Gli stud i e le ricerche sul rapporto tra donne, salute e medicina hanno messo in evidenza la costruzione e il controllo sociale del corpo femmini­ le, attraverso il processo di medicalizzazione che, a partire dal Settecen­ to, ha riguardato dapprima il parto e la nascita e, in tempi più recenti , tut­ to il processo riproduttivo (contraccezione, aborto, procreazione assisti­ ta e menopausa) . Con questi presupposti, con un' ottica di genere e attraverso confronti tra paesi e culture diverse , il libro spiega la relazione tra differenze e disu­ guaglianze di genere, stati di salute e modelli culturali, focalizzando l'at­ tenz ione sulla salute riproduttiva quale indicatore di benessere e di svi­ luppo sociale; rivelatrice di condizioni sociali, di culture di origine, di pro­ cessi di transizione e di adattamento. Uno dei quesiti del pensiero di genere e che, a più riprese attraversa questo volume, è: possiamo oggi affermare che il controllo sociale sul corpo delle donne fa parte del passato della nostra storia e del presente di altri paesi diversi dal nostro? Noi, donne occidentali, siamo consapevo­ li, libere di scegliere e libere da ogni tipo di controllo sociale? Risposte a queste domande emergono dal pensiero femminista e dagli studi di genere; dal confronto tra l'eccesso di medicalizzazione dei paesi occidentali e l'assenza (o la carenza) della medicina di base nei paesi co­ siddetti non industrial izzati; dall'analisi dei processi migratori femminili dell 'epoca della globalizzazione, con il loro carico di nuove e antiche disu­ guaglianze, di nuovi e antichi probl emi di salute. La dimensione della salute , infatti, è un elemento chiave nell 'analisi dei corsi di vita individuali, nella determinazione dei diritti di cittadinanza e nella comprensione del sistema di disuguaglianze , sia sociali, sia di genere. Lia Lombardi insegna Sociologia della medicina presso l'Università degli Studi di Milano e Polit ica sociale presso l'Università degli studi di Padova. Da anni conduce studi e ricerche sulla salute e sulla salute riproduttiva in un'ottica di genere e di differenze tra culture , con particolare attenzione ai processi migratori. Tra le sue pubblicazioni : Madre Provetta (co n F. Pizzi­ ni, Milano, 1994); in collaborazione con F. Pizzini, Maternità in Laboratorio (Torino , 1992) e Corpo medico e corpo femminile (Milano, 1999). ISBN 88- 46 4- 72 8 9-6 11111 11111111111111 111 111111 11 Lia Lombardi " SOCIETA, CULTURE E DIFFERENZE DI GENERE Percorsi migratori e stati di salute - .­ QJ b.O l: et o "" l: ~ ~ u.. l. Società e differenze di genere "Immaginatevi di diventare all'improvviso una persona del sesso opposto al vostro. Che cosa dovreste cambiare? Prima di tutto, dovreste cambiare il vostro aspetto - i vestiti, il taglio dei capelli e gli accessori. Cambiereste il nome, perché il nome identifica il genere di una persona. Dovreste anche cambiare il modo di comportarvi con gli altri. Contrariamente a quello che si pensa, gli uomini parlano più delle donne e a voce più alta, sono più assertivi, tendono di più a guidare la conversazione. Le donne tendono maggiormente a ridere, a mostrare esitazione e ad essere gentili. (... ) In generale le donne sono più percettive degli uomini nella comunicazione non verbale, perciò se vi ca­ pitasse di diventare una donna, può darsi che dobbiate farvi più attenti. (... ) È probabile che dobbiate cambiare molte delle vostre idee, perché uomini e donne differiscono in misura significativa rispetto a molte delle più importanti questioni politiche e sociali" (Andersen, Taylor, 2004, p. 222). Vi sono benefici, costi e conseguenze, sia per le donne che per gli uomini, che derivano dalle definizioni sociali associate ai generi. Certo è la natura a determinare il sesso ma è la società che attribuisce significato a questa distin­ zione. Per i sociologi, infatti, il genere è un concetto sociale, chi diventiamo come uomini e donne è in larga misura determinato dalle aspettative culturali e sociali. 1.1. La costruzione sociale del genere I sociologi usano i termini sesso e genere per distinguere l'identità biologi­ ca dai ruoli di genere. Per i sociologi quest'ultimo è il concetto più significa­ tivo perché è l'insieme delle aspettative e dei comportamenti socialmente ap­ presi e associati a ciascun sesso. Maschi e femmine si nasce ma uomini e donne si diventa attraverso il processo di socializzazione che si prospetta di­ verso per i due sessi. Un processo che inizia sin dalla nascita, anzi ancor pri­ ma, cioè dal momento in cui la prima ecografia abbozza il profilo dei genitali maschili o femminili. Genitori, nonni e parenti cominciano già ad immaginare il bambino o la bambina, prospettando giochi, colori, abbigliamento, desideri e futuri diversi. Ancor prima di nascere gli si attribuiscono nomi maschili o femminili e già ci si rivolge a loro attribuendogli l'identità (di sesso e di gene­ re) che l'ecografia ha indicato. "Genitori, parenti e conoscenti continuano a trattare i bambini in modo stereotipato per tutta l'infanzia. Ci si aspetta che le bambine amino le coccole e siano dolci, mentre i bambini vengono trattati in modo più sbrigativo e godono di una maggiore indipendenza" (Andersen, Ta­ ylor, 2004, p. 224). Gli studi antropologici e il confronto con altre culture indica con chiarezza quanto i generi siano culturalmente e non biologicamente determinati: i Nava­ jos offrono interessanti esempi di ruoli di genere alternativi. I Berdaches della società Navajos erano anatomicamente uomini normali ma venivano definiti come appartenenti ad un terzo genere e sposavano altri uomini, definiti come uomini normali (Lorber, 1994). È evidente che in buona parte delle società occidentali questi uomini sarebbero considerati e definiti omosessuali, non era così per i Navajos che invece riconoscevano un terzo genere. Per la sociologia non è importante sapere se sia la biologia o la cultura a formare gli uomini e le donne, ma è importante sapere come biologia e cultura interagiscono nel produrre l'identità di genere di una persona. n determinismo biologico si riferisce a tutte quelle spiegazioni che attri­ buiscono fenomeni sociali complessi a caratteristiche biologiche. Per esempio la tesi che afferma che gli uomini sono più aggressivi per cause ormonali (la presenza del testosterone) è puramente deterministica sebbene gli studi abbia­ no dimostrato una modesta correlazione tra aggressività e livelli di testostero­ ne e, inoltre, una variazione ormonale (es. la castrazione chimica) non neces­ sariamente va a modificare l'aggressività nell'uomo. Sappiamo bene che il sesso è determinato dai cromosomi X e Y, laddove la combinazione XX definisce il sesso _femminile e quella XY il sesso maschile. Quando si producono delle irregolarità nella combinazione di questi cromosomi e nello sviluppo fetale, si hanno individui con caratteristiche sessuali miste: questo fenomeno è comunemente chiamato ermafroditismo. Di solito viene in­ dicato ai genitori del bambino ermafrodita di farlo sottoporre ad interventi chi­ rurgici che possano defmire il suo sesso ma, è questo è indicativo, viene anche consigliato loro di educarlo in base al sesso definitolo Allo stesso modo accade per gli adulti che intendono sottoporsi ad una o­ perazione per cambiare sesso, viene consigliato loro di cominciare a compor­ tarsi, un anno prima dell'intervento, come se fossero già del sesso prescelto. l Si veda il saggio di Susanne J. Kessler in Piccone Stella, Saraceno, 1996. Questi esempi sono chiaramente indicativi della socializzazione ad un genen piuttosto che ad un altro: ancor meglio spiega questi processi Garfinkel ne suo saggio Agnese in cui narra la storia di una persona transessuale che ~ comporta come una donna "naturale" rivendicando il proprio diritto a viver, secondo lo status sessuale prescelto ma anche della sua faticosa esperienza d apprendimento, tramite segnali diretti e indiretti , delle regole che normano comportamenti, l'interazione e la sessualità femminili. Agnese deve saper ri conoscere nel mondo i comportamenti appropriati per una donna e deve saper li eseguire alla perfezione per dimostrare di essere tale (Garfinkel, 2000) . Vi sono poi persone definite transgenere che deviano dal sistema binarie dei generi, come i transessuali e i travestiti e tutti coloro che non si adattane alle norme socialmente costruite e attribuite a ciascun genere. Solitamente SI queste persone vengono esercitate forti pressioni perché scelgano a quale ses so appartenere. Ne consegue che le operazioni per cambiare sesso spesso soni dettate proprio dalle pressioni che gli individui ricevono sin dall'infanzia (Ga gné e Tewksbury, 1998). Pertanto, non possiamo certo negare le differenze biologiche tra uomini I donne ma non possiamo neanche affermare che siano solo queste a detenni narne i comportamenti, gli atteggiamenti, le inclinazioni, le scelte ed altro. SI prendessimo per buone le tesi del determinismo biologico e cioè che le diffe renze tra uomini e donne sono naturali e quindi immutabili, come spieghe remmo la variazione di rapporti maschile e femminile tra le diverse culture el epoche? In definitiva "anche se l'orientamento sessuale può avere una certa bas biologica (naturale), l'identità sessuale è il risultato di un processo 'di appren dimento che si attua attraverso l'interazione sociale e nel contesto di norme valori e istituzioni sociali" (Andersen, Taylor, 2004, 226). Per la sociologia anche la sessualità è socialmente definita e modellata benché esperita come fenomeno corporeo, come si evince dal fatto che identi tà e relazioni sessuali sono diverse da cultura a cultura e che si modifica ne tempo. Come altre forme di identità anche quella sessuale si apprende attraverso i processo di socializzazione e le relazioni che intratteniamo con gli altri, Le co noscenze sulla sessuaIità vengono trasmesse culturalmente e diventano la base di ciò che sappiamo di noi stessi e degli altri. Sin dalla prima infanzia e attra verso i nostri genitori impariamo quali sono i comportamenti adatti al nostn sesso, più tardi interverranno il gruppo dei pari, gli insegnanti e gli incontri COI l'altro sesso ad ampliare e meglio defmire la nostra sessualità. Un ruolo importante è giocato dalle istituzioni sociali (la religione, la scuo la, la famiglia) che definiscono legittime alc une forme di sess uaIità rispetto ac altre: la relazione eterosessuale rispetto a quella omosessuale, la coppia sposa­ ta rispetto a quella non sposata, e via di seguito . 1.1.1 . Genere e socializzazione La socializzazione è il processo mediante il quale le aspettative della socie­ tà vengono insegnate e apprese. Pertanto attraverso la socializzazione al gene­ re gli uomini e le donne apprendono le aspettative associate al loro sesso che incidono sul concetto di sé, sugli atteggiamenti sociali e politici, sul modo in cui percepiscono gli altri e sul modo in cui stabiliscono e intrattengono rela­ zioni. La socializzazione al genere è un processo talmente potente nell'indirizzare e costruire le identità di genere che anche coloro che "sfidano le aspettative tradizionali spesso si trovano costretti a cedere all'influsso po­ tente della socializzazione" (Andersen, Taylor, 2004, p. 226). Accade così che donne che hanno consapevolmente rigettato i ruoli tradizionali femminili si scoprano ad educare i proprio figli in base ad aspettative e ruoli di genere dif­ ferenti; d'altro canto possiamo osservare uomini che pur avendo assunto parte della responsabilità della casa e della cura dei figli , non si accorgano che il frigorifero è vuoto o che il bambino abbia bisogno di un bagno, perché, per educazione ed abitudine, sono portati a pensare che qualcun altro si occuperà di tali faccende. il problema di fondo è che determinate aspettative e comportamenti sono così pervasivi che non è sufficiente uno sforzo individuale per modificarli. Attraverso la socializzazione si forma l'identità di genere, cioè la defini­ zione che ciascuno dà di sé stesso come uomo o come donna: l'immagine che ciascuno/a coltiva, le aspettative che nutre per sé stesso/a rispetto alle sue ca­ pacità, ai suoi interessi e al modo in cui interagisce con gli altri. Associati all'identità di genere troviamo comunemente due caratteristi­ che: la competizione e la dominanza, a quest'ultima è maggiormente asso­ ciata la personalità maschile, mentre alcuni esperimenti di psicologia sociale dimostrano che le donne sono generalmente più interessate agli aspetti in­ terpersonali delle situazioni competitive e diventano ancor meno competiti­ ve quando gareggiano con un uomo (Basow, 1992; Bunker e al.; 1984, Gill, 1988). Come per altre forme di socializzazione anche per quella di genere contano le molte agenzie di socializzazione come, la famiglia, la scuola, le parrocchie, i mass media, la cultura popolare ed altre. Chiaramente la socializzazione al genere viene rafforzata ogni qual volta i comportamenti vengono approvati o disapprovati dalle varie agenzie. Come è noto la famiglia è l'agenzia di socializzazione primaria ed è qui che si apprendono i primi comportamenti di genere rispetto ai ruoli, ai luoghi di gioco ed ai giochi stessi, a fare più o meno capricci, ad occuparsi degli altri o ad affermare principalmente sé stessi. Sebbene si riscontrino delle differen­ ze tra famiglie e strati sociali: pare che nelle famiglie in cui le donne lavorano fuori casa e in quelle di condizioni più elevate, la definizione dei ruoli maschi­ le/femminile sia meno rigida (Andersen, Taylor, 2004). Anche in età infantile la socializzazione non avviene solo all'interno del­ la famiglia ma anche rispetto ai pari. "Attraverso il gioco i bambini acquisi­ scono modelli di interazione sociale, capacità fisiche e cognitive e abilità analitiche e apprendono i valori e gli atteggiamenti della loro cultura" (ibi­ dem, p. 228). , Varie ricerche dimostrano, per esempio, che le bambine giocano in ma­ niera più cooperativa quando sono in gruppi femminili rispetto a quando so­ no inserite in gruppi misti (Neppl e Murray, 1997. I maschietti tendono a dominare le femminucce e generalmente sono i primi a