il volere si trova in me, ma il modo di compiere il bene, no. Perché il bene che
voglio non lo faccio; ma faccio il male che non voglio».
29
Attraverso la citazione della Lettera ai Ro ma n i, che Agostino meditò intensamente e commentò a
partire dal 395, si profila la radice ultima dell'impotenza della volontà: il peccato originale, che grava sulla
natura decaduta, e quindi sottomessi al giogo dell’ignoranza, della concupiscenza, dell’abitudine.
Un'impotenza della mente e del cuore che non può essere sanata senza l'intervento della grazia.
30
Su questo punto, come su tutta la pagina della conversione, si è aperto fra gli studiosi un ampio dibattito:
taluni ritengono che si debba interpretare la narrazione di Agostino in senso realistico, come descrizione
complessivamente fedele di eventi accaduti; altri invece sottolineano la letterarietà e il valore simbolico di
questo testo, e propendono quindi per un'interpretazione allegorica. Così, ad esempio, l'ambientazione:
da un lato questa è sembrata troppo «adeguata» alla scena. È stato osservato come solo in un giardino,
luogo della grazia come il Paradiso terrestre, si sarebbe potuta svolgere una scena di conversione, così come
il primo peccato è avvenuto tra gli alberi (e la vegetazione selvatica rappresenterebbe proprio il peccato
opposto alla grazia del giardino). D'altra parte, il realismo della scena, porta altri a ipotizzare un resoconto
sincero. Ma è poi importante sapere se esisteva o no un giardino nella casa di Milano, quando lo scopo
della narrazione è quello di riportare eventi utili alla vita di chi legge o ascolta la lettura dell’opera?
Agostino, infatti, si propone di scrivere un’opera che provochi nei fedeli lo stesso effetto prodotto in lui dai
racconti della conversione di Vittorino o dei due funzionari imperiali.
Non è possibile entrare qui nel merito di tale discussione: si può osservare che il testo ha subito senza
dubbio un trattamento letterario altissimo (è infarcito di reminiscenze della letteratura classica, dalla
diatriba, ai "modelli di conversione" della letteratura agiografica, ed è costruito con evidente intenzione
teatrale e drammatica). Ciò corrisponde allo stile dell'epoca, all'educazione letteraria e retorica di
Agostino, nonché all'intento apologetico dell'opera. Tutto questo non mette in discussione il significato
35
volto e mi raccolsi in uno sforzo estremo di ricordare se in un qualche gioco
di ragazzi c'era una cantilena come quella, e non mi sovveniva af fatto d'aver
udito mai niente del genere: e allora soffocai il mio pianto e mi levai in piedi.
Non altro, interpretai, era il comando divino, che di aprire un libro e leggere il
primo capoverso che trovassi. Così sapevo di Antonio 31 che sopraggiungendo
per caso durante una lettura del Vangelo si sentì personalmente chiamato, come si
rivolgessero proprio a lui quelle parole: Vai, vendi tutte le cose che hai, dalle ai
poveri e avrai un tesoro nei cieli: e poi vieni, seguimi 32. E quella voce divina
l'aveva immediatamente indotto a convertirsi a te. Così tornai con emozione
grande al luogo dove era seduto Alipio: era lì infatti che avevo posato il libro
dell'Apostolo, alzandomi. Lo afferrai e lo apersi e in silenzio lessi il primo passo
sul quale mi caddero gli occhi: Non più bagordi e gozzoviglie, letti e lascivie,
contese e invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non fate caso alla
carne e ai suoi desideri 33. Non volli leggere oltre e neppure occorreva. Con le
parole finali di questa proposizione una luce come fatta di calma mi fu distillata
in cuore e ne cacciò quel buio folto di incertezze.
Chiusi allora il libro tenendoci un dito o non so che cos'altro come segno, e
ormai rasserenato in volto lo mostrai ad Alipio. Ma in questo stesso modo lui
mostrò quello che succedeva a lui - a mia insaputa. Volle vedere che cosa leggevo: glielo mostrai, e lui portò la sua attenzione anche sul seguito di quello che
avevo letto io. Io lo ignoravo, ma quel passo proseguiva: E accogliete chi è
incerto nella fede. Lo riferì a se stesso, e me lo disse. L'esortazione lo
incoraggiò nel suo proponimento, buono e quanto mai rispondente al suo modo
di vivere, per cui già era da tempo ben più avanti di me. E senza tormento, senza
esitazione mi seguì. Subito entriamo da mia madre, le parliamo: grande gioia
per lei. Le raccontiamo come sia accaduto: esultanza e trionfo. Benediceva te,
che puoi fare ben oltre ciò che noi chiediamo e comprendiamo 34. Perché
riguardo a me si vedeva concesso molto di più di quello che chiedeva tutto il
suo povero piangere sommesso. Infatti avevi convertito a te il mio essere al
punto che non cercavo più moglie né tenevo più ad alcuna speranza del mondo,
posando ormai su quel metro di fede sul quale tanti anni prima mi avevi in sogno
rivelato a lei 35. E convertisti il suo dolore in gioia molto più grande di quanto
sperava, e molto più cara e più pura di quella che attendeva dai nipoti del mio
sangue.
da Agostino, Confessioni, VIII, 7.16-12.30, trad. di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 1990.
spirituale e filosofico della narrazione: intorno al 400, quando scrive le Confessioni, Agostino interpreta
decisamente la propria conversione come un evento soprannaturale, reso possibile dall'intervento della
grazia.
La vera novità del pensiero agostiniano rispetto alla dialettica platonica sarebbe il personale aiuto
di Dio, che non solo rimette i peccati, ma con un intervento diretto dello Spirito eccita e perfeziona
quello che comunque rimane il libero desiderio dell'uomo. La rivelazione diventa una «vocazione»,
davanti alla quale la libera volontà può avere solo il merito di dare l'assenso della fede alla volontà
divina: un merito relativo, di fronte alla rivelazione tremenda della irresistibile grazia operante.
31
Antonio. eremita del III-IV secolo, la cui Vita, scritta da Atanasio di Alessandria e tradotta in latino,
costituiva un classico della letteratura ascetica tardo-antica.
32
Il motivo dell'apertura a caso del libro per trarne ispirazione è tipico: così si faceva con Omero, con
Virgilio e con la stessa Bibbia.
33
Paolo. Romani, 13, 13. 27
34
Agostino cita qui un passo paolino di lode a Dio. La lode del Signore accompagna, come un registro
continuo e fondamentale, tutta la confessione dei peccati agostiniana.
35
Si riferisce a un sogno fatto da Monica nel momento in cui, dopo l'adesione di Agostino al
manicheismo, aveva rifiutato di accoglierlo in casa (Confessioni III, 11.19). Monica sogna di trovarsi,
afflitta per la perdita del figlio, sopra un metro (regna), un'assicella di legno; le si fa incontro un giovane
sorridente che le mostra come anche Agostino si trovi in realtà sulla stessa assicella, ovvero condivida la
stessa fede.
36
12 - LA FILOSOFIA MEDIOEVALE
1 - CULTURA E MENTALITA' NELL'ETA' MEDIOEVALE
LO SVILUPPO STORICO
Europeizzazione della cultura occidentale
Cristianizzazione della cultura occidentale
Rinascita della città e la mentalità laica
LA MENTALITA' MEDIOEVALE
Il prevalere della dimensione religiosa
Il prevalere della cultura orale
La mentalità simbolica
DALLE SCUOLE MONASTICHE ALL'UNIVERSITA'
Scuole monastiche e l’ascolto dei testi dell’auctoritas
Dialettici e antidialettici
Università, chierici e commento dei testi dell’auctoritas
Scuole cittadine e università
La condizione clericale
La lectio e la disputa
2 - FEDE E RAGIONE
LA CONCILIABILITA' DI FEDE E RAGIONE
Superiorità della fede o della ragione
Anselmo d'Aosta
Credere per capire
La fondazione razionale della fede: le prove dell’esistenza di Dio
Le prove a posteriori
La prova a priori
Le obiezioni alle prove di Anselmo
Pietro Abelardo
Abelardo e lo scontro tra scuole monastiche e cittadine
Capire per credere: l’uso della ragione nelle discussioni teologiche
La ragione di fronte ai contrasti fra le auctoritates
Tommaso d'Aquino
La teologia come scienza
L’utilità della ragione e la regula fidei
Le cinque prove dell’esistenza di Dio
La cristianizzazione di Aristotele
Essenza e esistenza
L’esistenza come libero atto cognitivo di Dio
L’universo gerarchico
Il tomismo come teologia ufficiale della Chiesa
L'INCONCILIABILITA' DI FEDE E RAGIONE
La superiorità della fede
Bernardo di Chiaravalle
Superbia e umiltà
L'autonomia di fede e ragione
Gli aristotelici radicali
La riscoperta di Aristotele e le censure ecclesiastiche
Boezio di Dacia: la diversità degli ambiti e dei metodi della scienza
I francescani
I nuovi ordini religiosi cittadini
Bonaventura di Bagnoregio e Duns Scoto
Guglielmo Ockham
La fede come unica via di avvicinamento a Dio
L'onnipotenza di Dio
Esperienza e conoscenza umana
37
3 - OCKHAM E LA FORMAZIONE DELL'ATTEGGIAMENTO LAICO
OCKHAM E IL PROCESSO DI LAICIZZAZIONE DELLA CULTURA
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA: EMPIRISMO E NOMINALISMO
L'empirismo
Il nominalismo
Il dibattito medioevale sugli universali
Realismo e nominalismo
La formazione dei concetti come processo mentale e linguistico: il segno
Le parole come segno naturale
Il nuovo oggetto della conoscenza e il primato della logica
LA CRITICA AL SAPERE TRADIZIONALE
Ockham e la mentalità cittadina
Il rasoio di Ockham
La critica alla metafisica
4 - RUGGERO BACONE E LA NECESSITÀ DI UN NUOVO SAPERE SCIENTIFICO
La Scuola di Chartres e lo studio della natura
Il sapere umano come approfondimento delle Scritture
Le critiche al sapere dei magistri
Le finalità pratiche della scienza e il valore dell’esperienza
5 - LA FILOSOFIA POLITICA
DALL'EDITTO DI TESSALONICA ALLA RIFORMA PROTESTANTE
LA CONQUISTA DEL PRIMATO DA PARTE DELLA CHIESA
La “pienezza di potere” del papa e la teoria delle due spade
LA RIAFFERMAZIONE DELL’AUTONOMIA DEL POTERE POLITICO
Marsilio da Padova
Il fine della società e l’inevitabilità dei conflitti
Il potere legislativo appartiene al popolo
La legge divina non è coercitiva
L‘unicità del potere coercitivo
Vita e opere di Anselmo d’Aosta, Pietro Abelardo, Bernardo di Chiaravalle, Tommaso d’Aquino,
Ruggero Bacone, Guglielmo d’ Ockham
8 – U. ECO - “SEGNI”
10 - LA FILOSOFIA MEDIOEVALE
1 – Cultura e mentalità nell’età medioevale
Lo sviluppo storico
La mentalità medioevale
Dalle scuole monastiche alle università
1 - CULTURA E MENTALITA'
NELL'ETA' MEDIOEVALE
LO SVILUPPO STORICO
Gli apporti del ______________________
Da un punto di vista storico-culturale l’età medioevale ha avuto sul lungo
periodo due importanti effetti: l’europeizzazione e la cristianizzazione della alla _______________________________
cultura.
In epoca ellenistica il bacino Mediterraneo aveva trovato un’uniformità politica 1 - ________________________________
(grazie all’Impero romano) e culturale (grazie alla cultura ellenistica). Questa
della cultura
uniformità nel corso dei primi secoli dell’epoca cristiana venne a mancare e si
38
vennero a creare tre diverse civiltà o culture: quella bizantina, con centro a
Bisanzio (Istanbul), che rappresentava la più diretta continuazione della cultura
greca e romana; la civiltà islamica, nata in Arabia, che nel VI-VII sec d.C. si
affacciava sul Mediterraneo. Essa rappresentava la civiltà egemone sia dal punto
di vista tecnologico che culturale e militare (dal VII secolo). E, infine, quella
europea da cui deriva l’attuale civiltà occidentale, infatti dal IX secolo in poi
l’Europa continentale divenne il centro di elaborazione della cultura occidentale.
Il periodo di formazione della cultura occidentale, dal VII al XV secolo,
coincide con la cristianizzazione dell’intera civiltà europea; a partire, invece, dal
Rinascimento, la cultura occidentale sarà caratterizzata da un processo di
laicizzazione.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente si determinò un vuoto di potere
che fu occupato dalla Chiesa che costituiva l’unico punto di riferimento per
l’intera civiltà europea. La sua autorità si estendeva sul piano religioso, ma anche
politico, economico e culturale. La prima struttura politica che l’Europa si diede
fu, infatti, l’impero di Carlo Magno (IX sec) che si fondava proprio sull’unità
religiosa dell’Europa.
Il condizionamento della Chiesa agiva sul piano culturale ritenendo la verità già
data dalla rivelazione e imponendo un controllo collegiale che, per i singoli,
diventava insuperabile.
Da un punto di vista storico-culturale il Medioevo è suddivisibile in due grossi
periodi:
- L’Alto Medioevo ( V-X secolo), periodo di forte crisi dovuta al disfacimento
dell’Impero Romano e all’arretratezza economica. Questa crisi europea si
manifestava, ad esempio, nel fatto che l’Europa era soggetta alle razzie della
civiltà islamica.
- Il Basso Medioevo (XI-XV secolo), in cui rinasce la vita urbana fatto che è
considerato il momento iniziale di un processo di rafforzamento che porterà
l’Europa ad imporre la sua egemonia a livello mondiale (XVI sec).
La civiltà occidentale si staccava definitivamente dall’alveo medio orientale in
cui era nata e iniziava ad assumere le caratteristiche che ancora oggi la
caratterizzano. Infatti con la rinascita delle città:
- dal punto di vista economico nasceva il sistema capitalista che ha le sue origini
nelle attività dei mercanti medioevali volte non più alla semplice sussistenza ma
a creare un profitto;
- dal punto di vista politico iniziava la sua affermazione lo stato nazionale che
rappresenta l’entità politica tipica delle società occidentali e che nelle società
contemporanea ha assunto la forma di una democrazia indiretta;
- dal punto di vista culturale la civiltà occidentale ha, invece, prodotto la
mentalità scientifica che trova anch’essa le sue origini nella mentalità formatasi
nelle città medioevali.
La rinascita delle città comportò il graduale superamento del sistema feudale;
dopo il mille chi abitava nei borghi non aveva un’esatta collocazione sociale, in
quanto la società feudale era basata sull’esistenza di tre classi: i monaci, i
cavalieri e i contadini. Questa suddivisione risultava funzionale ai compiti che la
società prevedeva: pregare, combattere e lavorare. Mercanti e artigiani, gli
abitanti dei nuovi borghi (da cui deriva il termine borghesia) non avevano,
invece, un riconoscimento sociale e giuridico.
La liberazione dai vincoli feudali delle città e dei suoi abitanti provocò uno
scontro tra la nascente borghesia e le gerarchie sia civili che ecclesiastiche,
scontro che si manifestò a livello socio-politico ma anche culturale.
La borghesia iniziò a farsi promotrice di una diversa visione del mondo, fondata
su valori mondani e non religiosi. La prima elaborazione vera e propria di questa
visione avvenne solo nel Rinascimento, essa fu però il frutto di fermenti già
presenti nella cultura dell’Europa medievale. Durante il Medioevo queste nuove
idee conobbero una prima sintesi nell’opera di Guglielmo Ockham.
il supermento dell’____________________
e la formazione di tre _________________:
a - ________________________:
continuazione _______________________
b - _______________________: egemone
c – europea  cultura ________________
2 - ________________________________
L’autorità della ______________________
sul piano _________________________:
a – verità = _______________________
b – controllo _____________________
I _____________ della cultura medioevale:
A - ________________________________
__________________
B - ______________________________
- rinascita _________________________
distacco __________________________
e produzione caratteristiche della ________
___________________________________
a - _____________________: mercanti 
_____________________________
b – politica: stato ________________ 
_________________________________
c - ______________________________:
mentalità _______________________ 
___________________________________
Rinascita della città e _________________
- scontro _________________________
- scontro culturale:
la nascita della mentalità _______________
39
La mentalità medioevale è caratterizzata dall’essere una mentalità religiosa,
allegorica e dal prevalere della cultura orale.
La mentalità religiosa è rintracciabile in tutti gli aspetti della vita dell’uomo
medioevale. Anche a livello quotidiano la vita era organizzata in vista degli
aspetti religiosi e liturgici. L’anno era scandito dalle festività religiose, l’intera
vita era organizzata unicamente in relazione alla sua dimensione ultraterrena .
Ciò comportò una visione pessimista dell’uomo che è ben rappresentata dalle due
immagini che più spesso venivano collegate all’uomo: il pellegrino e il
peccatore. L’uomo è pellegrino in quanto la terra non è la sua vera dimensione ed
egli è in viaggio verso la vita eterna. Il peccatore rappresenta, invece, la paura
che ossessiona l’uomo medioevale, in quanto peccare significa perdere la vita
eterna. Da questa paura nasce l’esigenza di espiare il peccato e quindi il modello
di vita per eccellenza diventa quello ascetico e la figura del monaco penitente è il
modello di uomo.
Il pessimismo antropologico è legato alla teologia di Paolo di Tarso, infatti,
come per Paolo l’uomo lasciato a se stesso non può staccarsi dalla carne e dal
peccato, la sua salvezza avviene solo mediante la grazia di Dio. Inoltre, come la
sua teologia è incentrata sulla morte di Gesù, così per l’uomo medioevale la
morte è il momento centrale della vita.
Questa centralità divenne sempre più evidente soprattutto nel XIV secolo, in
contemporanea con la presenza endemica della peste, culminando in una
situazione psicologica - culturale particolare per i nuovi ceti emergenti nella vita
cittadina. Infatti, il mercante che provava a vivere al di fuori della dimensione
religiosa, finalizzando le sue attività non in vista di Dio e quindi della sua
salvezza eterna ma delle sue ricchezze materiali, si sentiva per questo peccatore
temendo quindi in modo particolare la morte. Per questo una delle forme più
tipiche della religiosità medioevale è costituita dal sacramento dell’estrema
unzione. L’introduzione di questo sacramento sottolinea la paura di fronte alla
morte e rappresentava per il mercante la possibilità di rientrare nella mentalità
prevalente, di conciliare in tempo i suoi comportamenti con quelli voluti dalla
Chiesa, in quanto con l’estrema unzione l’uomo ha la possibilità di pentirsi e
riconciliarsi con Dio. Al mercante che in vita non aveva accettato i modelli
proposti la chiesa offriva in questo modo la possibilità di riconciliarsi con essa e
guadagnarsi la vita eterna. L’estrema unzione e l’enfatizzazione dell’agonia sono
il sintomo della difficile situazione psicologica dell’uomo che, da un lato, rompe
con i valori della tradizione, e dall’altro si sente a disagio proprio a causa di
questa rottura.
Un fattore importante per capire la mentalità medioevale è costituito certamente
dal prevalere della cultura orale.
Nel Medioevo la capacità di leggere e scrivere un testo in latino o greco ( le
lingue della cultura) era riservato praticamente ai soli uomini della chiesa. Nella
società laica la scrittura era scomparsa; contratti di vendita e testamenti, nonché
patti di alleanza, non venivano trascritti, lo stesso Carlo Magno imparò a scrivere
il suo nome solo da adulto. Di fronte a questa marginalità della scrittura nella vita
pratica essa aveva, invece, grande importanza nella vita religiosa. Il
Cristianesimo, infatti, si fondava su una rivelazione divina tramandata in testi
scritti. Il saper leggere e comprendere la scrittura dava ai chierici una notevole
importanza nella società medioevale, i monaci erano, infatti, il mezzo attraverso i
quali la parola di Dio arrivava ai fedeli.
Il fatto che la cultura medioevale fosse in gran parte orale è dovuta ad un fattore
tecnico: la difficoltà di riprodurre testi scritti. La società medioevale, a differenza
di quella antica, non era così ricca da poter investire risorse in questa attività. Il
prevalere della cultura orale perdurerà fino all’invenzione della stampa ( XV
secolo), perchè fino ad allora il libro rimase un bene di lusso, e quindi
scarsamente reperibile.
L’importanza della parola orale è testimoniata dal fatto che anche la lettura
LA MENTALITÀ MEDIOEVALE
__ – Mentalità _______________________
a – Prevalere dimensione ______________
_________________________________
b - _______________________________
_____________________________:
- ________________________ = in viaggio
verso ____________________________
- peccatore = paura di _______________
__________________________________
Origini pessimismo antropologico:
a – teologia ______________________
- salvezza mediante la ________________
- incentrata sulla _____________________
b - ________________________________
c – situazione _______________________
________________ dei _______________
l’estrema ________________________
__ - _______________________________
L’irrilevanza della scrittura nella ________
_________________________________
la rilevanza nella vita _________________
Il libro come ________________________
40
avveniva ad alta voce. Spesso uno leggeva per tutti gli altri, ma si leggeva ad alta
voce anche solo per se stessi. Ciò è dovuto alla scarsità dei libri stessi, ma anche
alle caratteristiche psichiche dell’uomo medioevale. Infatti gli psicologi dell’età
evolutiva hanno osservato che il passaggio alla lettura interiore è un vero e
proprio passaggio evolutivo nel bambino, ovvero questa capacità richiede una
strutturazione delle capacità cerebrali che avviene solo ad un determinato stadio
della vita del bambino. E’ quindi supponibile che le capacità cerebrali dell’uomo
medioevale fossero diverse dalle nostre.
