Dispense Storia dei Paesi dell`Est Europeo 2012/2013

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Cenni
storico-geografici sull'est
d'Europa.
A cura di Maria Valente
Le voci relative all’area geo-politica
dell’Europa centro-orientale che qui di
seguito si presentano sono tratte da varie
enciclopedie consultabili online.
www.treccani.it/
www.encarta.msn.com/
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www.encyclopedia.com
www.sapere.it
www.universalis.fr
www.geo.ed.ac.uk
www.storia.i
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ALBANIA
Le terre che oggi sono abitate dagli Albanesi, in primo luogo sono state
popolate nell'età paleolitica (età della pietra) 100.000 anni fa. Le prime zone
inizialmente abitate furono quelle con le condizioni geografiche adeguate.
In Albania, gli stanziamenti iniziali sono stati scoperti nella grotta di Gajtan
(Shkodra), in Konispol, al monte Dajti (vicino a Tirana) e a Xara (Saranda). Il
popolarsi delle terre albanesi è aumentato nell'età Neolitica quando le tribù hanno
cominciato ad abbandonare le grotte ed a stabilirsi in spazi aperti. Tantissimi
stanziamenti sono stati scoperti in Albania, Kosovo, Montenegro e la Repubblica di
Macedonia.
Gli Illiri
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Molti
storici ritengono
gli
albanesi i
discendenti
diretti degli Illiri, un insieme di popoli indoeuropei stanziati nell'antichità nella parte
nord-occidentale della penisola balcanica (Illiria e Pannonia).
Il nome indicava in origine un piccolo popolo che viveva nella zona intorno al
lago di Scutari (fra Albania e Montenegro), ma in seguito Greci e Romani estesero il
nome a tutti i popoli dei Balcani occidentali, fra il medio corso del Danubio e il
mare Adriatico, che avevano lingua e usanze affini a quelle degli Illiri propriamente
detti.
La loro presenza può essere fatta risalire alla formazione della loro struttura
politica verso VII e VI secolo a.C.
Artigiani eccellenti del metallo e guerrieri feroci, gli Illiri hanno basato i loro regni
sulla guerra ed hanno combattuto fra se stessi per la maggior parte della loro storia.
Hanno generato e sviluppato la loro coltura, lingua e caratteristiche antropologiche
nella zona occidentale dei Balcani, come menzionano scrittori antichi.
Dagli Illiri agli Albanesi
I Romani hanno dominato gli Illirici dal 168 a.C. fino alla caduta
dell'impero. Sotto i romani, le arti e la cultura fiorirono, particolarmente in
Apollonia, la cui scuola filosofica fu molto famosa. Qui studiarono, tra altri,
il grande oratore romano Cicerone.
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La lingua e la cultura latine hanno influenzato fortemente gli Illiri, comunque
quelli che vivevano nelle terre albanesi di oggi riuscirono a conservare la loro
lingua ed abitudini, anche se presero in prestito molte parole latine, che fanno parte
attualmente del lessico albanese.
La religione cristiana è comparsa molto presto nell'Illirico e un esempio per
tutti è quello di San Paolo la cui predicazione è segnalata in Dyrrachium, odierna
Durrës, Albania centrale. Una diocesi fu fondata qui nel 58 d.c.. Le diocesi
successive sono state fondate inoltre in Apollonia, in Buthrotum (oggi Butrint, nella
punta del sud dell'Albania) e in Scodra (oggi Shkodër).
Fra il terzo e quarto secolo d.c. regnarono imperatori romani di origine
illirica. Fra loro troviamo alcuni nomi storici molto importanti, come Gaio Decio,
Aureliano, Probo, Diocleziano e più importante di tutti, Costantino , che rese il
Cristianesimo la religione ufficiale dell'impero romano.
È nel II secolo d.c. che il nome “Albanesi”, popolazione vivente nell'attuale
Albania centrale, viene menzionato. Fu Strabone nel suo libro Geographia che per
primo parlò di popolazione chiamata Oi Albanoi, con capitale Albanopoli, 20 Km a
nord est dell'attuale Tirana.
Dopo la divisione dell'impero romano in occidentale ed in orientale (395 d.c.),
l'impero Bizantino, quello orientale, che sarebbe sopravvissuto per quasi mille anni,
ha governato la regione. Il vecchio Illyricum fu invaso dalle varie tribù barbare,
quali i Goti (che rimasero 150 anni in Albania), gli Avari e gli Slavi.
L'invasione Slava, molto feroce ed intensa, ha avuto conseguenze durature
nella messa a punto etnica dei Balcani tant'è che le popolazioni dell'Illiria
diminuirono ed infine furono assimilate.