stabilire le regole dei giochi. Allo stesso modo possiamo notare che i bambini sono più incorag­ giati a giocare"all'aperto mentre le bambini in luoghi chiusi; ai primi vengo­ no proposte attività militaresche o che richiedo l'espressione dell'aggressività; anche i giocatoli proposti per un genere per l'altro sono nettamente diversi e se nell'uno evocano aggressività e dominio nell'altra evocano gentilezza, propensione verso gli altri, apprendimento al prendersi cura. Gli stessi stereotipi si possono riscontrare nella letteratura per bambini, anche se è possibile rilevare un certo cambiamento negli anni più recenti (Griswold, 1997). La religione è un' altra fonte, spesso trascurata, di socializzazione al genere come dimostrano le principali religioni giudaico cristiane che affermano con chiarezza la superiorità maschile: "Le mogli siano sottomesse ai mariti . .. ; il marito infatti è capo della moglie come Cristo è capo 'della Chiesa" (Paolo, Lettera agli Efesini 5: 22-23). A testimonianza della esercitata inferiorità femminile sono il linguaggio patriarcale e l'esclusione delle donne dalle leadership religiose di molte fedi. ' Non vanno trascurati i media, soprattutto il mezzo televisivo, davanti al quale "si compie molta della nostra socializzazione; è attraverso essa che im­ pariamo la grammatica del vivere" (Casetti , 1988,26). Gli studi italiani sui consumi mediali e sulle rappresentazioni di genere nei media non si sono sviluppati come nei paesi anglosassoni. Alcuni studi statu­ nitensi evidenziano come nelle TV americane lo stereotipo relativo alle donne le dipinge bionde, belle, eccitanti ma stupide, va poi ricordato che le donne bionde negli USA costituiscono solo un quarto della popolazione bianca e nei media compaiono cinque volte più degli uomini (Rich e Cash, 1993). Altre ricerche dimostrano che in televisione la presenza degli uomini è numerica­ mente superiore a quella delle donne, occupa posizioni più prestigiose e ten­ dono ad essere stereotipati in ruoli forti e indipendenti (Merlo e Smith, 1994). La pubblicità è un altro canale di differenziazione e socializzazione alge­ nere: sono sotto gli Occhi di tutti le immagini femminili perennemente svestite o nell'atto di farlo, in posizioni che le vede "a terra, sullo. sfondo o con lo sguardo perduto nel vuoto che le fa apparire subordinate e disponibili rispetto agli uomini" (Andersen, Taylor, 2004, 230). L'adesione rigida agli stereotipi di genere rivela conseguenze negative sia su un sesso che sull'altro. Tra gli uomini, l'adesione allo stereotipo della ma­ scolinità, li conduce ad elevati tassi di mortalità per incidenti e atti di violen­ za, all'uso di droghe, alcool, eccessive dosi di tabacco. Vengono scoraggiati ad esprimere sensibilità, sentimenti , affettività. Secondo alcune ricerche gli uomini che mantengono maggiore equilibrio fra tratti maschili e tratti femmi­ nili godono di migliore salute mentale e fisica (ibidem). Anche le donne subiscono conseguenze negative quando seguono rigida­ mente regole e aspettative di genere: quelle più passive, acquiescenti e dipen­ denti presentano i tassi più alti di depressione e di aitre forme di disturbi men­ tali e fisici (Facchini, Ruspini, 2001). Le donne Classificate come "più femmi­ nili" tendono anche ad essere le più insoddisfatte e con minore autostima. In definitiva, il conformismo ai tradizionali ruoli di genere, nega alle don­ ne l'accesso al potere, all' intraprendenza e all'indipendenza nella sfera pub­ blica e nega agli uomini l'accesso ai mondi più intimi, emozionali e orientati agli altri, più conosciuti dall'universo femminile. Pare che questa rigidità di ruoli di genere si vada affievolendo con il passa- . re degli anni: tra le donne più anziane si riscontra maggiore sicurezza, asserti­ vità e competenza, come dimostra Franca Pizzini (1999) in una ricerca sugli aspetti sociali, culturali e medici della menopausa, mentre gli uomini si ren­ dono più aperti e disponibili. In generale, con l'avanzare dell'età e l'accumulo di esperienza, gli individui si scoprono più sicuri ·e più distanti dalle norme culturali fissate. I ruoli delle donne, come quelli degli uomini, sono così condizionati dal contesto sociale in cui hanno luogo le loro esperienze e l'identità di genere si fonde con l'identità razziale. Per gli appartenenti ai gruppi razziali di mino­ ranza questo significa che i concetti di mascolinità e femminilità sono plasma­ ti dalle modalità di dominio e di'esclusione che le razze e il genere producono . 1.1.2. Le identità sessuali Anche le identità sessuali si apprendono attraverso il processo di socializ­ zazione: l'orientamento sessuale è il modo in cui gli individui provano attra­ zione e piacere sessuale. L'identità eterosessuale è quella predominante che noi riteniamo "normale" così come riteniamo che l'identità sessuale sia stabile e immutabile. Le ricerche però dimostrano che queste possono modificarsi più volte nel corso dell'esistenza. Negli Stati Uniti il processo di costruzione dell'identità sessuale è stato meglio rivelato dagli studi sul "corning out": cioè il momento in cui la perso­ na rivela la propria identità omosessuale, che non è però il risultato di una sola esperienza ma di più esperienze anche in contrasto e contraddizione tra loro (Andersen, Taylor, 2004). La sociologia solo recentemente ha cominciato a guardare alle identità omosessuali come una delle alternative presenti nell'ampio spettro della ses­ sualità umana e non più a definirla in termini di devianza sociale, grazie anche ai movimenti femministi e a quelli omosessuali (Trappolin, 2004). La queer theory è una nuova prospettiva che interpreta varie dimensioni della sessualità in chiave completamente sociale rimandandole ad una costruzione determina­ ta dalle pratiche istituzionali. Infatti , il contesto istituzionale della sessualità, in molti paesi del mondo , è quello di una cultura omofobica. "Per omofobia si intende la paura e l'odio nei confronti dell'omosessualità. Essa si manifesta nei pregiudizi contro gay e le­ sbiche, come pure negli atti di ostilità e violenza diretti contro chi è sospettato di essere omosessuale. L'omofobia è un atteggiamento appreso, così come lo sono altre forme di giudizi sociali negativi su particolari gruppi" (Andersen, Taylor, 2004, 233). L' omofobia ha un ruolo importante nella socializzazione al genere, perché induce ad aderire rigidamente agli schemi maschile/femminile per non incor­ rere nelle stigmatizzazioni di debolezza e fragilità verso i maschi, che si mo­ . strano come "femminucce" e di aggressività e ribellione verso le femminine, che si mostrano come "maschiacci" (Lombardi, Pizzini, 200 l) . D'altro canto l' eterosessismo fa riferimento all'istituzionalizzazione dell'eterosessualità che affonda le sue radici nella convinzione che il compor­ tamento eterosessuale sia l'unica forma "naturale" di espressione sessuale e quindi "normale" e "legittima" , anche perché sarebbe l'unica forma di sessua ­ lità che permette la riproduzione e quindi la sopravvivenza della specie" Con­ seguenza di tale istituzionalizzazione è che gli eterosessuali godono di privi­ legi e riconoscimenti sociali di cui non possono godere glille omosessuali co­ me, per esempio, sposarsi, adottare bambini, condividere e trasmettere patri­ moni al compagno/a. 1.2. La base istituzionale del genere Il genere non è solo una questione di identità personale, esso è profonda­ mente radicato nelle istituzioni sociali. L 'espressione gendered institution, cioè l'istituzione improntata al genere, sta a significare che interi ambiti istitu­ zionali sono strutturati in base al genere: per esempio, la scuola non è solo un luogo in cui bambini e giovani apprendono i ruoli di genere, ma è in sé stessa un' istituzione improntata al genere perché si fonda su specifici modelli di di­ stinzione, sia delle istituzioni che degli individui (indirizzi scolastici a preva­ lenza maschile e altri a prevalenza femminile). Tutto ciò ci fa capire che il ge­ nere non riguarda solo l'individuo, ma è "presente nei processi, nelle pratiche, nelle immagini e nelle ideologie, e nella distribuzione del potere nei vari set­ tori della vita sociale" (Acker, 1992,567). TI genere non è soltanto un ruolo appreso, è anche parte della struttura della società, come la razza e la classe e, come queste, è un sistema di privilegi e disuguaglianze nel quale le donne sono costantemente svantaggiate. Tra uo­ mini e donne infatti vi sono rapporti di potere istituzionalizzati con diseguali possibilità di accesso alle risorse economiche e sociali disponibili (Andersen, Taylor, 2004). Si parla quindi di stratificazione, cioè la distribuzione gerarchica delle ri­ sorse, in base al genere presente, in varia misura, in tutte le società. Varie ri­ cerche in materia dimostrano che determinate condizioni garantiscono mag­ giore uguaglianza delle donne nelle società (Chafetz, 1984): • il lavoro delle donne è essenziale per l'economia; • le donne hanno accesso all'istruzione; • è debole il sostegno ideologico o religioso alla disuguaglianza di gene­ re; • gli uomini contribuiscono direttamente alle responsabilità domestiche (cura della casa e dei figli); Le attuali tecniche di riproduzione artificiale oggi perm etto no il concepi mento e la nas cita di bambini sen za " incontro sessuale e corpo reo tra individuo eterosessuali (Pizzini, 1992; Pizzini e Lombardi. 1994: Lombardi, 1999, 2000 , 200 1, 2003). • la distribuzione del lavoro tra i due sessi non è rigida; • le donne hanno accesso al potere e all 'autorità nei processi decisionali pubblici; Un ruolo importante in tal senso ce l'hanno le politiche sociali e governa­ tive che possono promuovere o no parità e uguaglianze: la Svezia è un signifi­ cativo esempio di politiche governative che promuovono e sostengono l'uguaglianza tra i due generi , a partire dalla partecipazione congiunta tra uo­ mini e donne alla forza lavoro e alle attività domestiche (Siim, 1996). Possiamo comunque affermare che la stratificazione di genere sia rnultidi­ mensionale poiché in alcune società le donne sono più libere in certe sfere, mentre in altre lo sono in altre sfere: le donne giapponesi, per esempio, hanno un buon livello di istruzione e una presenza elevata nella forza lavoro, ma nel­ la vita domestica e privata i ruoli maschili e femminili sono ancora molto ri­ gidi con una certa limitazione della libertà della donna', Ma nella gran parte dei paesi del mondo la disuguaglianza tra i generi si ri­ flette soprattutto nelle differenze esistenti tra gli stipendi degli uomini e quelli delle donne. Le lavoratrici italiane, per esempio, guadagnano dal 20 al 25% in meno rispetto ai corrispettivi lavoratori maschi e questo differenziale sembra essere in aumento dal 1995 (IRS, 2000; Comitato nazionale per le pari oppor­ tunità del Ministero del lavoro, 2001; Ruspini, 2003). Come si dirà più avanti, le ragioni di questo scarto risiedono principalmen­ te nel fatto che le donne occupano posizioni inferiori rispetto agli uomini; so­ no maggiormente presenti in aziende medio-piccole con minori garanzie, tute­ le, avanzamenti professionali e salariali; fanno più assenze e meno straordina­ ri per poter adempiere agli obblighi familiari; sono maggiormente penalizzate le donne sposate con figli, più disposte ad accettare lavori e remunerazioni al di sotto della loro qualifica, sia perché hanno un carico di lavoro familiare più alto, sia perché il loro reddito è prevalentemente percepito come "secondo" reddito (Ruspini, Saraceno, 1999) che possiamo anche chiamare di "suppor­ to": non necessario ma di aiuto al bilancio familiare. Tutto ciò giunge anche a dimostrare come possano combinarsi gli effetti della segregazione con quelli della discriminazione. Normalmente la stratificazione di genere è sostenuta da un insieme dì' cre­ denze e comportamenti che affermano come "naturali" le disuguaglianze tra i generi (cfr. par . 2.3.), si tratta quindi di una ideologia, cioè un sistema di cre­ denze che cerca di giustificare lo status qua. 2 3 Si veda Pizzin i F. (1999 ), Corpo medico e corpo f emminile, 3° capitolo. Possiamo a questo punto parlare anche di sessismo, cioè quell'insieme di pratiche e credenze istituzionalizzate attraverso le quali le donne vengono controllate in virtù del significato attribuito alle differenze tra i sessi (Ander­ sen, Taylor, 2004). il sessismo distorce la realtà facendo apparire naturali comportamenti che invece sono radicati nei sistemi di potere: l'idea che gli uomini debbano essere pagati più delle donne o che il compito principale delle donne sia quello di dedicarsi alla cura dei figli e della famiglia, riflette un'ideologia sessista, riproducendo disuguaglianze e sistemi sociali. Al sessismo è legato il concetto di patriarcato che si riferisce a una società o a un gruppo in cui gli uomini hanno potere sulle donne. il sistema patriarca­ le è diffuso in tutto il mondo e in questo tipo di società i mariti hanno autorità sulle mogli nella sfera privata, ma anche la sfera pubblica e istituzionale non è esente da questa disparità poiché le posizioni decisionali e di potere sono te­ nute dagli uomini (capitribù, presidenti, amministratori delegati, capi di stato, ecc .). Il peso del patriarcato varia da società a società: in quelle occidentali odierne sembra avere un peso minore nella sfera privata ma dominante in quella pubblica, come è evidente nella composizione di genere dei parlamenti di tutto il mondo. In definitiva, "la stratificazione di genere è un sistema istituzionale fondato su specifici sistemi di credenze che sanciscono la superiorità degli uomini sul­ le donne" (Ibidem. 236). 1.2.1. La persistenza della disuguaglianza La stratificazione di genere è particolarmente evidente nella disparità di re­ tribuzione tra lavoratrici e lavoratori nonostante in molti paesi questa disparità sia stata da tempo abolita per legge 4 e la forza lavoro femminili sia fortemente aumentata negli ultimi 40 anni : negli Stati Uniti una donna che oggi lavora tutto l'anno e a tempo pieno guadagna il 74 % del salario maschile, le laureate hanno stipendi pari a quelli dei diplomati (ibidem). I cambiamenti nella struttura familiare delle società contemporanee (divor­ zi, separazioni, ecc.) fanno sì che sempre più donne debbano provvedere da sole al proprio sostentamento e a quello dei loro figli. Le separazioni legali (in costante aumento nel nostro paese come in altri) sono passate da 5.600 del 1965 a 76.000 nel 200 l , sebbene vi sia una notevole varietà territoriale. 