Il prevalere della cultura orale comporta il prevalere di un atteggiamento
conservatore che è testimoniato nella cultura medievale dal ricorso all’autorità
della parola scritta e delle tradizioni. Ciò che è scritto è per l’uomo medioevale la
verità. Questo atteggiamento non stimola le capacità elaborative, anche perché
gran parte delle energie dell’ individuo più che a interpretare ciò che è scritto
sono impiegate per ricordarlo.
Una terza caratteristica della mentalità medioevale è costituita dal prevalere della
mentalità allegorica.
L’allegoria è una figura retorica in cui si attribuisce ad un’immagine, a un
concetto o ad un testo un significato diverso da quello letterale.
L’atteggiamento allegorico dell’uomo medioevale è strettamente legato alla sua
mentalità religiosa per cui la rivelazione, e quindi le sacre scritture, contengono
tutto ciò che gli uomini devono sapere. Indagare oltre sarebbe inutile e
pericoloso, ma allo stesso tempo occorre che nulla di ciò che Dio ha voluto far
sapere agli uomini sia dimenticato. La parola di Dio va quindi interpretata
allegoricamente, cercando la verità che sta dietro all’apparenza letterale alla
quale si fermano le persone semplici. Questo tipo di interpretazione della Bibbia
risale a Filone di Alessandria.
Anche la situazione sociale è vista allegoricamente. L’uomo medievale non si
limita a constatare che all’ interno della società vi sono tre gruppi sociali,
ciascuno con una specifica funzione ( i cavalieri combattono , i monaci pregano e
i contadini producono ), infatti questa suddivisione viene vista come un’allegoria
della Trinità .
Anche la natura è vista come un mezzo attraverso cui Dio comunica con gli
uomini. Essa costituisce un libro da interpretare allegoricamente per cui dietro ad
ogni elemento naturale si nasconde un significato mistico - religioso: il sole è il
simbolo di Cristo, il tramonto e l’alba rappresentano la morte e la resurrezione .
Da questo tipo di visione nacquero i bestiari e lapidari, raccolte dei significati
allegorici di animali e pietre , si diffusero le rappresentazioni di mostri come
ornamenti di chiesa . Con il passaggio all’ epoca moderna e con la rivoluzione
scientifica la natura da libro allegorico diventò un libro scritto con un linguaggio
matematico.
scarsità libri + ______________________
____________ = lettura a ______________
prevalere atteggiamento _______________
( + _________________________
- ____________________________)
ricorso _________________________
__ - _______________________________
La lettura allegorica:
a – delle ____________________________
b - ______________________________
c - ________________________________
bestiari e _______________________
dall’ ________________________alla
________________________________
LE SCUOLE MONASTICHE
VIII-XI sec - SCUOLE _______________________
presso __________________________________ ( in campagna)
strutture ___________________________ (clero monastico)
Verità ________________  opere ____________________
(_________________________)
- lettura __________________
- _______________________e ______________________
copiatura +
_____________________ (interpretazione _____________)
DALLE SCUOLE MONASTICHE ALL’UNIVERSITÀ
Dagli storici la filosofia medioevale è detta scolastica, poiché l’unico centro di
41
elaborazione della filosofia era costituito dalle scuole. Fino al XII secolo, secolo
che separa alto e basso medioevo con la rinascita delle città, le scuole
dipendevano dalle strutture ecclesiastiche e servivano per la formazione del clero
ed erano localizzate in abbazie e monasteri. In queste scuole si manifesta
tipicamente la mentalità medioevale; infatti si partiva dall’idea che la verità fosse
già conosciuta in quanto rivelata. Questa verità era contenuta nelle opere delle
auctoritates: la Bibbia, che contiene direttamente la rivelazione e gli scritti dei
Padri della Chiesa. In queste scuole medioevali l’organizzazione delle lezioni
rispecchiava questo atteggiamento: venivano, infatti, lette ad alta voce le opere
dell’auctoritates per memorizzarle e farle divenire oggetto di meditazione,
sforzandosi di cercare di comprenderne la verità . L’intera attività culturale del
monaco si esauriva copiando i testi che non poteva alterare, in quanto
contenevano la verità, ma al massimo arricchire iconograficamente. Le miniature
così trasformavano il testo in un’opera d’arte, arricchendolo di un’ulteriore
interpretazione allegorica.
Già all’interno della cultura monastica a partire dall'XI secolo, in concomitanza
con la ripresa economica e demografica che seguì l'anno Mille, ripresero gli
studi filosofici che si manifestarono innanzitutto nel dibattito intorno ai dogmi
cristiani, condotto con l'uso della dialettica.
Il termine dialettica non aveva allora un significato specifico; denotava in genere
i processi argomentativi razionali attraverso cui l'uomo analizzava ogni idea,
ogni presupposto, ogni nesso fra idee diverse, fino a quando i problemi
assumevano una limpidezza tale da suggerirgli spontaneamente una soluzione
accettabile.
Le argomentazioni non venivano ancora inserite in veri e propri sistemi
filosofici, ma rimanevano connesse al patrimonio culturale dell'epoca, sullo
sfondo della fede comune. In questo patrimonio, però, fece ingresso qualcosa di
nuovo: il gusto per l'indagine più spregiudicata, il riconoscimento del valore
della ragione in quanto capace di spiegare le stesse verità di fede.
In questo campo la storiografia ha tradizionalmente delineato uno scontro tra due
fazioni: i sostenitori di una piena applicabilità dell'analisi filosofica al dogma (i
dialettici) e coloro che sostenevano l'inadeguatezza degli strumenti logici di
fronte ai contenuti della fede (gli antidialettici).
Tra gli "antidialettici" dobbiamo ricordare Pier Damiani (1007-1072)36, che nelle
sue opere utilizza tutti gli strumenti propri della dialettica per sostenere la
superiorità della fede su ogni sapere liberale e mettere in guardia dalla tentazione
di ridurre la libertà di Dio entro i limiti della logica umana. In un celebre
passaggio del suo trattato Sull'onnipotenza di Dio egli arriva ad attribuire a Dio il
potere di mutare ciò che è già avvenuto, ovvero far sì che «ciò che è stato non sia
mai stato», superando così i limiti del principio di non contraddizione (per cui
qualcosa non può essere p e non-p contemporaneamente e sotto lo stesso
rispetto).
Dal XII secolo, contemporaneamente alla rinascita della vita urbana, nacquero
nuove scuole presso le cattedrali, sedi vescovili, destinate alla formazione del
clero vescovile e, nel secolo successivo, le università, quali corporazioni di cui
36
Pier Damiani (1007 - 1072), monaco italiano, dottore della chiesa; santo. Dopo un periodo di ritiro e di impegno monastico,
trascorso nell'eremo camaldolese di Fonte Avellana, venne creato cardinale-vescovo di Ostia (1057) assumendo un ruolo di rilievo
tra i riformatori della chiesa nel movimento culminante con il pontificato di Gregorio VII (riforma gregoriana). Al suo contributo,
come anche a quello di altri esponenti del rinnovamento benedettino del sec. XI, si devono alcuni fondamentali aspetti dell'assetto che il
cattolicesimo ha mantenuto per tutto il secondo millennio: appoggio dei centri monastici alla supremazia papale, pratiche monastiche
imposte anche al clero secolare.
42
facevano parte maestri e allievi, costituendo quindi una forma di autoregolazione
dell’insegnamento.
Le università medievali si articolavano in quattro facoltà: Diritto, Medicina,
Filosofia e Teologia. Per ciascuna di esse veniva fissato un percorso di studio,
centrato sull'analisi sistematica di testi classici (per esempio Aristotele per la
filosofia o Galeno37 per la medicina) e sulla discussione dei nodi teorici e
problematici che ne emergevano. A differenza di quanto accadeva con le scuole
cittadine del XII secolo, gli statuti universitari fissavano la durata dei corsi e la
tipologia delle prove di esame; inoltre i titoli rilasciati erano giuridicamente
riconosciuti dalle autorità civili ed ecclesiastiche in Italia e in tutta Europa.
È impossibile fissare una data precisa di fondazione delle singole università,
poiché molte di esse si svilupparono gradualmente, estendendo le attività di
scuole già esistenti. Le prime università sono nate sul finire del XII secolo in
Italia (Bologna e Salerno), in Francia (Parigi, Montpellier e Tolosa) e in
Inghilterra (Oxford). Alcune importanti università sorsero poi in seguito
all'allontanamento volontario di alcuni maestri che, in seguito ad attriti con
l'autorità civile, decidevano di fondare una propria scuola altrove. In questo
modo nel 1209 è nata l'università di Cambridge, staccatasi da Oxford, e quella di
Padova, fondata nel 1222 da maestri che avevano lasciato Bologna. Molte sedi
universitarie si distinguevano per l'eccellenza in una particolare disciplina:
Salerno e Montpellier erano rinomate per la medicina, Bologna per lo studio del
diritto, Parigi e Oxford per gli studi filosofici e teologici.
Ogni sede universitaria aveva comunque un carattere internazionale, con studenti
e docenti di ogni nazionalità europea, uniti dall'uso tecnico del latino, lingua
culturale sovranazionale, impiegata a ogni livello dell'attività didattica,
amministrativa e giuridica.
Un tratto distintivo della popolazione universitaria era la condizione clericale.
Nel linguaggio medievale il termine "clero" non è sinonimo di "insieme dei
sacerdoti", ma designa "coloro che hanno ricevuto la tonsura clericale”, cioè un
taglio rituale di cinque ciocche di capelli, in seguito al quale da laici si diventava
chierici. Questa condizione era la premessa per l'accesso agli ordini religiosi, ma
di per sé non comportava particolari obblighi. Si trattava, semmai, di un
privilegio: i chierici non erano più soggetti alla giustizia civili e solo in parte lo
erano a quella episcopale (avevano la possibilità, infatti, di appellarsi
direttamente al papa). Soltanto una minoranza dei chierici accedeva al
sacerdozio, mentre la maggior parte di loro viveva come i laici, senza rinunciare
nemmeno al matrimonio. La differenza principale tra chierici e laici era che i
primi avevano accesso a una formazione culturale, erano dunque letterati; da qui
deriva l'identificazione che nel XIII secolo vedeva accomunare le figure del
"chierico" e dell'intellettuale".
Essi costituivano spesso un gruppo sociale eversivo: gli studenti facevano una
vita itinerante in base alla fama delle scuole, spesso erano poveri, perché i ricchi
studiavano generalmente nelle scuole monastiche, per vivere o mendicavano o
facevano dei piccoli lavori. La loro mentalità è ben espressa dai Carmina
burana; canti che spesso esaltano il vino, il gioco, l’amore e che attaccano in
modo sarcastico i monaci, dimostrando l’allontanamento dalla mentalità
proposta dalla chiesa.
Nelle scuole cittadine si formò un nuovo tipo di studio: non ci si accontentava di
leggere e meditare i testi delle auctoritates, il maestro ora commentava i testi e
discuteva, con gli altri maestri e con gli allievi, le questioni che tali testi
ponevano, riconoscendo un maggior spazio all’indagine personale. Veniva
ancora riconosciuto che la verità era contenuta negli scritti delle auctoritates, ma
si riconosceva anche che questa verità andava raggiunta con uno sforzo
37
Galeno Claudio (129 - 200 ca), medico e filosofo greco. Fino al rinascimento Galeno, che dopo Ippocrate fu il medico più famoso
dell'antichità, costituì un'autorità non solo in campo medico ma anche sul piano filosofico.
43
personale il cui frutto era il commento e la discussione.
L'università medievale perfezionò ben presto forme altamente strutturate di
analisi testuale (la lectio) e di discussione teorica (la disputatio), dalle quali
derivano rispettivamente i generi letterari del commento e della quaestio. Gran
parte della letteratura filosofica del XIII secolo (e dei tre secoli successivi),
infatti, mostra stretti legami con le tecniche di insegnamento da cui deriva.
La lectio è l'analisi sistematica di un testo
fondamentale secondo tre livelli di approfondimento progressivo: la spiegazione letterale, una
prima parafrasi del suo significato e
l'approfondimento della posizione teorica
dell'autore (sententia). La spiegazione letterale
era un momento cruciale, dato che si avevano di
fronte traduzioni estremamente letterali che
rendevano necessari chiarimenti lessicali e
grammaticali. L'altra pratica intellettuale tipica
dell'università medievale è la disputa. Nella
facoltà delle Arti (filosofia) e nella facoltà
teologica (ma anche in medicina e in diritto) si
tenevano dispute accuratamente strutturate
intorno ai temi più rilevanti e problematici di
ogni area disciplinare. Tutto partiva da un
quesito
del
maestro
formulato
come
interrogativa disgiuntiva, per esempio: «Ci si
chiede se l'umiltà sia una virtù o no». Entravano
poi in gioco due gruppi di studenti divisi nel
gruppo del "no" e nel gruppo del "sì", che
dovevano formulare i diversi argomenti,
presentando le prove correnti a favore di
entrambe le posizioni. Solo a questo punto il
maestro offriva la propria soluzione, replicando
infine anche agli argomenti contrari avanzati nel corso del dibattito.
Sull'imitazione della struttura delle dispute orali nascerà poi il genere letterario
della quaestio (anche se non ogni quaestio giunta fino a noi nasce da dispute
realmente discusse).
Si tratta, com'è evidente, di un metodo ben diverso da quello praticato nei
monasteri, dove l'importanza maggiore veniva data alla "lettura della Sacra
Scrittura" (lectio divina), orientata alla meditazione e alla preghiera. È da
osservare, come ha scritto J. Leclercq38, che "meditazione" significava
ripetizione a voce bassa del testo, per esercitare «più che una memoria visiva
delle parole scritte, una memoria uditiva delle parole ascoltate»; una ripetuta
masticazione della parola divina, che i monaci chiamavano anche "ruminazione"
(in latino ruminatio).
Nonostante l'espansione della civiltà urbana, gli ordini monastici legati alla
civiltà rurale non scomparvero. Al contrario, anche nell'ambito culturale si
profilò una contrapposizione tra rinnovamento legato alla città e tradizionalismo
legato alla campagna. Il maggior rappresentate delle nuove scuole cittadine fu
Pietro Abelardo il cui razionalismo fu combattuto da Bernardo di Chiaravalle39,
che ottenne la condanna delle dottrine di Abelardo senza però riuscire a limitare
l'influenza notevole che esse esercitarono sulla filosofia successiva.
38
Jacques Leclercq ( 1891- 1971), filosofo belga, rappresentante del neotomismo novecentesco, corrente filosofica che
ispirandosi al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui filosofia era visto come la certezza da cui la Chiesa avrebbe
dovuto partire nell’affrontare le sfide della modernità, si proponeva di restituire dignità filosofica alle grandi questioni
teologiche.
39
Per Abelardo vedi pag. 47, per Bernardo pag.54.
44
2 – Fede e Ragione
2.1.0 La conciliabilità di fede e ragione
2.1.1 Anselmo d’Aosta
2.1.2 Pietro Abelardo
2.1.2 Tommaso d’Aquino
2.2.0 L’inconciliabilità di fede e ragione
2.2.1 La superiorità della fede
2.2.2 L’autonomia di fede e ragione
2 - FEDE E RAGIONE
LA CONCILIABILITÀ DI FEDE E
RAGIONE
Il maggior argomento di dibattito dei filosofi medioevali è sicuramente costituito
dal problema dei rapporti tra fede e ragione. La posizione maggioritaria è stata
quella che ritiene fede e ragione conciliabili, poiché fondamentalmente la ragione
e la rivelazione hanno la stessa fonte che è Dio e quindi non possono
contraddirsi.
La conciliabilità di fede e ragione non implica però che esse siano sullo stesso
piano. La priorità della fede era già stata sostenuta da Agostino D’Ippona (V
sec.), filosofo di ispirazione platonica, e venne ripresa nel Medioevo da Anselmo
D’Aosta (XI sec.). Per essi la superiorità della fede è dovuta al fatto che essa
guida la ragione. Questa stessa tesi è riaffermata da Tommaso d’Aquino nel XIII
secolo in forma però attenuata, in quanto egli sostiene che la fede stabilisce i
limiti del corretto uso della ragione. Secondo la prima interpretazione la fede ha
un ruolo più attivo, mentre nella seconda essa lo è meno, poiché la ragione, nei
limiti fissati dalla fede, procede da sola.
Pietro Abelardo (XI-XII sec.) è stato, invece, il maggior sostenitore della priorità
della ragione in quanto, rovesciando la formula di Anselmo d’Aosta, che aveva
affermato che occorre “credere per capire”, egli sosteneva che è necessario
“capire per credere”.
Agostino d’Ippona aveva così impostato il rapporto ragione-fede: senza la guida
della fede la ragione viene sconfitta. Sconfitta che si esprime nel fatto che la
ragione senza fede finisce per accettare posizioni scettiche. Si giunge a queste
posizione scettiche poiché la sola ragione non può che contraddirsi, si incammina
per strade diverse senza mai trovare la via della verità. Agostino riconosce
comunque che la ragione può essere utile alla fede; infatti, se la fede illumina la
ragione può a sua volta chiarire la fede e renderla più forte.
CONCILIABILITÀ FEDE E RAGIONE
perché: __________________________________________________________
+
__________________________
__
__________________________
__________________: ___________________________________________________
Anselmo d’Aosta:
____________________________________________________
___________________: ___________________________________________________
___________________: capire per credere
Profondamente influenzato dalla tradizione patristica, e in particolare da
Agostino, Anselmo d’Aosta (1033-1109)40 è convinto che ci sia un'armonia
40
Per la vita e le opere vedi pag. 73.
45
profonda tra le verità della fede e i risultati ottenibili con rigorose procedure
filosofiche. Il punto di partenza di questo suo pensiero è espresso da due celebri
formule: «la fede che cerca l'intelligibilità» (fides quaerens intellectum) e «credo
per capire» (credo ut intelligam). Il suo metodo consiste nell'analizzare quelle
stesse verità alle quali prestiamo assenso per fede cercando però di dedurle con
procedimenti puramente razionali, dunque prescindendo del tutto dalle fonti
della rivelazione e della tradizione patristica.
Questo non significa che l'indagine razionale sia autonoma rispetto ai contenuti
della fede, ma che la mente umana, una volta indirizzata dalla fede, può
comprendere la corrispondenza tra dati della Rivelazione (contenuti nella
Bibbia) e risultati ottenuti per via dimostrativa. Inoltre occorre tener conto che,
per Anselmo, il credente dovendo cercare le ragioni di ciò che ritiene vero per
fede, nel caso in cui pervenga a conclusioni che contraddicono ciò che crede per
fede, subito deve ricerca l’errore che lo ha condotto a quella che lui sa essere una
falsa conoscenza.
Non c'è dunque alcuna equivalenza tra la fede e la ragione: nessun essere umano
potrà mai penetrare, con le sole sue forze, i misteri del divino; ogni credente ha
però la legittima aspirazione di comprendere quelle verità che conosce per
mezzo della rivelazione biblica.
Sebbene le più importanti dottrine di Anselmo siano presentate con l'asciuttezza
e il rigore dell'argomentazione filosofica, non si deve tuttavia pensare a un
astratto razionalismo: i procedimenti argomentativi scaturiscono da un contesto
di preghiera, di meditazione biblica e di rispetto dei precetti che costituiscono,
insieme alla fede, i presupposti per poter intraprendere la ricerca filosofica.
Anselmo D’Aosta fu tra i primi a impegnarsi nella dimostrazione dell’esistenza
di Dio senza ricorrere alle sacre scritture o alla mentalità allegorica e simbolica
tipica del medioevo, ma come « meditazione sulla ragione della fede da parte di
chi silenziosamente fra sé ricerca ciò che non conosce», per arrivare a una
fondazione positiva della propria fede.
Queste prove hanno una notevole rilevanza in quanto hanno per la prima volta
formalizzato due tipologie di dimostrazione che verranno riprese anche in
seguito.
La prima tipologia è costituita dalla dimostrazione a posteriori, cosiddetta perché
parte dai dati dell’esperienza che riguardano le cose sensibili. Lo schema del
ragionamento è di derivazione platonica: noi possiamo constatare che abbiamo
esperienza di diversi gradi di perfezione; proprio perché siamo in grado di
individuare i diversi livelli di perfezione occorre che esista la perfezione assoluta
in quanto metro di giudizio della perfezione delle altre cose, tale perfezione
assoluta è costituita da Dio. A questa tipologia appartengono le prove esaminate
da Tommaso d’Aquino che esamineremo in seguito41.
La tipologia a priori parte dal concetto stesso di Dio, senza far ricorso
all’esperienza.
La seconda tipologia verrà detta, da Kant (1724-1804), a priori proprio perché il
punto di partenza non è più l’esperienza bensì il concetto stesso di Dio.
La prova anselmiana in sostanza è questa: se intendiamo correttamente il
significato del termine "Dio", sarà inevitabile pensare Dio come esistente.
