03 Interazioni - citrocromo P450_II

ARGOMENTO
Citocromo P450 e interazioni metaboliche
(parte II: le distanze tra la ricerca e la pratica)
Alessandro Nobili1,
Luca Pasina1,
Silvio Caccia 2
1.Laboratorio di
Neuropsichiatria Geriatrica,
[email protected]
2.Laboratorio Metabolismo
dei Farmaci, Dipartimento
di Neuroscienze,
IRFMN, Milano
Nella prima parte dell’articolo1 si è sottolineato che molte interazioni
tra farmaci sono dovute a modificazioni dei processi deputati al loro metabolismo, principalmente mediati dal sistema enzimatico del citocromo
(CYP) P450, il cui fine è di aumentare la polarità dei farmaci, inattivandoli (ma non sempre) e facilitandone l’escrezione dall’organismo. Si è anche
accennato che tali interazioni possono rappresentare una causa importante di variabilità inter- ed intra-individuale ad una determinata terapia, costituendo la base di molti casi di “mancata” o “esagerata” risposta, come
documentato da una sempre più vasta letteratura.
Proprio per questo, la ricerca farmaceutica si sforza oggi di individuare
gli enzimi responsabili della biotrasformazione di un farmaco già nelle prime fasi del suo sviluppo pre-marketing, cercando di prevedere il suo potenziale di interazione con altri farmaci. Purtroppo, i dati prodotti da questi studi non sono poi sempre direttamente trasferibili alle condizioni reali in cui il farmaco verrà utilizzato una volta entrato in commercio e soprattutto non sempre risultano sufficientemente esaustivi nel determinare
la rilevanza e la gravità clinica di una interazione, una volta che questa sia
stata identificata, né di garantirne in assoluto l’eventuale scarsa rilevanza
clinica.
Questo è particolarmente vero quando i dati provengono da:
a. studi sperimentali in animali da laboratorio: l’estrapolazione dei risultati è spesso molto difficile, se non impossibile, per differenze qualitative e quantitative tra le specie negli isoenzimi del CYP (si veda la
tabella II inclusa nella parte I dell’articolo), nei processi metabolici e
nel potenziale induttivo e inibitorio dei farmaci. Per esempio, l’idrossilazione della debrisochina è catalizzata da isoforme del CYP2D sia
nel ratto che nell’uomo (ma differenti tra le specie). In ambedue le specie questa via metabolica (nell’uomo collegata al ben noto polimorfismo genetico riguardante il CYP2D6) viene inibita dalla chinidina e
dal suo diastereisomero chinina. Comunque, la chinidina è un inibitore in vitro più potente (circa 10 volte) nell’uomo che nel ratto, mentre
l’inverso vale per la chinina. Un altro esempio viene dal fenobarbitale,
che induce prevalentemente gli enzimi della sottofamiglia CYP2B nel
ratto e quelli della sottofamiglia CYP3A nell’uomo. Nel ratto la sottofamiglia CYP3A è indotta da derivati steroidei ma non dall’antibiotico
rifampicina, mentre l’opposto avviene nell’uomo e nel coniglio.
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Il metabolismo
dei farmaci è
fortemente legato
all’interazione
tra di essi.
I dati prodotti
in fase pre-marketing
non sono sempre
trasferibili
alle condizioni reali
in cui il farmaco
verrà utilizzato.
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ARGOMENTO
b. Studi in vitro in microsomi, epatociti e altre culture cellulari: questi
studi, nonostante vengano sempre più utilizzati dall’industria farmaceutica allo scopo di accelerare la selezione e lo sviluppo di nuovi farmaci, risultano ancora oggi di limitata predittività per la situazione in
vivo nel paziente, soprattutto per quanto concerne il potenziale inducente del nuovo composto. Questo è documentato da numerosi esempi di una certa rilevanza clinica apparsi recentemente nella letteratura,
riguardanti interazioni metaboliche imprevedibili considerando il profilo e il grado di interazione di un farmaco con gli enzimi CYP in sistemi in vitro (si veda più avanti l’esempio del mibefradil). Bisogna poi
considerare che in vivo una potenziale interazione dovuta ad induzione o inibizione degli enzimi del sistema del CYP potrebbe dipendere
dalla formazione di un metabolita, e che il sistema e le condizioni utilizzate negli studi in vitro potrebbero non essere in grado di evidenziare il fenomeno.
c. Studi in volontari “sani”: anche questi studi non sono sempre direttamente trasferibili alle condizioni reali in cui il farmaco viene utilizzato
e soprattutto non risultano sufficientemente esaustivi nel determinare
la rilevanza e la gravità clinica di una interazione, né di documentare
in maniera definitiva la sua eventuale rilevanza clinica. Questo è vero
soprattutto se il “nuovo” farmaco ha indicazioni per patologie comuni
nei soggetti anziani, nei pazienti con insufficienza d’organo o in malati in politerapia. In questi casi, pur avendo definito sulla base di questi
studi un determinato grado di rischio (basso, moderato o elevato che
sia), le evidenze della pratica clinica potrebbero contraddire, sia in termini di incidenza sia di rilevanza clinica, quanto documentato in ambito sperimentale. In questo contesto, il significato clinico di molte potenziali interazioni riportate nelle “liste tecniche” di libri, di schede informative o di database elettronici rimane aleatorio, non avendo generalmente avuto riscontro nel paziente, o al limite, sono state riportate
in “case report”, che necessiterebbero di studi di conferma.