4 In Italia le donne ebbero accesso a tutte le carriere solo nel 1977 con la legge 903, detta "leg­ ge di parità" che adeguava l'ordinamento italiano alle direttive comunitarie in materia di parità salariale e di trattamento tra lavoratrici e lavoratori (Saraceno. 1998). Negli USA questa mate­ ria fu regolata nel 1963 con l' Equai Pay ACL Queste trasformazioni hanno dato vita a nuove tipologie familiari, come le famiglie ricostituite, quelle formate da persone sole (24,8% nel 2001), quelle monoparentali. . A questo proposito molti studi europei e italiani (Facchini, Ruspini, 2001) indicano la fragilità e l'elevato rischio femminile di cadere in povertà e quindi in uno stato precario di salute, proprio in seguito ad una 'separazione: ad una vedovanza, ad un abbandono. La condizione di madre sola è fortemente a ri­ schio, poiché la sfida posta dalla povertà femminile risiede proprio nella pecu­ liare interazione tra dipendenza ed esclusione sociale: la dipendenza economi­ ca in combinazione con la maggiore fragilità del legame matrimoniale è uno dei meccanismi maggiormente esplicativi della dimensione di genere dell'impoverimento: tanto maggiore è il livello di dipendenza. tanto minore sarà il grado di ,investimento su di sé e dunque delle attiv ità extradomestiche, tanto maggiore, infme sarà il grado di vulnerabilità ad eventi familiari critici. È necessario a questo punto. porre una domanda: come si spiega questa persistente disparità salariale nonostante le leggi.T'aumento della forza lavoro femminile e l'aumento di donne capifamiglia? A questa domanda cercano di rispondere quattro principali teorie, riportate da Andersen e Taylor (2004). l. La teoria del capitale umano. Questa teoria spiega le differenze di genere nella retribuzione come il risultato di differenze individuali i~ termini di risorse (capitale umano) che i lavoratori portano con sé: età. 'e sperienza, ore lavorate, stato civile, livello d'istruzione sono variabili del capitale umano. La variazione di queste misure va a determinare il valore di un in­ , dividuo sul mercato del lavoro. Accade quindi che tassi di avvicendamen­ to da 'un lavoro all' altro, interruzioni di" servizio, cura dei figli e responsa­ , bilità familiari possono influire negativamente sulla capacità di guadagno delle donne. 2. Il duplice mercato del lavoro. Questa seconda teoria sostiene che le retri­ buzioni tra uomini e donne sono differenti perché sono occupati in settori diversi del mercato del lavoro e sebbene sia difficile stabilire' qual è la causa e quale l'effetto, i settori a prevalenza femminile sono quelli peggio retribuiti. il duplice mercato del lavoro riflette la svalutazione del lavoro femminile. Sempre secondo questa teoria il mercato del lavoro sarebbe organizzato in due ampi settori, primario e secondario, dove il primo ga­ rantiscestabilìtà, buone retribuzioni, possibilità di carriera, ricezione di incentivi, indennità e benefici, mentre il secondo settore è caratterizzato da instabilità lavorativa, salari bassi, elevato avvicendamento di persona­ le, regole arbitrarie, basse o nulle le possibilità di avanzamento professio­ nale. Rientrano in questa categoria i giovani in cerca di prima occupazio­ ni. gli studenti, per i quali però la situazione è temporanea, le minoranze e che vanno da quelli legati alla cura e all'educazione (infermiere, ostetriche, le donne che spesso rimangono per sempre confinate in questo settore del educatrici, insegnanti) a quelli relativi ai servizi e 'alle fasce impiegatizie mercato lavorativo. Nel "settore primario vanno però distinti due livelli di (commesse, addette alle vendite, segretarie, collaboratrici, ecc .) (cfr. par. impiego: quello dei dirigenti e dei professionisti caratterizzato da alti li­ 1.4.1.) velli retributivi e garanzie sociali e professionali e quello impiegatizio­ A. La teoria della discriminazione manifesta. il termine discriminazione si esecutivo - in cui le donne sono numerose - caratterizzato da più bassi sa­ riferisce alle pratiche che si indirizzano specificamente a un determinato lari e minori garanzie. Non va poi dimenticato tutto il mercato del lavoro gruppovriservandogli un trattamento differenziato e disuguale. Sui luoghi sommerso, difficilmente quantificabile e sondabile, fortemente abitato da di lavoro tale discriminazione si manifesta attraverso una serie di regole e minoranze, immigrati e donne dove le condizioni lavorative si presentano comportamenti che il gruppo dominante, solitamente maschile di razza ai margini di ogni tipo di contrattualità salariale e di misure protettive, ' bianca, mette in atto per conservare privilegi e potere, per esempio distri­ 3. La segregazione tra i generi. Secondo questa ultima teoria la disparità di buendo premi e gratificazioni in maniera ingiusta. Ma maggiormente si­ retribuzione non deriva dal capitale umano ma dall'organizzazione del gnificative in termini di discriminazione'nei confronti delle donne sono le mercato che vede uomini e donne impiegati in settori diversi o, se nello molestie sessuali che, da un punto di vista sociologico, non sono altro che stesso settore, con mansioni diverse. Si parla in questi casi di segrega zio­ forme di mantenimento di determinati vantaggi, da. parte maschile, sui ne occupazionale che può seguire linee di demarcazione definite dal gene­ luoghi di lavoro; uri meccanismo che rafforza anche la convinzione che le re, dalla classe, dalla razza, dalla cittadinanza e altro. Le retribuzioni ten­ donne siano oggetti sessuali destinati al piacere degli .uornini (Andersen, dono ad essere correlate al numero di queste persone occupate in quel de­ Taylor, 2004). terminato settore: cioè a dire che se la prevalenza è femminile i livelli re­ Dalle quattro teorie fin qui esplicate risulta chiaro che l'ineguaglianzare­ tributivi sono piuttosto bassi (Andersen, Taylor, 2004). Inoltre, per segre­ tributiva dei due generi è il risultato di più fattori il cui effetto congiunto è gazione occupazionale si ' intende la distribuzione degli uomini e delle porre sistematicamente le donne in una posizione di svantaggio nei luoghi di donne in attività lavorative differenziate: le donne tendono ad essere con­ lavoro. " centrate in una gamma di occupazioni più ristretta rispetto a quella degli Ma alle segregazioni di genere contribuiscono anche le barriere strutturali, uomin~ e sono maggiormente occupate in ambiti impiegatizi-segretariali, ' come la socializzazione al genere, che fa sì che le donne scelgano studi, pro­ nei servizi come commesse, cameriere, cuoche, parrucchiere, ecc ., nel set­ fessioni e ambiti lavorativi diversi da quelli maschili e viceversa: si pensi, per tore dell'assistenza ai malati, ai minori, agli anziani, così come risultano esempio, a quanto siano pochi oggi i maestri elementari in Italia e quanto pos­ numerose nell'insegnamento (meno in quello universitario). sa diventare scomoda la loro posizione in un ambito ritenuto "più naturale" il mercato del lavoro italiano, come è noto, presenta delle specificità ri­ per le inclinazioni femminili. Altrettanto difficoltosa e stigmatizzante può es­ spetto a quello europeo ed è principalmente caratterizzato da un tasso di occu-­ sere la posizione di una donna ingegnere nucleare, elettricista o meccanico pazione femminile al di sotto della media europea (UE a 15): nel 2001 il tasso specializzato, in ambiti socialmente riservati al maschile. italiano toccava il 40,9 % mentre quello europeo raggiungeva il 54,8% (Ru­ Pregiudizi e stereotipi contribuiscono a stigmatizzazioni che mettono in spini 2003). Risultavano maggiormente assenti dal mercato del lavoro, le dubbio la loro "vera identità di genere'': uomini ritenuti effeminati o omoses­ donne sposate con figli piccoli, migliore si configurava la situazione tra le più suali, donne ritenute lesbiche o mascoline. Sono proprio questi stigmi che giovani e le più istruite. Un 'altra specificità è rappresentata dall'utilizzo del spingono donne e uomini a scegliere ambiti formativi e lavorativi a loro riser­ part-time usufruito dal 17,8% delle donne itali~e e dal 33,8% delle altre don­ vati. ne europee, Le barriere strutturali, inoltre, scoraggiano le donne nell'accedere a lavori Anche la disoccupazione femminile presenta i tassi più elevati del resto a predominanza maschile e se vi entrano, rendono difficili gli avanzamenti di d'Europa: nel 2001 riguardava in media il 13%, con punte massime al Sud che carriera, ciò che viene spesso definito come "soffitto di cristallo" (glass cei­ superavano il 20%, rispetto ad una media del 7% di altri paesi UE (Cnel, ling): una "barriera impercettibile ma determinante agli avanzamenti di carrie­ 2003). ra che le donne incontrano sui luoghi di lavoro; esse possono vedere il vertice, In Italia come in altri paesi, un dato costante è quello della segregazione occ upazionale che vede impiegate le donne in lavori "t ipicamente femmi nili' possono anche giungervi molto vicino , ma vi è una barriera invisibile oltre la quale non riescono ad andare" (Ibidem. 240). Un'ulteriore barriera strutturale (di non poca importanza) è data dalle re­ sponsabilità familiari che spesso impediscono alle donne di assumere impie­ . ghi ambiti. ben retribuiti ma troppo "assorbenti": professioni che comportano turni di notte, viaggi e spostamenti, orari poco strutturati e troppo flessibili. Va comunque sottolineato che le donne delle classi più basse non possono neanche permettersi il privilegio della scelta, assumono qualsiasi tipo di lavo ­ ro trovino o venga loro proposto per il sostentamento di sé stesse e della loro famiglia. Nonostante difficoltà e ostacoli i cambiamenti, seppur lenti, ci sono e la presenza femminile continua a crescere nella forza lavoro. anche in ambiti prestigiosi e ben retribuiti. D'altro canto però, seppur in misura minore, le principali responsabilità domestiche e familiari ricadono ancora sulle donne: ciò che viene definito "secondo turno" (Hochschild, 1989) o "doppia presen­ za" (Balbo, 1978), concetto che sarà ripreso in seguito. 1.3. Le teorie sul genere La domanda di fondo a cui le teorie cercano di dare risposta 'è: perché vi è disuguaglianza tra i generi? Le principali prospettive teoriche della sociologia (funzionalismo, teoria del conflitto .e dell'interazione simbolica) forniscono alcune risposte che saranno però messe in discussione dalle studiose femmini­ ste, come vedremo nel corso di questo paragrafo. Attraverso un breve excur­ sus sulle prospettive sociologiche si cercherà di comprendere meglio la teoria del gender e quella della differenza. 1.3.1. Le prospettive sociologiche La questione della differenza sessuale ha interessato nel corso dei secoli tutte le scienze umane. Alle origini del pensiero occidentale i filosofi greci hanno cercato di spiegare che i compiti che la società affida all' uomo e alla donna sono differenziati in base alla differenza biologica, la quale determina una chiara divisione dei ruoli. La donna è inferiore perché diversa, ed i compi­ ti che svolge hanno una funzione secondaria all' interno della società. Susan Moller Okin (1979), filosofa statunitense della politica, ritiene che esista un legame fra l'assunzione della famiglia come naturale e necessaria, e il ruolo che alla donna spetta all' interno di questa, ponendo in ev idenza come 'A nella tradizione filosofica occidentale questa naturalità non venga mai messa in discussione, ma invece serva costantemente a dimostrare la necessità di te­ nere fuori le donne dall'ambito del pubblico. del potere politico. Le donne, infatti. nella tradizione filosofica che va da Platone a J. S. Milis , sono ovun­ que enti naturali in relazione all'uomo. La studiosa spinge pertanto a riflettere sull'arbitrarietà del confine tra natura e cultura, e sulla conseguente arbitrarie­ tà della doppia morale che la tradizione filosofica ne fa discendere: storica­ mente e ideologicamente la donna è associata alla passività, all' emotività, alla sottomissione, mancandole "strutturalmente" virtù ritenute prettamente ma­ schili quali la razionalità e la capacità di astrazione (Gallino. 