Anselmo sviluppa la sua prova come una riduzione all'assurdo della posizione
dell'avversario. Questi è l'"insipiente", che, secondo i Salmi 14 e 53, «ha detto in
cuor suo "Dio non esiste"» ( perciò qualunque individuo che rifiuti di ammettere
l'esistenza di Dio è detto insipiente, stolto). Il procedimento di Anselmo, si
diceva, consiste proprio nel condurre all'assurdo la tesi dell'insipiente che
sostiene che «Dio non esiste», ricavando da essa conseguenze contraddittorie.
Il punto di partenza di Anselmo è un'esplicitazione del significato del termine
"Dio": «Noi crediamo che Tu sia qualcosa di cui non si può pensare niente di
41
Vedi pag. 50.
46
maggiore». È importante tener presente che Anselmo non sta parlando della cosa
più grande esistente (perché è sempre pensabile qualcosa di più grande di
questa), ma di una sorta di concetto limite, rispetto al quale non possiamo
pensare niente di maggiore.
Ora, anche chi non crede nell'esistenza di Dio, come l'insipiente biblico,
comprende la formula «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore»: egli
però ritiene che nessuna realtà corrisponda a questo pensiero.
Però, ribatte Anselmo, «ciò di cui non può pensarsi niente di maggiore» non può
essere solo nel pensiero, perché, se fosse solo nel pensiero, ne potremmo pensare
una versione esistente anche nella realtà e questa sarebbe maggiore: «Infatti, se
esistesse nel solo intelletto, si potrebbe pensarlo anche nella realtà e questo allora
sarebbe maggiore».
La conclusione di questo ragionamento è dunque che, ammessa la definizione di
Dio come «ciò di cui non si può pensare niente di maggiore», questo qualcosa
non può esistere solo sul piano del pensiero, ma deve necessariamente esistere
sul piano della realtà: dunque Dio non può non esistere.
Il limite di entrambe queste prove è dovuto al fatto che esse presuppongono una
concezione realistica dei concetti per cui i concetti veri esistono
indipendentemente dalla nostra mente. Ad esempio, se noi abbiamo in mente la
bontà assoluta questa deve necessariamente esistere. Questa concezione realistica
delle idee è di derivazione platonica, in essa viene meno la distinzione fra il
piano del pensiero e il livello della realtà effettiva.
Nella prova a priori, dopo aver constatato sul piano logico che l’essere perfetto
per essere tale deve anche esistere, si conclude che esiste effettivamente senza
preoccuparsi di verificare con l’esperienza questa conclusione. Kant, nel XVIII
secolo, affermerà che per quanto possiamo pensare a dei talleri (gli euro
dell’epoca) perfetti non si può concludere che questi esistono nelle nostre tasche
se non tirandoli fuori. Così le argomentazioni contrarie a questo tipo di prove,
già avanzate da alcuni contemporanei di Anselmo seguono questo schema:
ammesso che si abbia il concetto di Dio come essere perfetto da esso non è
possibile dedurre la sua esistenza come dal concetto di isola perfetta, come
esemplificava
un monaco
contemporaneo di Anselmo, Gaunilone di
Marmoutier (sec. XI), non si può concludere che essa esista veramente.
Anche nella sua vicenda umana (maestro itinerante spesso in contrasto con altri
maestri e per questo costretto ad allontanarsi, condanne delle sue tesi, il rapporto
con Eloisa) il bretone Pietro Abelardo (1079-1142)42, il maestro di logica e
teologia più noto della sua epoca, incarna pienamente i contrasti di un'età in cui
alla cultura monastica si affianca il rinnovamento delle scuole cittadine.
II nuovo modello al quale si ispirava la riflessione teologica di Abelardo provocò
infatti la dura reazione dell'uomo che in quegli anni rappresentava meglio di
chiunque un'altra frontiera della cristianità e si batteva strenuamente a difesa
della tradizione culturale erede del monachesimo altomedievale: l'abate
cistercense Bernardo di Clairvaux (1091-1153), noto anche come san Bernardo
di Chiaravalle (la figura che accoglie Dante al culmine della sua ascesa nel
Paradiso).
Bernardo, dopo aver più volte denunciato alle autorità gli “errori” di Abelardo,
riuscì, nel 1140, ad ottenere una condanna ufficiale delle sue tesi dal Sinodo di
Sens. Abelardo si appellò al papa per ottenere un giudizio più favorevole, ma
durante il viaggio per Roma, già malato, si fermò all'abbazia di Cluny, dove
42
A differenza della maggior parte degli autori medievali, di Abelardo ci è fortunatamente pervenuta una documentazione autobiografica
molto ampia (un carteggio e uno scritto, La storia delle mie disgrazie), in cui si intrecciano memorie personali e ricerca filosofica. Per
la vita e le opere vedi pag. 73.
47
Pietro il Venerabile lo accolse e lo riconciliò con la Chiesa e con Bernardo. Morì
nell'aprile del 1142 nell'abbazia di Saint Marcel a Chalon-sur-Saone.
Con Abelardo, la formula credo ut intelligam di Anselmo si rovescia nel primato
dell’intelligo ut credam: egli, infatti, sostiene che è necessario innanzitutto
capire ciò che si deve credere. Riconosce, dunque, la centralità della rivelazione
e il suo rapporto con la ragione, ma intende tale rapporto nel senso di credere a
ciò che si comprende.
Il suo atteggiamento di fondo è espresso in questi termini: «Sotto il pungolo del
dubbio si intraprende la ricerca e per mezzo della ricerca si raggiunge la
conoscenza della verità». Proprio la capacità di dubitare e la tensione nella
ricerca della verità costituiscono, ai suoi occhi, la dignità peculiare dell'uomo.
Abelardo ricorda che Aristotele raccomanda di dubitare e che la prima
apparizione pubblica di Gesù ha avuto luogo nel tempio, dove interrogava i
dottori: tanto il filosofo quanto la «Sapienza di Dio incarnata» sono dunque
concordi nell'incoraggiar pratica del porre domande.
Applicando la logica alla teologia, Abelardo mostra di fatto che quest'ultima non
si identifica semplicemente con l'insieme delle verità di fede; essa consiste
piuttosto nel complesso delle spiegazioni di quelle verità. Tali spiegazioni,
condotte con argomenti razionali, possono essere accettate o rifiutate (come
accade per tutti i ragionamenti), e perciò risultano discutibili. Si confermano così
i timori degli antidialettici che i contenuti della fede, trattati razionalmente,
possano essere travolti da dubbi e discussioni.
È vero — riconosce Abelardo — che esistono contenuti della fede riguardanti la
realtà divina per i quali la ragione da sola è insufficiente, ma questo non significa
che non si debba discutere sulle cose della fede; per credere bisogna capire ciò
che si crede, bisogna cioè capire se è giusto o no prestare fede a un determinato
contenuto. Il ricorso all'autorità serve laddove manca la capacità di analizzare
razionalmente ciò che la fede insegna, ma diventa inutile quando la ragione è in
grado, con le proprie forze, di accertare la verità. Per Abelardo, anzi, la ragione
assume un ruolo fondamentale nell'esaminare e risolvere i contrasti insorgenti tra
le autorità.
La novità più dirompente nel lavoro di Abelardo, rispetto ad altri maestri del
tempo, è nel modo di accostarsi agli auctores, letti non con reverente
soggezione, senza discuterli, alla ricerca solo di conferme alle proprie tesi, ma
indagati con l'intelligenza oltre che con il cuore, senza la paura di far emergere le
dissonanze, cioè le voci contrastanti all'interno della tradizione cristiana.
Sulla base di queste posizioni Abelardo, in una sua opera intitolata “Sic et non”
(Si e no), elabora un vero e proprio metodo di discussione razionale dei problemi
teologici che dice essere nato dalle necessità dell’insegnamento.
Nel prologo Abelardo afferma a chiare lettere che la tradizione cristiana non va
accettata acriticamente in blocco, ma indagata e soppesata con tutte le tecniche
della razionalità. Nel suo testo raccoglie le opinioni dei Padri della Chiesa e le
ordina in modo da farle apparire come la risposta positiva e negativa allo stesso
problema. In tal modo Abelardo può innanzitutto mettere in evidenza come i
pareri dei Padri della Chiesa possano essere in disaccordo tra di loro e quindi
occorra discutere, ricercare per dissolvere o ridurre le contraddizioni nelle
soluzioni proposte dalla tradizione. A tal fine occorre : considerare le opinioni
espresse nel contesto dell’opera dell’autore; tenere conto del fatto che le
medesime parole possono essere usate con significati diversi; nel caso poi che il
contrasto sia insanabile occorre dar preferenza alle tesi che hanno maggior
argomenti a loro favore.
In questo modo Abelardo rivendica la libertà di giudizio nei confronti dei Padri
48
della Chiesa, cioè della tradizione cristiana, le loro opere, a differenza delle
Sacre Scritture, non devono essere lette con l’obbligo di credere.
Il modello del Sic et non testimonia un altro modo di accostarsi ai testi dottrinali,
diverso dalla lettura meditativa e spirituale del mondo monastico. È un modo
nuovo che si adatta ai metodi di insegnamento e dibattito delle scuole cittadine 43.
Tommaso d’Aquino (1225-1274)44 costituisce sicuramente un punto di non
ritorno: con lui la fiducia, caratteristica di tanti maestri medioevali, nella
possibilità di conciliare fede e ragione raggiunge l’apice. In questa prospettiva,
la sua scelta a favore dell'aristotelismo — una filosofia. che nel mondo cristiano
era oggetto di sospetti e riserve — si legava alla convinzione che proprio la
filosofia aristotelica fosse quella capace di pervenire al maggior numero di verità
accessibili alla ragione45.
Il problema fede-ragione è discusso da Tommaso d’Aquino chiedendosi,
innanzitutto, se la teologia sia una scienza o se non lo sia. Chiaramente la
risposta è affermativa. Per dimostrare la sua tesi ricorre al concetto di scienza
subalterna: se consideriamo i rapporti tra ottica e geometria si capisce che l’ottica
nel dimostrare i suoi teoremi prende in prestito i concetti della geometria (es.
raggio luminoso = retta), in tal modo l’ottica si serve di principi che non
dimostra. Questo è lo stesso rapporto che vi è tra teologia e fede: la teologia è
una scienza che si serve di principi provenienti dalla fede.
Come una scienza subalterna non è tenuta a provare i suoi principi, in quanto
ricevuti da una scienza superiore, così le verità di fede sono immediatamente
accolte dal credente, senza alcun bisogno di dimostrazione. Tali verità rivelate
sono infatti indimostrabili scientificamente e sono dette "articoli di fede". Gli
articoli di fede sono tramandati dalla Bibbia e costituiscono i principi propri
della teologia, che, dopo averli accettati, costruisce dimostrazioni rigorose al pari
di ogni altra scienza. Ecco che la teologia scientifica può porre in relazione
sistematica tutto il contenuto della fede e quello delle verità filosofiche raggiungibili dalla ragione naturale. È da sottolineare che gli articoli di fede che
possono valere come principi del discorso teologico non sono tutto ciò in cui
crede un cristiano, ma solo le verità fondamentali contenute nella professione di
fede nota come "Credo".
Per Tommaso la ragione naturale ha una sua propria verità incontrovertibile. I
principi su cui si basa — i principi primi che stanno a fondamento della verità —
le sono stati dati da Dio in quanto creatore dell'uomo. Perciò la verità della
ragione non può essere in contrasto con quella della fede: sarebbe come dire che
la verità — la quale ha il suo unico fondamento in Dio, creatore (per quanto
riguarda la ragione) e rivelatore (per quanto riguarda la fede) — è in contrasto
43
L'uso di raccogliere in maniera sistematica, ordinandole per materia e per problemi, le affermazioni dei Padri della
Chiesa e dei principali pensatori cristiani circa il nucleo fondamentale della dottrina cristiana si andò progressivamente
diffondendo, nel corso del XII secolo, dando luogo a una nuova forma di letteratura filosofica: le Sententiae (Sentenze,
nel senso di "affermazioni autorevoli"). Il caso più celebre è quello dei Quattro libri delle Sentenze (1152) scritti dal
novarese Pietro Lombardo (1095 ca. .- 1160), il quale trascorse buona parte della vita a Parigi, dove fu allievo di
Abelardo e, dal 1140 circa, insegnò teologia. Mezzo secolo dopo la sua morte, un concilio generale (il quarto concilio
lateranense del 1215) menzionò il testo del Lombardo, che grazie a questa sorta di approvazione ufficiale conobbe una
fortuna straordinaria, tanto da divenire per secoli il libro più commentato e più influente nell'Occidente cristiano, dopo
la Bibbia.
Fu così che, sin dalla metà del Duecento, il confronto con i pareri illustri raccolti e commentati dal Lombardo divenne
un passaggio obbligato lungo la strada che conduceva ogni teologo a maturare un proprio pensiero originale
44
Per la vita e le opere vedi pag. 74.
45
Sulla riscoperta di Aristotele vedi pag. 56.
49
con se stessa. Anzi, la ragione può essere in vario modo utile alla stessa fede, là
dove questa intenda porsi come scelta consapevole. La ragione può servire,
secondo Tommaso d’Aquino, alla fede in due modi, dimostrando alcune verità di
fede, tra cui la più importante è l’esistenza di Dio, e inoltre dimostrando come
non siano razionalmente fondate le tesi che non accettano le verità di fede.
In questo quadro di piena armonia tra la ragione naturale e la fede, se accade che
quanto sostenuto dai filosofi sia talvolta contrario ai contenuti della verità
rivelata, significa che c'è un abuso, un difetto della ragione, la quale, quando è
correttamente intesa e impiegata, non può non essere in accordo con i dati della
rivelazione. Le conclusioni della ricerca filosofica che contraddicono la parola
delle sacre scritture sono sicuramente false, frutto di un errore o di un
fraintendimento della ragione, la quale deve quindi tornare sui propri passi per
ritrovare il punto in cui ha deviato; per Tommaso vale, infatti, il principio della
regula fidei, ovvero il principio secondo cui la fede è il criterio ultimo di
valutazione della correttezza dei procedimenti razionali.
Un esempio d'integrazione profonda tra discorso teologico e argomenti filosofici
lo troviamo nella Somma teologica, nelle cosiddette cinque prove dell'esistenza
di Dio, dette «cinque vie» (Somma teologica, 1, q.2, art.3). A differenza di buona parte della tradizione teologica precedente, Tommaso non ritiene che l'uomo
possieda una nozione innata o intuitiva dell'essenza di Dio, dalla quale ricavare
una deduzione della sua esistenza. Infatti queste prove non partono dall'analisi
della natura di Dio, ma dalla nostra esperienza del mondo fisico, per mostrare
come questa rimandi a un principio primo, identificabile con Dio; proprio perché
partono dagli effetti, vengono dette prove a posteriori (cioè "a partire da ciò che
è successivo").
La prima via assume come punto di partenza il mutamento delle cose di questo
mondo (è da tenere presente che quando il testo parla di "moto" intende, come
già faceva Aristotele, non solo il movimento locale, ma ogni tipo di mutamento).
Nella nostra esperienza quotidiana, noi possiamo constatare facilmente che in
natura ci sono moltissimi enti in mutamento. Ora, come insegna Aristotele,
«tutto ciò che si muove è mosso da altro», in quanto ha bisogno di una causa
motrice esterna, che lo porti dalla potenza all'atto (infatti un ente non può passare
dalla potenza all'atto da solo, ma lo fa grazie a qualcosa che è già in atto, come il
fuoco, che è caldo in atto e rende caldo in atto il legno, che è caldo in potenza).
Tuttavia tale causa esterna a sua volta si rivela mossa da un'altra causa ancora
precedente. Se non vogliamo che questo schema causale vada a ritroso in una
catena infinita di cause ed effetti del movimento, dobbiamo postulare un
principio primo (il primo movente) che muove senza, tuttavia, essere mosso
(quindi un «primo motore immobile»). Questo principio primo, che muove senza
essere mosso, è "ciò che tutti intendono per Dio". La seconda via assume come
punto di partenza la nozione di causa efficiente e procede in modo analogo. Il
mondo è una concatenazione di cause efficienti ed effetti; ogni causa è, a sua
volta, un effetto di un'altra causa, ma il processo non può risalire all'infinito;
perciò è inevitabile riconoscere che debba esistere una prima causa efficiente,
«che tutti chiamano Dio». La terza via prende spunto dall'analisi del possibile e
del necessario. Molte cose sono contingenti, possibili, cioè possono essere o
anche non essere, possono venire a essere e venir meno, o addirittura non
esistere affatto. Se gli enti fossero tutti di questo tipo, la realtà nella sua interezza
non sarebbe mai venuta all'esistenza, ma visto che la realtà esiste, dobbiamo
riconoscere l'esistenza di qualche ente necessario. Gli enti necessari sono di due
tipi: possono avere la causa della loro necessità in altro o in se stessi; ma la serie
degli enti necessari che hanno la loro causa in altro non può procedere
all'infinito, «quindi bisogna porre qualcosa che sia necessario per sé e non abbia
la causa della propria necessità altrove, ma che sia causa di necessità agli altri. E
50
questo tutti lo dicono Dio».
La quarta via prende in esame la gradazione delle perfezioni: si dice, per
esempio, che una cosa è più o meno buona (o vera o nobile) a seconda di quanto
è vicina al sommamente buono (o al sommamente vero, o al sommamente
nobile). Esisterà allora qualcosa che è il massimo in queste perfezioni, dunque
«c'è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di ogni
perfezione. E questo lo diciamo Dio».
La quinta via parte dall'ordine finalistico della natura: ci sono cose, anche corpi
fisici privi di intelligenza, che operano con regolarità e realizzano il fine della
loro natura. Questo non avverrebbe se non venissero guidati e ordinati al loro
fine «da qualcosa che abbia intelletto e conoscenza, come fa l'arciere con la
freccia [...]. E questo lo diciamo Dio».
Tutti gli argomenti impiegati da Tommaso muovono dalla considerazione di un
determinato aspetto della realtà che richiede di essere spiegato e si concludono
delineando una serie causale la cui base è la realtà dell'esperienza e il cui vertice
è Dio.
La loro struttura rivela che tutti condividono alcuni presupposti aristotelici:
l'impossibilità di una serie causale infinita; l'assunto secondo cui il primo
termine di una serie è causa di tutti gli altri.
Alcune prove, oltre all'influenza diretta di Aristotele, presentano ascendenze
diverse. La terza ripropone l'argomento modale (basato cioè sull'opposizione tra
contingente e necessario), di origine avicenniana46. La quarta via, fondata sui
gradi di perfezione, è invece di derivazione platonica e richiama argomentazioni
analoghe svolte da Agostino e da Anselmo. La quinta via, che raggiunge Dio
prendendo le mosse dal finalismo della natura, presenta delle affinità con lo
scritto aristotelico Sulla filosofia e con lo stoicismo.
Le cinque vie pervengono alla dimostrazione dell'esistenza di una causa prima
universale. L'identificazione di questa causa prima universale con Dio, con la
quale terminano le prove, non è oggetto delle prove stesse, né è implicato dalle
rispettive premesse.
Tuttavia, si deve riconoscere che concetti quali quelli di «primo motore
immobile», «ente assolutamente necessario» ecc. indicano sempre qualcosa che
determina tutto il resto e, quindi, esprimono caratteri che competono solo a ciò
che si intende come Dio. Da ciascuno di questi caratteri, poi, è possibile dedurre
tutti gli altri (come Tommaso mostra nella Somma contro i Gentili a partire
dall'idea di «primo motore immobile»), dimostrando così che essi competono a
un ente solo.
L’affermazione della conciliabilità tra fede e ragione non solo fonda la
scientificità della teologia e quindi l’utilità della ragione per la fede, come
dimostra la possibilità di giungere a dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio,
ma pone a Tommaso anche il problema di dimostrare che il pensiero di Aristotele
(riscoperto in quel periodo e considerato il massimo della razionalità ) non è in
contraddizione col cristianesimo.
Il modello aristotelico rappresentava per l’uomo medievale europeo, che lo
riscoprì grazie agli arabi, il massimo della razionalità, perché proponeva un
modello di conoscenza fondato solo sulle proprie argomentazioni, senza ricorrere
a concetti non dimostrati. Proprio per questo motivo il suo pensiero doveva
essere modificato cosicché i suoi concetti (materia, atto, potenza, …) potessero
essere utilizzato nelle discussione teologiche. Ciò che mancava all’aristotelismo
era il concetto di un Dio creatore, infatti per Aristotele, come per tutta la cultura
46
Avicenna (980 - 1037) filosofo e scienziato persiano. Avicenna riuscì a coordinare i principi medici di Ippocrate e di Galeno
con le teorie biologiche di Aristotele, esercitando un influsso enorme nelle facoltà di medicina fino al sec. XVI. La sua opera, sul
piano filosofico, fu uno dei tramiti, per la cultura europea, della riscoperta di Aristotele.
51
greca, Dio e il mondo erano coesistenti.
Per Tommaso, se ci si limita a considerare le cose come costituite da forma e
materia come voleva Aristotele, si può solo giungere all’essenza della cosa, a
definirla concettualmente. Negli enti reali, nelle cose infatti occorre distinguere
fra la loro essenza e la esistenza effettiva. L’essenza, in quanto definizione di un
ente, non comporta necessariamente l’esistenza dell’ente oggetto della
definizione.