Le evidenze
della pratica clinica
potrebbero contraddire
quanto documentato
in ambito sperimentale.
DALLA RICERCA ALLA PRATICA
Degli esempi aiuteranno a capire il difficile connubio tra evidenze spe- Dalla ricerca
rimentali e rilevanza clinica.
alla pratica: il difficile
1. Il caso del mibefradil
connubio tra evidenze
Il primo è il caso del mibefradil2, un calcioantagonista presentato come sperimentali e rilevanza
“innovativo” che, per le promettenti caratteristiche farmacologiche e l’“ele- clinica.
vata” tollerabilità, aveva creato nei medici, anche in seguito ad un’imponente campagna promozionale, numerose aspettative. Due anni dopo la
sua immissione in commercio, la casa farmaceutica ne annunciava il ritiro
in seguito alle numerose segnalazioni di gravi rischi di interazioni con farmaci di uso comune. Il motivo? Gli studi pre-marketing non avevano evidenziato tali rischi?
In realtà, la farmacologia e la farmacocinetica del mibefradil erano state
ampiamente studiate. Il metabolismo era stato caratterizzato, come pure
era stato valutato il potenziale di interazione con altri substrati del CYP3A4
(digossina, antiaritmici, simvastatina e lovastatina, antidepressivi triciclici,
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A. Nobili et al.: Citocromo P450 e interazioni metaboliche (parte II)
terfenadina, ciclosporina, per citarne solo alcuni). Sfortunatamente gli studi di interazione erano stati condotti in condizioni “sperimentali” e in pazienti “troppo” accuratamente selezionati e monitorati per essere rappresentativi delle situazioni e delle popolazioni in cui il farmaco sarebbe poi
stato impiego nella pratica clinica di tutti i giorni. Infatti, proprio i pazienti più complessi (anziani, pazienti con insufficienza cardiaca, polipatologie
o in politerapia), esclusi dagli studi iniziali, presentarono le interazioni e
gli effetti collaterali più gravi (aritmie, torsione di punta, rabdomiolisi e
grave nefrotossicità) quando il farmaco veniva somministrato in associazione ad altri substrati del CYP3A4.
Quindi pur essendo già noti, sul piano teorico i farmaci potenzialmente a rischio di interazione, la mancanza di “rappresentatività” degli studi e
delle popolazioni/pazienti testate aveva portato a sottostimare la frequenza e la gravità di questi eventi in contesti numericamente molto maggiori
di quelli sino ad allora studiati. È un dato di fatto che anche le sperimentazioni cliniche condotte per valutare l’efficacia del mibefradil per il trattamento dell’ipertensione e dell’angina pectoris avevano documentato una
buona tollerabilità del farmaco senza evidenziare, date le caratteristiche dei
pazienti inclusi, l’entità epidemiologica e la rilevanza clinica delle potenziali interazioni.
L’eccessiva selezione
dei pazienti,
in condizioni
sperimentali, fa sì
che questi non siano
rappresentativi
delle situazioni
e delle popolazioni
in cui il farmaco
viene poi impiegato.
2. Il clopidogrel e le statine
Il secondo esempio si riferisce agli effetti di alcune statine sulla capacità
del clopidogrel di inibire l’aggregazione piastrinica, aumentando il rischio
trombotico. Il clopidogrel è un pro-farmaco inattivo che, per esercitare la
sua attività antiaggregante, deve venir convertito tramite una reazione
CYP3A4- dipendente in un metabolita attivo.
Nel corso del 2003 venne pubblicato, su una importante rivista di cardiologia, uno studio3 che metteva in allerta i medici sul potenziale rischio
di interazioni tra clopidogrel e statine. In questo studio 44 pazienti sottoposti a impianto di stent coronarico e trattati con clopidogrel o clopidogrel
+ pravastatina o atorvastatina venivano confrontati con 27 volontari trattati con clopidogrel e/o eritromicina o troleandomicina (noti inibitori del
CYP3A4) o rifampina (noto induttore del CYP3A4), relativamente all’attività di aggregazione piastrinica del clopidogrel. I risultati dimostravano che
l’atorvastatina (anch’esso substrato del CYP3A4), ma non la pravastatina
(metabolizzata da altri enzimi), riduceva l’attività antipiastrinica del clopidogrel in maniera dose-dipendente e con un meccanismo di inibizione
competitiva. Gli autori suggerivano di non associare al clopidogrel statine
metabolizzate dal CYP3A4.
Nell’editoriale che accompagnava l’articolo4, l’autore, pur concordando
con le conclusioni dello studio, sottolineava che non esistevano ancora sufficienti “evidenze cliniche” per modificare l’atteggiamento prescrittivo, o
per sospendere l’atorvastatina nei soggetti in trattamento combinato con il
clopidogrel. Successivamente, uno studio tedesco5 confermava che l’atorvastatina e la simvastatina potevano interferire con l’attività antipiastrinica
del clopidogrel.