1993). Ogni specifica disciplina affronta la questione in base ad una propria impo­ stazione e, come vedremo, solo da pochi anni un ramo della sociologia si oc­ cupa di studi e ricerche di genere. Le scienze sociali , nel corso dei secoli, hanno posto l'attenzione al tema della differenza tra i sessi: già Auguste Comte (1967, 365), tra i padri fondato­ re della sociologia, riteneva le donne "radicalmente inadatte ad ogni governo, anche domestico, sia a causa di una minore razionalità. sia per la mobile irri­ tabilità di un carattere più imperfetto." Lo stesso Comte (1932 , 8) nel 1851 scriverà: "state certo che il vostro noviziato filosofico non arriverà alla sua normale conclusione se non vi avrà condotto all'amore. Lungo questo cammi­ no la degna frequentazione del sesso affettivo vi sarà di grande aiuto nel rag­ giungi mento dello scopo ragionevole e sano di tutta questa lunga iniziazione, l'assimilazione morale e mentale a tutta l'umanità", mostrando appunto come le qualità femminili non siano da disprezzare, ma invece da riservare ad aspet­ ti relativi all' affettività, di cui le donne sono depositarie. La scuola strutturai-funzionalista affonda le sue radici nell'organicismo di Comte e di Spencer. Essi vedono il sistema sociale come un grande organi­ smo, le cui parti sono strettamente interrelate. In tali parti esiste un sistema 'normale' delle cose cui l'organismo naturalmente tende. L'organismo socia­ le, come lo chiama Durkheim, possiede uno 'spirito', i suoi organi non stanno tutti sullo stesso piano, ma si differenziano in virtù dei bisogni dell'intero; tra le parti, dunque, si sviluppa solidarietà dal momento in cui tutte hanno una funzione. Nella società, secondo Comte, la famiglia è centrale, in quanto "presenta una speciale sintesi tra solidarietà e subordinazione" (Toscano J 996, 130). Giunge ad asserire che l'organismo sociale dovrebbe essere più simile a quel­ lo domestico, benché ciò sia reso difficile dal fatto che la società non possa essere regolata "in base ad un insieme di differenze naturali così grandemente incontestabile" (Comte 1967, I 366-367). So prattutto per Spencer, la società è un organismo sottoposto ad un'evoluzione inarrestabile, e uno dei campi di studio privilegiati della sociologia dev' essere la famiglia, in quanto formazio­ ne sociale diretta. Durkheim funge da trait d'union tra le teorie organicistiche e quelle strut­ turai-funzionaliste. Egli, con preciso riferimento a Tonnies (1963), sostiene che la società moderna si caratterizza per relazioni impersonali, mentre la co­ munità si fondava su relazioni personali e, laddove alla base di questa si tro­ vava una solidarietà da lui definita meccanica, basata sulla semplice apparte­ nenza al gruppo, la società moderna è tenuta insieme dalla solidarietà organi­ ca, che è composita, complessa e non naturalmente determinata dalla coesi­ stenza di individui diversi . Comunità e società, si contrappongono: la prima si fonda su relazioni 'espressive', stabili e 'personali', che sono viste come attri­ buti della femminilità, mentre alla base della seconda vi sono relazioni 'stru­ mentali' , 'impersonali', definite come maschili (in Di Donato, in WIF, sito Web Italiano per la Filosofia, 1997/98). Da questa distinzione, Parsons (1954) fa discendere la differenziazione dei ruoli sessuali nella famiglia. Egli afferma che in una famiglia moderna sia ne­ cessaria la presenza di due adulti specializzati nello svolgere ruoli specifici e differenti. Il padre-marito detiene la leadership strumentale, la quale si incen­ tra sui rapporti tra la famiglia e il mondo esterno; sul principio dell'attribuzione prevale quello della realizzazione, sulla diffusione la specifi­ cità, sull'affettività la neutralità affettiva, sul particolarismo l'universalismo e sulla collettività l'individualismo. Alla moglie-madre invece spetta il ruolo di leadership espressiva che si incentra sui rapporti interni alla famiglia, con conseguente rovesciamento dei valori. Il marito lavorando fuori casa mantiene la famiglia e ne determina la buona reputazione; in questo modo è esentato dalla cura dei figli e dall' organizzazione domestica, che sono i compiti della moglie. Per gli strutturai-funzionalisti dunque alla differenza biologico-sessuale corrisponde in modo univoco una differenza attitudinale, che riserva alle don­ ne e agli uomini ambiti specifici diversi, funzionali al mantenimento dell 'ordi­ ne e dell'equilibrio nella società. Gli uomini si occupano dell'ambito esterno alla famiglia, mentre alle donne è riservato l'ambito familiare, in virtù di quel­ la che viene vista come una differenza strutturale tra i sessi, tale da determina­ re le differenze di ruolo. Le teorie femministe, come vedremo meglio più avanti, respingono questa spiegazione sostenendo che essa si basa sul presupposto che strutture e ordi­ namenti sessisti siano funzionali alla società (Andersen, Taylor, 2004) . Miriam J ohnson sostiene che "la percezione della disuguaglianza tra i sessi dipende essa stessa dal processo di differe nziazione attraverso il quale le iden­ tità e il senso di dignità delle persone si separano dai ruoli e dalle attività" (in Wallace, Wolf, 1994, 66) . Tale processo di differenziazione rende possibile, secondo l'autrice, la caratterizzazione del femminismo occidentale. I La teoria del conflitto poggia su tre assunti: "n primo afferma che gli indi­ vidui possiedono un certo numero di "interessi" di base che essi cercano di realizzare e che non sono peculiari di ogni singola società ma piuttosto comu­ ni a tutte (...). Seconda e centrale per l'intera prospettiva del conflitto, è l'enfasi sul concetto di potere come nucleo della struttura e delle relazioni so­ ciali e sulla conseguente lotta per ottenerlo (...). n terzo aspetto distintivo della teoria del conflitto è la visione dei valori e delle idee come se fossero armi e non strumenti" (Wallace Wolf 1985, 92-93). Il rapporto tra i sessi, che si esplica nella relazione matrimoniale, è basato su uno dei massimi conflitti. Da questo tipo di impostazione derivano due di­ verse scuole sociologiche, la scuola dialettica e quella relativistica, facenti capo rispettivamente a Marx e a Weber. Secondo la teoria marxista, le donne sono vittime dell'oppressione della società capitalistica e della famiglia borghese. Marx ed Engels (1962) sosten­ gono che il borghese vede nella moglie un mero strumento di produzione. Nell'Origine della famiglia, Engels sostiene che nel passaggio dall'economia di sussistenza a quella caratterizzata dalla proprietà ereditaria, l'uomo ha pre­ , so il controllo della casa ed ha relegato ad una condizione di schiavitù la don­ na (Wallace, Wolf, 1994). In questo modo gli uomini avrebbero creato mec­ canismi per controllare le donne in modo da assicurare ai propri figli la tra­ smissione della proprietà privata. Lo sfruttamento dell'uomo nei confronti della donna deriva quindi dal modo di produzione capitalistica e dalla funzio­ ne della proprietà privata; pertanto la questione femminile si inserisce negli obiettivi politici del comunismo. Gran parte delle femministe marxiste reputa questa analisi inadeguata per­ ché, sostengono, non ci troviamo semplicemente di fronte al corrispondente dell'oppressione esercitata dalla borghesia sul proletariato: "gli schiavi dome­ stici non subiscono lo stesso sfruttamento degli schiavi salariati. Si dovrebbe pagare loro uno stipendio affinché questo fosse vero" (Eisenstein 1979, 23). , In realtà l'origine dello sfruttamento dell'uomo sulla donna non derivereb­ be dalla proprietà privata, bensì dalla costruzione sociale della sessualità e dalla divisione del lavoro in base al sesso (Kollontaj, 19961. Altrove, il conflitto tra i due sessi viene associato alla cultura patriarcale. Secondo Zilla Eisenstein (1979, 17): "il patriarcato è l'ordinamento maschile gerarchico della società", le cui radici sono più biologiche che economiche o storiche. La cultura patri arca le esercita il controllo attraverso la "divisione sessuale del lavoro determinando separatamente ruoli, scopi, attività e tipi di lavoro". In questo modo, capitalismo e patriarcato si combinano rinforzandosi l'uno con l'altro: "il patriarcato (. .. ) provvede alla organizzazione gerarchico­ sessuale della società al fine di attuare i! controllo politico (... ) mentre il capi­ talismo in quanto sistema economico di classi (... ) supporta l'ordine patriarca­ le" (ibidem, 28). Il compito delle donne è dunque quello di mantenere stabile la struttura pa­ triarcale della famiglia attraverso i! lavoro domestico e la cura dei figli; se­ condo l'ideologia patriarcale le donne 'non sono lavoratori' e, pertanto, non devono essere pagate per i! lavoro domestico mentre possono essere pagate meno per quello extradomestico per via della loro asserita inferiorità sessuale. Così scrive la Eisenstein (1979, 29): "la divisione sessuale del lavoro e della società rimane intatta anche quando si tratta di donne inserite pienamente nell'economia. L'ideologia subisce un leggero aggiustamento e definisce que­ ste donne come madri-lavoratrici. Così due lavori sono compiuti ad un prezzo inferiore di uno". L'analisi originale di Marx risulta inadeguata per molte femministe marxi­ ste perché, come esse sostengono, il capitalismo ha intensificato la divisione sessuale del lavoro distinguendo tra casa e posto di lavoro e creando due di­ versi tipi di attività: lavoro salariato e lavoro domestico. Pertanto non è suffi­ ciente l'abolizione del capitalismo e della borghesia come classe dominante a far cessare l'oppressione del genere femminile, sebbene il socialismo ne sia una pre-condizione necessaria, dato che la famiglia "tradizionale" giova alla classe borghese (Wallace, Wolf, 1994). Nell'ambito della corrente weberiana, Collins (1983) ritiene che in ogni società il genere sessuale sia uno degli status di gruppo più importanti al fine di determinare le possibilità di ogni individuo. In qualunque caso le donne so­ no svantaggiate rispetto agli uomini nell' accesso al potere, alla ricchezza, all'autonomia e ad altre risorse importanti; in nessun caso conosciuto si veri­ fica il contrario. Secondo Collins, la situazione di inferiorità delle donne è prodotta dallo slancio da parte dell'uomo/essere umano verso il conseguimen­ to del piacere sessuale, insieme al fatto che i maschi sono fisicamente più forti e più grandi nella maggior parte dei casi. Egli infatti ritiene che le donne si trovino in una buona condizione nelle economie di sussistenza e in quelle par­ ticolarmente ricche, dove esiste una forma di potere in 'equilibrio', mentre in tutte le altre sono in una situazione di netta inferiorità (ibidem). All'interno della stessa corrente, sia Chafetz (1984) che Blumberg (1984) attribuiscono alla maternità biologica un ruolo centrale, ritenendo che sia que­ sta a spiegare la diversità delle donne, il cui impatto può essere limitato ma non eliminato. In nessuna società le donne "come categoria si specializzano nei ruoli del settore pubblico/produttivo" (Chafetz 1984, 21). Ad esse compete invece il lavoro riproduttivo, mentre per modificare il loro status, diviene ne­ cessaria la loro partecipazione al sistema produttivo. La teoria della stratificazione della Chafetz condivide l'approccio di base di Collins, collegando la posizione delle donne alle variabili strutturali. La studiosa definisce i! grado di disuguaglianza in termini di accesso alle risorse scarse e di valore, ritenendo che un ampio numero di variabili condiziona questa disuguaglianza, tra cui: i cicli di maternità, la distanza tra luogo di re­ sidenza e luogo di lavoro, i! contributo ideologico-religioso alla disuguaglian­ za tra i sessi e i! grado di minaccia (o di guerra formale). In definitiva "Più al­ to è il tasso di fertilità e più grande è la distanza tra la casa ed il lavoro, mino­ re il coinvolgimento femminile" (ibidem, 68) nell' ambito pubblico. Tra gli esponenti più autorevoli della teoria della scelta razionale (o teoria dello scambio sociale) sono riconosciuti O.c. Hornans e P.M. Blau. Che pur avevano subito l'influenza intellettuale di discipline diverse come l'antropologia (B. Malinowki e M. Mauss), l'economia (A. Smith e D. Ricar­ do) e la psicanalisi (B.F. Skinner). Questa scuola si concentra sulle scelte e sulle decisioni individuali: "le persone sono attori razionali che basano le azioni su ciò che percepiscono co­ me i mezzi più efficaci per raggiungere i propri scopi in un mondo dominato dalla scarsità di risorse (... ). Le persone scelgono di partecipare a uno scam­ bio dopo aver esaminato costi e svantaggi delle alternative a disposizione e averne scelto la più conveniente" (Ruspini, 2003, 41), e ciò vale anche in campo sentimentale: questo significa che, per esempio, il partner meno coin­ volto si trovi in una posizione di vantaggio. La teoria della scelta razionale sostiene anche che donne e uomini scelga­ no, attraverso un calcolo logico, la loro posizione all'interno dei limiti sociali, connessi al potere decisionale, che si basa su dimensioni economiche (il pote­ re è di chi possiede il reddito più alto) e su dimensioni normative e morali (i! potere è di chi pone gli altri in una situazione di obbligo morale e di approva­ zione sociale) (ibidem). Varie ricerche mostrano come le donne siano più propense degli uomini li cedere la parte di decisioni e di scelte ad altri, possibilmente agli uomini: così una ricerca di Morley (1986) sulle abitudini televisive delle famiglie inglesi, mostra che le donne lasciano quasi sempre a marito e figli la scelta dei pro­ grammi. Le ricerche di Katleen Gerson (1985) su come le donne prendono le deci­ sioni rispetto al lavoro, alla carriera e alla maternità. indicano che in buona parte dei casi queste sono dettate da scelte individuali, mentre influenze fami­ liari e sociali e le aspettative dei singoli "non permettono di prevedere con si­ curezza come gli individui si comporteranno da adulti". fu questo modo la studiosa mette in discussione la teoria della costruzione sociale e della socia­ lizzazione al genere, poiché sono determinanti le scelte individuali (scegliere la famiglia piuttosto che la carriera) anche legate a particolari eventi della loro esistenza (un'inaspettata condizione di povertà o malattia, una ,separazione oppure un'inaspettata opportunità di lavoro). I limiti sociali si ricollegano al potere decisionale, che appartiene a chi de­ tiene il reddito più alto. n punto determinante è che di fatto sono le donne stesse, con le loro decisioni e scelte di vita, che permettono il perpetuarsi di discriminazioni riguardo ai salari (Gerson, 1985) . I limiti di questa teoria sono individuabili in almeno due motivi: da un lato rimane profondamente legata alle scelte individuali e quindi all'analisi dei piccoli gruppi; dall'altro non spiega su quali valori, credenze e norme si basi­ no e si indirizzino le scelte individuali. La corrente sociologica detta fenomenologia , i cui esponenti di maggiore spicco sono Edmund Husserl e Alfred Schutz, è una scuola di pensiero che si propone di dare fondamento alla sociologia "comprendente" weberiana: "non solo il mondo viene considerato una costruzione continua degli attori , ma la "realtà" (in senso oggettivo) viene dissolta in una serie infinita di "realtà mul­ tipie" , di "province finite di significato" il cui referente ultimo è comunque l'esperienza dell'attore" (Muzzetto 1996,232). La proposizione di base è che la realtà quotidiana sia un sistema costruito socialmente attraverso la sedimentazione di idee, sorrette dalle interazioni e date per scontate dai membri dei gruppi. È evidente che questo approccio as­ sume un atteggiamento critico nei confronti dell' ordine sociale (Ruspini, 2003). L'etnometodologia si presenta come l'approccio