Infatti io posso pensare alla natura di qualcosa senza che la cosa esista realmente
(ad esempio, l’ippogrifo, pur essendo stato definito concettualmente non esiste);
dunque l'essenza di una cosa non implica necessariamente l'esistenza in atto di
questa. Perché una cosa esista in senso pieno, sono richieste sia l'essenza (la
natura della cosa stessa) sia l'esistenza. Potremmo dire che rispetto all'esistenza
attuale (ossia effettiva), l'essenza sia solo potenza. In una formula chiude
Tommaso: «essenza : esistenza = potenza : atto».
Ogni ente, in cui si distinguono l'essenza e l'esistenza, ha l'essere ma non è
l'essere, ovvero l'essere (l'atto vero e proprio di esistere) non è implicito
nell'essenza di una cosa, ma sopravviene a essa, e l'essenza, che dapprima è
solo in potenza, viene a essere, a esistere in atto. Come si realizza questo passaggio? Per passare all'essere, l'essenza deve ricevere l'esistenza da un ente che,
non derivando a sua volta l'esistenza da altro, è l'essere stesso, l'ente in cui
l'essenza e l'esistenza coincidono o, come lo chiama Tommaso, l'essere stesso
sussistente (esse ipsum subsistens), cioè Dio. Perché si passi dall’essenza
all’esistenza, o dalla potenza all’atto, occorre quindi l’intervento creatore di Dio.
Egli è l’unico ente in cui essenza e esistenza coincidono, quindi è anche l’unico
essere che può dare l’esistenza alle cose .
Nella definizione di essere sussistente, Tommaso crede di ravvisare la definizione
che Dio dà di se stesso a Mosè nell'Antico Testamento: «Io sono colui che sono»
(Esodo, 3,14). Poiché in Dio essenza ed esistenza coincidono, egli è per definizione
da sempre esistente, perciò necessario ed eterno.
_____________________________________________________________________________
Aristotele = ___________________________________________
se fede e _______________________ sono _______________________ allora ______________________________________________
ad Aristotele manca _______________________________________________________________
come inserire nell’aristotelismo la necessità di __________________________________________ ?
____________________________ = forma + ____________________ (Aristotele)
ma __________________________ ≠ ___________________________:
___________________________ non comporta necessariamente ________________________
perché -__________________________
________________________________
intervento di ________ (unico essere in cui _______________________________)
visione ___________________________ dell’universo (vedi dopo)
_____________________________________________________________________________
Aristotele = ___________________________________________
Tutto
ciò che non è Dio, invece, trae da lui il proprio essere, lo riceve da Dio
se fede e _______________________ sono _______________________ allora ______________________________________________
«per partecipazione» (come il ferro si arroventa a contatto con il fuoco): ha
l'essere
(nella
misura
in cui "partecipa" dell'essere di Dio), ma non è l'essere
ad Aristotele
manca
_______________________________________________________________
stesso (non essendo Dio). Nella descrizione di Tommaso, dunque, l'esistenza
come inserire nell’aristotelismo la necessità di __________________________________________ ?
____________________________ = forma + ____________________ (Aristotele)
ma __________________________ ≠ ___________________________:
52
appare una perfezione comunicata liberamente da Dio a ogni cosa, mediante la
creazione. Questa perfezione («l'atto di esistere») si unisce («compone») in
ciascun ente con la sua essenza e la attualizza: conferisce cioè all'essenza (che
sino all'intervento creatore divino era semplice potenzialità d'essere) un'esistenza
effettiva, e nel contempo riceve un contenuto oggettivo: non è più puro essere,
ma viene determinata come essere di una specifica res.
Ma quale è la modalità attraverso cui la molteplicità degli enti creati riceve la
propria esistenza da Dio? Secondo Tommaso, ciò non avviene in virtù di un
processo necessario, giacché Dio, ente perfettissimo e purezza d'essere, non ha
bisogno di nessun'altra cosa e non mancherebbe di nulla nel caso in cui non vi
fosse alcun mondo. Quest'ultimo, dunque, viene portato all'esistenza attuale in
seguito a una scelta libera e consapevole di Dio, ossia — più precisamente — a
partire da un suo atto conoscitivo.
Causa e principio ordinatore di un mondo dove ogni cosa agisce in vista di un
fine, infatti, Dio è senza dubbio dotato di una conoscenza intellettiva, che però
non può riguardare cose contraddistinte da potenzialità e imperfezione; l'oggetto
immediato di questa conoscenza deve perciò essere l'idea che Dio ha della
propria essenza. Tuttavia, egli conosce questa idea non solo in se stessa, ma
anche in quanto partecipabile (e imitabile) dalle creature in varia misura. Ecco
allora che l'intelligenza divina contiene in sé tutte le essenze a cui la creazione
conferisce l'attualità concreta dell'esistenza: conoscendosi, Dio conosce ogni
altra realtà, di cui è la causa efficiente (come provato dalla seconda «via»). Nello
stesso tempo, ogni ente esiste solo in quanto è conosciuto — e voluto — da Dio.
Nel pensiero di Tommaso, quindi, assumono grande rilievo le idee (o modelli) di
ciascuna creatura contenute nella mente divina: egli spiega l'origine di queste
idee con il fatto che Dio conosce ogni possibile modo in cui le creature
"partecipano" della sua perfezione. Tommaso, però, respinge con forza la tesi di
chi considera gli esseri naturali solo un pallido riflesso delle idee divine e, così
facendo, li priva di qualsiasi autonomia e valore. Più in generale, il fatto che gli
enti finiti siano fondati e sostenuti nel loro essere (e nel loro operare) da Dio,
come si è visto, non autorizza assolutamente a negare loro ogni efficacia causale:
privarli della capacità di produrre effetti — sostenendo, per esempio, che non sia
il fuoco a scaldare, ma Dio a generare il calore ogniqualvolta si è in presenza di
un fuoco — equivale, secondo Tommaso, a misconoscere la bontà e la
perfezione di Dio, il quale ha voluto che le cose create gli fossero simili
(«analoghe») anche per quanto concerne l'agire (e non solo per quanto concerne
l'essere). In polemica con la svalutazione del mondo naturale tipica della
tradizione platonica medievale, il pensatore domenicano insiste sul fatto che le
creature sono dotate di una natura piena e di un'attività loro propria. Egli
condivide perciò con i filosofi naturali del XII secolo l'idea che i fenomeni fisici
possano e debbano essere spiegati riconducendoli a cause naturali, senza
presupporre continui interventi soprannaturali.
Sulla base della distinzione fra essenza ed esistenza Tommaso costruisce una
visione gerarchica della realtà al cui vertice vi è Dio che non può non esistere in
quanto in lui essenza ed esistenza coincidono. Gli enti finiti si distinguono in
semplici o incorporei e composti o corporei: i primi, rappresentati dalle sostanze
angeliche, (di cui parla la Bibbia) e le anime separate dal corpo (cioè quelle
anime che, dopo la dissoluzione dei corpi, rimangono in attesa dell'Ultimo
giorno, quello del giudizio finale in cui Dio assegnerà la loro destinazione). Sia
gli angeli sia le anime separate sono privi di materia; pertanto non potranno
essere composti, al pari degli altri enti, di forma e materia. E tuttavia nessuna
creatura può essere del tutto semplice (altrimenti sarebbe come Dio); ecco che la
formula «essenza : esistenza = potenza : atto» ha il vantaggio di essere
applicabile a tutte le sostanze (sia quelle corporee dotate di materia, sia quelle
53
che invece sono pure forme), in quanto permette di assegnare a tutte un grado di
composizione minimo, poiché tutte risultano dalla composizione di essenza ed
esistenza.
Solo nella semplicità di Dio essenza ed esistenza coincidono, mentre tutti gli altri
enti dovranno invece ricevere il loro essere da altro (non potrebbero darsi ciò che
per essenza non possiedono).
Al III° livello vi sono, infine, le sostanze corporee, tra le quali l’uomo. Nelle
sostanze incorporee, essendo la materia ciò che allontana da Dio, l'essenza (che,
abbiamo detto, è diversa dall'esistenza) coincide con la sola forma. Per questo
motivo nelle nature angeliche a ogni specie corrisponde un solo individuo, e non
una molteplicità.
Nelle sostanze corporee l'essenza, è costituita da forma + materia, e questo
determina la moltiplicazione di più individui all'interno di una stessa specie.
La materia presente nel singolo ente corporeo costituisce infatti il "principio di
individuazione", cioè ciò che permette l'individuazione di ogni ente. Si tratta
della materia intesa in senso concreto, che Tommaso definisce materia signata
quantitate (materia "misurabile", effettivamente distribuita nello spazio). Se
avessi davanti a me due enti assolutamente indiscernibili, fatti dello stesso tipo di
materiale, si differenzierebbero proprio perché la materia signata quantitate
posseduta dall'uno non è quella posseduta dall'altro.
In base ai concetti di ente e di essenza, Tommaso ricostruisce dunque l'intero
quadro ontologico e la sua gerarchia interna.
Le posizioni di Tommaso furono inizialmente osteggiate dalla chiesa, in quanto
utilizzavano concetti aristotelici e quindi erano considerate incompatibili con la
fede. Questa iniziale ostilità fu presto superata e Tommaso fu santificato solo 50
anni dopo la sua morte. La sua filosofia divenne quella ufficiale della chiesa,
anche perché egli apparteneva all’ordine più potente i Domenicani ai quali era
affidato la Santa Inquisizione e quindi il controllo dell’uniformità ideologica dei
cristiani e la lotta alle eresie. La lotta all’eresia in epoca controriformista coincise
con la proclamazione ufficiale della filosofia di Tommaso come teologia della
chiesa cattolica.
Fra i sostenitori dell’inconciliabilità fra fede e ragione possiamo distinguere due
gruppi di cui il primo, presente soprattutto nei primi secoli dopo il mille, sostiene
l’inutilità della ragione. Il credere, e quindi la fede, è superiore alla ragione. La
superiorità della fede rende inutile la ragione, poiché la fede costituisce l’unica
modalità che l’uomo possiede per rapportarsi con Dio.
La più tipica espressione di questa tesi è riscontrabile nelle opere dei mistici e tra
questi nel XII secolo in Bernardo di Chiaravalle (1091-1153)47.
L’INCONCILIABILITÀ DI FEDE E
RAGIONE
Bernardo di Chiaravalle, di cui abbiamo già detto a proposito del suo scontro con
Abelardo, nominato abate del monastero di Clairvaux diede un impulso decisivo
all’affermazione dell’ordine dei cistercensi che voleva riproporre l’ideale della
vita monastica richiamandosi alla regola di San Benedetto.
Bernardo fu uno dei protagonisti dello scontro tra coloro che difendevano il
modello di vita monastico e la società del basso Medioevo, fondata sulla
tripartizione dei compiti (chierici, cavalieri e lavoratori), contro la nuova realtà
urbana, le nuove attività artigianali e commerciali che essa promuoveva, la nuova
47
Per la vita e le opere vedi pag. 74.
54
cultura che si stava affermando nelle scuole cittadine e nelle prime università.
Il mondo urbano, agli occhi di Bernardo, proprio perché trasgrediva le regole e i
valori del vecchio sistema sociale rischiava di smarrire con questo anche il senso
del sacro.
Questo scontro a livello filosofico-teologico è ben rappresentato dalla polemica
di Bernardo con Abelardo che era il maestro di quelle scuole cittadine che più
aveva difeso i diritti della ragione. Egli difese il vecchio modello di società
facendosi persecutore, come inquisitore, non solo delle scuole cittadine ma anche
delle eresie popolari che coinvolgevano le masse attaccando le gerarchie
ecclesiastiche in nome dell’egualitarismo evangelico.
In base a questa sua mentalità Bernardo, riaffermando le posizioni di Agostino
d’Ippona, condanna qualsiasi tipo di conoscenza che non sia finalizzata alla vita
religiosa. Le forme di indagine e di sapere svincolate dalle tematiche della fede
sono curiosità, ovvero il frutto della superbia dell’uomo. Alla superbia dei nuovi
maestri Bernardo contrappone l’antica virtù monastica dell’umiltà: l’uomo deve
essere umile, deve riconoscere che la sua conoscenza è nulla e che la verità non
deve essere ricercata in quanto è già stata rivelata.
Secondo Bernardo la ragione non può essere utile alla fede, in quanto la fede
stessa non può essere accresciuta dalla ragione, non ha bisogno di essere
rafforzata dall’esterno.
Riprendendo un altro tema tipico di Agostino, egli ritiene che l’unica forma di
conoscenza utile all’uomo sia quella della propria anima; l’indagine intellettuale
deve essere una meditazione interiore che ci consente di discendere in noi e di
conoscere la nostra anima. Ciò che l’uomo scopre discendendo in se stesso è
l’amore per Dio che rappresenta l’unica disposizione utile per arrivare a
conoscerlo. L’ultima tappa del viaggio interiore è l’estasi nella quale l’anima,
perdendo il contatto con il proprio corpo, riesce a unirsi a Dio.
Bernardo è in effetti uno fra i più rappresentativi mistici medioevali. Egli
descrive l’estasi ricorrendo ad allegorie quali: il perdersi di una goccia di vino in
un bicchiere d’acqua, il fondersi del ferro per il calore o, ancora, con dei richiami
al Cantico dei Cantici, uno dei libri della Bibbia, vedendo nell’amore tra i due
giovani protagonisti l’allegoria del rapporto mistico tra l’anima e Dio.
A sostenere l’inconciliabilità di fede e ragione vi erano anche coloro che
ritenevano che esse fossero tali perché si applicavano a campi diversi.
Già nel XII secolo all’interno della Scuola della cattedrale di Chartres si erano
affermate le prime tesi relative all’autonomia della conoscibilità della natura.
Ancora vista in un’ottica neoplatonica come ciò che rivela la saggezza e la
bellezza di Dio, a Chartres la natura, a cui veniva riconosciuto il ruolo di
completare la creazione divina, non veniva più interpretata in modo allegorico,
ma studiata razionalmente, utilizzando i testi dell’antichità rielaborati dalla
cultura araba48.
Nel XIII secolo alla tesi della perfetta conciliabilità tra fede e ragione e ai
tentativi del domenicano Tommaso di “cristianizzare” Aristotele si opposero, da
un lato, gli averroisti e, dall’altro, coloro che si ispiravano all’agostinismo
prevalente soprattutto tra i francescani.
48
Vedi anche pag. 69.
55
L’INCONCILIABILITÀ FEDE E RAGIONE
A - ________________________________________ - ___________________________ : _______________________________________
_______________________________________
- ___________________________: _______________________________________
_______________________________________
Boezio di Dacia:
____________________________________
____________________________________
____________________________:____________________________________
B - ______________________________________
____________________________________
_____________________________: ___________________________________
___________________________________
_____________________________: ___________________________________
___________________________________
Sulla scena filosofica del secolo XIII irrompe Aristotele. Accanto alle opere di
logica, già circolanti nell'alto Medioevo, si diffondono gli scritti di fisica, di metafisica, di etica, di politica. Per la prima volta il medioevo latino conosce nelle
sue linee complessive un sistema filosofico elaborato prima della rivelazione e
perciò del tutto indipendente da essa, basato solo sugli strumenti profani
dell'esperienza e della ragione.
Con la conoscenza di Aristotele gli studiosi cristiani si trovano di fronte una
filosofia pura, priva di legami con la teologia. Di qui le difficoltà che incontrano
la diffusione e la lettura dei testi aristotelici, per l'impianto generale `pagano', per
alcuni specifici contenuti che appaiono in evidente contrasto con i principi della
dottrina cristiana (per esempio l'affermazione dell'eternità del mondo), per il
tramite attraverso cui giungono all'Occidente cristiano,'cioè gli `infedeli' arabi.
Tuttavia, proprio la mediazione di un filosofo islamico, Avicenna49, facilita
l'incontro tra aristotelismo e pensiero cristiano. Nel pensiero di Avicenna, infatti,
l'aristotelismo si intreccia con motivi neoplatonici e con principi della religione
islamica non lontani da quelli della religione cristiana (come l'affermazione
dell'immortalità dell'anima).
Con la conoscenza pressoché integrale del corpus delle opere di Aristotele e dei
commenti di Averroè50 e Avicenna, il confronto sul rapporto tra fede e sapere divenne sempre più acceso, in particolare nell'ambiente universitario parigino. Gli
iniziali divieti di lettura persero, nel giro di pochi anni, ogni efficacia. La Fisica e
49
Vedi nota n 46.
Averroè (1126 - 1198), filosofo e scienziato arabo spagnolo. Averroè è celebre per i suoi commentari sugli scritti
aristotelici, che in Occidente gli valsero l'appellativo di Commentatore per antonomasia. Sono pervenuti tre tipi di
commento: il Grande commento (dopo il 1180), in cui egli spiega frase per frase il testo aristotelico; il Medio, in cui si
limita a chiarire complessivamente il testo, e il Commento piccolo o parafrasi (1169-78), in cui riassume il testo aristotelico,
che non viene riportato.
Egli sostiene i che esiste un'unica verità, quella raggiunta dai filosofi, i quali esigono sempre rigorose dimostrazioni fondate sul
rapporto causale, quindi assolutamente necessarie. I teologi disputano su argomenti probabili, di tipo dialettico, mentre la
maggioranza degli uomini si accontenta di discorsi esortativi, retorici, quali sono quelli del Corano.
50
56
la Metafisica di Aristotele non solo continuarono a essere lette e commentate, ma
— specialmente nella facoltà delle arti (diversa dalla facoltà di teologia) —
costituivano, verso la metà del secolo, i testi principali di insegnamento.
Nei confronti dell'aristotelismo e, in particolare, del suo rapporto con la fede
cristiana, si delinearono posizioni diverse, per molti aspetti inconciliabili:
i domenicani, con Tommaso d'Aquino, cercarono di conciliare Aristotele con il
pensiero cristiano, dando vita a un aristotelismo cristiano; i francescani, il cui
maggiore rappresentante fu Bonaventura da Bagnoregio, accettarono alcune
dottrine aristoteliche, ma subordinandole a un'opzione fondamentale a favore del
platonismo e della tradizione agostiniana; gli esponenti dell'averroismo latino,
così detti perché nell'interpretare Aristotele si riferivano soprattutto ai commenti
di Averroè, si proposero di dare voce all'aristotelismo autentico, senza
preoccuparsi di risolvere le questioni filosofiche nel senso indicato dalla fede
cristiana. Essi furono attaccati sia dai francescani sia dai domenicani.
L'avversione nei confronti della concezione averroistica dell'aristotelismo aveva
la sua ragion d'essere non solo in alcune tesi specifiche dell'averroismo (per
esempio quella dell'unicità dell'intelletto, contraria al dogma dell'immortalità
dell'anima individuale), ma anche nella separazione che esso introduceva tra
verità filosofica e verità teologica.
Le figure più rilevanti di questo orientamento sono due maestri attivi alla facoltà
parigini delle Arti tra il 1266 e il 1280: Sigieri di Brabante (1240 ca.-1281-84) e
Boezio di Dacia (suo contemporaneo). Nella storiografia tradizionale sono
spesso rappresentati come averroisti latini, tendenzialmente eterodossi se non
antireligiosi, sostenitori della dottrina del doppia verità (la verità della ragione e
la verità della fede), come venne bollata dalla Chiesa, che non ammetteva il
contrasto fra fede a ragione, la loro posizione. La storiografia contemporanea ha
però messo in luce che non erano irreligiosi, né legati in tutto e per tutto ad
Averroè; e per questo oggi si preferisce parlare di aristotelici radicali,
sottolineando così il loro impegno a filosofare in prospettiva puramente
aristotelica, tenendo distinte la dottrina cristiana (alla quale anche i maestri
radicali aderivano, a titolo personale, con un atto di fede) e le pratiche filosofiche
fondate sulla ragione naturale e sulla logica della dimostrazione.
Già nel 1272 l'autorità ecclesiastica aveva preso delle misure che rafforzano il
suo controllo sull'insegnamento universitario: era stato infatti proibito ai maestri
delle Arti di disputare su temi di natura teologica; e a loro imposto, qualora il
maestro dovesse incontrare nei testi filosofici da lui commentati dottrine in
contrasto con le verità di fede, di confutare quei passi (se possibile), dichiararli
falsi oppure ancora, come misura cautelativa di base, non affrontarli affatto.
Questa censura (anche preventiva) limitava pesantemente la libertà di
interpretazione e di argomentazione filosofica dei maestri delle Arti. È
probabilmente in questo clima che Boezio scrive il suo L'eternità del mondo, una
lunga quaestio in cui il tema dell'eternità del mondo è quasi un pretesto
emblematico per ridefinire gli spazi dell'autonomia filosofica: era infatti uno di
quei temi su cui la dottrina aristotelica, che riteneva che il mondo esistesse da
sempre, e la verità cristiana, che voleva il mondo creato nel tempo, sembravano
entrare in collisione.
Il trattato L'eternità del mondo è centrato su un'esplicita affermazione di
pluralismo scientifico e metodologico: ciò significa che tra filosofia e teologia
non si ha mai un vero e proprio contrasto perché il sapere razionale (che
comprende fisica, matematica e metafisica) raggiunge le proprie conclusioni a
partire da principi suoi propri. Ne consegue che nessuno scienziato dimostra in
assoluto, ma solo entro i limiti del sistema di cause e dell'ambito della sua
disciplina.
Egli dunque non ammetteva due verità, ma più ambiti e più metodi,
sottolineando che ogni scienza muove da principi propri.