Partendo da queste evidenze, i ricercatori dello studio CREDO
R&P 2 0 0 5 ; 2 1 : 1 1 - 2 3
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ARGOMENTO
(Clopidogrel for the Reduction of Events During Observation)6 analizzarono
retrospettivamente i dati del loro trial clinico, su oltre 2000 pazienti trattati
con clopidogrel, al fine di valutare se l’associazione con statine potesse aumentare il rischio di mortalità, di eventi cardiovascolari maggiori o di sanguinamenti, per gli effetti di blocco/riduzione dell’attivita antiaggregante
indotti dall’associazione con statine. Per nessuno degli end-point analizzati fu rilevata una differenza statisticamente significativa tra i soggetti trattati
con clopidogrel e statine metabolizzate dal CYP3A4 e quelli trattati con
clopidogrel e statine non metabolizzate dal CYP3A4. Questi dati vennero
in seguito confermati dallo studio ICONS (Improving Cardiovascular
Outcomes in Nova Scotia)7 che, su 1537 pazienti sottoposti ad angioplastica percutanea, non riscontrarono nessuna differenza statisticamente significativa nell’incidenza di eventi cardiovascolari maggiori a 30 e 180 giorni
tra i pazienti trattati con solo clopidogrel o con clopidogrel e statine.
Nonostante queste evidenze, la questione relativa all’associazione clopidogrel e statine, come discusso dall’editoriale di Schafer8, non è del tutto
chiusa. Infatti, sebbene non esistano ad oggi evidenze cliniche che controindichino l’associazione di clopidogrel con statine metabolizzate dal
CYP3A4, è auspicabile da parte dei medici una certa cautela ed un più attento monitoraggio quando questi farmaci debbano essere utilizzati nei
pazienti a rischio più elevato di interazioni.
La questione
dell’associazione
clopidogrel e statine
non è del tutto chiusa:
nei medici
è necessaria cautela
quando questi farmaci
siano utilizzati
da pazienti a rischio
di interazioni.
3. Acido acetilsalicilico e FANS
Un terzo esempio è quello dell’interazione “negativa” tra acido acetilsalicilico (ASA) e farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) ed in particolare dell’ibuprofene. In uno studio su “volontari sani” pubblicato sul
New England Medical Journal 9 veniva dimostrato sul piano farmacologico
che la somministrazione di ibuprofene prima dell’ASA determinava una riduzione dei livelli serici di trombossano B2 (indice di attività della cicloossigenasi 1 nelle piastrine) e dell’azione antiaggregante piastrinica indotta dall’ASA. Questo effetto non compariva se l’ASA era somministrato prima dell’ibuprofene o se l’ASA veniva associato ad altri FANS come diclofenac e rofecoxib o al paracetamolo (utilizzato come controllo). Il meccanismo farmacologico di questa interazione veniva spiegato con il fatto che i
siti di legame di ASA e FANS all’enzima ciclossogenasi 1 delle piastrine sono molto vicini tra loro e che l’effetto sull’attività aggregante piastrinica da
parte dell’ASA è irreversibile mentre quello dei FANS sarebbe transitorio.
Quindi se la somministrazione di ASA prima di un FANS, bloccando irreversibilmente i siti di legame, manterrebbe inalterata la sua azione antiaggreante, mentre la somministrazione di ibuprofene prima dell’ASA, occupando il sito catalitico, impedirebbe all’ASA di trovare accesso sul suo specifico target e non garantirebbe un effetto antiaggregante duraturo, in
quanto l’azione di inibizione del trombossano da parte dell’ibuprofene è
reversibile.
La successiva pubblicazione di due studi clinico-epidemiologici 10,11, in
cui veniva documentato sul piano clinico una riduzione dell’effetto cardioprotettivo dell’ASA quando associato all’uso di FANS, aveva portato alcuni
“esperti” a raccomandare che si evitasse la contemporanea somministraR&P 2 0 0 5 ; 2 1 : 1 1 - 2 3
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A. Nobili et al.: Citocromo P450 e interazioni metaboliche (parte II)
zione di questi farmaci12. La questione è diventata ulteriormente più complicata e controversa a seguito della pubblicazione di altri studi clinici13-16
in cui venivano riportati dati contrastanti. Quindi, sebbene l’esistenza di
una interazione farmacodinamica negativa sia biologicamente e farmacologicamente plausibile sulla base dei dati farmacologici17, non è a tuttoggi
documentabile o parimenti sostenibile un suo effetto clinicamente rilevante in termini di outcome per il paziente. In un interessante editoriale18, cercando di estrapolare dalle diverse evidenze indicazioni per la pratica clinica, gli autori concludevano che, sebbene la questione sia meritevole di ulteriori studi e approfondimenti, nei pazienti che devono assumere terapia
con ASA per la prevenzione del rischio cardiovascolare, in caso di necessità di avviare una terapia analgesica, sarebbe più prudente utilizzare paracetamolo, evitando di utilizzare l’ibuprofene. Le questioni aperte sono ancora molte e si riferiscono in particolare ad alcuni limiti degli studi citati (in
particolare la presenza di fattori di confondimento, le dosi dei FANS, la durata del trattamento, l’impiego di FANS da banco, il differente profilo di rischio cardiovascolare e di comorbilità dei pazienti) e al fatto che rimane da
chiarire quale sia l’effetto dei FANS, in assenza di terapia con ASA o in associazione, sul rischio cardiovascolare e se alcuni FANS, come l’buprofene,
interferiscano maggiormente rispetto ad altri con l’effetto cardioprotettivo
dell’ASA.