fenomenologico di maggiore rilievo: una prospettiva controversa ma molto utile nel sondare la costruzione sociale dell'appartenenza sessuale (Garfinkel, 20(0). L'etnometodologia studia come le persone usano continuamente, e senza rendersene conto, metodi per stabilire le basi "ragionevoli" del proprio e dell'altrui comportamento nel mondo. La struttura sociale, pertanto, si presen­ ta come un'entità generati dall'incessante processo di interpretazione messo in atto dai suoi membri che utilizzano "le pratiche del ragionamento di senso comune non soltanto per dare significato alloro mondo, ma anche per costrui­ re e interpretare il mondo sociale corrente. L'ordine sociale dunque non è e­ sterno all'individuo" (Ruspini, 2003, 45). Rispetto ai bisogni ed ai ruoli delle donne nella società, la fenomenologia considera la realtà come un insieme di idee prodotte dal passato e sorrette dal presente, e si chiede se "è veramente naturale che le donne oltre a concepire figli, debbano anche prendersi la responsabilità di allevarli", o se invece esse "abbiano un reale bisogno di radicarsi nella sfera domestica, mentre i bisogni degli uomini si situano nella dimensione pubblica del lavoro salariato" (Wal­ lace Wolf 1985, 316). Questo è uno dei maggiori argomenti di riflessione del femminismo contemporaneo. Nella dimensione di genere, Yinterarionismo simbolico si concentra sui processi attraverso i quali le persone assumono determinate identità, attri­ buendo grande importanza all'interazione sociale nella formazione di ruoli tradizionali come quelli di moglie e madre. Il movimento delle donne ha al­ largato l'orizzonte della teoria sociologica svolgendo un'indagine sulle emo­ zioni con riferimento costante alle teorie freudiane, come possiamo riscontrare nei lavori di Arlie R. Hochschild (1983), Raphaela Best (1983) e Nancy Cho­ doro w (1991). Quest'ultima, nota per il successo ottenuto, spiega come la dif­ ferenziazione tra maschie e femmine si evolva già nei primi momenti relazio­ nali del rapporto madre-figliola e sostiene che i bambini maschi, dal momento in cui si percepiscono come diversi dalle madri, con le quali intrattengono la loro prima relazione emotiva, imparano ad eliminare le loro qualità femminili per realizzare completamente la loro identità maschile. Da questo deriva che i maschi abbiano una minore capacità relazionale e considerino il lavoro delle donne di rango inferiore. Le sue teorie suscitano grande interesse e costitui­ scono un punto di partenza per le pensatrici contemporanee. 1.3.2. Il "genere" come categoria sociologica La nozione di gender è legata alla peculiarità della lingua inglese ed ha una importanza relativamente limitata nell'Europa continentale. Il termine, che venne utilizzato per la prima volta ufficialmente nel discorso scientifico nel 1975 da G. Rubin, si differenzia in primo luogo dal concetto di "condizione femminile" in quanto è un termine binario, che sposta il centro dell'attenzione dalla donna al rapporto tra i due sessi, un rapporto dialettico, di scambio con­ tinuo ed in continua evoluzione. "TI genere è un modo di classificare, di indi­ care l'esistenza di tipi", di proporre cioè "un nome per il modo sessuato con cui gli esseri umani si presenta e sono percepiti nel mondo. ( 00 ' ) Uomini e donne, maschile e femminile, relazioni e interazioni, infine il modo con cui questi due tipi umani esperi scono, subi scono e modificano nel tempo il rap­ porto tra loro e col mondo, tutto ciò è incluso nello statuto del termine genere" (Piccone Stella, Saraceno, 1996, 8-9). In questo modo le due sociologhe chia­ riscono che il concetto di genere non è attribuibile solo al femminile, ma se­ gnala la duplice presenza dei due sessi nel mondo. Inoltre, aggiungendo alle variabili di analisi il gender, non si vuole sempli­ cemente sommare gli elementi, ma s'intende aprire una nuova prospettiva che faccia leggere in modo diverso l'insieme dei dati. "La nozione di genere può essere utile al fine di cogliere l'intersecarsi di varianti come il sesso, la classe sociale, la razza, lo stile di vita e l' età, cioè i fondamentali assi di differenzia­ zione" (Scott 1987,4,560-586). Questa prospettiva sposta l'attenzione dalla differenza biologica, alla quale si era interessata all'inizio, ai fattori socio-culturali, attribuendo ad essi grande importanza nella 'formazione' dei due generi. È una categoria all'interno della quale la teoria cerca di definire la costruzione sociale e la rappresentazione delle differenze tra i sessi. "Studiare il genere nella storia dell'Europa con­ temporanea, dunque, non significa semplicemente prendere in considerazione la storia delle donne, vuoi dire piuttosto studiare i divari culturali, le differen­ ze e le asimmetrie tra gli uomini e le donne, e valutare in che misura le ten­ denze della società attuale influiscano sugli storici squilibri di potere tra i due sessi" (Ginsborg 1998, 68). Questa prospettiva si interessa principalmente allo studio dei comportamenti e della formazione dei ruoli maschili e femminili, ritenendo che dalla socializzazione dipenda la differenza di ruolo attribuita ai due sessi. Nelle scuole anglosassoni si dà molto rilievo alle ricerche empiriche, al fi­ ne di rilevare le disarmonie legate al gender, ed in vari manuali di sociologia (Robertson 1988; Collins 1983; Giddens 1991) si utilizza il gender come ca­ tegoria analitica, tanto che diviene impossibile evitare di trattare il genere ne­ gli studi sulla differenziazione sociale, così come non si può non trattare di classe, parentela o rango (Shapiro 1981). L'introduzione della categoria di gender sembra aver prodotto una ridefi ­ nizione dell'impianto analitico in almeno quattro campi (Piccone Stella, Sara­ ceno 1996). l. li primo campo si riferisce all'organizzazione del tempo, sia a livello in­ dividuale che sociale. Partendo dall'assunto secondo il quale il tempo del­ le donne è organizzato in modo diverso da quello degli uomini, questo ti­ po di studio si è concentrato sulla verifica delle asimmetrie, analizzando come vengono organizzati i tempi nella famiglia e più oltre nella società. Molti studi, negli Stati Uniti, si sono concentrati su questo aspetto, propo­ nendosi una più equa redistribuzione degli orari e dei tempi tra i generi (Boneparth, Stoper 1989). In Italia, come vedremo meglio più avanti , è stato centrale il concetto di "doppia presenza", che Laura Balbo (1978; 1991) ha coniato per descrivere il modo di vita nell'attuale società della donna occidentale, la quale somma un lavoro produttivo, esterno, a quello riproduttivo, che si esplica nella cura della famiglia e dei figli. 2. TI secondo campo riguarda il lavoro, ed in particolare l'analisi delle disu­ guaglianze sia di accesso che, all'interno del mercato, di ascesa. All'inter­ no di questo campo, alcuni studi si sono concentrati sul fenomeno della duplice segregazione, orizzontale e verticale (Valentini, 1997) nel merca­ to del lavoro; sulle difficoltà di accesso delle donne in alcuni settori pro­ fessionali che si sommano poi alle difficoltà che trovano nella prosecu­ zione della carriera, come pi ampiamente trattato nel paragrafo prece­ dente. 3. TI terzo campo riguarda le analisi dei processi di formazione e differenzia­ zione dello stato sociale; i sistemi di welfare in effetti hanno distinto due ruoli ben chiari nel modo in cui hanno formulato sistemi di diritti e mec­ canismi di redistribuzione; allo stesso tempo, la nuova organizzazione della famiglia e della società ha portato alla formazione di nuovi bisogni e di nuove risorse (Piccone Stella, Saraceno 1986; Ranci, 2004). Su questi studi l'Unione Europea ha deciso di investire molto al fine di poter 'leg­ gere' la struttura della società ed interpretarne i bisogni, in termini di ser­ vizi e di politiche sociali. Ritenendo infatti che "l'evoluzione dei ruoli ri­ spettivi delle donne e degli uomini è uno dei principali aspetti dell'evoluzione della società" (Commissione Europea 1996-2000, l). La stessa Commissione nel 1995 ha istituito un gruppo di Commissari con il compito di stimolare al suo interno la discussione, e di "vigilare affinché la dimensione della parità di opportunità sia inserita in modo trasversale nelle politiche generali e divenga un filo conduttore dell'azione comunita­ ria" (ibidem, 3). 4. L'ultimo campo è sede di dibattito teorico all'interno dell'analisi sulla stratificazione e la mobilità sociale, nella quale le questioni di genere so­ no diventate essenziali a due livelli. li primo riguarda il genere come ca­ tegoria di stratificazione, il secondo, che si collega alle tematiche affron­ tate nel primo campo, riguarda la questione della famiglia-coppia (Gin­ sborg 1998), che viene ad essere studiata in quanto unità base nella strati­ ficazione sociale. Al gender va però affiancata almeno un'altra categoria, quella della diffe­ renza, che focalizza maggiormente l'attenzione sul fatto che il "soggetto della conoscenza non è un essere neutro, ma sessuato" (Rivera Garretas , 1998). Le teoriche della differenza, infatti, ritengono che la specificità femminile sia le­ gata principalmente al sesso e che sia loro compito difendere e valorizzare ù questa specificità da coloro che intendono ridurla ad una pura costruzione so­ ciale. In realtà la questione è più complessa, come scrive Maria Chiara Pieva­ tolo (http ://w ww.swif uniba.itllei/fi lpollfrdd/target ): ..Piùanaliticamente.adi­ sposizione di chi si interroga sullo statuto della differenza sessuale ci sono almeno tre risposte possibili, ciascuna delle quali comporta delle conseguenze teoriche e pratiche di cui occorre tener conto: a) la differenza sessuale è un dato biologicamente o metafisicamente ori­ ginario e immodificabile; b) la differenza sessuale è frutto di un'elaborazione culturale e sociale; è dunque storica e soggetta alla critica e al cambiamento; c) la differenza sessuale è la modalità originaria dell'identità umana, e va distinta dalla differenza di genere, come sua modalità storica, variabile e criticabile". 1.3.3. Altre scuole di pensiero Nel 1949 esce Le deuxième sexe di Simone de Beauvoir, che pone le basi per l'apertura di una nuova fase del discorso femminista occidentale. In esso , l'autrice esamina la condizione femminile come si è venuta a fissare nel corso dei secoli, riflettendo sull'influenza della società nella costruzione del maschi­ le e del femminile e non valorizzando una differenza se non come, appunto, costruzione. Contemporaneamente, gli anni Cinquanta vedono l'ingresso delle donne come forza lavoro e quindi una nuova affermazione del soggetto femminile, sarà però tra la fine degli anni Sessanta la prima metà dei Settanta che il mo­ vimento femminista nascerà come soggetto politico, rivolgendo la sua atten­ zione alla disuguaglianza tra i sessi. J. Scott (1988) afferma che il genere è il primo terreno sul quale il potere si manifesta. Le femministe denunciano lo squilibrio che il potere ha generato nel rapporto tra i sessi. In quegli anni nascono molti gruppi, associazioni, rivi­ ste femminili, e il dibattito in Europa e negli Stati Uniti assume una vasta por­ tata, interessando i vari ambiti delle scienze umane e sociali. A livello mon­ diale - prima internazionale e poi globale -, emerge l'urgenza di affrontare la questione della differenza/genere. La stessa Onu si preoccuperà di organizzare convenzioni sulle donne, come i Forum di Città del Messico, di Copenhagen, di Nairobi e di Pechino (1995) . Da questa prima fase emerge la necessità, per il movimento, di dotarsi di strumenti di analisi e di ipotesi per la ricerca sia teorica che storica. Le fem­ ministe hanno bisogno di un nuovo paradigrna che spinga avanti la riflessione e allo stesso tempo fornisca strumenti pratici, atti a conoscere la realtà per cambiarla. TI dibattito è essenzialmente filosofico ed una prima grossa spacca­ tura si ha tra le femministe dell'Europa continentale e le sostenitrici anglo­ americane del gender. Negli anni Ottanta inizia a farsi sentire anche l'apporto delle scienze sociali: storia, antropologia e sociologia entrano in questo campo di studi, riuscendo spesso a spingere avanti il dibattito e contribuendo al supe ­ ramento della stagnazione teorica. All'interno delle teoriche della differenza possiamo distinguere almeno quattro diverse posizioni: 1. l' essenzialismo o culturalismo che valorizza la specificità femminile, recuperando le differenze innate; 2. il decostruzionismo, che tenta di smascherare la costruzione sociale del­ la differenza sessuale; 3. la teoria della differenza sessuale che mira alla ricerca delle nozioni che definiscono la specificità della cultura femminile in rapporto a quel­ la maschile; 4. una visione postmodemista, che si intreccia alle teorie delle pensatrici etniche e post-eoloniali, portando ad una riflessione che affronta la que­ stione della differenza in termini di multiculturalità, e che spinge a ri­ flettere non tanto in termini di differenza, quanto di differenze (Piccone Stella, Saraceno, 1996). Quanto fin qui delineato ci mostra posizioni e teorie sul gender/differenza non univoche ma differenziate e articolate che, a grandi linee, si possono leg­ gere in una prospettiva geografico-spaziale: abbiamo quindi il gender nelle elaborazioni anglosassoni prevalentemente basate sull'analisi di Susan Moller Okin, e le teorie della differenza a cui fanno capo le pensatrici francesi (l'antropologa Françoise Heritier, La filosofa Luce Irigaray, la storica Michel­ le Perrot, per fare alcuni nomi), le femministe tedesche (tra cui la teorica 1. Benjarnin), il variegato gruppo italiano ed infme l'apporto congiunto delle "pensatrici etniche" (Hull, BelI Scott, Smith, 1982; hooks 1998) e del pensie­ ro postmodemo (Haraway, 1995; Braidotti, 1987, ... ) che ha la sua principale sede teorica negli Stati Uniti, ma si intreccia alle teorie degli Women 's studies europei. 