In altre parole, la verità di ogni scienza è solo relativa a quella scienza. La
57
teologia, invece, fondandosi sulla rivelazione divina, si pone su un piano più alto
e raggiunge la verità assoluta. Tuttavia, i dati della rivelazione, proprio per la
loro diversa origine (non sono infatti principi propri della scienza), non possono
entrare nel discorso filosofico e modificarne le conclusioni. Così, di fronte a una
divergenza tra dottrina religiosa e conclusioni filosofiche lo stesso individuo
potrà, in quanto scienziato, dichiarare inspiegabili entro i limiti del sapere fisico
fenomeni come la creazione del mondo nel tempo, l'esistenza di un primo uomo
o la resurrezione del singolo che da corruttibile diventa incorruttibile, ma, in
quanto credente, potrà accettarli e riconoscerli come veri
Molti intellettuali del XIII secolo appartengono ai nuovi ordini religiosi
"mendicanti" (chiamati così per l'obbligo di non possedere nulla e vivere di
carità): i francescani (o "frati minori") e i domenicani (o "frati predicatori"). A
differenza dei tradizionali ordini monastici, che erano espressione di un mondo
ruralizzato e feudale (infatti il monastero si trovava nella maggior parte dei casi
in aperta campagna, al centro di un'isola di produzione agricola), i nuovi ordini
"mendicanti" nascono nella realtà urbana e qui esercitano il loro apostolato. Il
loro centro è il convento, situato in città (il termine latino conventus, da cumvenio, significa "luogo di incontro", mentre monastero, dal greco monastèrion,
significa "luogo in cui si sta soli"). I frati degli ordini mendicanti rivolgono la
loro azione pastorale specificamente ai nuovi ceti urbani, principalmente nella
forma della predicazione, ma ben presto acquistano prestigio anche nel campo
dell'istruzione superiore, dell'università.
Sul piano filosofico, mentre i domenicani, per opera soprattutto di Tommaso
d’Aquino, elaborarono la tesi della conciliazione tra fede e ragione che costituì la
posizione della Chiesa, i francescani, a partire dall’iniziale affermazione
dell’impossibilità per la ragione di cogliere in modo completo le verità di fede, si
fecero promotori della tesi dell’autonomia della ragione.
L’emergere di questa posizione può essere schematizzato, un po’ rigidamente,
attraverso il pensiero di Bonaventura di Bagnoregio, di Duns Scoto e Guglielmo
da Ockham.
La formulazione dei capisaldi della visione francescana risale a Bonaventura di
Bagnoregio (1217-1274) 51, magister a Parigi e ministro generale dell’ordine
francescano.
Per Bonaventura, il cui misticismo è molto vicino a quello dei vittorini in quanto
non svaluta il sapere pratico, il fine ultimo del sapere è costituito dalla
conoscenza di Dio e ogni sapere è subordinato e finalizzato alla sua conoscenza.
La ragione può dimostrare solo alcune delle verità che crediamo per fede.
Inoltre, la fede possiede una certezza superiore a quella della scienza, perché
comporta un’adesione che coinvolge anche la sfera dell’affettività e della
volontà essendo quest’ultime a muovere l’intelletto a dare il suo assenso alla
verità. In tal modo gli studi teologici acquistano un valore più religioso e
ascetico che propriamente filosofico, diventano uno strumento della ricerca
individuale della salvezza.
Ricerca che scopre Dio dapprima nelle creature, poi nell’anima dell’uomo e
nella conoscenza di Dio che però può avvenire solo per similitudine. L’ultimo
grado dell’elevazione a Dio è la contemplazione mistica con l’uscita dell’anima
da se stessa per unirsi al creatore.
In tal modo Bonaventura manteneva, seppur con una carica eversiva molto
51
Bonaventura da Bagnoregio (1217 - 1274) è un contemporaneo di Tommaso d'Aquino e, come lui, insegna a Parigi, dove
aveva studiato filosofia e teologia. Nel 1253 diventa maestro reggente nella facoltà di teologia, fino al 1257, anno in cui viene
eletto ministro generale dei francescani. Per aver guidato l'Ordine, per aver scritto una significativa Vita di San Francesco e per
aver presieduto il capitolo generale (cioè la riunione dei membri dell'Ordine) di Narbona del 1260, che codifica gli statuti
legali dei francescani, Bonaventura è ritenuto il "secondo fondatore dell'Ordine".
58
minore, alcuni dei temi che avevano caratterizzato la predicazione e la vita di
Francesco d’Assisi: la dimensione religiosa che assume un significato che non
coincide con la disputa razionale, coincidendo con una scelta di vita; l’interesse
per la natura come immagine di Dio.
Duns Scoto (1265-1308), un francescano scozzese che insegnò a Oxford e a
Parigi nella seconda metà del XIII secolo, accentua ancora l’alterità tra fede e
ragione, teologia e filosofia senza però svilire quest’ultima, cercando invece di
delimitare i rispettivi ambiti.
La riflessione filosofica dimostra la necessità di un essere trascendente, ma il suo
oggetto non è il Dio della rivelazione, essa è metafisica e non teologia.
La teologia è per gli uomini non la conoscenza assoluta di Dio, impossibile su
questa terra, non una scienza speculativa volta alla conoscenza, come voleva
Tommaso, bensì una scienza pratica che richiede un’adesione spontanea, una
scelta di fede.
Sistematizzando la distinzione di ambito tra fede e ragione, Guglielmo di
Ockham (1280 ca.-1347)52 ha dissolto per la cultura non strettamente ecclesiastica
l’importanza del problema dei rapporti tra i due, centrale per la Scolastica,
contribuendo al superamento di questo lungo periodo della storia della filosofia,
benché la mentalità scolastica stessa abbia continuato a egemonizzare per molti versi
l’insegnamento universitario della filosofia almeno fino al XVIII secolo, determinando
la marginalizzazione dell’università dall’elaborazione filosofica.
L’università di Oxford, dove Guglielmo studiò e insegnò logica, era
egemonizzata dai francescani e si caratterizzava, rispetto all’università parigina,
per il crescente interesse per le scienze della natura e per una valorizzazione dei
saperi pratici e dell’esperienza concreta, gli unici ambiti in cui, come vedremo,
secondo il francescano inglese agisce la ragione umana.
L'autonomia della ragione viene teorizzata a partire dall’affermazione
dell'impossibilità per essa di dimostrare le verità di fede, in questo modo Ockham
spinge alle estreme conseguenze la tesi dell’impotenza della ragione di fronte della
fede senza però svalutarla.
Le verità della fede non sono né evidenti ( come lo sono invece, ad esempio, i
principi geometrici), né possono essere, come lo sono le conclusioni delle
dimostrazioni razionali, dimostrate e quindi non possono essere utilizzati in una
dimostrazione di qualcos’altro. Di conseguenza, a differenza di Tommaso d’Aquino,
la teologia non può essere una scienza; d’altronde, osserva Guglielmo, se le verità di
fede fossero raggiungibili dalla ragione umana Dio non sarebbe ricorso alla
rivelazione per farle conoscere agli uomini.
L’unica via d’accesso a Dio è quindi costituita dalle fede che infatti è amore per Dio e
non conoscenza razionale di Dio. La conoscenza di Dio è d’altra parte impossibile
all’uomo sulla terra sia perché l’unico attributo che possiamo riconoscere a Dio è la
sua onnipotenza sia per le condizioni in cui avviene la conoscenza umana.
Con molta decisione Ockham afferma che ogni discorso su Dio che non si fonda sulla
rivelazione è vano e infondato. La teologia nel suo complesso deve essere fondata sule
Sacre scritture e parlando di Dio occorre essere consapevoli che si tratta di un modo
nostro di rappresentarlo, attraverso concetti che sono derivati dalla nostra esperienza
ma che possono essere riferibili anche a Dio.
Con questa consapevolezza, in coincidenza con la formula del Credo (“Credo in Dio
Padre onnipotente …”), possiamo attribuire a Dio l’onnipotenza che rende Dio
imprevedibile nella sua volontà, cosa che impedisce la possibilità stessa di una scienza
che lo definisca o lo limiti.
Sulla base dell’assoluta libertà divina Ockham rivendica anche la libertà del credente
e attacca polemicamente le strutture di potere della Chiesa del suo tempo, la chiesa
avignonese, soprattutto nel secondo periodo della sua produzione, dopo la fuga da
52
Per la vita e le opere vedi pag. 75.
59
Avignone dove era stato convocato in seguito all’accusa di eresia.
La Chiesa non può essere identificata nelle gerarchie ecclesiastiche, l’insieme dei beni
e dei poteri della Chiesa, essa deve essere invece l’insieme dei credenti che decidono
liberamente di vivere in comunità secondo i dettami della fede. La povertà è, per
Guglielmo, il segno principale di questa rinuncia al potere perché la Chiesa possa
ritornare da istituzione politica a comunità di fedeli. Ockham si ricollega in questo
modo alla tradizione del francescanesimo radicale che rivendicava la necessità di una
trasformazione reale della chiesa nella direzione di un ritorno alla purezza delle
origini.
Nella prospettiva di Guglielmo, l'affermazione dell'onnipotenza e dell'assoluta
libertà di Dio sottolineano infine la contingenza del mondo, di questo mondo, e
delle leggi che lo governano. Di fatto Dio ha creato questo mondo, ma avrebbe
potuto dare forma a un mondo diverso da quello effettivamente esistente.
Guglielmo, sulla base del dibattito teologico contemporaneo, distingue tra la
potenza assoluta di Dio, che intende come l’insieme delle possibilità tra cui Dio
ha scelto, e la potenza ordinata di Dio, ovvero l’insieme delle possibilità che Dio
ha realizzato.
Il dibattito teologico sull'onnipotenza divina finì per legittimare l’analisi di
modelli ipotetici di realtà possibili, in contrasto con l'esperienza e con la fisica
aristotelica.
Così si iniziava a esplorare teoricamente anche ciò che, pur non esistendo di
fatto, è possibile all'onnipotenza di Dio. È in questo contesto che si sviluppa un
nuovo modo di impostare la scienza della natura, in cui avevano grande
importanza le congetture e gli esperimenti mentali. Si iniziano inoltre a discutere
ipotesi come la possibilità di un moto diurno della Terra intorno al Sole, la
pluralità dei mondi. Così, ad esempio, Nicola di Oresme (1320 ca. – 1382),
maestro a Parigi, ripropose una concezione atomistica della materie e nel Libro
del cielo e del mondo (redatto in francese entro il 1377) sostenne che il passaggio dal giorno alla notte può essere spiegato anche se non è il Sole a ruotare
intorno alla Terra, ma la Terra intorno al Sole.
Al di là delle suggestive anticipazioni delle ipotesi che verranno affermate dalla
Rivoluzione scientifica occorre osservare che comunque esse, per lo studioso
medievale, risultavano concepibili esclusivamente all’interno di un ben preciso
quadro teologico, determinato in questo caso dal riconoscimento
dell’onnipotenza divina.
A determinare l’inconoscibilità di Dio vi sono per Ockham, come abbiamo detto,
non solo motivi teologici ma anche le condizioni in cui avviene la conoscenza
umana.
Infatti l’unica forma di conoscenza umana che può dare la certezza dell’esistenza
di una cosa è la percezione sensibile, resa possibile dall’esperienza che ha per
oggetto enti contingenti e sensibili, per cui Dio non può essere oggetto di un tal
tipo di conoscenza.
Queste posizioni partono da presupposti simili a quelli di coloro che, come Bernardo di
Chiaravalle, ritenevano che la ragione fosse inutile alla fede, ma le loro conclusioni
sono opposte: la conoscenza non viene svalutata, quanto invece si cerca di
delimitare i campi in cui la ragione può essere applicata legittimamente. La ragione
infatti, se non può avere come fine la conoscenza di Dio, può comunque dar vita a
una conoscenza certa basata sull'esperienza.
Il pensiero medioevale, dopo aver riconosciuto nel sapere pratico la via di accesso al
sapere religioso (vittorini, Bonaventura) e dopo aver riconosciuto che il Dio a cui
giunge la ragione non è quello della fede (Duns Scoto) giunge con Ockham a
riconoscere la piena autonomia del sapere umano fondato sull’esperienza ritenendo
che esso rappresenti l’unica forma di conoscenza certa per l’uomo.
60
3 - Ockham e la formazione dell’atteggiamento laico
3.0. Ockham e il processo di laicizzazione della cultura
3.1 La teoria della conoscenza: empirismo e nominalismo
3.2 La critica al sapere tradizionale
L'opera di Ockham è considerata l’espressione sul piano filosofico della nuova
mentalità formatosi con la rinascita delle città; una mentalità tendenzialmente
più laica in contrapposizione alla tradizionale mentalità religiosa. La differenza
fondamentale fra le due mentalità è dovuta al fatto che mentre la mentalità
religiosa coincide con una visione che considera fondamentale la dimensione
ultraterrena, per cui la dimensione terrena è in funzione di quella ultraterrena, la
mentalità laica invece, pur non negando necessariamente la dimensione
ultraterrena, considera la dimensione terrena come autonoma. Questa
contrapposizione ha caratterizzato la mentalità occidentale almeno fino al
Settecento, quando con l’Illuminismo la mentalità laica si è generalizzata in ogni
aspetto della cultura e, in seguito, anche della mentalità europea.
Occorre comunque osservare, come abbiamo fatto per Nicola di Oresme, che in
Ockham la nuova mentalità è ancora giustificata dal riferimento a un ben preciso
quadro teologico, dal momento che la concezione della divinità sta alla base di
tutta la filosofia occamista. Infatti, l’interpretazione di Dio come onnipotenza
risulta, come abbiamo già visto, fondamentale rispetto alla concezione della
realtà in quanto ne deriva che ogni ordine e regolarità consueta riscontrabile nel
mondo è una delle realizzazioni delle infinite possibilità aperte a quella infinita
potenza a cui nulla è impossibile. Ne discende inoltre che tutte le leggi di
regolarità del mondo non sono qualcosa di assoluto, che Dio ha voluto perché
costituivano una intrinseca razionalità, ma si fondano unicamente sul volere di
Dio. Il mondo creato è quindi radicalmente contingente. Dio è assolutamente
onnipotente: l'ordine di questo mondo non è necessario in se stesso, ma deriva
dalla volontà divina. Di conseguenza alla conoscenza umana non è possibile
esplicare la razionalità del mondo, ma solo descriverlo nelle sue connotazioni
essenziali e osservarlo direttamente attraverso l’esperienza.
OCKHAM E LA FORMAZIONE
DELL'ATTEGGIAMENTO LAICO
Mentalità religiosa = privilegia __________
_____________________________ a cui è
subordinata la _______________________
Mentalità laica = autonomia ___________
___________________________________
non nega ___________________________
LA TEORIA DELLA CONOSCENZA
Emerge in questo modo, all’interno di questo quadro teologico, il maggior
contributo di Ockham alla laicizzazione della cultura che è costituito
dall'elaborazione di un nuovo modo di intendere la conoscenza definibile come
empirista e nominalista.
Sono dette empiriste tutte quelle teorie che ritengono che le nostre conoscenze
abbiano origine dall'esperienza costituita dai dati che ci provengono dalla realtà
mediante i sensi. Ockham rompeva così con la tradizione medioevale che, in
linea con Agostino d’Ippona, invece privilegiava una concezione razionalista
della conoscenza, evidenziando dunque soprattutto il ruolo della ragione e
svalutando l’esperienza legata al mondo esterno poiché i principi di cui la
conoscenza si serve sono pensati come indipendenti dall'esperienza posti nella
mente dell'uomo direttamente da Dio.
La verità, per gli empiristi come Guglielmo, non può essere dedotta logicamente
(come invece sostenevano, ad esempio, coloro che ritenevano valida la prova a
priori dell'esistenza di Dio), ma deve essere testimoniata dai sensi. La mente
umana non può perciò, come abbiamo detto, conoscere Dio, ma ciò non significa
che la ragione sia inutile, infatti la ragione, se applicata ai dati dell'esperienza,
può produrre una conoscenza vera.
L’EMPIRISMO
la conoscenza fondata sull’_____________
(dati dai ____________________)
Razionalismo
La conoscenza fondata sulla ____________
61
Il nostro processo della conoscenza inizia con l'esperienza di realtà individuali e
contingenti (siano esse oggetti dei sensi o dell'intelletto, esterni o mentali).
Ockham chiama "cognizione intuitiva" l'atto mentale con cui cogliamo con
evidenza la presenza di un fatto singolare e delle sue caratteristiche (sia esso un
oggetto esterno o uno stato interiore). Questa conoscenza è certa perché basata
sull'evidenza di ciò che mi è presente. Se però penso a qualcosa che non è
presente (come un oggetto che ho visto mezz'ora fa), ho una "cognizione
astrattiva" del singolare, che prescinde dalla sua presenza ed esistenza.
Intuizione e astrazione non differiscono per l'oggetto (anzi possono rivolgersi
anche allo stesso oggetto), tuttavia la prima lo considera nella sua presenza, la
seconda prescinde da essa. È chiaro che la cognizione astrattiva è una
conoscenza, per così dire, indiretta e di secondo livello, che può darsi solo se si è
già avuta una cognizione intuitiva diretta di un oggetto. Entrambe comunque
continuano a rivolgersi a oggetti individuali.
Tuttavia, oltre alla conoscenza astrattiva del singolare, si può avere anche una
cognizione astrattiva dell'universale. Questa si ha quando si prescinde dalla
particolarità di un oggetto singolare e si considera, in un singolo atto di pensiero,
una nozione che vale per una molteplicità di oggetti.
Prima di esaminare il nominalismo, l’altro contributo di Ockham ad una nuova
teoria della conoscenza, occorre fare alcune precisazioni circa la “nozione che
vale per una molteplicità di oggetti”, ovvero circa i concetti.
I concetti utilizzati dalla conoscenza non corrispondono esattamente alle singole
cose che l’esperienza ci consente di conoscere nel loro essere qui e ora davanti a
noi. I concetti svolgono un'operazione cognitiva molto importante in quanto
consentono di catalogare in un unico insieme una moltitudine di cose singole.
Così, ad esempio, il concetto di albero ci consente di catalogare in un unico
insieme cose diverse come una quercia o un pino.
Gran parte di questo lavoro di classificazione della realtà viene svolta dal
linguaggio che ci mette a disposizione i concetti. Se non esistesse questa
classificazione tramite il linguaggio la nostra esperienza non potrebbe avere la
continuità che la caratterizza, sarebbe frammentata in moltissimi aspetti singolari
senza cogliere l'unitarietà degli aspetti. Questa capacità del linguaggio di astrarre
dall'esperienza le caratteristiche comuni è un aspetto evolutivo del linguaggio
stesso. Esistono, infatti, culture primitive che usano tantissimi nomi per
identificare le diverse parti di un oggetto (un fiume, ad esempio) senza avere un
nome collettivo per identificare l'oggetto.
La natura di questi concetti, o nomi collettivi, è stato uno dei temi più dibattuti
della filosofia occidentali, infatti già Socrate e Platone si interrogavano su cosa
fosse un concetto o un'idea.
Nella filosofia medioevale nei dibattiti sulla natura dei concetti essi vennero
chiamati universali. Quindi nel dibattito medioevale il termine universale indica
le caratteristiche comuni di una pluralità di cose appartenenti ad un certo insieme.
Gli universali, da questo punto di vista, corrispondono all’essenza, al concetto,
all’idea, termini che appartengono a filosofi diversi ma che indicano la stessa
cosa. L'essenza è il termine utilizzato da Tommaso d'Aquino, concetto da
Socrate, idea da Platone. Aristotele li indicò invece come forma della cose.
L'universale ha, comunque indicato, come riferimento una classe di oggetti
particolari le cui caratteristiche comuni sono alla base dell'universale che li
rappresenta.
La filosofia medioevale si è chiesta che tipo di esistenza abbiano gli universali.
Ognuno di noi, da bambino, si è sentito chiedere infinite volte se avesse un
animale preferito: qualunque fosse la risposta per esempio: «l'animale che più mi
piace è l'ippopotamo»), conteneva due termini nel caso citato, "animale" e
62
"ippopotamo") universali, vale a dire riferibili a una molteplicità di individui.
Ora, la domanda a proposito di questi termini di genere ("animale") e specie
("ippopotamo"), predicabili di più enti (i singoli animali, ippopotami, ecc.), è se
ciò a cui essi rimandano siano semplicemente costruzioni mentali o, invece, vere
e proprie realtà. Il termine servitù, per esempio, è solo un espediente linguistico
utile a semplificare i nostri discorsi, permettendoci di indicare con un'unica
parola tutti gli individui che si trovano in una condizione servile, oppure indica
anche una res ("cosa") universale, la Servitù, che sta al di là delle realtà
particolari ed è l'essenza di ognuna di esse? La Servitù esiste unicamente nei
nostri pensieri, oppure è qualcosa di reale e costituisce il nucleo profondo, il
nocciolo di ogni singolo servo, il quale risulta una semplice parte di quella realtà
superiore?