Nell'Illiria del sud, le terre albanesi odierne, la popolazione autoctona riuscì a
conservare una relativa identità etnica, ma il territorio originale si restrinse ad una
piccola estensione soggetta alle varie occupazioni: Slave, Bulgare e Serbe, attraverso il Medio Evo.
Il regno Ottomano
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Alla conclusione del quattordicesimo secolo le terre albanesi furono
conquistate dagli Ottomani. I signori albanesi non potettero resistere a lungo al loro
grande potere militare di quel tempo.
Dal 1443 al 1468 Gjergj Kastrioti Skanderbeg, eroe nazionale degli albanesi,
condusse una resistenza riuscita contro gli Ottomani, combattendo 25 grandi
battaglie contro di loro, vincendone 22.
La resistenza Skanderbeg condotta degli albanesi fu determinante nell'arresto
dell'invasione turca dell'Italia e di Roma e dopo la morte dell'eroe, la resistenza
continuò fino al 1478, anche se con successo moderato.
Nel 1480 i Turchi entrarono in sud Italia e presero il castello di Otranto, nella
punta del sud-est dell'Italia da dove progettarono di dirigersi verso Roma, ma la
resistenza cristiana e i duri 35 anni in Albania, impedirono questa minaccia.
Le lealtà e le alleanze generate e consolidate da Skanderbeg caddero e gli
Ottomani conquistarono il territorio dell'Albania subito dopo la caduta del castello
di Kruja e questa divenne allora parte dell'impero Ottomano.
A seguito di questo, molti albanesi fuggirono in Italia, principalmente in
Calabria ed in Sicilia. La maggior parte della popolazione albanese rimasta fu
costretta a convertirsi all'Islam, ma riuscì a mantenere la relativa identità etnica pur
rimanendo parte dell'impero Ottomano fino al 1912.
Nel 1912, dopo la seconda guerra Balcanica, gli Ottomani furono rimossi
dall'Albania e quasi la metà delle terre Albanesi furono assorbite dalla Serbia
(Kosovo, Macedonia occidentale), Montenegro e la punta sud dalla Grecia
(Çamëria).
Questa decisione non fu gradita agli italiani, che non desideravano che la
Serbia avesse una linea costiera estesa ed anche agli Austro-Ungheresi che non
vedevano di buon occhio una Serbia potente sul loro confine a sud.
Fu deciso che il paese non dovesse essere diviso ma trasformato nel
Principato di Albania. Nel 1914 scoppiò la prima guerra mondiale.
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L'Albania dichiarò la sua relativa neutralità, ma per la sua posizione
strategica fu invasa da quasi tutti gli eserciti che combatterono nei Balcani. Un
patto segreto fra l'Italia, la Serbia e la Grecia fu firmato in 1915 per dividere
l'Albania dopo la guerra. Ma fu per il presidente Wilson, che era per il diritto di
autodeterminazione in Europa che l'Albania evitò una ulteriore tragedia .
Dal 1925 al 1939, il paese fu governato da Ahmet Zogu, che si nominò re Zog
I nel 1928.
La seconda guerra mondiale e Enver Hoxha
L'Italia invase l'Albania la vigilia della seconda guerra mondiale, il 7 aprile
1939 e prese il controllo del paese. I comunisti ed i nazionalisti albanesi
combatterono attivamente una guerra partigiana contro le invasioni italiane e
tedesche nella seconda guerra mondiale.
I socialisti (più spesso denominati comunisti) assunsero la direzione dopo la
seconda guerra mondiale e nel novembre 1944, dopo una feroce guerra civile,
sostenuta dall'intellighenzia britannica, i comunisti, con l'aiuto dei bolscevichi,
guadagnarono il controllo del governo sotto il capo della resistenza, Enver Hoxha, il
quale dominò in seguito in regime totalitario, distruggendo i rapporti con la
Iugoslavia, l'Unione Sovietica e la Cina.
Verso la conclusione dell'era di Hoxha, l'Albania era ormai stata isolata, in
primo luogo dall' ovest capitalista (Europa occidentale, America del Nord e
Australasia) e così anche dall'est comunista.
La caduta del comunismo e l'Albania democratica
Nel 1985, Hoxha morì e Ramiz Alia prese il suo posto. Inizialmente, Alia
provò a seguire i passi di Hoxha, ma in Europa Orientale i cambiamenti erano già
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cominciati: Mikhail Gorbachev era comparso in Unione Sovietica con le nuove
politiche (glasnost e perestroika).
Il regime totalitario albanese era messo sotto
pressione dagli Stati Uniti e dall'Europa . Dopo che Nicolae Ceauşescu, il capo
comunista della Romania, fu ucciso nel 1989, Alia firmò l'accordo delle Nazioni
Unite a Helsinki, che già era stato accettato da molti altri paesi nel 1975,
riguardante alcuni diritti dell'uomo. Inoltre, permise il pluralismo1 ed anche se il
suo partito vinse l'elezione del 1991, era chiaro che il cambiamento non sarebbe
stato interrotto.