Questi esempi testimoniano, attraverso percorsi diversi, le difficoltà di
conciliare, integrare e trasferire nella pratica clinica quotidiana le evidenze
“farmacologiche”. Queste difficoltà risultano tanto più marcate quanto
maggiori sono le differenze tra i pazienti studiati in contesti “sperimentali” e quelli che ogni giorno si incontrano nell’ambulatorio del medico di
medicina generale, nel reparto ospedaliero o in istituzioni geriatriche.
Quindi, se a tutt’oggi non è possibile disporre in assoluto di un metodo
sicuro e preciso per identificare tra i numerosi “segnali” di potenziali interazioni solo quelli importanti sul piano clinico, il medico deve comunque
orientarsi e decidere sulle evidenze disponibili, tenendo ben presenti le categorie di pazienti e di farmaci a maggior rischio di interazioni19 e senza
mai perdere di vista, al momento di prescrivere un (nuovo) farmaco, le sue
indicazioni e il suo profilo di benefico/rischio.
In questo contesto, non va trascurata l’importanza della “letteratura del
sospetto” che con i suoi “case reports” e la sua estrema variabilità/rappresentatività epidemiologica può, attraverso l’osservazione e l’analisi della
pratica clinica, consentire di generare ipotesi, che andranno poi validate.
Inoltre, attraverso studi di monitoraggio e di outcome, che descrivano i
percorsi e le scelte operate dal medico in situazioni/pazienti a rischio, in
cui si “impone” per “necessità” o per assenza di alternative, la scelta di associare farmaci potenzialmente a rischio di interazioni, si potrebbe creare
una sorta di “epidemiologia dei comportamenti” che consentirebbe di ottenere informazioni e indicazioni sulle strategie più opportune da mettere
in atto in queste situazioni critiche e orfane di ricerca.
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Risulta spesso difficile
conciliare la pratica
clinica quotidiana
con le evidenze
farmacologiche.
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ARGOMENTO
EPIDEMIOLOGIA DELLA RILEVANZA CLINICA
Nonostante i problemi sollevati nel precedente paragrafo rispetto alle
difficoltà di far coincidere le evidenze sperimentali con quelle pratiche, in
modo da poter indicare modalità di comportamento, è opportuno ribadire che il problema delle interazioni tra farmaci non deve essere sottovalutato o considerato luogo di ricerca per soli esperti. Diversi studi epidemiologici ne hanno documentato, e ne documentano, l’importanza e il potenziale impatto in termini di salute e di costi sanitari.
È il caso dello studio di Juurlink20 pubblicato su JAMA, in cui, in una
popolazione di oltre 1,5 milioni di anziani di età > 65 anni, veniva valutato il rischio di ricovero in ospedale per una reazione avversa da farmaci, indotta da una interazione. Lo studio è stato condotto utilizzando la metodologia caso-controllo. Nel periodo gennaio 1994-dicembre 2000, nella
provincia dell’Ontario (Canada), che conta una popolazione di circa 12
milioni di abitanti di cui 1,5 milioni di età > 65 anni, a partire dai dati di
ricovero del Canadian Institute for Health Information Discharge Abstract
Database, sono stati selezionati tutti i pazienti di età > 65 anni ricoverati
durante il periodo di studio per uno dei seguenti motivi: 1. ipoglicemia
in pazienti affetti da diabete mellito in trattamento con un antidiabetico
orale (gliburide), 2. tossicità da digossina in pazienti in trattamento con
digossina, e 3. iperpotassiemia in pazienti in trattamento con ACE-inibitori. Tutti e tre i suddetti motivi di ricovero possono essere secondari ad
una interazione tra farmaci. Nel primo caso per aggiunta di cotrimossazolo che, inibendo l’azione del citocromo CYP2C9, riduce il metabolismo
della gliburide provocando ipoglicemia; nel secondo, per aggiunta di claritromicina che, inibendo la glicoproteina-P, aumenta i livelli plasmatici di
digossina e gli effetti tossici; ed infine, nel terzo, per aggiunta di un diuretico risparmiatore di potassio. Per ognuno dei casi selezionati sono stati reclutati 50 controlli (anch’essi pazienti ricoverati per gli stessi motivi dei casi, tranne il fatto di aver assunto le associazioni di farmaci a rischio di interazione) e sono stati “accoppiati” ad ogni caso per età, sesso, durata di
esposizione al trattamento basale (gliburide, digossina, Ace-inibitori).
Invece delle associazioni dei 3 farmaci a rischio di interazioni (cotrimossazolo, claritromicina e diuretici risparmiatori di potassio) sono stati scelti
per i controlli tre farmaci (amoxicillina, cefuroxime e indapamide) che non
interagiscono con le terapie basali. Tutte le informazioni relative all’esposizione ai farmaci sono state raccolte dall’Ontario Drug Benefit Program, in
cui vengono registrate tutte le prescrizioni dispensate nella provincia canadese ai pazienti anziani.