A prima vista, la questione può sembrare del tutto astratta, ma le cose stanno in
maniera diversa. La tesi "realista", quella secondo cui gli individui che rientrano
sotto un medesimo universale (per esempio, i singoli servi) non hanno ciascuno
una propria essenza particolare ma ne possiedono soltanto una comune, conduce
a conferire maggiore importanza a un insieme ordinato (la comunità politica, la
Chiesa, le corporazioni delle arti e dei mestieri, ecc.) o a una classe (i signori, i
servi, i mercanti, i contadini, ecc.) che non alle sue componenti (ogni membro
della comunità, ecclesiastico, signore e così via); la tesi opposta, invece, quella
di chi pensa che non esistano essenze universali, pone l'accento sugli individui,
attribuendo realtà solo alle singole parti della totalità.
Un conto, però, è sostenere che il Comune sono i cittadini, che la Chiesa
s'identifica con l'insieme dei credenti, che lo Stato siamo noi; un altro è
riconoscere al Comune, alla Chiesa o allo Stato una realtà in sé, che va al di là
degli individui da cui sono formati. Nel primo caso, per esempio, si tenderà a
privilegiare il bene e i diritti dei singoli cives ("cittadini") o fideles ("credenti"),
mentre chi fa proprio il secondo punto di vista è naturalmente portato ad
anteporre il bene della comunità agli interessi individuali; in un caso, si
attribuirà la responsabilità giuridica per l'eventuale reato commesso da un
membro di una corporazione al singolo, nell'altro si riterrà responsabile l'intero
gruppo di cui fa parte, che verrà punito per la sua colpa. A seconda delle risposte
date al problema degli universali, dunque, variano anche le posizioni assunte in
merito a un gran numero di questioni di natura etico-politica, religiosa e
giuridica.
All'interno del dibattito filosofico sulla natura degli universali sono state
elaborate queste due posizioni dette rispettivamente realismo e nominalismo
UNIVERSALE
Ciò che hanno in comune una pluralità ' _____________________________________________________________
(l’essenza ______________________________________________ di una cosa)
Particolare
Uomo, asino, cane,
animale, _________
Universale
____________________
Concetti espressi ______________________ ci consentono di
__________________________________________
_______________________
cogliendo __________________________________
che tipo di esistenza hanno gli universali?
________________________
63
All'interno del realismo si può poi distinguere un realismo ingenuo (prevalente
fino al XII sec.) e un realismo sofisticato.
La posizione realista è caratterizzata dall'attribuzione agli universali di
un'esistenza reale, autonoma dalla mente umana. Nella forma più ingenua si
afferma che la realtà degli universali è tale per cui essi esistono prima e
indipendentemente dalle cose nella mente di Dio. Questa teoria è di derivazione
platonica; infatti, Platone aveva teorizzato l'esistenza del mondo delle idee in cui
vi sono gli universali costituiti dalle idee delle cose. I filosofi cristiani, invece,
pongono il mondo delle idee nella mente di Dio.
Il realismo ingenuo si sviluppò soprattutto nelle prime fasi della Scolastica, fin
dall'età carolingia, per via dell'influenza dominante delle teorie platoniche e
neoplatoniche. Il dibattito, tuttavia, assunse fin dall'inizio un carattere teologico:
il realismo, infatti, fu accolto come dottrina ortodossa dalla Chiesa, perché permetteva di difendere in termini razionali alcuni dogmi fondamentali, a partire da
quello del peccato originale, in quanto si presta meglio a spiegare come l'intera
umanità abbia potuto peccare in un solo uomo (Adamo).
Guglielmo di Champeaux (1070 ca.-1122) sostenne un realismo di ispirazione
teologica, che può essere considerato un'espressione caratteristica dei primi
decenni del XII secolo. La sua posizione è nota attraverso la testimonianza del
suo allievo Abelardo, poi divenuto suo fiero avversario.
Guglielmo rappresentante della forma più radicale di realismo attribuiva agli
universali una realtà sostanziale separata (la Servitù, l'Umanità, la Cavallinità),
una res dotata di esistenza autonoma, che prescinde dall'esistenza dei singoli
(servi, uomini, cavalli ecc.). Secondo tale tesi, gli individui di una stessa specie
(i diversi ippopotami) o le specie di uno stesso genere (l'ippopotamo, l'elefante e
ogni altro animale) hanno un'essenza comune e si distinguono solo per le qualità
accidentali (l'ippopotamo A è più grasso dell'ippopotamo B) o le differenze
specifiche (l'uomo differisce dagli altri animali in virtù dell'attributo della
razionalità).
La rinnovata conoscenza di Aristotele finì per soppiantare le forme di realismo
di ispirazione platonica, favorendo il «realismo sofisticato o moderato», di cui
Tommaso d'Aquino è l'espressione tipica. Per questa posizione «moderata»,
l'universale è innanzitutto concetto (in intellectu), ma a esso corrisponde
un'effettiva unità di natura nelle cose (in re), in quanto l’universale rappresenta
la forma delle cose. L'universale sussiste poi anche fuori delle cose, ma solo
come archetipo della creazione presente nella mente di Dio (ante rem) 53.
REALISMO ________________________
Universali = enti ______________________
1 - prima ________________________________
come _________________________________
2 - nelle _____________________________
come _________________________________
3 - ______________________________________ come ____________________________________
In confronto a quella realistica, la soluzione nominalistica si sviluppò soprattutto
nel periodo conclusivo della Scolastica (principalmente con Guglielmo di
Ockham), ma fu sostenuta anche in precedenza da Roscellino e soprattutto da
Abelardo (la cui concezione è tuttavia di solito definita «concettualista»). Il
termine «nominalismo», in effetti, comprende posizioni storicamente diverse,
53
Vedi pag. 53.
64
unificate essenzialmente dal rifiuto della soluzione realistica, ossia
dell'identificazione degli universali come realtà in sé.
La prima, ma anche la più rigorosa e radicale formulazione del nominalismo fu
quella di Roscellino di Compiègne (ca. 1050-1123), secondo il quale la realtà è
costituita di individui, i quali solo hanno esistenza effettiva. Gli universali non
sono res, ma solo voces, cioè parole applicabili a più individui diversi tra loro;
sarebbero cioè, secondo alcuni interpreti, flatus vocis, meri suoni senza
significato. Contro la posizione realistica, Roscellino negò la possibilità di
distinguere le proprietà dagli oggetti cui appartengono, così come la distinzione
delle parti dal tutto: il colore, per esempio, è parte integrante del corpo colorato,
come la parete è parte integrante della casa.
Abelardo ritiene invece che gli universali siano termini dotati di significato, vale
a dire che si riferiscano a qualcosa. La loro funzione significativa, tuttavia, non
consiste in un rapporto diretto fra la parola e la cosa da essa indicata, come
avviene per i termini singolari (il nome Napoleone rimanda a uno specifico
personaggio storico), bensì nella capacità di generare, in chi ascolta, un concetto
generale (ad esempio, Impero): un concetto che in quanto tale rimanda a un
insieme di enti individuali (l'impero britannico, quello di Napoleone, ecc.) considerati nei loro aspetti comuni, e non a qualcuno di loro in particolare. Chi sente
pronunciare un termine universale, quindi, si forma un'immagine, confusa, di
molte cose che condividono determinati elementi.
Abelardo osserva che, se le cose stessero come volevano i realisti, l'individuo
sarebbe solo il risultato della somma di aspetti accidentali, inessenziali (il colore
della pelle, le dimensioni e così via), tolti i quali non rimarrebbe nulla. Inoltre,
fatto ancor più paradossale, una medesima essenza (l'Animalità) potrebbe
comprendere cose fra loro contrarie (l'uomo e l'ippopotamo) e trovarsi ad avere
accidenti contraddittori (nel caso citato, la razionalità e la non-razionalità): si
verrebbe cioè a determinare una simultaneità di contrari, in contrasto con il
principio di non contraddizione
Abelardo riconosce comunque agli universali un qualche tipo di fondamento
nella realtà: secondo Abelardo, tale fondamento va ricercato nel «modo d'essere»
comune a una pluralità di individui, nell'insieme di caratteristiche che li
accomuna e li rende simili, sebbene siano e restino distinti. È nel «modo
d'essere» comune ai vari imperi succedutisi nel corso della storia, per esempio,
che Abelardo individua il motivo per cui li designiamo con un unico termine.
II significato dei termini universali non è quindi una res, un'essenza, come
pensavano i realisti, ma, appunto, uno stato di cose (status rei, "il modo in cui
stanno le cose"): una "quasi-cosa", che giustifica il ricorso all'espressione "quasirealismo" (o concettualismo) utilizzata da alcuni studiosi per definire la
posizione di Abelardo. Marco e Andrea, per citare un altro esempio, sono simili
nel loro stato umano, «convengono».(cioè "s'incontrano") in certa misura nel
fatto di essere uomini, senza che ciò implichi l'esistenza di un'essenza comune a
entrambi (l'Umanità), di una cosa universale nella quale questi due individui
separati s’incontrino
•
La teoria nominalista elaborata da Guglielmo di Ockham è considerata la più
completa e rigorosa in quanto, invece di far riferimento al " modo in cui stanno
le cose" come Abelardo, coerentemente con la sua impostazione empirista,
ricorre alla percezione empirica.
Guglielmo sostiene che gli universali sono reazioni della nostra mente di fronte
alla presenza di aspetti simili della realtà che si esprimono in segni linguistici,
cioè parole.
Noi veniamo a contatto con la realtà mediante le percezioni sensoriali che ci
consentono di conoscere i singoli aspetti, qualora questi aspetti abbiano
caratteristiche simili provocano in noi una reazione che prende esistenza quando
65
la colleghiamo a una parola che la indica. Gli universali non sono, dunque, altro
che segni o nomi elaborati dalla nostra mente la cui funzione è quella di “stare
per” un gruppo di percezioni simili. Essi indicano più oggetti della percezione
empirica e non possono essere considerati in nessun modo qualità generali
sussistenti al di fuori della nostra mente.
NOMINALISMO DI GUGLIELMO OCKHAM
Universali:
non sono____________________________________________________________________
sono ____________________________________________________________________________________________________
Vi è quindi uno stretto legame fra concetti e parole che ci consentono di
conoscere la realtà. Per analizzare questo rapporto Ockham ha elaborato uno
schema triadico (a tre termini) che è stato ripreso nel XX sec. per essere posto
alla base di tutte le scienze contemporanee che studiano queste tematiche
(linguistica, semiologia, semiotica, …).
Parole e concetti rappresentano dei segni e in quanto tali sono qualcosa che
stanno al posto di qualcos’altro, essi rimandano sempre a un referente che
costituisce il loro significato. Un termine, un segno linguistico è, quindi, un
significante che rimanda al concetto come suo significato, ma il concetto è a sua
volta un significante abbreviato e astratto il cui referente sono le singole cose
colte nell’esperienza dai sensi.
La parola può rimandare direttamente a una realtà empirica, a un oggetto: allora
essa è un nome individuale che ha come referente un singolo ente della realtà. La
parola può anche essere un nome collettivo e riferirsi a un concetto che a sua
volta rimanda alla realtà empirica descritta in termini di aspetti comuni di enti
singoli. La parola, infine, può avere se stessa come referente, o meglio il simbolo
grafico che la rappresenta.
Dunque il processo per cui si arriva a formulare un concetto è uguale a quello
per cui si arriva a formulare un segno.
referente
____________
segno
______________________
segno
_______________________
referente
Segno = ______________________________________________________________________________(referente/significato)
Una parola in quanto segno può stare al posto di:
1 - ________________________________________  “Un uomo che corre”
2 - ________________________________________  “L’uomo è una specie aggressiva”
3 - ________________________________________  “Uomo ha quattro lettere”
Il nominalismo superava la posizione dei realisti che corrisponde ad un
atteggiamento ingenuo, proponendo invece una posizione più sofisticata che non
66
corrisponde alle impressioni immediate. La contrapposizione fra posizione
ingenua e sofisticata è un criterio utilizzato dagli storici per analizzare
l’evoluzione della cultura che va da atteggiamenti spontanei ad atteggiamenti
che vedono nella realtà qualcosa di più complesso. Ad esempio, l’immagine del
mondo aristotelico che vede il sole girare intorno alla terra stessa, corrisponde
alla nostra percezione immediata, mentre la concezione copernicana non ha
un’immediata e diretta percezione sensoriale di riferimento.
Allo stesso modo un rapporto diretto fra parole, concetti e realtà corrisponde ad
un atteggiamento spontaneo e ingenuo. Infatti, lo schema triadico risulta più
sofisticato in quanto sostituisce il rapporto immediato con una serie di rapporti
mediati.
La posizione di Ockham pur essendo meno ingenua di quella dei realisti per altri
versi continua comunque a conservare atteggiamenti ingenui. Ingenuo è il suo
atteggiamento quando pensa che il rapporto tra parole e cose non sia arbitrario
bensì naturale. Una parola è un segno naturale delle cose in quanto, da un lato, le
parole possono richiamare la realtà che rappresenta il referente come il fumo
richiama il fuoco (questa spiegazione fa riferimento alle parole onomatopeiche
che hanno un riferimento fonetico con la realtà che rappresentano), dall’altro, il
processo di formazione delle parole è naturale in quanto l’uomo è naturalmente
capace di utilizzarle. Per Ockham, inoltre, il processo di formazione dei segni e
delle parole è un processo individuale e non collettivo come ritengono le
moderne scienze del linguaggio. Infatti, per Ockham il concetto è un immagine,
un riflesso delle cose che si forma spontaneamente, naturalmente nella mente
dell’individuo di fronte a esperienze simili, mentre per le scienze del linguaggio
contemporanee il concetto appare un costrutto selettivo (e non il riflesso passivo
delle cose) che trova il suo significato solo all’interno di un sistema complessivo,
la cultura, elaborato non dall’individuo e che, anzi, si impone all’individuo come
il codice che gli consente rapportarsi al mondo, di avere delle esperienze.
Conseguentemente alla posizione empiristica e nominalista, per Ockham la
conoscenza non può che essere raggiunta osservando il comportamento delle
singole cose. L'osservare porta a dedurre le regole che ne stabiliscono il
comportamento. Questa stessa idea verrà ripresa da Galileo che su di essa
fonderà la scienza moderna. L’atteggiamento di Galileo è però ancora una volta
più raffinato di quello di Ockham. Infatti, per Ockham è necessario osservare le
cose così come si presentano nella esperienza quotidiana. Per Galileo, invece,
l’osservazione è sperimentale, in quanto le condizioni in cui avviene l’esperienza
sono controllate dallo sperimentatore in modo da poter verificare le variabili che
intervengono nell’esperimento.
Inoltre, coerentemente con il suo nominalismo, Ockham pensa che, dal momento
che è la logica a stabilire le regole per costruire un discorso vero e siccome tutte
le scienze usano dei discorsi, tutte le scienze debbano subordinarsi alla logica e
seguire le sue regole. Questo atteggiamento non sarà condiviso dalla scienza
moderna, infatti i fondatori della scienza moderna riterranno che sia la
matematica ad essere alla base di tutte le scienze, in quanto consente di esprimere
in modo preciso e controllabile i dati dell’osservazione.
La caratteristica peculiare della mentalità prodotta dalla rinascita delle città è
costituita dal tentativo di rivalutare l’esperienza terrena e mondana dell’uomo.
L’opera di Ockham ha forti legami con questa nuova mentalità. Innanzitutto, così
come la borghesia cittadina ridava importanza all’esperienza terrena, egli
rivalutava l’esperienza. Infatti, separando fede e ragione Ockham non svaluta la
67
ragione, ma le attribuisce come campo d’azione la conoscenza della realtà
concreta che deve essere indagata sulla base dei principi della ragione e non sulla
base delle verità di fede.
Inoltre, il nominalismo impedisce alla ragione di ricercare al di là delle cose, e
quindi dell’esperienza, l’essenza delle cose, la loro struttura razionale in quanto
gli universali non sono altro che segni linguistici.
Anche la critica alla cultura tradizionale da parte di Ockham parte da un
presupposto tipico della mentalità concreta della borghesia urbana. Egli come
metodo utilizza il cosiddetto rasoio di Ockham che si realizza in un
atteggiamento che prevede di non utilizzare nelle spiegazioni i concetti che non
siano strettamente necessari. Questo principio ha, come l’intera teoria della
conoscenza di Ockham, una impostazione empirista e nominalista. La realtà è
costituita da ciò di cui abbiamo conoscenza immediata tramite i sensi. Il principio
del rasoio vieta l’uso di concetti che non abbiano riferimenti nella realtà
mentalità città = rivalutare esperienza ______________________
Ockham =
borghesia cittadina = ______________________________
1 - empirismo  ___________________ tramite i ___________
ci consente di conoscere ___________________
2 - ___________  ______________________________________
_______________________________________
3 il _______________________: non si devono usare ______________________________________________________
evitando _______________________________________________________________________
applicato alla metafisica di Aristotele:
a - ___________________: non ha __________________________________- perché di una cosa conosciamo solo _______
_____________________________________________________________________________
b - Causa finale: _______________________________________________________________________________________
sensibile. Il legame con la posizione nominalista è costituita dal fatto che questo
metodo vuole evitare la confusione fra linguaggio e realtà. Ockham denuncia così
la tendenza dell’uomo a trasformare deduzioni, concetti e fatti linguistici in fatti
reali (reificazione dei segni linguistici).
Ockham utilizza il principio del rasoio per effettuare una critica alla fisica e alla
metafisica di Aristotele che coincidevano con il modo tradizionale di vedere le
cose. Vengono sottoposti a critica, ad esempio, il principio della sostanza e il
concetto di causa finale.
La sostanza era intesa come il substrato che tiene unità le diverse qualità di una
cosa. Secondo Ockham, stando ai dati che ci vengono dall’esperienza, di una cosa
conosciamo unicamente le qualità e gli accidenti che la costituiscono. Ipotizzare
che esista anche la sostanza significa introdurre un concetto che non ha un
referente nella realtà e che quindi non può essere descritto positivamente ed è
inutile alla spiegazione. (La sostanza è un esempio di reificazione).
La causa finale era ammessa in quanto si riteneva che ogni oggetto avesse un
fine. Ockham osserva che non ha alcun senso pensare, ad esempio, che il fuoco
bruci in vista di un fine, dal momento che non è necessario ipotizzare un fine per
68
ottenere questo effetto. Proprio perché la causa finale non contribuisce alla
spiegazione è un concetto che deve essere abbandonato.
4 – Ruggero Bacone e la necessità di un nuovo sapere scientifico
Ancora prima che tutte le opere di Aristotele venissero tradotte in latino, il XII
secolo conosce una prima assimilazione della scienza greco-araba. Cominciavano
infatti allora a circolare testi filosofici, scientifici, medici e astronomici che
ispirarono un'analisi del mondo fisico che ci circonda in termini puramente
naturali (e non simbolici o allegorici). Come abbiamo già ricordato la Scuola di
Chartres rappresenta uno dei maggior centri in cui si affermò questo nuovo
approccio alla natura. Ad essa si deve anche l’elaborazione di una concezione
progressiva del sapere, a partire dalla profonda conoscenza e armonizzazione di
tutte le fonti letterarie, filosofiche e scientifiche disponibili, ben espresso da una
similitudine di Bernardo di Chartres: «Noi siamo come nani seduti sulle spalle dei
giganti. Vediamo più cose degli antichi e più lontane non per una maggiore
acutezza della nostra vista o per una maggiore statura, ma perché essi ci sollevano
e ci innalzano di tutta la loro gigantesca altezza».
A mettere al centro della sua riflessione la necessità di un nuovo sapere fu, nel
secolo successivo, soprattutto il francescano Ruggero Bacone (1214-1292)54. La
concezione progressiva del sapere conserva una giustificazione teologica ma al
suo interno sono comunque rintracciabili nuovi atteggiamenti.
Negli scritti composti per presentare a papa Clemente IV il grandioso progetto
enciclopedico che aveva in mente (ma non realizzò mai), Bacone individua il
fondamento di ogni sapere nella sapienza che Dio ha voluto rivelare all'umanità,
con lo scopo di mostrarle la via verso la salvezza. In questa prospettiva, il sapere
umano deve consistere in un continuo e ininterrotto approfondimento della
Scrittura, nella quale tutta la verità si trova racchiusa come «in un pugno chiuso»,
che attende di essere aperto e svelare ciò che si cela al suo interno.
Partendo da simili presupposti, Bacone polemizza vivacemente con gran parte
della cultura universitaria del suo tempo (specialmente con quella parigina, da lui
definita «la feccia dei dotti»), che a suo dire vive in una barbarie da cui è possibile
uscire solo attraverso un'opera di riedificazione del sapere e di riorganizzazione
delle università. I docenti universitari sono criticati da Bacone in particolare per
aver perso di vista l'unità di fondo del sapere e aver isolato le singole discipline,
facendone l'oggetto di uno studio specialistico: uno studio sterile, privo di
qualsiasi scopo (come i giochi dei fanciulli), poiché ogni scienza, se è separata dal
contesto di cui è parte, viene a trovarsi nella stessa condizione di un piede
amputato. In particolare Bacone contesta il fatto di aver separato l'ambito della
ricerca filosofica da quello della ricerca teologica; secondo il francescano inglese,
invece, il vero compito della filosofia è penetrare nell'infinito sapere contenuto nei
testi sacri.
Nel contempo, Bacone accusa gli intellettuali della sua epoca di ricorrere in
maniera eccessiva e ingiustificata al principio di autorità: di essere cioè inclini ad
accettare passivamente l'opinione di taluni autori di riferimento (in primis,
Aristotele), senza verificarne l'effettivo valore. A suo giudizio, ciò accade perché
essi rifiutano di riconoscere l'infinita distanza che separa ogni uomo dalla
pienezza della verità. Di fronte alla sapienza rivelata, infatti, non esistono posti
54
Per la vita e le opere vedi pag. 74.