1.4. L'esperienza italiana Non è semplice fare una breve sintesi del pensiero femminista in Italia. Non lo è in primo luogo perché il carnrnino del movimento e quell o della teo­ ria sono profondamente intrecciati, tanto che alcune scelte delle femministe del nostro paese - in particolare quella di escludere gli studi sulle donne dal­ l'ambito della ricerca universitaria - creano serie difficoltà a chi si accinge a fare oggetto del proprio lavoro proprio questo ambito di studi; in secondo luogo perché non è semplice ricostruire quali siano gli elementi importanti e quali invece le tracce di un dibattito sempre vivace, a volte sterile e a volte dai contenuti poco chiari, nella storia del femminismo; in terzo luogo perché la storia del movimento e delle idee è raccontata dalle stesse donne che vi hanno partecipato, le quali nelle argomentazioni riuniscono pensieri che appartengo­ no all'elaborazione degli anni Settanta e Ottanta con altri che ne sono in parte un ripensamento e in parte una prosecuzione (Di Donato in WIF, sito Web Ita­ liano per la Filosofia, 1997/98). In ambito sociologico gli studi e le ricerche delle donne hanno trovato spa­ zio, diventandone presto parte integrante, nella sociologia della vita quotidia­ na. "l' ovvietà del quotidiano, intrecciata per le donne, al silenzio che lo av­ volge e lo separa dagli ambiti pubblici della vita sociale, viene rotta per sem­ pre. Si innesca così un processo di ampia portata, una rivoluzione culturale in senso proprio, che coinvolge le relazioni, in primis quelle familiari, il rapporto , con la sfera pubblica, le forme di azione individuale e collettiva" (Leccardi, 2003,83). li movimento delle donne mette in atto una profonda trasformazio­ ne della vita quotidiana, grazie anche alla strategica posizione che esse occu­ pano in quanto "soggetti della riproduzione". Con l'affermazione della frattura tra funzioni riproduttive e identità, le donne hanno sovvertito alla radice l'ordine tradizionale innescando profondi processi di mutamento sociale e culturale e mettendo in discussione le con­ trapposizioni fondati ve dell' ordine sociale: pubblico e privato, corpo e mente, personale e politico. . Alcune importanti ricerche hanno determinato e affermato la riflessione delle sociologhe italiane: ricordiamo l'indagine sul movimento femminista milanese, condotta da Marina Bianchi e Maria Mormino all'inizio degli anni '80; le ricerche sulle disuguaglianze di genere nella divisione del lavoro fami­ liare, coordinate da Chiara Saraceno (1980); l'indagine di Renate Siebert (1991) su tre generazioni di donne nel Mezzogiorno. Se gli anni '70 sono caratterizzati dal fiorire della maggioranza dei movi­ menti femministi e femminili italiani che affermando la centralità del privato, come posta in gioco strategica in una società dominata dall'autoritarismo pa­ triarcale, intrecciandosi con grandi mobilitazioni su temi specifici come quello dell 'aborto, gli anni ' 80 si presentano con toni più spenti e vedono anche il finire di molti movimenti. La centralità del quotidiano si basa su due punti di forza: 1. il primo ripone nel quotidiano la sfera della critica pratica alla divari­ cazione tra i temi politici del lavoro e del potere e quelli personali del ­ la sessualità e del corpo. L 'intento è quello di ricongiungere pubblico e privato e donare loro lo stesso valore nella costruzione dell' esperienza. La trasformazione della vita quotidiana avviene attra­ verso il ricongiungimento della pratica politica, dell 'elaborazione dei saperi e della trasformazione dei rapporti (Leccardi, 2003); 2. il secondo punto riguarda invece la pratica dell' autocoscienza come metodo di conoscenza: "il partire da sé alla base di questo metodo si costruisce intorno alla volontà delle donne di impedire ogni identifi­ cazione tra il proprio privato e il personale" (ibidem, 86). Detto "per­ sonale" si presenta come il modo politico delle donne per definirsi come soggetti. La critica politica parte da un ambito extrapubblico e quotidiano quale quello domestico, svelandone la sua valenza pubbli­ ca e oppressiva. La critica al quotidiano pone in rilievo la dimensione della sessualità, ri­ portando così alla coscienza ciò che "normalmente" appartiene alla sfera del non detto; "è la sessualità, la vera grande assente dalla storia dell 'uomo, e l'elemento più concreto della condizione femminile" (Fraire 2002, 77-78). Attraverso l'autocoscienza la casa diviene spazio politico, ambito di elabo­ razione collettiva e di crescita della soggettività, così anche gli altri luoghi di incontri collettivi (spazi autogestiti, convegni, incontri informali e anche va­ canze trascorse insieme) concorrono a far coincidere la vita quotidiana con il luogo per eccellenza della "cultura delle donne". Ciò vale sia per i movimenti femministi che per il più ampio "movimento delle donne" formato da tutte co­ loro che, nei partiti, nei sindacati, nel mondo del lavoro, si impegnano per tra­ sformare le relazioni di potere tra i generi. - - --- '_ . Gli anni '80 coincidono con l'esaurirsi di una riflessione specifica "dalla parte delle donne". li ridimensionamento del movimento femminista e lo sce­ nario di crisi entro cui sembrano muoversi le p~litiche sociali, sollecitano nuove prospettive teoriche approdando ad una consapevolezza della vita quo­ tidiana come spazio del fare concreto, attraverso il quale perseguire un con­ fronto attivo con il sociale. Si va perdendo la pratica del piccolo gruppo 'e dell' autocoscienza confrontando le risorse acquisite, soprattutto . con l'universo della produzione culturale (Ranci, 2004 ; Leccardi, 2003 ). In questi anni si struttura una nuova "intellettualità femminile" (Chiaretti, 1981) che cerca di confrontarsi con la ridefinizione degli spazi di movimento dopo l'affievolirsi della mobilitazione politica degli anni '70. Nasc ono così questa specificità da coloro che intendono ridurla ad una pura costruzione so­ ciale. In realtà la questione è più complessa, come scrive Maria Chiara Pieva­ tolo (http://www.swifuniba.it/leilfilpollfrddJtarget): ..Pìù analincamente. a di­ sposizione di chi si interroga sullo statuto della differenza sessuale ci sono almeno tre risposte possibili, ciascuna delle quali comporta delle conseguenze teoriche e pratiche di cui occorre tener conto: a) la differenza sessuale è un dato biologicamente o metafisicamente ori­ ginario e immodificabile ; b) la differenza sessuale è frutto di un'elaborazione culturale e sociale; è dunque storica e soggetta alla critica e al cambiamento; c) la differenza sessuale è la modalità originaria dell'identità umana, e va distinta dalla differenza di genere, come sua modalità storica , variabile e criticabile". 1.3.3. Altre scuole di pensiero Nel 1949 esce Le deuxième sexe di Simone de Beauvoir, che pone le basi per l'apertura di una nuova fase del discorso femminista occidentale. In esso, l'autrice esamina la condizione femminile come si è venuta a fissare nel corso dei secoli, riflettendo sull'influenza della società nella costruzione del maschi­ le e del femminile e non valorizzando una differenza se non come, appunto, costruzione. Contemporaneamente, gli anni Cinquanta vedono l'ingresso delle donne come forza lavoro e quindi una nuova affermazione del soggetto femminile, sarà però tra la fine degli anni Sessanta la prima metà dei Settanta che il mo­ vimento femminista nascerà come soggetto politico , rivolgendo la sua atten­ zione alla disuguaglianza tra i sessi. 1. Scott (1988) afferma che il genere è il primo terreno sul quale il potere si manifesta. Le femministe denunciano lo squilibrio che il potere ha generato nel rapporto tra i sessi. In quegli anni nascono molti gruppi, associazioni, rivi­ ste femminili, e il dibattito in Europa e negli Stati Uniti assume una vasta por­ tata, interessando i vari ambiti delle scienze umane e sociali. A livello mon­ diale - prima internazionale e poi globale -, emerge l'urgenza di affrontare la questione della differenza/genere. La stessa Onu si preoccuperà di organizzare convenzioni sulle donne, come i Forum di Città del Messico, di Copenhagen, di Nairobi e di Pechino (1995). Da questa prima fase emerge la necessità , per il movimento, di dotarsi di strumenti di analisi e di ipotesi per la ricerca sia teorica che storica. Le fem­ ministe hanno bisogno di un nuovo paradigma che spinga avanti la riflessione e allo stesso tempo fornisca strumenti pratici, atti a conoscere la realtà per cambiarla. il dibattito è essenzialmente filosofico ed una prima grossa spacca­ tura si ha tra le femministe dell'Europa continentale e le sostenitrici anglo ­ americane del gender. Negli anni Ottanta inizia a farsi sentire anche l'apporto delle scienze sociali: storia, antropologia e sociologia entrano in questo campo di studi, riuscendo spesso a spingere avanti il dibattito e contribuendo al supe­ ramento della stagnazione teorica. All'interno delle teoriche della differenza possiamo distinguere almeno quattro diverse posizioni: 1. l' essenzialismo o culturalismo che valorizza la specificità femminile, recuperando le differenze innate; 2. il decostruzionismo, che tenta di smascherare la costruzione sociale del­ la differenza sessuale; 3. la teoria della differenza sessuale che mira alla ricerca delle nozioni che definiscono la specificità della cultura femminile in rapporto a quel­ la maschile; 4. una visione postmodernista, che si intreccia alle teorie delle pensatrici etniche e post-coloniali, portando ad una riflessione che affronta la que­ stione della differenza in termini di multiculturalità, e che spinge a ri­ flettere non tanto in termini di differenza, quanto di differenze (Piccone Stella, Saraceno, 1996). Quanto fin qui delineato ci mostra posizioni e teorie sul gender/differenza non univoche ma differenziate e articolate che, a grandi linee, si possono leg­ gere in una prospettiva geografico-spaziale: abbiamo quindi il gender nelle elaborazioni anglosassoni prevalentemente basate sull'analisi di Susan Moller Okin, e le teorie della differenza a cui fanno capo le pensatrici francesi (l'antropologa Françoise Heritier, La filosofa Luce lrigaray, la storica Michel­ le Perrot, per fare alcuni nomi), le femministe tedesche (tra cui la teorica 1. Benjamin), il variegato gruppo italiano ed infine l'apporto congiunto delle "pénsatric] etniche" (Hull, BelI Scott, Smith, 1982; hooks '1998) e del pensie­ ro postmoderno (Haraway, 1995; Braidotti, 1987, ...) che ha la sua principale sede teorica negli Stati Uniti, ma si intreccia alle teorie degli Women' s studies europei. 1.4. L'esperienza italiana Non è semplice fare una breve sintesi del pensiero femminista in Italia. Non lo è in primo luogo perché il cammino del movimento e quello della teo­ ria sono profondamente intrecciati, tanto che alcune scelte delle femministe del nostro paese - in particolare quella di escludere gli studi sulle donne dal­ l'ambito della ricerca universitaria - creano serie difficoltà a chi si accinge a fare oggetto del proprio lavoro proprio questo ambito di studi; in secondo luogo perché non è semplice ricostruire quali siano gli elementi importanti e quali invece le tracce di un dibattito sempre vivace, a volte sterile e a volte dai contenuti poco chiari, nella storia del femminismo; in terzo luogo perché la storia del movimento e delle idee è raccontata dalle stesse donne che vi hanno partecipato, le quali nelle argomentazioni riuniscono pensieri che appartengo­ no all'elaborazione degli anni Settanta e Ottanta con altri che ne sono in parte un ripensamento e in parte una prosecuzione (Di Donato in WIF, sito Web Ita­ liano per la Filosofia, 1997/98). fu ambito sociologico gli studi e le ricerche delle donne hanno trovato spa­ zio, diventandone presto parte integrante, nella sociologia della vita quotidia­ na. "l' ovvietà del quotidiano, intrecciata per le donne, al silenzio che lo av­ volge e lo separa dagli ambiti pubblici della vita sociale, viene rotta per sem­ pre. Si innesca così un processo di ampia portata, una rivoluzione culturale in senso proprio, che coinvolge le relazioni, in primis quelle familiari, il rapporto . con la sfera pubblica, le forme di azione individuale e collettiva" (Leccardi, 2003,83). li movimento delle donne mette in atto una profonda trasformazio­ ne della vita quotidiana, grazie anche alla strategica posizione che esse occu­ pano in quanto "soggetti della riproduzione". Con l'affermazione della frattura tra funzioni riproduttive e identità, le donne hanno sovvertito alla radice l'ordine tradizionale innescando profondi processi di mutamento sociale e culturale e mettendo in discussione le con­ trapposizioni fondative dell' ordine sociale: pubblico e privato, corpo e mente, personale e politico. . Alcune importanti ricerche hanno determinato e affermato la riflessione delle sociologhe italiane: ricordiamo l'indagine sul movimento femminista milanese, condotta da Marina Bianchi e Maria Mormino all'inizio degli anni '80; le ricerche sulle disuguaglianze di genere nella divisione del lavoro fami­ liare, coordinate da Chiara Saraceno (1980); l'indagine di Renate Siebert (1991) su tre generazioni di donne nel Mezzogiorno. Se gli anni '70 sono caratterizzati dal fiorire della maggioranza dei movi­ menti femministi e femminili italiani che affermando la centralità del privato, come posta in gioco strategica in una società dominata dall'autoritarismo pa­ triarcale, intrecciandosi con grandi mobilitazioni su temi specifici come quello dell'aborto, gli anni '80 si presentano con toni più spenti e vedono anche il finire di molti movimenti . La centralità del quotidiano si basa su due punti di forza: l. il primo ripone nel quotidiano la sfera della critica pratica alla divari­ cazione tra i temi politici del lavoro e del potere e quelli personali del­ la sessualità e del c0I1'0. L'intento è quello di ricongiungere pubblico e privato e donare loro lo stesso valore nella costruzione dell'esperienza. La trasformazione della vita quotidiana avviene attra­ verso il ricongiungimento della pratica politica, dell'elaborazione dei saperi e della trasformazione dei rapporti (Leccardi, 2003); 2. il secondo punto riguarda invece la pratica dell' autocoscienza come metodo di conoscenza: "il partire da sé alla base di questo metodo si costruisce intorno alla volontà delle donne di impedire ogni identifi­ cazione tra il proprio