Durante i 7 anni di studio, sono stati reclutati rispettivamente: 909 casi
e 43.766 controlli di ricoveri per ipoglicemia ed esposizione a gliburide,
1051 casi e 51.896 controlli di ospedalizzazioni per tossicità da digossina
in pazienti trattati con digossina, e 523 casi e 25.807 controlli di pazienti
ospedalizzati per iperpotassiemia in pazienti trattati con ACE-inibitori.
Confrontando il rischio di ospedalizzazione tra i pazienti che nei tre gruppi assumevano l’associazione a rischio di interazione (gliburide + cotrimossazolo, digossina + claritromicina e ACE-inibitore + diuretico risparmiatore di potassio) con quelli esposti all’associazione non a rischio di inR&P 2 0 0 5 ; 2 1 : 1 1 - 2 3
Sebbene sia difficile
conciliare le evidenze
sperimentali e quelle
pratiche, l’interazione
tra farmaci è un’area
di cruciale importanza,
da non sottovalutare.
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A. Nobili et al.: Citocromo P450 e interazioni metaboliche (parte II)
terazioni (gliburide + amoxicillina, digossina + cefuroxime e ACE-inibitore
+ indapamide), il rischio di essere ospedalizzato per l’evento avverso indice è risultato rispettivamente 6, 12 e 20 volte più probabile nel gruppo di
pazienti trattati con un’associazione a rischio. Nessun aumento del rischio
di ricoveri per i suddetti eventi è emerso invece con le associazioni senza rischio di interazioni. Tutte le stime di rischio sono state corrette per eventuali fattori confondenti quali diagnosi concomitanti, numero e tipo di altri farmaci eventualmente assunti e numero di ricoveri precedenti la data
indice. Questo studio dimostra l’indubbia rilevanza clinica di alcune interazioni correlate all’uso di farmaci molto comuni, in popolazioni di pazienti particolarmente a rischio, come gli anziani. Inoltre, partendo da una
ipotesi ben definita (la valutazione del rischio di ospedalizzazione in seguito ad eventi avversi farmaco-correlati) documenta come sia possibile
poter “evitare” una quota importante di eventi avversi e di ricoveri, semplicemente non associando tra loro farmaci che possono interagire negativamente, quando sono disponibili valide alternative terapeutiche.
Un ulteriore esempio di come le interazioni tra farmaci possano costituire la frazione di rischio “epidemiologicamente” più importante per
quanto concerne lo sviluppo di reazioni avverse da farmaci è lo studio21 sul
rischio di miopatie e rabdomiolisi da statine. Dai risultati di questa review
risulta, infatti, che la popolazione di pazienti in trattamento con statine costituisce una popolazione a rischio di interazioni proprio per la maggiore
probabilità che questi pazienti hanno di assumere altri farmaci per la comorbilità e il rischio cardiovascolare. Analizzando i dati della letteratura, gli
autori concludono che, sebbene in generale l’incidenza di miopatie e rabdomiolisi sia piuttosto bassa nei pazienti in monoterapia con statine (intorno allo 0,15%), questa salirebbe al 2%, 5% e 28% nei pazienti che ricevono contemporaneamente niacina, niacina e ciclosporina, o ciclosporina
e gemfibrozil, rispettivamente. L’incidenza di miopatie sarebbe inoltre dose-correlata e aumenterebbe quando le statine sono somministrate in combinazione con farmaci che condividono la stessa via metabolica. Di particolare interesse per il medico sono soprattutto le interazioni che si manifestano quando si associano le statine ad altri ipolipemizzanti come i fibrati
e l’acido nicotinico, o con farmaci immunosoppressori come la ciclosporina. In queste situazioni il medico dovrebbe monitorare attentamente il paziente per minimizzare il rischio di eventi avversi clinicamente significativi.
Quindi al di là dei numeri più o meno variabili19, nelle diverse casistiche e nei diversi setting in cui i pazienti vengono trattati con associazioni
di farmaci, i fattori che ogni medico dovrebbe tenere sempre presenti nel
valutare la rilevanza clinica di una interazione si riferiscono:
ai farmaci che vengono associati (dosi e modalità di somministrazione,
durata della terapia, proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche, intervallo con cui i diversi farmaci vengono somministrati);
alle caratteristiche del paziente (età, stato di salute generale, presenza di
polipatologie, assunzione di altre terapie non note o non segnalate dal
malato al medico – per esempio assunzione di farmaci da banco, prodotti a base di erbe, o quant’altro –, problemi di compliance e predisposizione individuale);
R&P 2 0 0 5 ; 2 1 : 1 1 - 2 3
Farmaci associati,
caratteristiche
del paziente e setting
della prescrizione sono
tra i fattori che ogni
medico dovrebbe tenere
sempre presenti
nella valutazione
di una interazione.
17
ARGOMENTO
al setting in cui vengono prescritti i farmaci (ambulatori, ospedali, istitutuzione geriatriche);
ai criteri più o meno espliciti che vengono impiegati per la definizione
e la classificazione del tipo e della gravità delle interazioni;
alla capacità del medico di “pensare” e/o riconoscere e diagnosticare
quale evento clinico possa essere l’effetto di una interazione tra farmaci.