69
"in prima fila" né monopoli: non è assolutamente lecito (anzi, è pura follia) vantare una presunta superiorità intellettuale per il fatto di richiamarsi a una dottrina o
una scuola filosofica del passato, vista come la tappa conclusiva nel cammino
verso la verità. All'arroganza e alla superbia dei maestri aristotelici, i quali
credono che il resto del genere umano non possa dare alcun contributo alla ricerca
della verità, Bacone contrappone l'idea che chiunque può arrivare a cogliere
qualche frammento di verità, purché vi si accosti con modestia e umiltà.
Assistiamo così a una forte rivalutazione del sapere dei «semplici»: «sebbene
ritenuti ignoranti — scrive frate Ruggero — costoro sanno spesso cose importanti
che restano oscure ai sapienti».
Il fatto che questi umili acquisiscano le proprie conoscenze «per via di
esperienza», cioè grazie alle competenze tecniche maturate nell'esercizio dei loro
mestieri, suggerisce a Bacone un ulteriore argomento di polemica contro la
cultura ufficiale del tempo: fra le colpe dei magistri, infatti, spicca quella di tenere
artificiosamente separate ragione ed esperienza, di proclamare la natura
esclusivamente teorico-speculativa del sapere, dissociandolo da ogni finalità
pratica. Bacone è invece convinto che una scienza è tanto più utile quanto più è
funzionale al conseguimento di risultati concreti, sia sul piano di un riordino
complessivo della società, che ne individui e ne curi i mali, sia su quello delle
innovazioni tecniche. Occorre quindi dare vita a una nuova forma di sapere,
interamente orientato a intervenire sulla realtà naturale e a manipolarla in modo
da migliorare le condizioni di vita dell'uomo: una scienza che permetta di cogliere
i segreti della natura e conferisca potere su di essa.
Nello stesso tempo, Bacone pone l'accento sull'apporto essenziale dato al sapere
da quella che egli chiama scientia experimentalis ("scienza sperimentale"). In
Bacone, ovviamente, tale espressione non ha il significato tecnico che essa
assumerà poi all'epoca di Galileo (non si riferisce, cioè, al ricorso all'esperimento
tipico della scienza moderna), bensì indica, da un lato, la necessità di prestare
grande attenzione alle applicazioni pratiche del sapere e, dall'altro, l'importanza da
assegnare all'osservazione diretta dei fenomeni: quest'ultima (per esempio, la
sensazione di bruciore provata da chi accosta una mano al fuoco) è infatti decisiva
per convincerci intimamente che le conclusioni a cui giungono le scienze basate
su dimostrazioni rigorose (come la matematica) sono davvero valide e certe.
5 – La filosofia politica
5.0
Dall'editto di Tessalonica alla Riforma protestante
5.1.0 La conquista del primato da parte della Chiesa
5.2.0 La riaffermazione dell’autonomia del potere politico
Nei mille anni trascorsi dall'editto di Tessalonica, con cui nel 380 il cristianesimo
divenne la religione ufficiale dell'impero romano, al cosiddetto Grande Scisma del
1378, che infranse per la prima volta l'unità religiosa dell’Occidente cristiano e
vide contrapporsi due papi, l'"agenda politica" fu quasi sempre dettata dalla
Chiesa e da chi ne era alla guida, ossia il papa: quest'ultimo, infatti, prese
progressivamente consapevolezza del proprio peso politico e, ben presto, si trovò
a impostare da una posizione di forza i rapporti con re e imperatori, spesso ridotti
al ruolo di comprimari.
Ripercorrere l'evoluzione del pensiero politico medievale, allora, significa in
primo luogo ricostruire le tappe che condussero all'affermazione dell'egemonia
papale sul mondo cristiano, per poi passare in rassegna le strategie adottate dai
70
detentori del potere politico al fine di riaffermare la propria indipendenza dai
vertici ecclesiastici. Questa seconda linea di sviluppo del discorso politico
medievale raggiunse il culmine nel Trecento, quando la teoria dell'assolutismo
papale venne messa in discussione con argomenti particolarmente efficaci ed
entrò in un declino che si sarebbe concluso in maniera traumatica all'inizio dell'età
moderna, con la Riforma protestante.
Lo scontro tra Papato e Impero (ricordiamo ad esempio quello tra Gregorio VII e
Enrico IV) e poi tra papato e nascenti stati nazionali (Bonifacio VIII e Filippo Il
Bello re di Francia) fu accompagnato dall’elaborazione dei presupposti teologici
che stanno alla base dell'azione politica del Papato e della sua superiorità sul
potere temporale55.
In una celebre presa di posizione ufficiale del 1075 (nota come Dictatus papae,
Pronunciamento papale) Gregorio VII giunge a formulare la tesi della «pienezza
di potere» (plenitudo potestatis) del pontefice: questi non può essere giudicato da
nessuno, mentre ha la facoltà di deporre gli imperatori, poiché spetta solo a lui
stabilire se l'eventuale malvagità di un governante autorizzi i sudditi a infrangere
il vincolo di obbedienza.
Nel XII secolo Bernardo di Chiaravalle elaborò compiutamente la concezione
ierocratica con la sua teoria delle due spade.
Secondo questa Dio aveva dato entrambi i poteri - sia quello spirituale sia quello
temporale – a Pietro e ai suoi successori, cioè i papi. I pontefici, dal canto loro,
mentre usavano personalmente la spada (= il potere) spirituale, avevano invece
delegato ai sovrani la spada temporale, cioè l'esercizio del potere politico.
Dunque, in virtù di tale mediazione ecclesiastica, Bernardo chiedeva ai monarchi
una sottomissione pressoché totale, visto che i re esercitano la sovranità solo
nella misura in cui il papa conferisce loro il diritto di far uso del potere temporale.
All’inizio del Trecento Bonifacio VIII, richiamandosi alla dottrina delle due
spade, emanò la bolla Unam Sanctam (18 novembre 1302), la più ampia e solenne
rivendicazione mai fatta da un papa della superiorità del potere spirituale.
Riprendendo le teorie di Bernardo di Chiaravalle, Bonifacio VIII sosteneva che le
spade erano sì due, quella spirituale e quella temporale, ma che Gesù le aveva
consegnate entrambe a san Pietro e ai suoi successori; l'uso di quella temporale
era effettivamente riservato ai re, ma questa veniva loro consegnata dal papa,
affinché se ne servissero secondo la volontà del papa stesso.
Il primo a scagliarsi contro la presunta «pienezza di potere» papale fu Marsilio da
Padova (1280 ca.-1343)56, il cui Defensor Pacis (Il difensore della pace, ultimato a
Parigi nel 1324) è considerato uno dei grandi classici del pensiero
politicooccidentale.
L'intento di Marsilio è quello di smascherare l'infondatezza delle pretese
assolutistiche del Papato, così da estirpare il male oscuro che, a suo giudizio, tormentava l'Italia del tempo e tentava di insinuarsi in tutti gli altri regni; il Defensor
Pacis, tuttavia, contiene alcune tesi il cui valore va ben al di là di questa funzione
polemica.
In particolare la riflessione marsiliana si fonda sull'idea che le diverse forme di
comunità politica traggano origine dal desiderio innato che qualsiasi individuo ha
55
Vedi dispensa “Dal Medioevo all’età moderna 2. L’evoluzione politica dal XIV al XVI secolo: il processo di
formazione dello stato nazionale”, pag. 8-9
56
Marsilio da Padova (1280 – 1343), maestro presso la facoltà delle arti e poi rettore dell'università di Parigi, Marsilio, con la
collaborazione dell'amico Jean de Jandun, compone nel 1324 il Difensore della Pace (Defensor pacis), un testo che suscita aspre
polemiche, costringendo l'autore a lasciare Parigi e a rifugiarsi presso la corte imperiale. In Italia, al seguito dell’Imperatore Ludovico
il Bavaro, conosce i francescani Guglielmo di Ockham e Michele da Cesena, anch’essi rifugiati alla corte dell’imperatore e
avversari del papa. In linea nella loro polemica contro la Chiesa insieme seguiranno l’imperatore nel suo ritorno in Germania.
71
di raggiungere e conservare "un'esistenza degna di essere vissuta". A detta di
Marsilio, infatti, gli uomini farebbero volentieri a meno di associarsi, ma
scoprono che non c'è altro mezzo per spingersi oltre la semplice sopravvivenza:
da soli non si va lontano. Pertanto, se è vero che ogni aggregazione politica nasce
per mettere i suoi membri in condizione di realizzare nel modo migliore le loro
potenzialità, essa rimane costantemente esposta al pericolo della rottura della pace
civile, senza la quale nessuno può conseguire l'obiettivo per cui è entrato in
comunità (cioè un livello di vita soddisfacente).
In disaccordo con la tesi della naturale socievolezza dell'uomo, Marsilio insiste
sulla presenza di tensioni e contese come tratto dominante delle società umane. La
pace, quindi, può essere garantita solo a patto di impedire che ognuno persegua
esclusivamente il proprio vantaggio a spese degli altri, come sarebbe invece
portato a fare: se non vi fossero leggi, sulla cui base giudicare gli inevitabili
conflitti fra membri della stessa comunità, e un «guardiano» incaricato di
applicarle e farle rispettare, nessuno società potrebbe sopravvivere a lungo.
A proposito delle leggi, Marsilio assume una posizione fortemente originale.
Definendole «norme per la cui osservanza viene stabilito un comando coercitivo»,
individua la loro essenza nel fatto di essere imposte con la forza da chi ne ha
l'autorità, qualunque sia il loro contenuto; la validità delle leggi umane, perciò,
non dipende dal loro uniformarsi a qualche norma di giustizia superiore (per
esempio, alla legge di natura), bensì soltanto dall'essere emanate in maniera
corretta. Ora, secondo Marsilio, la facoltà di fissare le norme che regolano la vita
di una comunità spetta all'assemblea dei cittadini (universitas civium) o alla sua
"parte preponderante" (pars valentior), chiamata a valutare le diverse proposte di
legge formulate da apposite commissioni di esperti e a decidere quali approvare.
L'idea che il potere legislativo appartenga al popolo, autentico principio cardine
del credo politico di Marsilio, discende ancora una volta dal dato da cui egli è
partito, ossia dal desiderio naturale che ogni essere umano ha di garantirsi una vita
degna di questo nome: poiché infatti, come si è detto, le società sono
indispensabili per soddisfare tale desiderio e le leggi contribuiscono in misura
decisiva a mantenere in pace (e in vita) tali società, occorre coinvolgere tutti i
membri della comunità nella scelta delle norme del vivere comune, dal momento
che ognuno è in grado di riconoscere, meglio di chiunque altro, le leggi che tutelano i suoi interessi.
Stando così le cose, le uniche leggi in vigore entro i confini di uno Stato sono
quelle stabilite dalla volontà popolare. Di per sé, invece, la legge divina non è
affatto vincolante in questo mondo, nel quale manca di forza coercitiva; non
soltanto, infatti, l'obbedienza di chi fosse costretto ad attenersi a tale legge non
gioverebbe alla sua salvezza (non essendo spontanea), ma lo stesso Cristo ha
voluto che i trasgressori dei precetti evangelici fossero puniti solo nell'altra vita,
per lasciare a tutti la possibilità di pentirsi sino all'ultimo istante della loro esistenza terrena. Ciò non esclude che ragioni politiche possano indurre lo Stato a
considerare reato la violazione di uno specifico ordine divino, ma Marsilio tiene a
precisare che esistono molti atti proibiti dalle sacre Scritture che i legislatori non
hanno ritenuto di vietare, e viceversa. Comunque sia, si tratta di decisioni che
competono solo a chi detiene l'autorità sovrana, vale a dire all'insieme dei
cittadini.
Nel sottolineare la natura rigorosamente non coercitiva dei precetti divini,
Marsilio mira a contestare qualsiasi ricorso alla forza da parte del clero, in
polemica con la pretesa del Papato di esercitare funzioni di governo temporale. A
suo giudizio, invece, il ruolo di qualunque membro della gerarchia ecclesiastica
consiste unicamente nell'insegnare quello che gli uomini devono credere, fare o
evitare per raggiungere la salvezza eterna; se poi qualcuno dei fedeli si allontana
dalla via indicata, non può essere costretto a farvi ritorno con la minaccia di una
punizione, così come un medico non ha mai il diritto di obbligare i pazienti a
seguire le sue prescrizioni .
72
Nello stesso tempo, per debellare l'indebita intromissione del papa nelle vicende
politiche della cristianità, Marsilio denuncia come essa sia in aperto contrasto con
una delle condizioni indispensabili per la sopravvivenza di qualsiasi corpo
politico: quest'ultimo, infatti, può preservare la propria tranquillità solo in
presenza di un unico governo supremo, al quale tutti i membri della comunità
attribuiscano l'autorità coercitiva necessaria ad applicare le leggi approvate dal
popolo.
Alla tesi secondo cui il pontefice avrebbe ereditato da Pietro una supremazia
indiscussa su tutte le comunità civili del mondo cristiano, dunque, Marsilio
oppone la convinzione che ciascun organismo politico può avere una sola testa,
cioè un solo centro di potere esecutivo, e che la nomina (come pure la correzione
e l'eventuale revoca) di tale esecutivo spetta esclusivamente all'assemblea dei
cittadini. Semmai, è quest'ultima — e non certo il papa — a disporre di una
«pienezza di potere» che l'autorizza a regolare ogni aspetto della vita spirituale
della comunità che possa minarne la stabilità e, quindi, compromettere il
benessere terreno dei suoi membri (come nel caso della comparsa di dissensi
dottrinali).
Vita e opere di Anselmo d’Aosta
Nato ad Aosta nel 1033, Anselmo studia nell'abbazia benedettina di Bec (Normandia) sotto la guida di Lanfranco
di Pavia (di cui però non condivide le tesi), succedendogli nel 1078 nella carica di abate. La più fervida attività
filosofica coincide con gli anni di insegnamento all'abbazia di Bec, dove Anselmo scrive le sue opere più famose e
rilevanti: il Monologion (Soliloquio) e il Proslogion (Colloquio).
Nel 1093 Anselmo diventa arcivescovo di Canterbury; per difendere l'autonomia e le prerogative della Chiesa,
entra in conflitto con la corte d'Inghilterra e viene temporaneamente costretto all'esilio in Italia, dove scrive varie
opere teologiche. Tornato a Canterbury, muore nel 1109.
Vita e opere di Pietro Abelardo
Nato a Le Pallet in Bretagna nel 1079, dopo aver studiato a Tours e a Loches, si trasferisce nel 1095 a Parigi per
seguire le lezioni di logica presso la scuola cattedrale di Nótre-Dame. Giovane brillante e straordinariamente
dotato, egli non esita a mettere in difficoltà più volte i più noti maestri dell'epoca (come Guglielmo di
Champeaux); in seguito Pietro Abelardo fonda una propria scuola attirando studenti che spesso, per seguirlo,
abbandonavano maestri più anziani. Questo era possibile perché i curricula scolastici non erano ancora
rigorosamente istituzionalizzati (come avverrà a partire dal secolo successivo, con la nascita delle università) e i
maestri più carismatici si sentivano liberi di aprire nuove scuole, anche di breve durata, le une in concorrenza con
le altre. Pienamente consapevole della propria forte personalità speculativa e appassionato dallo scontro
intellettuale, Abelardo si gettava a capofitto in provocazioni culturali: un'indiscussa intelligenza si accompagnava
(per sua stessa ammissione) a una buona dose di imprudenza e sfrontatezza, che lo ha condotto a diverse
peregrinazioni nelle più note scuole francesi dell'epoca.
Abelardo è al culmine del successo quando incontra Eloisa, una ragazza giovanissima, bella e insolitamente colta
per l'epoca, di cui diventa precettore per volere dello zio Fulberto, un canonico di Nôtre-Dame. I. due
s'innamorano, hanno un figlio e, per non creare scandalo nell'ambiente di Nôtre -Dame, si sposano segretamente.
Successivamente, Abelardo invia Eloisa al monastero dell'Argenteuil; ella accetta per amore questo doloroso
allontanamento per consentire ad Abelardo di continuare a dedicarsi a tempo pieno ai suoi impegni professionali.
Fulberto, fraintendendo questo gesto come un ripudio da parte di Abelardo, decide di punirlo e, assoldati due
uomini, fa evirare Abelardo durante il sonno.
In seguito a questi drammatici eventi Abelardo si ritira nell'abbazia di Saint-Denis, ma le sue traversie non
terminano con questa decisione. Egli continua a insegnare, dedicandosi alla teologia, ma la sua dottrina trinitaria
viene condannata in un sinodo a Soissons nel 1121. Trasferitosi nel 1123 a Troyes, fonda il Paracleto, un piccolo
monastero con una scuola. Dopo un breve periodo, durante il quale viene eletto abate del monastero di SaintGildas, nel 1133 torna a Parigi a insegnare.
A causa del suo rigoroso impiego della logica nella teologia trinitaria Abelardo guadagna consensi ma anche
parecchie critiche e sospetti. Così, nel 1139, su segnalazione di un confratello e noto teologo dell'epoca, Abelardo
viene denunciato dal cistercense Bernardo di Chiaravalle, fondatore e abate del prestigioso omonimo monastero
73
(in francese Clairvaux, una località situata nella Francia nord-orientale). Le sue opere vengono quindi condannate
durante il concilio di Sens, nel 1140 e, gli viene vietato l'insegnamento. Ritiratosi a Cluny, negli ultimi anni della
sua vita conduce una vita di rigorosa penitenza, dedicata alla preghiera, alle letture e alla scrittura; muore in
Borgogna, nel piccolo monastero di Saint-Marcel, il 21 aprile 1142.
Vita e opere di Bernardo di Chiaravalle
Nel 1098 viene fondato a Citeaux l'ordine cisterciense, che ripropone in tutto il suo rigore la regola di Benedetto:
lavoro manuale, studio e meditazione scandiscono la giornata del monaco. Qui si forma Bernardo. Di origine
nobile, egli nasce nel 1090 presso Digione, in Borgogna. Nel 1112 entra a Cîteaux, con un gruppo di parenti e
amici, e l'anno successivo prende l'abito monastico. La sua salute delicata peggiora ed egli non può compiere i più
duri lavori manuali nel monastero. L'abate di Citeaux, Stefano Harding, decide di espandere l'ordine, come era
successo con Cluny, così nel 1115 si costituisce Clairvaux (in italiano Chiaravalle) e Bernardo ne diventa abate,
sino alla morte che avverrà nel 1153. La fama di Bernardo si diffonde anche fuori della Francia: nel 1133 egli si
reca in Italia chiamato dal papa Innocenzo II, presso cui gode grande credito.
Con la nomina a papa di Eugenio III, già monaco a Clairvaux, il prestigio di Bernardo raggiunge il culmine. Nel
frattempo, Bernardo lotta non solo contro teologi e filosofi ma anche contro i movimenti eretici popolari, che
contestano la Chiesa gerarchica, i sacramenti e invitano alla povertà e alla semplicità evangelica, tra questi i catari
(letteralmente: i puri). L'altro fronte sul quale Bernardo impegna la sua azione è la crociata. Nel 1144 cade Odessa
e l'anno successivo il papa Eugenio bandisce una crociata, che sarà la seconda; nel 1146 Bernardo predica a
Vézelay a favore di essa e poi continua la sua predicazione anche nelle Fiandre. Nell'anno successivo le armate
partono, ma ben presto la spedizione fallisce, Bernardo giustifica l'insuccesso con la tesi che esso è voluto da Dio
per mettere i cristiani alla prova. Nel 1153 muore dapprima Eugenio e poi Bernardo stesso, che sarà santificato e
chiamato doctor mellifluus per la sua eloquenza. Dante né farà la figura che lo accoglie al culmine della sua ascesa
nel Paradiso.
Vita e opere di Tommaso d’Aquino
Tommaso, della famiglia dei conti d'Aquino, nasce a Roccasecca (presso Gassino) nel 1225 e riceve la sua prima
educazione al monastero benedettino di Montecassino. Nel 1243 entra nell'ordine domenicano, studia presso le
università di Napoli e Parigi, dove entra in contatto con Alberto Magno, che segue quando questi passa a insegnare
a Colonia.
Dal 1252 al 1256 Tommaso studia a Parigi per diventare dottore in teologia, e, dopo avere conseguito il titolo di
dottore in teologia, inizia l'insegnamento che mantiene fino al 1259.
In seguito è chiamato in Italia con incarichi diversi all'interno dell'ordine e presso la curia papale. A Viterbo
presumibilmente conosce il confratello Guglielmo di Moerbeke, uno studioso fiammingo che proprio in quegli
anni dà un grande contributo alla conoscenza di Aristotele traducendone direttamente le opere dal greco.
Nel 1268 Tommaso è di nuovo all'università di Parigi, dove rimane fino al 1272 e dove si impegna in varie
polemiche: contro i francescani che rifiutano il pensiero aristotelico, contro il diffondersi delle tesi, averroiste, che
rischiano di compromettere l'immagine dell'aristotelismo a causa delle interpretazioni contrastanti su alcuni punti
fondamentali con il pensiero cristiano.