privato e il personale" (ibidem, 86). Detto "per­ sonale" si presenta come il modo politico delle donne per definirsi come soggetti. La critica politica parte da un ambito extrapubblico e quotidiano quale quello domestico, svelandone la sua valenza pubbli­ ca e oppressiva. La critica al quotidiano pone in rilievo la dimensione della sessualità, ri­ portando così alla coscienza ciò che "normalmente" appartiene alla sfera del non detto; "è la sessualità, la vera grande assente dalla storia dell'uomo, e l'elemento più concreto della condizione femminile" (Fraire 2002, 77-78). Attraverso l'autocoscienza la casa diviene spazio politico, ambito di elabo­ razione collettiva e di crescita della soggettività, così anche gli altri luoghi di incontri collettivi (spazi autogestiti, convegni, incontri informali e anche va­ canze trascorse insieme) concorrono a far coincidere la vita quotidiana con il luogo per eccellenza della "cultura delle donne". Ciò vale sia per i movimenti femministi che per il più ampio "movimento delle donne" formato da tutte co­ loro che, nei partiti, nei sindacati, nel mondo del lavoro, si impegnano per tra­ . -- .. sformare le relazioni di potere tra i generi. Gli anni '80 coincidono con l'esaurirsi di una riflessione specifica "dalla parte delle donne ". li ridimensionamento del movimento femminista e lo sce­ nario di crisi entro cui sembrano muoversi le politiche sociali, sollecitano nuove prospettive teoriche approdando ad una consapevolezza della vita quo­ tidiana come spazio del fare concreto, attraverso il quale perseguire un con­ fronto attivo con il sociale . Si va perdendo la pratica del piccolo gruppo 'e dell' autocoscienza confrontando le risorse acquisite, soprattutto . con l'universo della produzione culturale (Ranci, 2004; Leccardi, 2003). fu questi anni si struttura una nuova "intellettualità femminile " (Chiaretti, 1981) che cerca di confrontarsi con la ridefinizione degli spazi di movimento dopo l'affievolirsi della mobilitazione politica degli anni '70. Nascono così nuove categorie che cercano di restituire un'immagine più completa e artico­ Iata del lavoro femminile. Nell'area milanese emerge una forte capacità di tradurre in progetti e in obiettivi culturali la tensione antagonista. Le donne del movimento, più matu­ re e sempre più scolarizzate, si misurano in modo creativo con l'universo del lavoro e delle professioni insieme alla consapevolezza di sé e al nuovo lin­ guaggio delle "differenze" tra le donne (Leccardi, 2003). In questa felice stagione creativa vengono messe a punto nuove categorie attraverso cui leggere la relazione tra ruoli sessuali e organizzazione sociale, spesso supportate dalla ricerca sul campo. Su questi presupposti nascono, a Milano, gruppi come La libreria delle donne e il Griff (gruppo di ricerca sulla famiglia e la condizione femminile) presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli studi di Milano e un nutrito numero di riviste autogestite che danno vitalità alla produzione cul­ turale. ' Presso il Griff si affronta un'ampia gamma di temi che riguarda la fami ­ glia , il lavoro femminile, i servizi sociali a cui si affianca la ricerca di applica­ re e sviluppare le riflessioni sorte nel movimento femminista , sul tema della riproduzione sociale. il Griff, fondato da Laura Balbo agli inizi degli anni '70, riunisce studiose di varie sedi universitarie: a Milano, oltre alla stessa Balbo, vi lavorano Beccalli, Bianchi, Cacioppo, Chiaretti, Giacomini, Grasso, May, Nappi, Piazza, Pizzini, Zanuso; in altre Università troviamo Bimbi, Ergas, 'Piccone Stella, Saraceno, Siebert. È proprio questo gruppo di ricerca ad avere il merito di aver elaborato al­ cune categorie che maggiormente hanno contribuito, nell'ambito della socio­ logia italiana, a dare visibilità alla dimensione di genere: a partire dal concetto di "doppia presenza" (Balbo, 1978 ; Chiaretti, 1981; Bimbi, 1985; Zanuso -.1987), a quello di "lavoro familiare" inteso come lavoro di servizio (Bianchi, 1981; Balbo e Bianchi 1982); alle riflessioni sulla divisione del lavoro (Bee­ calli, 1989) alla ridefinizione delle funzioni della famiglia (Balbo, 1976; Sara­ ceno, 1976; 1988), alla discussione sui nuovi percorsi di identità delle donne (Bimbi, 1983; Saraceno 1987). Nel primo concetto si cerca di superare il dualismo tra le riflessioni macro­ economiche dell 'occupazione femminile e quelle sul lavoro domestico gratui­ to. La sfida consiste nel focalizzare l'attenzione sul rapporto delle donne con il lavoro, recuperando anche la dimensione soggettiva dell'esperienza, e sulle difficoltà di combinazione e coniugazione tra lavoro domestico e lavoro sala ­ riato (Ranci, 2004). Nell'originaria formulazione di Laura Balbo (1978), si sottolineano le potenzialità di innovazione, di creatività e di differenza messe in atto dall'attraversamento quotidiano di più mondi da parte di una quota ere­ scente di donne adulte. Le donne della "doppia presenza" appaiono portatrici di punti di vista plurimi e capaci di esprimere definizioni diverse della realtà e di innescarne i meccanismi di innovazione. Il concetto di "lavoro familiare" rimanda al lavoro erogato per e nella fa­ miglia, in modo gratuito, a garantire il benessere di tutti. Detto concetto non comprende solo il lavoro domestico ma tutto ciò che sta dentro e intorno ad esso: educazione e processi di socializzazione dei figli , organizzazione fami ­ liare , rapporti con le istituzioni, il lavoro burocratico, insomma tutto ciò che ha a che fare con la soddisfazione dei bisogni dei singoli membri e la gestione e organizzazione familiare connessa alla presenza del welfare state. Accanto al concetto di lavoro familiare viene coniato anche quello di "la­ voro di servizio", "per alludere alle funzioni plurime di supporto ai compo­ nenti del nucleo familiare che questa costellazione di attività viene ad avere" (Leccardi, 2003), che riguarda l'incontro tra i bisogni umani e le risorse ester­ ne regolate sia dalla logica del profitto che da quella burocratica dell' apparato statale dei servizi e assistenziale in genere (Balbo, 1982). Per spiegare la pluralità di queste attività, ancora Laura Balbo (1982), uti­ lizzerà la metafora di patchwork. "attraverso un lavoro ai margini, quasi inav ­ vertito ma creativo, mettendo insieme le risorse a disposizione, le donne non solo si sintonizzano in modo individualizzato sui bisogni di ciascun membro del nucleo familiare, erogando servizi indispensabili per la loro soddisfazione, ma danno anche ordine e senso alla vita quotidiana (Leccardi, 2003, 98). Spiegato in questo termini, il concetto di lavoro familiare permette di ride­ finire i confini tra produzione e riproduzione e di porre in rilievo la singolarità dell' esperienza delle donne. Da ciò emerge anche il ruolo economico dell a famiglia, come luogo di produzione e distribuzione di beni, servizi e redditi e non solo come luogo dell 'affettività. Questa ricchezza analitica e interpretativa, sarà capace di modificare i ter­ mini del dibattito sociologico sul lavoro, sulla famiglia, suWidentità. "la vita delle donne prende forma nell'intreccio tra più universi sociali e simbolici, produttivi e riproduttivi, orientati ai bisogni e strutturati dalla ricerca di auto­ nomia" (ibidem, 95). Successivamente però , esaurita la spinta propulsiva del Griff, la sociologia italiana non vedrà più una simile esplorazione e innovazione concettuale 's ulle tematiche di genere. A ciò ha certamente contribuito la mancata istituzionaliz­ zazione di quest'area di studi nell'insegnamento e nella ricerca accademici delineando uno scenario caratterizzato da visibilità intellettuale e invisibilità istituzionale (Tota , 2001). Gli studi e le ricerche sul genere continuano a fiori­ re e moltiplicarsi ma sono condotti da singole studiose, non riuscendo così ad acquisire, in campo sociologico, la capacità di coagulare gruppi e scuole ben identificabili. 1.4.1. Occupazione, maternità, lavoro di cura In seguito alla formulazione di alcuni passaggi delle teorie e analisi di ge­ nere delle studiose e ricercatrici italiane, val la pena delineare un breve profilo della condizione del genere femminile nel nostro paese, proprio a partire dai temi focalizzati negli anni '70: occupazione, maternità, lavoro di cura, conci­ liazione dei tempi, che ci aiuta ad interpretare il mutamento sociale. Come già evidenziato nei paragrafi precedenti, all'interno dello scenario familiare e dei suoi mutamenti, le dimensioni non sono uguali per uomini e donne: rispetto al lavoro domestico ed extradomestico, alla cura dei figli e de­ gli anziani. Prendiamo quindi in considerazione due fattori di analisi, peraltro interconnessi tra loro, cioè "la doppia presenza" e l'instabilità coniugale per ' osservare le caratteristiche e le conseguenze ad essi collegate: dove l'una con­ tinua a porre le donne nella condizione di dover scegliere tra occupazione e­ xtradomestica elo avanzamento professionale e cura della famiglia; l'altra e­ videnzia un alto indice di fragilità e rischio femminile di cadere in povertà e in un precario stato di salute, in seguito ad una separazione, ad una vedovanza, ad un abbandono. Rispetto al primo punto, è ormai noto che l'istruzione, la professione, l'occupazione extradomestica siano una grande conquista delle donne, come dimostrano i dati di una recente indagine Istat - condotta in collaborazione con il Ministero delle pari opportunità e riferita al periodo tra il 1994 e il 2002 (Sabbadini, 2004) : nell'istruzione superiore, per esempio, la presenza femmi­ nile è di sostanziale parità rispetto a quella maschile (89,8 % e 89,5 %) nel 2001-02 (ricordiamo che nel 1951-52 i dati erano 7,1% delle donne e 11,8% degli uomini) e, nelle università, le donne rappresentano il 55,6% degli iscrit ­ ti. Altri dati interessanti rispetto all'istruzione ci dicono che tra le coppie più giovani vi è una percentuale significativa di donne con titolo d'istruzione su­ periore a quello del partner maschile; solitamente riescono meglio negli studi rispetto ai loro coetanei e sono aumentate considerevolmente le presenze femminili in ambiti formativi tradizionalmente rivolti al maschile e questo è 5 Le donne passano dal 14,7% nel 1950-51 al 66,7 % nel 2001-2002 negli istituti d'arte, dal 18% al 51% nei licei scientifici. Nei licei classici e professionali la presenza femminile cresce dell'86%. Nel 1950-51 le alunne delle superiori si iscrivevano soprattutto alle scuole magistrali e ai licei classici (7 1%). oggi il 28% è iscritto a istituti tecnici, il 20% ai licei scientifici. il 19 % a istituti professionali, il 13% ai licei classici e il 13% alle scuole magistrali. accaduto anche nell'Università: il 28,7% degli iscritti a ingegneria, il 59% de­ gli iscritti a medicina, il 45 % degli iscritti ad agraria, il 46,9 % ad economia (Ibidem). Anche rispetto all'occupazione sono evidenti miglioramenti e avanzamenti del genere femminile: in correlazione con l'innalzamento del livello di istru­ zione, aumentano le donne che occupano posti di prestigio e ben retribuiti. Nell'arco degli ultimi lO anni l'occupazione femminile è cresciuta molto più di quella maschile e nel 2003 si arriva a 13 milioni 690 mila occupati e 8 mi­ lioni 365 mila occupate, rispettivamente 275 mila e 1 milione 296 mila in più rispetto al 1993. La crescita dell'occupazione femminile, nel decennio consi ­ derato, ha fornito un contributo complessivo pari a più dell'80% della rilevan­ te espansione dell' occupazione. Va però sottolineato che quasi tutto l'incremento di occupazione femminile (1'85%) si registra nel Centro-Nord, nel Mezzogiorno il mutamento è molto più lento seppur costante ed evidenzia la crescita del numero di donne che manifestano una volontà esplicita di tro­ vare una collocazione nel mercato del lavoro. . Miglioramenti e mutamenti del mondo femminile italiano non sono però scevri di difficoltà, fatiche, disuguaglianze e punti critici, tra cui il problema di conciliare lavoro e famiglia con i suoi costi individuali, sociali e relazionali, per esempio: • avere dei bambini significa per molte donne lasciare il lavoro (se il nido non è accessibile, se la baby-sitter è troppo cara, se il tipo di occupazione non garantisce i permessi di maternità, ecc.). Sappiamo che tornare più tardi (quando i figli sono in età scolare) a competere nel mercato occupa­ zionale è operazione impossibile o fortemente penalizzante; • per altre donne significa bloccare o addirittura retrocedere nell' avanza­ mento professionale; • altre ancora cercheranno lavori a tempo parziale per potersi occupare an­ che della famiglia, con tutte le conseguenze che questa scelta comporta in termini retributivi, di carriera e di garanzie occupazionali: il part-tirne è quasi sempre associato ad un maggiore grado di precarietà (Lo Conte, Prati, 2(03). È evidente che queste condizioni generano e riproducono disuguaglianze e dipendenza dal marito/partner portatore di reddito o di maggior reddito (cfr. par. 1.2) Collegato ai mutamenti formativi e occupazionali delle donne è il tema della fecondità e del suo forte abbassamento dovuto, essenzialmente, all'innalzamento dell'età media al primo figlio (28 anni), all'innalzamento dell 'età al matrimonio, al protrarsi della convivenza dei figli con i genitori, al controllo della fecondità da parte delle donne e delle coppie. Il -decremento della fecondità italiana è spesso accompagnato da manife­ stazioni di sgomento e preoccupazione e tentativi di còlpevolizzazioni verso le donne che "pensano alla carriera e non alla maternità e alla famiglia, che sono diventate egoiste e senza cuore . . .". Le stigmatizzazioni in questo campo sono numerose, contraddittorie ed ambivalenti, tanto che, in ambito lavorativo, è possibile riscontrare: sorrisi ed apprezzamenti per il primo figlio; al secondo figlio l'insofferenza diventa palese; ma al terzo figlio si rischia il mobbing e, da parte di dirigenti e colleghi, si ascoltano frasi tipo "se vuoI fare tutti questi figli stia a casa a fare la mamma"! A meno che la donna riesca a non far pesa­ re ad alcuno i permessi di maternità, le malattie dei figli e le notti