A tutt’oggi non è stato
definito un database,
validato e condiviso,
delle interazioni
rilevanti tra farmaci.
Un ulteriore aspetto da non sottovalutare è la fonte impiegata per valutare/verificare l’esistenza di una interazione (scheda tecnica del farmaco,
testi specifica, database, letteratura scientifica, ecc.). Non si è a tutt’oggi definito in maniera univoca un elenco o un database delle interazioni tra farmaci di significato clinico rilevante, validato e condiviso dalla comunità
scientifica, a cui fare riferimento per studiare, in maniera comparativa, la
prevalenza e l’incidenza del fenomeno. Quindi i diversi autori sono costretti a fare riferimento ad elenchi o database spesso differenti tra loro, soprattutto per quanto concerne i criteri di valutazione/definizione della gravità e della rilevanza clinica di un evento secondario ad una interazione (tabella I). In ognuno di questi casi vi è il rischio di imbattersi in un forte “rumore di fondo” che spesso ha come risultato principale quello di allontanare il medico dal problema o di non supportarlo sufficientemente con indicazioni per un comportamento clinico adeguato.
Le stesse riviste per il medico tendono a “trascurare” il problema, come
indicato da un’analisi della letteratura eseguita per valutare il numero di
articoli relativi alle interazioni tra farmaci pubblicati su riviste scientifiche
internazionali nel periodo 1998-2003. Confrontando il numero di articoli
sulle interazioni tra farmaci pubblicati su alcune delle più importanti e
diffuse riviste mediche (British Medical Journal, New England Journal of
Medicine, The Lancet, JAMA, Annals of Internal Medicine, Family Practice)
con quello di alcune delle più comuni riviste di indirizzo prettamente far-
Tabella I. Esempi di interazioni riportate o assenti a seconda della fonte di informazione utilizzata.
Interazioni
DIF
Micro
medex
DTSS
Medical
letter
PDR
Rx
Triage
DIC
SOAP
Carbamazepina-fluoxetina
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Itraconazolo-rifampin
No
Sì
No
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Cisapride-cimetidina
Sì
Sì
Sì
No
No
No
No
Sì
Lovastatina-ciclosporina
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Sì
Terfenadine-eritromicina
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
Fluconazolo-fenitoina
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Warfarin-omeprazolo
Sì
Sì
Sì
Sì
Sì
No
Sì
Sì
Modificata da Poirier TI, 1995 22.
DIF = Drug Interaction Facts; DTSS = Drug Therapy Screening System; PDR = Physician Desk reference.
R&P 2 0 0 5 ; 2 1 : 1 1 - 2 3
18
A. Nobili et al.: Citocromo P450 e interazioni metaboliche (parte II)
macologico (Drugs, Drugs Export and Clinical Research, British Journal of
Clinical Pharmacology, European Journal of Clinical Pharmacology,
International Journal of Clinical Pharmacology and Therapeutics e Clinical
Pharmacology and Therapeutics), si evidenzia la discrepanza tra i due contesti: 0,4% verso 13% del totale degli articoli pubblicati rispettivamente nei
due gruppi di riviste (tabella II). Questi dati confermano un trend già osservato in una precedente indagine condotta nel 1986 sulle stesse riviste23.
È chiaro allora come vi sia una oggettiva difficoltà, probabilmente anche
correlata al problema della (poca-scarsa) rilevanza clinica, nel far giungere
al medico questo tipo di informazione, soprattutto se prettamente di tipo
farmacologico, poco innovativa e più orientata a creare “sospetti” che a
produrre evidenze, a mettere in guardia più che a documentare o a indicare
approcci e percorsi gestionali al problema.
Anche l’informazione
al medico, più che
produrre evidenze
e documentare,
crea sospetti.
CONCLUSIONI
Da quanto discusso nelle due parti di questo intervento, risulta piuttosto
evidente che il gap tra evidenze pre-marketing e rilevanza pratica è ancora
marcato, soprattutto per la mancanza di studi realmente rappresentativi
delle/dei popolazioni/pazienti più a rischio.
La mancanza di un approccio comune, le diverse finalità/necessità delle/dei varie/i realtà/operatori coinvolti e la difficoltà ad uscire dal contesto
delle evidenze fondate su dati relativi ad interazioni “potenziali”, sia sul
Tabella II. Percentuale di articoli dedicati alle interazioni tra farmaci
su un campione di riviste cliniche e farmacologiche nel periodo 1998-2003.