Nel 1272 Tommaso è chiamato a insegnare a Napoli presso lo Studio generale dei domenicani e lì resta fino al
1274, quando, nonostante le precarie condizioni di salute, riceve dal papa l'ordine di recarsi al Concilio di Lione.
Ma, durante il viaggio, muore nell'abbazia cistercense di Fossanova, presso Terracina.
Dopo la sua morte, nel 1277 il francescano Stefano Tempier, vescovo di Parigi, condanna varie tesi aristoteliche,
per lo più di origine averroistica, alcune delle quali sono sostenute anche da Tommaso. Altre condanne dello stesso
tenore sono pronunciate a Canterbury. Ma ben presto la Chiesa riconosce la piena ortodossia delle tesi tomiste e
nel 1323 Tommaso è proclamato santo. Chiamato dapprima doctor angelicus per la sua sapienza, riceve poi
l'appellativo di doctor communis, il maestro comune a tutti i cattolici, per i quali il tomismo diventa un punto di
riferimento filosofico essenziale.
Vita e opere di Ruggero Bacone
Ruggero Bacone, (1214-1292), studia e pio insegna sia a Oxford che a Parigi. In questo periodo commenta varie
opere aristoteliche e compone scritti di medicina, alchimia, astronomia. Intorno al 1257 entra nell'ordine francescano, all'interno del quale vive non facili rapporti sia per le sue aperture all'aristotelismo sia per l'insofferenza
verso il nuovo corso impresso all'ordine su ispirazione di Bonaventura, che impone agli appartenenti di
comunicare all'esterno solo se autorizzati dai loro superiori. Una norma, quest'ultima, che dal punto di vista
baconiano appare un ostacolo alla circolazione delle conoscenze.
74
Gli interessi di Bacone si concentrano intorno a progetti di carattere scientifico-filosofico, a cui egli lavora
alacremente, convinto di avere una missione da compiere contro eretici e infedeli, allo scopo di instaurare il regno
di Dio sulla Terra attraverso gli strumenti della ragione. Da qui nasce l'idea di una grande opera, che raccolga ed
esponga in modo organico il saper del tempo allo scopo di instaurare il regno di Dio sulla terra. Tra il 1266 e il
1268, sollecitato dal nuovo pontefice Clemente IV, che ha avuto notizia delle sue iniziative filosofico-scientifiche,
Bacone elabora e invia al papa un'ampia presentazione dell'Opus maius, la grande enciclopedia del sapere da lui
progettata (e mai realizzata). Successivamente egli ne riassume il contenuto in due scritti più brevi, l'Opus minus e
l'Opus tertium, che pure invia al papa. Ma la morte di Clemente IV nel 1268 fa svanire la speranza baconiana di
dare un contributo concreto alla rigenerazione del mondo attraverso le scienze.
Negli anni successivi l'impegno di Bacone consiste soprattutto nella rielaborazione di scritti precedenti. Nel 1277,
in seguito alla condanna di alcune sue tesi sull'astrologia (nel quadro di un'offensiva delle autorità ecclesiastiche
parigine contro l'aristotelismo), Bacone è imprigionato, mentre viene imposto il divieto di diffusione dei suoi
scritti. L'ultima testimonianza sull'attività di Bacone risale al 1292, probabile anno della morte.
Vita e opere di Guglielmo d’ Ockham
Guglielmo nasce a Ockham (a sud di Londra) in un anno imprecisato tra il 1280 e il 1290. Entra nell'ordine
francescano, studia a Oxford, dove poi insegna.
Nel 1324 Guglielmo è costretto a lasciare l'Inghilterra e a trasferirsi in Francia, presso la sede papale di Avignone,
per rispondere all'accusa di eresia che gli era stata mossa da uno zelante e polemico difensore dell'ortodossia, John
Lutterell. In una documentazione inviata a papa Giovanni XXII, Lutterell aveva messo insieme molti estratti dai
commenti di Ockham, che riteneva eterodossi e dottrinalmente pericolosi. Una commissione papale, dopo aver
studiato questi documenti per alcuni anni, vi trova non solo molte tesi erronee ma anche alcune tesi eretiche. Nello
stesso periodo il papa aveva fatto inquisire ad Avignone anche altri teologi francescani per le loro tesi
radicalmente evangeliche sulla povertà (sostenevano che la vita di povertà ed elemosina dei francescani fosse
l'imitazione dello stile di vita di Gesù e degli apostoli). Uno di loro, Michele da Cesena, ministro generale
dell'ordine francescano, chiede a Guglielmo di esaminare il contenuto delle accuse del papa da un punto di vista
teologico, ne conclusero che il pontefice sia su posizioni estranee alla coerenza evangelica e in alcuni casi
addirittura in eresia. Non considerando il papa più degno di tale carica veniva meno il vincolo dell'obbedienza: la
notte del 26 maggio 1328 Guglielmo decide di fuggire da Avignone, insieme a Michele da Cesena e altri due
confratelli.
Il gruppo cerca rifugio a Pisa, dove in quel momento si trovava con la sua corte l'imperatore Ludovico il Bavaro,
allora impegnato nella polemica con il papa sui rapporti tra potere civile (imperiale) e potere ecclesiastico
(pontificio). I16 giugno 1328 Guglielmo di Ockham viene scomunicato (non per le sue idee, ma per aver lasciato
Avignone senza permesso). Inizia così una nuova fase della produzione di Ockham che, divenuto sostenitore
militante della povertà francescana e critico verso le teorie sulla "pienezza di potere" del papa, da qui in avanti si
dedicò esclusivamente a opere teologico-politiche. Guglielmo segue l'imperatore in Germania, a Monaco di
Baviera, dove muore nel 1347.
75
SCOLASTICA
Scuole monastiche
Pier Damiani (1007-1072)
Anselmo d'Aosta (1033-1109)
antidialettico
Platonismo cristiano
Bernardo di Chiaravalle (10911153)
Guglielmo di Champeaux (1070
ca.-1122)
Roscellino di Compiègne (ca. 10501123)
Pietro Abelardo (1079-1142)
Avversario della mentalità
urbana
Tommaso d’Aquino (1225-1274)
Università
Bonaventura di Bagnoregio (12171274)
Boezio di Dacia (XIII sec.)
Guglielmo di Ockham (1280 ca.1347)
Marsilio da Padova (1280 ca.-1343)
Conciliabilità
superiorità fede
Inconciliabilità
superiorità fede
Universali
Realismo ingenuo
Nominalismo
Avversario della mentalità
monastica
Aristotelismo cristiano
Filosofia Chiesa cattolica
Duns Scoto (1265-1308)
Ruggero Bacone (1214-1292)
Fede e ragione
Valorizzazione sapere pratico
Autonomia potere politico
Conciliabilità
superiorità ragione
Conciliabilità
superiorità fede
Inconciliabilità
ambiti diversi
Inconciliabilità
ambiti diversi
Inconciliabilità
ambiti diversi
Nominalismo
Inconciliabilità
ambiti diversi
Nominalismo
Realismo sofisticato
76
8 - U. ECO - SEGNI
Les paroles seules comptent.
Le reste est bavardage (Ionesco)
Supponiamo che il signor Sigma, durante un soggiorno a Parigi, cominci ad
avvertire dei disturbi alla "pancia". Ho usato un termine generico perché il signor
Sigma ha ancora una sensazione confusa. Ora fa mente locale e cerca di definire il
disturbo: bruciori di stomaco? Spasimi? Dolori viscerali? Egli cerca di dare un
nome a stimoli imprecisi: dando loro un nome li culturalizza, cioè riassume
quello che era un fenomeno naturale sotto precise rubriche " codificate ", cerca
quindi di dare a una sua esperienza personale una qualifica che la renda simile ad
altre esperienze già nominate nei libri di medicina o negli articoli di giornale.
Ora ha trovato la parola che gli sembra giusta: questa parola sta per il disturbo
che egli avverte. Visto che intende comunicare i suoi disturbi a un medico, egli sa
che potrà usare la parola (che il medico è in grado di capire) in luogo del disturbo
(che il medico non avverte e forse non ha mai avvertito in vita sua).
Chiunque sarebbe disposto a dire che questa parola, che il signor Sigma ha
individuato, sia un segno. Ma il nostro problema è più complesso.
Il signor Sigma decide di chiedere un appuntamento a un dottore. Consulta la
guida telefonica di Parigi: segni grafici precisi gli dicono chi sia medico e come
raggiungerlo.
Esce di casa, cerca con gli occhi un segnale particolare che ben conosce: entra in
un bar. Se fosse un bar italiano cercherebbe di individuare un angolino
immediatamente vicino alla cassa dove dovrebbe esserci un telefono, di colore
metallico. Siccome sa di essere in un bar francese, ha a propria disposizione altre
regole interpretative dell'ambiente: cerca l'imboccatura di una scala che scenda
nello scantinato. Lì, egli sa, in ogni bar parigino che si rispetti, ci sono le toelette e
i telefoni. L'ambiente gli si presenta quindi come un sistema di segni orientativi
che gli dicono dove potrà parlare.
Sigma scende e si trova di fronte a tre cabine piuttosto anguste. Un altro sistema
di regole gli dice come introdurre uno dei gettoni che ha in tasca (che sono
diversi, e non tutti sono adatti a quel tipo di telefono: deve quindi leggere il
gettone x come " gettone adatto al telefono di tipo y ") e finalmente un segnale
sonoro gli dice se la linea è libera: questo segnale è diverso da quello che si ode in
Italia, e quindi egli deve possedere un'altra regola per " decodificarlo " : anche quel
rumore (quel bourdonnement, come lo chiamano i francesi) sta per l'equivalente
verbale " via libera ". Ora egli ha di fronte il disco con le lettere dell'alfabeto e
i numeri: egli sa che il medico che cerca corrisponde a DAN 0019, questa
sequenza di lettere e numeri corrisponde al nome del medico, ovvero significa "
casa tal dei tali ". Ma introdurre il dito nei fori del disco e farli girare in
corrispondenza a numeri e lettere volute ha ancora un altro significato: vuol dire che
il dottore sarà avvertito del fatto che Sigma lo chiama. Sono due ordini di segni
diversi, tanto è vero che posso annotare un numero di telefono, sapere a chi
corrisponde e non chiamare mai; e posso fare un numero a caso, senza sapere a
chi corrisponde, e sapere che facendolo chiamo qualcuno.
Questo numero poi è regolato da un codice molto sottile: le lettere per esempio si
riferiscono a un quartiere particolare della città, ma ogni lettera a sua volta significa
un numero, e se chiamassi Parigi in diretta da Milano dovrei sostituire DAN con i
numeri corrispondenti, perché il mio telefono italiano ubbidisce a un altro codice.
In ogni caso Sigma fa il numero: un nuovo suono gli dice che il numero è libero.
E finalmente ode una voce: questa voce parla in francese, che non è la lingua di
Sigma. Sigma, per chiedere l'appuntamento (e anche dopo, quando spiegherà al
medico quello che si sente) deve passare da un codice all'altro, e tradurre in
francese quello che ha pensato in italiano. Ora il medico gli ha dato un
appuntamento e un indirizzo. L'indirizzo è un segno che rinvia a una posizione
77
precisa nella città, a un piano preciso in un edificio, a una porta precisa dì questo
piano; l'appuntamento si regge sulla possibilità, da parte di entrambi, di far
riferimento a un sistema di segni di uso universale, che è l'orologio.
Ci sono poi diverse operazioni che Sigma deve compiere per riconoscere un taxi
come tale, i segni che deve comunicare al tassista; c'è il modo in cui un tassista
interpreta i segnali stradali, sensi vietati, semafori, svolte a sinistra o a destra, la comparazione che deve attuare tra indirizzo ricevuto verbalmente e indirizzo scritto
su una targa stradale...; e poi ci sono le operazioni che deve compiere Sigma per
riconoscere l'ascensore nel palazzo, identificare il bottone corrispondente al piano,
premerlo per ottenere il trasferimento verticale, e infine il riconoscimento
dell'appartamento del medico in base alla targa sulla porta. Sigma deve anche
riconoscere, tra due pulsanti posti vicino alla porta, quello che corrisponde al
campanello e quello che corrisponde alla luce delle scale: essi possono essere riconoscibili in base alla forma diversa, alla posizione più o meno ravvicinata alla porta,
oppure in base a un disegno schematico che portano inciso sul tasto, campanella in
un caso, lampadina nell'altro... Insomma, Sigma deve conoscere molte regole, che
fanno corrispondere a una data forma una data funzione, o a dati segni grafici
date entità, per poter finalmente avvicinare il medico.
Finalmente è seduto davanti al medico, e tenta di spiegargli cosa ha capito quella
mattina: " J'ai mal au ventre".
Il medico capisce le parole, ma non si fida: non è sicuro cioè che Sigma abbia
indicato con le parole giuste la sensazione precisa. Fa domande, nasce uno
scambio verbale, Sigma è portato a precisare il tipo di male, la posizione. Il medico
ora palpa lo stomaco e il fegato di Sigma: alcune esperienze tattili hanno per lui un
significato che per altri non hanno, perché ha studiato su libri che spiegano
come a una certa esperienza tattile debba corrispondere una data alterazione
organica. Il medico interpreta le sensazioni che Sigma ha avuto (e che lui non
prova) e le compara alle sensazioni tattili che lui sta avendo. Se i suoi codici di
semeiotica medica sono giusti, i due ordini di sensazioni dovrebbero corrispondere.
Ma le sensazioni di Sigma arrivano al medico attraverso i suoni della lingua
francese; il medico deve stabilire se le parole che si manifestano sotto forma di
suoni sono coerenti, secondo gli usi verbali correnti, con le sensazioni di Sigma; ma
nutre il dubbio che Sigma usi parole imprecise non perché abbia sensazioni
imprecise, ma perché traduce male dall'italiano in francese. Sigma dice " ventre
", ma forse vuole dire " foie " (e d'altra parte può darsi che Sigma sia un incolto, e
che per lui anche in italiano fegato e pancia siano una certa entità indifferenziata).
Il medico ora guarda le palme delle mani di Sigma e le vede maculate irregolarmente
di rosso : " Brutto segno " – mormora - " Lei non beve un po' troppo? ". Sigma
ammette: " Come ha fatto a capirlo? ". Domanda ingenua, il medico sta interpretando dei sintomi come fossero dei segni molto eloquenti : egli sa cosa corrisponde
a una certa macchia, a un certo rigonfiamento. Però non lo sa con assoluta
esattezza: attraverso le parole di Sigma e le sue esperienze tattili e visive ha
individuato dei sintomi, e li ha definiti nei termini scientifici a cui lo ha abituato la
sintomatologia studiata all'università, ma sa anche che a sintomi uguali possono
corrispondere malattie diverse e viceversa. Deve ora passare dal sintomo alla
malattia di cui è segno, e questo è affar suo. Speriamo che non debba fare anche
una lastra, perché in tal caso dovrebbe passare da segni grafico-fotografici al sintomo
che essi rappresentano, e dal sintomo all'alterazione organica. Non lavorerebbe su un
solo sistema di convenzioni segni che, ma su più sistemi. La cosa è così difficile,
che è facilissimo che sbagli diagnosi.
Del che non ci preoccuperemo. Possiamo abbandonare Sigma al suo destino (con i
nostri migliori auguri) : se riuscirà a leggere la ricetta che il medico gli darà (cosa
non facile, perché la scrittura dei clinici pone non pochi problemi di
decifrazione), forse potrà rimettersi in sesto e godersi la sua vacanza a Parigi.
Può darsi tuttavia che Sigma sia un testardo imprevidente; e che di fronte
all'ingiunzione " O lei smette di bere o non garantisco per il suo fegato! ",
78
concluda che è molto meglio godersi la vita senza preoccuparsi per la salute, che
ridursi nelle condizioni di un malato cronico che pesa cibi e bevande col bilancino.
Sigma in tal caso opererebbe una opposizione tra Bella Vita e Salute, che non è
omologa a quella consueta tra Vita e Morte: la Vita, vissuta senza
preoccupazioni, col suo rischio permanente che è la Morte, gli apparirebbe
come la stessa faccia di un valore primario, la Spensieratezza, a cui si opporrebbero
d'altro canto Salute e Preoccupazione, entrambe apparentate alla Noia. Sigma
avrebbe dunque un suo sistema di idee (così come lo ha in politica o in estetica) che
si manifesta come una particolare organizzazione di valori o contenuti. Nella misura
in cui questi contenuti gli si manifestano sotto forma di concetti o categorie
mentali, anch'essi stanno per qualcos'altro, per le decisioni che implicano, per le
esperienze che contrassegnano. Secondo alcuni, anch'essi si manifestano nella vita
personale e interpersonale di Sigma come segni. Se sia vero, lo vedremo. Il fatto è
che molti lo pensano.
Ma per il momento quello che ci interessava rilevare era come un individuo
normale, messo di fronte a un problema così spontaneo e naturale come un comune
" mal di pancia ", fosse costretto a entrare immediatamente in un reticolo di
sistemi di segni: alcuni connessi con la possibilità di compiere operazioni
pratiche, altri più direttamente coinvolti con atteggiamenti che definiremmo "
ideologici ". Tutti, in ogni caso, fondamentali ai fini dell'interazione sociale, e a
tal punto da chiederci se i segni permettessero a Sigma di vivere in società o
se la società in cui Sigma vive e si costituisce come essere umano altro non sia
che un complesso sistema di sistemi di segni. Infine, ci sarebbe stata per Sigma
coscienza razionale del proprio dolore, possibilità di pensarlo e classificarlo, se
la società e la cultura non lo avessero umanizzato come animale capace di
elaborare e comunicare segni?
Tuttavia l'esempio a cui si è fatto ricorso potrebbe invogliare a pensare che questa
invadenza dei segni sia tipica soltanto di una civiltà industriale, si verifichi nel
cuore di una città, rutilante di luci, insegne, segnaletica stradale, suoni e segnali
di ogni tipo: come se, infine, si avessero segni solo quando c'è civiltà, nel senso
più banale del termine.
Invece Sigma vivrebbe in un universo di segni anche se fosse un contadino
isolato dal mondo. Egli percorrerebbe la campagna di prima mattina, e dalle nuvole
che si stagliano all'orizzonte saprebbe già predire il tempo che farà. Il colore
delle foglie lo rassicurerebbe sul volger della stagione, una serie di striature sul
terreno che si profila lontano sulle colline gli direbbe a quale tipo di coltivazione
quel terreno è stato addetto.
Un germoglio in un cespuglio gli segnalerebbe lo spuntare di un certo tipo di
bacche, saprebbe distinguere i funghi velenosi da quelli commestibili, il muschio
su un dato lato degli alberi, nel bosco, gli direbbe da che parte sta il nord, posto
che non lo avesse già inferito dal movimento del sole. Sprovvisto come è di
orologio, sarebbe sempre il sole a segnalargli l'ora che volge, e un filo di vento
gli direbbe tante cose che un cittadino di passaggio non saprebbe decifrare; così
come la percezione di un certo profumo (per lui che sa dove crescono certi
fiori) gli direbbe forse da che parte spira il vento.
Se fosse cacciatore, un'orma sul terreno, un ciuffo di peli lasciato su un ramo
spinoso, una qualsiasi traccia infinitesimale, gli rivelerebbero quale selvaggina è
passata di lì, e persino quando... Insomma Sigma, anche immesso nella natura,
vivrebbe in un mondo di segni.
Questi segni non sono fenomeni naturali: i fenomeni naturali in sé non dicono
niente. I fenomeni naturali " parlano " a Sigma nella misura in cui tutta una
tradizione contadina gli ha insegnato a leggerli. E dunque Sigma vive in un mondo di
segni non perché vive nella natura ma perché, anche quando è solo, vive nella
società: quella società contadina che non si sarebbe costituita e non avrebbe potuto
sopravvivere se non avesse elaborato i propri codici, i propri sistemi di
interpretazione dei dati naturali (che per ciò stesso diventavano dati culturali).
79
Naturalmente un linguista potrebbe osservare che, se incominciamo a chiamare segno
ogni artificio che permette in qualche modo una interazione tra due soggetti, e
addirittura le solitarie traduzioni che Sigma compiva nella sua mente, allora non
ci si ferma più. Ci sono degli artifici che sono segni in senso proprio, come le parole,
qualche sigla, qualche convenzione segnaletica, e c'è tutto il resto, che segno non è, e
sarà esperienza percettiva, capacità di trarre ipotesi e previsioni da esperienze, e
così via.
La proposta avrebbe l'aria di essere molto sensata; potrebbe essere confutata da
quanto si leggerà nelle pagine che seguono, ma esse non sono ancora state lette.
Sta di fatto tuttavia che due fenomeni ci inducono a pensare che l'obbiezione
linguistica sia troppo restrittiva (a parte il fatto che questa obbiezione è stata
liquidata in parte proprio da un grande linguista come Ferdinand de Saussure). Da
un lato sta il fatto che lungo tutta la storia del pensiero filosofico il concetto di
segno è stato usato in modo molto ampio, così da coprire molte delle esperienze
che abbiamo esaminato nel nostro esempio. Dall'altro sta il fatto che l'uso
comune, quello che viene registrato fedelmente dai dizionari, ci abitua ad un uso
della parola " segno " che sembra fatto apposta per accreditarne un impiego assai
generalizzato.
da U. Eco “Segno”, Mondadori
80