insonni. Anche in questo caso però si possono sentire critiche tipo "pensa solo alla car­ riera , ha fatto i figli per abbandonarli nelle mani di nonni e baby-sitter", Queste stigmatizzazioni, questa ambivalente concezione sociale e culturale del ruolo femminile rispetto alla maternità e alla cura dei figli e della famiglia, genera in molte donne: stanchezza, disillusione, depressione e spesso veri e propri stati patologici. In realtà il declino delle nascite è da riferirsi ad altri fattori: in primo luogo, i dati Istat indicano che le donne non hanno alcuna avversione verso la mater­ nità, anzi, tutte auspicano di avere bambini, sebbene ne abbiano meno di quanti ne vorrebbero (Biggeri, 2003). Infatti il declino della natalità non è at­ tribuibile all'assenza di figli per donna o per coppia ma al vorticoso decre­ mento di figli oltre il primo e soprattutto oltre il secondo. Cioè a dire che sono molto poche le famiglie con più di due figli. . È possibile immaginare le ragioni di questo scarto, che però non riguarda­ no solo la difficoltà di conciliare occupazione e cura dei figli, ma anche la presenza di servizi e infrastrutture non adeguate all'accoglienza dell'infanzia, ai tempi e agli spazi di genitori e figli, che si scontrano con un' offerta privata e costosa o pubblica e rigida (nei tempi , negli spazi , nelle modalità di acco­ glienza). D'altro canto, i ruoli maschile e femminile all'interno della famiglia italia­ na sono ancora rigidamente definiti, nonostante vi siano costanti cambiamenti, per esempio: • i congedi di paternità sono ancora molto bassi (7% secondo dati Cnel­ Istat, 2003); • più del 50% delle donne sono impegnate per più di 60 ore alla settimana tra lavoro extradomestico e familiare; questo dato riguarda il 21 % dei pa­ dri con figli da O a 2 anni e la percentuale diminuisce con l'aumentare dell' età dei figli (Istat, indagine rriultiscopo, 1999); • così come il rendimento scolastico e l'aiuto nei compiti a casa è seguito pre valentemente dalle madri (più del 70%). Tutto questo fa si che i bambini vengano intesi come beni costosi e allevar­ li sia terribilmente faticoso, perciò il tasso di fecondità italiano (1,3 figli per donna) rimane tra i più bassi d 'Europa pur evidenziando un lieve incremento negli ultimi anni e nelle regioni settentrionali. I comportamenti riproduttivi sono connessi alle politiche sociali che in Ita­ lia assumono una forma ancora dipendente dalla presenza di una famiglia tra­ dizionale, imperniata su una rigida divisione di ruoli e responsabilità lungo linee di genere e di generazione, sul lavoro di cura offerto dalle donne e su una rete di aiuti parentali ancora molto diffusa (Saraceno, 2003). Spesso abbiamo avuto politiche intese più come "aiuti" alla famiglia o all'infanzia e interventi per "tamponare" l'emergenza, sempre meno vi sono state politiche organiche, sistematiche, basate sul diritto e non sull'aiut06 . Tali caratteristiche hanno prodotto forti tensioni perché si sono intrecciate con gli effetti del mutamento sociale, che hanno trasformato i modelli di con­ vivenza, indebolito le capacità regolative e micro-redistibutive della famiglia nucleare standard e, al contempo, diversificato e reso più impegnativi i biso­ gni e le pratiche di assistenza. li secondo fattore di analisi menzionato all'inizio del paragrafo riguarda appunto l'instabilità coniugale, in costante aumento nel nostro paese come in altri, che ha dato vita a nuove tipologie familiari, tra cui quelle monoparentali. Questo significa che un numero crescente di donne si trova ad affrontare im­ previste discontinuità nei legami affettivi e deve far fronte a una maggiore precarietà delle relazioni familiari con un costo individuale e sociale di note­ vole portata. I nuclei monogenitore (formati da un genitore e figli celibi o nubili) sono in crescita, erano l milione 775 mila nel 1993-1994, sono 2 milioni circa nel 2003. L'aumento riguarda sia gli uomini sia le donne: gli uomini sono passati da 272 mila a 323 mila, le donne da l milione 503 mila a l milione 684 mila. Detti nuclei sono sostanzialmente sotto la responsabilità di una donna (83,9 %) sia perché è maggiore la probabilità delle donne di rimanere vedove rispetto agli uomini, sia perché in seguito ad una separazione o divorzio i figli sono 6 Vale per tutti l'esempio degli asili nido : secondo l'ind agine sui servizi educativi per la prima infanzia condotta dal Centro nazionale di documentazion e e analisi per l'infanzia e l'adolescenza, nel 2000 gli asili nido ammontavano a 3008 unità, con un'incidenza di posti­ nido dispon ibili sulla popolazione di 0-2 anni pari ad appena il 7,4%. Agli asili nido vanno ag­ giunti i 732 servizi integrativi censiti da questa stessa indagine (spazi gioco, centri dei bambini e delle famiglie , servizi domiciliari) la cui diffusione, tuttavia, non sovverte le connotazioni di criticità di una situazione che presenta anche forti disomogeneità a livello territoriale con un particolare svantaggio del Sud (Sabbadìn ì, 2(04). abitualmente affidati alla madre. Nei casi di genitori non sposati, inoltre, i fi­ gli sono nella quasi totalità riconosciuti dalla madre (Sabbadini, 2004). La condizione di madre sola è fortemente a rischio, poiché la sfida posta dalla povertà femminile risiede proprio nella peculiare interazione tra dipen­ denza ed esclusione sociale. La dipendenza economica in combinazione con la maggiore fragilità del legame matrimoniale è uno dei meccanismi mag­ giormente esplicativi della dimensione di genere dell'impoverimento: tanto maggiore è il livello di dipendenza, tanto minore sarà il grado di investimento su di sé e dunque delle attività extradomestiche, tanto maggiore, infine sarà il grado di vulnerabilità ad eventi familiari critici (Ruspini, 2001). In relazione a quanto finora descritto si possono rilevare alcuni punti critici e aspetti apparentemente contraddittori nel percorso di mutamento e miglio­ ramento della condizione delle donne in Italia. In primo luogo si evidenzia che i brillanti successi registrati nello studio e nella fruizione culturale non vengono adeguatamente ricompensati nel mo­ mento in cui le donne accedono al mondo del lavoro. Infatti, a tre anni dal di­ ploma o dalla laurea le donne risultano essere svantaggiate rispetto al lavoro qualunque sia il titolo di studio posseduto: le diplomate che lavorano sono il 52,7% contro il 58,7% dei maschi, le laureate il 69% contro il 79 % dei ma­ schi. Lo svantaggio femminile cresce nel Mezzogiorno, dove solo il 40% delle diplomate e il 53,7% delle laureate a tre anni dal titolo di studio ha un lavoro, contro il 54,8 % dei diplomati e il 69,2% dei laureati. Persiste, inoltre, la disparità sia retributiva che occupazionale: per esem­ pio, i diplomati che svolgono un lavoro continuativo a tempo pieno, iniziato dopo il diploma, guadagnano in media 889 euro ; le donne circa 125 euro in meno; nella fascia retributiva più elevata - oltre i 1.000 euro - si concentrano invece quasi il 22% degli uomini, ma appena il 10% delle donne. Anche le laureate, qualunque sia il tipo di studi concluso, guadagnano meno degli uo­ mini (in media 1.092 euro, circa 195 euro in meno). Le differenze dipendono almeno in parte dal fatto che le donne accedono più difficilmente degli uomini a posti ben remunerati , tanto che quelle che si inseriscono nelle professioni più prestigiose sono il 42,9% contro il 49,3% degli uomini, mentre ben il 15,9% delle laureate (a fronte del 9% maschile) è occupato in professioni ese­ cutive di amministrazione e gestione o in altre mansioni non qualificate (cfr. paragrafo 1.2) (Sabbadini , 2004) . In secondo luogo, risulta ancora bassa la presenza femminile nei luoghi decisionali economici e politici : tra i Ministri economici (Economia e Finan­ ze, Attività produttive, Politiche agricole e forestali, Lavoro e politiche socia­ li) non è presente alcuna donna e tra i Viceministri e i Sottosegretari sono solo 2 su 17. Inoltre, nelle prime 50 imprese più grandi del Pae se solo l' 1,3% dei consiglieri di ammin istrazione è rappresentato da donne. La Banca d' Italia, oltre a non avere il Governatore donna, non ne ha neanche nei principa li orga­ nismi decisionali. Critica anche la situazione negli organi decisionali delle or­ ganizzazioni imprenditoriali (3,2% se si considerano Confindustria, Confarti ­ gianato, Confcomrnercio, Confagricoltura). Nei sindacati la situazione è mi­ gliore (23,6 %, di presenza femminile nelle CGIL, CISL, UIL e UGL, con punte del 38,8 % nella CGIL). Sembra migliorare anche la situazione nella pubblica amministrazione ma in definitiva contiamo: il 7,4% di presenza femminile tra i magistrati di cassa­ zione con funzioni superiori; la carriera diplomatica continua ad essere ap­ pannaggio maschile (nel 2002 nessuna donna era presente tra gli ambasciatori italiani); nei Ministeri, anche se le donne in complesso sono molto numerose (pari al 48%), tra i dirigenti di prima fascia sono solo il 16,6%; nell'ambito sanitario, tra i medici dirigenti di una struttura complessa, la quota di donne è pari al 10%; nell'Università, il numero di donne tra i professori ordinari è di 15,6% nell 'anno accademico 2002-03 (+ 5,5% rispetto al 1993-94) ma solo una donna è attualmente rettore di una Università su 60 Atenei pubblici; nella scuola, le donne sono il 39,2 % dei dirigenti scolastici (a fronte del 68% dei docenti laureati e al 90,9 % dei docenti diplomati) (ibidem). In ambito politico, la presenza di donne nei luoghi decisionali delle istitu­ zioni continua a essere piuttosto esigua e si colloca all' 11,5% tra i Deputati, all'8,! % tra i Senatori, al 8,6% tra i Ministri (escludendo Presidente e Vice­ presidente del Consiglio). L'Italia è anche fanalino di coda come presenza femminile nelle rappresentanze nazionali al Parlamento europeo (11,5%) (ibi­ dem). Infine, ma di primaria importanza, emerge la difficoltà di conciliare impe­ gno lavorativo e cura della famiglia: l'esistenza di barriere all'accesso al lavo­ ro per le donne con carichi familiari è testimoniata dal variare dei tassi di oc­ cupazione femminile al modificarsi del ruolo in famiglia e del numero di figli. Considerando le donne di 35-44 anni, nel 2003 le single presentano i tassi di occupazione femminile più alti (86,5 %), seguite dalle donne che vivono in coppie senza figli (71,9%) e infine da quelle che vivono in coppia con figli (51,5%). Tra queste ultime , i tassi di occupazione più elevati sono relativi alle donne che hanno un figlio (63,8%) e i più bassi per quelle che ne hanno 3 o più (35,5%). Un ulteriore conferma di detti ostacoli è data da quel 20% di donne che non ha più il lavoro dopo la nascita di un figlio (ibidem). Nel miglioramento della condizione della donna all 'interno e fuori dalla famiglia, un ruolo importante è quello giocato dalle politiche sociali, in quan­ to promotrici di uguaglianza e di diritti e che possono farsi efficacemente ca­ 54 55 rico del lavoro di cura che continua a ricadere sulle donne. Infatti, gli aspetti concreti della disuguaglianza di genere, cioè le limitazioni imposte alle donne in termini di possibilità di scelta, opportunità e partecipazione, hannoconse­ guenze dirette e spesso deleterie sulla loro istruzione, sulla partecipazione so­ ciale ed economica e anche sulla salute (come si approfondirà nel prossimo capitolo). Inoltre, le politiche possono essere promotrici elo interpreti di cambiamen­ to sociale e culturale, perché è necessario decostruire gli stigmi e gli stereotipi sulla maternità/non maternità; sulla buona/cattiva madre; sulla buona/cattiva moglie; sul lavoro delle donne spesso ancora inteso solo come supporto all'economia familiare; sulle donne che "va bene che abbiano un' occupazione fuori casa, ma non devono trascurare il loro compito primario, cioè prendersi cura della famiglia". Il cambiamento è già in atto tra le giovani donne occidentali, va però preso in carico e socialmente riconosciuto, a partire dalla distribuzione e condivi­ sione del lavoro di cura. 2. Salute e aijferenze al genere "La dimensione della salute è un elemento chiave nell' analisi dei corsi di vita individuali, nella determinazione dei diritti di cittadinanza e dunque nella comprensione del sistema di disuguaglianze, sia sociali, sia di genere" (Fac­ chini, Ruspini, 2001, Q). Nonostante i grandi progressi della medicina e della tecnologia medica e il rilevante aumento della speranza di vita nei paesi occidentali, le differenze tra i sessi e le classi sociali si sono accentuate anziché diminuire. Esiste dunque una interrelazione fra i fenomeni biologici e sociali e, per spiegare gli stati di salute, è necessario pensare in termini di "causalità a cate­ na", perciò è interessante analizzare la loro variazione secondo il sesso (Her­ zlich, Adarn, 1999). Le differenze di mortalità osservabili tra i sessi, soprattutto nei paesi indu­ strializzati', fanno pensare alla prevalenza dei fattori biologici, cioè ad una costituzione fisica più o meno resistente a seconda dei sessi. Ma i fattori bio­ logici non spiegano' la complessità di questo sistema di differenze, infatti nei secoli passati, i presunti vantaggi biologici femminili non hanno avuto alcuna influenza sulla loro vita a causa della inferiorità della loro condizione sociale : gravidanze ripetute e ravvicinate, affaticamento produttivo e riproduttivo, maltrattamenti, ineguaglianze rispetto all'alimentazione, alle cure , all'igiene. L'analisi storica, in particolare quella di Edward Shorter; rivela che solo all'inizio del 19° secolo e solo nelle regioni industrializzate, le donne di ogni età hanno iniziato a vivere più a lungo degli uomini. Afferma lo stesso autore: "Non vi era nulla nel corredo genetico femminile che predisponesse le donne a morire all'età di 33 anni di tubercolosi o di febbre tifoidea con maggiore frequenza rispetto agli uomini. Ciò avveniva a causa delle dure condizioni in cui si trovavano. Le donne erano più soggette degli uomini a morire a quell'età perché in quel periodo storico la loro vita era molto più difficile di l 56 In Italia questo dato raggiunge i 75,5 anni per gli uomini e gli 81, 9 per le donne. 57