Riviste cliniche
N° totale articoli
N° articoli interazioni (%)
BMJ
15.800
24 (0,2)
The Lancet
14.320
72 (0,5)
JAMA
7635
34 (0,4)
Annals of Internal Medicine
3076
18 (0,6)
New England Journal of Medicine
7272
40 (0,6)
Family Practice
Totale
641
1 (0,2)
48.744
189 (0,4)
948
66 (7,0)
Riviste farmacologiche
Drugs
Drugs Exp Clinical Research
198
5 (2,5)
British J Clinical Pharmacology
1117
177 (15,8)
European J Clinical Pharmacol
820
121 (14,7)
Int J Clinical Pharmacol Ther
517
58 (11,2)
Clinical Pharmacol Ther
829
142 (17,1)
4429
569 (12,8)
Totale
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ARGOMENTO
piano della ricerca sia su quello normativo-regolatorio, se aggiunte al problema della difficile “integrazione/trasferimento” dei dati sperimentali e
clinici, testimoniano come siano ancora lontane soluzioni praticabili per
trovare approcci comuni e integrati che consentano di produrre evidenze facilmente trasferibili e spendibili nella pratica clinica. La questione di fondo, “quali sono la frequenza e la gravità clinica di una interazione, identificata o descritta in ambito sperimentale?”, rimane il più delle volte senza
una risposta (e si potrebbe dire rischia di venire ignorata in ambito clinico),
come del resto l’altro quesito: “quale deve essere il comportamento del medico nella gestione di situazioni potenzialmente a rischio in cui è necessario associare farmaci che possono interagire tra loro?” (è un buon esempio
il caso dei FANS e dell’ASA in relazione al rischio cardiovascolare).
Questo non significa che per le menzionate difficoltà il medico, il farmacista e gli operatori sanitari che si trovano a dover comunque prendere
decisioni (se, quando e con quali rischi associare o meno farmaci potenzialmente a rischio di interazioni) debbano o sottovalutare il problema,
nella convinzione che comunque nella maggior parte dei casi non si verificano eventi importanti o, tanto meno, avere un atteggiamento eccessivamente allarmistico e restrittivo, privando i loro pazienti di farmaci importanti sul piano terapeutico, per il solo fatto che sul foglietto illustrativo o
dai risultati di uno studio farmacologico è stato riportato che quel farmaco
potrebbe interagire con uno di quelli che il paziente sta già assumendo.
In assenza di dati certi, è allora necessario considerare con attenzione le
situazioni e i pazienti più a rischio, cercando di trasferire le evidenze disponibili sul singolo paziente, a cui si deve somministrare una terapia. In
particolare, si dovranno valutare le loro caratteristiche epidemiologiche e
cliniche, la presenza di specifici fattori di rischio, il dosaggio impiegato per
ogni farmaco, le modalità di somministrazione, l’indice terapeutico dei
singoli farmaci, la durata della terapia, l’esistenza di segnalazioni di eventuali effetti indesiderati documentati clinicamente e attribuibili ad interazioni tra i farmaci cosomministrati. Si dovrà inoltre informare il paziente
sui benefici e sui rischi dei farmaci che dovrà assumere, con particolare attenzione nel fornirgli quei consigli che, in caso di comparsa di eventi indesiderati o situazioni anomale, lo inducano a contattare il medico. Inoltre,
nelle situazioni di rischio più elevato, si dovrà porre in atto un attento monitoraggio di ciò che accade nei giorni successivi all’inizio di un nuovo trattamento per cogliere con l’aiuto del paziente eventuali effetti indesiderati
attribuibili ad interazioni tra i farmaci che quel soggetto assume.
A questo proposito, un interessante articolo di Bergk 24 propone un algoritmo che, tenendo in considerazione i fattori di rischio del paziente
(età, sesso, patologie preesistenti, numero di farmaci assunti, stili di vita e
caratteristiche genetiche), il tipo e la gravità della potenziale interazione, il
tipo di reazione avversa e il rapporto di beneficio/rischio che ne potrebbe
derivare in funzione dell’esistenza di possibili alternative o sulla possibilità di intervenire (sui dosaggi, sulle modalità di somministrazione, sulla durata dei trattamenti e sulla possibilità di monitorare parametri clinici e biologici che consentano di prevenire la comparsa di un evento avverso), fornisce al medico una chiave di valutazione patient-oriented del problema.
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In assenza di dati certi,
è necessaria cautela
e attenzione verso
le situazioni e i pazienti
più a rischio.
È importante, inoltre,
informare il paziente
sui benefici e sui rischi
dei farmaci che dovrà
assumere.
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A. Nobili et al.: Citocromo P450 e interazioni metaboliche (parte II)
Utilizzando l’algoritmo, gli autori hanno dimostrato che, rispetto ad una
valutazione teorica del potenziale rischio di interazioni pari al 7,5% di
13.672 associazioni di farmaci, ottenuta attraverso la consultazione di un
database delle interazioni tra i più affidabili, 631 (4,6%), potrebbero portare il paziente a sviluppare eventi avversi di entità grave o moderata, mentre, solo in 74 casi (lo 0,5% delle associazioni), non vi sarebbero possibilità di intervenire sul piano clinico-terapeutico per evitare gli effetti indesiderati. L’importanza di sviluppare simili algoritmi viene enfatizzata nella discussione in cui gli autori ribadiscono che se da un lato i database ad oggi
disponibili sono efficienti nell’indicare il rischio “teorico” di reazioni avverse secondarie ad interazioni tra farmaci, sono spesso sottoutilizzati dai medici in quanto “poco discriminativi e informativi” sull’effettivo impatto di
quel potenziale evento sul singolo paziente, alla luce dei fattori considerati
nell’algoritmo.
L’attenzione e il “sospetto” del medico o degli altri operatori sanitari (e
perché no delle stesso paziente) che un certo evento potrebbe essere ricondotto ad una interazione tra farmaci costituiscono senza dubbio la premessa per mettere in atto tutte le azioni necessarie per cercare di arrivare ad
una spiegazione razionale del problema, sia sul piano delle conoscenze di
base, sia su quello della valutazione, verifica ed eventualmente segnalazione clinica dell’evento. Troppo spesso infatti l’insorgenza di un effetto avverso spinge il medico alla ricerca del farmaco “colpevole”, distraendolo
dall’attenzione dovuta alla possibile iatrogenicità del trattamento nel suo
complesso (e quindi delle interazioni). Vi è inoltre il rischio che la “non risposta” o l’insorgenza di un nuovo disturbo lo spingano in maniera quasi
incondizionata ad aggiungere un altro farmaco anziché chiedersi se non sia
il caso di sospenderne qualcuno.
In questa valutazione non si dovrà dimenticare che:
la stessa malattia può mascherare o modificare le manifestazioni di una
interazione (per esempio gli effetti epatotossici del paracetamolo sono
aumentati dalla presenza di epatopatie croniche e dalla concomitante
somministrazione di induttori enzimatici come l’alcool);
esiste una più o meno spiccata variabilità individuale nella risposta ai
farmaci per fattori genetici o ambientali (si veda la prima parte della rassegna);
l’effetto di un farmaco non è facilmente controllabile e, salvo poche eccezioni, non può venire misurato quantitativamente. Ecco perché le interazioni che coinvolgono farmaci ipoglicemizzanti, anticoagulanti e
anti-ipertensivi, le cui azioni sono monitorabili attraverso parametri clinici ben precisi (livelli di glicemia, tempo di protrombina, INR, pressione arteriosa), sono più facilmente identificabili e monitorabili sul piano
clinico, rispetto ad altri farmaci come analgesici, tranquillanti, antinfiammatori, antidepressivi i cui parametri d’azione sono prevalentemente di tipo qualitativo, e risulta quindi molto più difficile individuare eventuali interazioni;
il mancato riconoscimento di una interazione può dipendere anche da
carenze conoscitive di chi prescrive i farmaci e da un rapporto medicopaziente sempre più difficile e superficiale.
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L’insorgenza
di un effetto avverso
spesso induce il medico
a cercare il farmaco
“colpevole”
e non a considerare
le interazioni
tra più farmaci.
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ARGOMENTO
Anche sul piano regolatorio, coerentemente con quanto già in atto per
le reazioni avverse da farmaci, sarebbe auspicabile una politica più orientata alla valutazione della rilevanza clinica delle interazioni, piuttosto che
avallare esclusivamente lunghi elenchi di interazioni, che risultano alla fine di scarsa utilità.
Infine, le problematiche che sono state trattate possono rappresentare
senza dubbio un interessante e, per molti versi ancora poco esplorato, settore di ricerca, soprattutto per quando concerne il contesto della medicina
generale, che rappresenta un osservatorio epidemiologico privilegiato per
le tipologie di pazienti e le problematiche che le interazioni tra farmaci
possono rappresentare. L’auspicio potrebbe quindi essere quello di creare
gruppi di lavoro interdisciplinari per mettere a punto e sperimentare modelli di valutazione del fenomeno e di monitoraggio dei processi decisionali a partire da situazioni altamente rappresentative.
Sta di fatto che, ancora oggi, la maggior parte delle interazioni tra farmaci clinicamente rilevanti viene identificata in seguito ad osservazioni casuali e non a ricerche programmate. Queste ricerche, che utilizzano particolari metodologie epidemiologiche, vengono in genere condotte successivamente per verificare da un lato la validità delle osservazioni cliniche casuali e dall’altro per stabilirne la frequenza ed il significato clinico.
Purtroppo questo accade ancora raramente, in quanto la pianificazione e
l’attuazione di questi studi sono complesse, richiedono molte risorse sia
sul piano organizzativo sia su quello economico, e comportano il reclutamento di un numero spesso elevato di pazienti che devono essere seguiti
anche per un lungo periodo. Un sistema più articolato ed organizzato a livello sopranazionale potrebbe costituire un primo passo per avviare sistematicamente, sulla base di ipotesi o sospetti, questo tipo di studi.
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Dal punto di vista
regolatorio,
è auspicabile
una politica orientata
maggiormente
alla valutazione
della rilevanza clinica
delle interazioni.
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Difficile non tornare sul luogo del delitto.
Questo hanno fatto i molti compagni
di strada nuovamente riuniti per rivisitare
le previsioni e i giudizi raccolti in un libro
di qualche anno fa (...). Vittime, come ancor
siamo, di politiche della ricerca e della
formazione poco all’altezza delle
aspirazioni di tutti quelli che lavorano –
con ragione e passione – nel servizio
Etica, conoscenza e Sanità
sanitario nazionale e nel mondo
A cura di Alessandro Liberati;
presentazione di Silvio Garattini;
2005, 377 pagine, 32 euro
della ricerca e della formazione.
Alessandro Liberati
Il Pensiero Scientifico Editore
www.pensiero.it