Nel 1992 elezioni generali ci furono altre elezioni vinte dal nuovo partito
democratico con il 62% dei voti. Nelle elezioni generali del giugno 1996 il partito
democratico provò ad avere una maggioranza assoluta maneggiando i risultati e
vincendo con più del 85% .
Nel 1997 un'epidemia di schemi piramidali2 (o multilevel marketing)
sconvolse l'economia dell'intero paese. L'anarchia prevalse e molte città iniziarono
ad essere controllate dalla milizia e dagli stessi cittadini.
Il governo si dimise e fu sostituito da un governo di unità nazionale. Ma in
risposta all' anarchia, il partito socialista vinse le elezioni del 1997 e Berisha si
dimise.
Nel frattempo la repressione serba in Kosovo stava diventando sempre più
insopportabile. Questo portò all'insurrezione del 1998-1999, che condusse
all'intervento della NATO, per arrestare la pulizia etnica degli albanesi in Kosovo
dalle forze serbe, fu inevitabile comunque la fuga dei rifugiati kosovi in Albania.
L'integrazione Euro-Atlantica dell'Albania è stato l'ultimo obiettivo dei
governi albanesi-comunisti. L'Albania nel 2006 ha firmato un accordo di
1 - Pluralismo: Nelle scienze sociali, il termine si riferisce a una struttura di interazioni nella quale i diversi
gruppi si mostrano rispetto e tolleranza reciproci, vivendo ed interagendo in maniera pacifica, senza conflitti e
senza prevaricazioni (e, soprattutto, senza che nessuno tenti di assimilare l’altro.
2 - Schema piramidale (o multilevel marketing): Si tratta di una particolare forma di vendita diretta caratterizzata dalla possibilità per gli affiliati non solo di vendere i prodotti di volta in volta commercializzati (lucrando le
provvigioni pattuite) ma anche di far aderire alla struttura di vendita altri soggetti per poi guadagnare una percentuale sull’attività di vendita da loro posta in essere. Va da sé che ai livelli mano a mano più bassi il guadagno diventa quasi del tutto inesistente.
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associazione e di stabilizzazione con l'UE3.
Nonostante ciò, la mano d'opera dell'Albania ha continuato a migrare in
Grecia, in Italia, in Germania ed altre zone di Europa e dell'America del Nord.
Tuttavia, il cambiamento continuo di emigrazione sta diminuendo lentamente,
poiché sempre più opportunità stanno ora emergendo nella stessa Albania.
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- Accordi di associazione e di stabilizzazione: prevedono i passi che ciascuno dei paesi richiedenti
deve compiere per l'ingresso graduale nell'Unione Europea: si tratta di accordi bilaterali tra il paese
richiedente e l'Unione, che attengono a questioni politiche, economiche e commerciali come anche relative ai
diritti umani e con i quali i paesi richiedenti si impegnano ad adottare le riforme nella legislazione interna
necessarie a conformare i propri ordinamenti all'acquis comunitario. In cambio, l'Unione Europea può offrire
accesso ad alcuni o a tutti i propri mercati (merci, prodotti agricoli o industriali, ecc.) e assistenza tecnica e
finanziaria.
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Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Tirana (343.000 ab.)
Altre città: Durazzo 99.500 ab., Elbasan 87.800 ab., Scutari 82.500 ab., Valona
77.700 ab.
Gruppi etnici: Albanesi 98%, Greci 1,8%, Macedoni 0,1%, altri 0,1%
Paesi confinanti: Grecia a SUD, Serbia e Montenegro a NORD, Macedonia ad EST
Monti principali: Korab 2751 m, Jezercë 2694 m
Fiumi principali: Drin 285 Km (tratto albanese, totale 335 Km), Seman-Devoll
281 Km, Vjosa 272 Km (tratto albanese)
Laghi principali: Lago di Scutari 148 Km² (parte albanese, totale 370 Km²), Lago
di Ocrida 120 Km² (parte albanese, totale 363 Km²)
Isole principali: Sazan 6 Km²
Clima: Mediterraneo - continentale
Lingua: Albanese Tosco (ufficiale), Albanese Ghego, Greco
Religione: Islamica 84%, Ortodossa 9%, Cattolica 6%, altro 1%
Moneta: Lek albanese
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ARMENIA
L'Armenia ha svolto la funzione di cuscinetto tra nazioni e fazioni in guerra
per millenni e la sua gente ne ha pagato le conseguenze molte volte.
I primi imperi e regni che comprendevano alcune parti o l'intera Armenia
attuale furono il regno di Urartu (originariamente sotto re Argistis che costru ì un
forte nella attuale Yerevan), i persiani achemenidi, l'impero macedone di Alessandro
Magno, i selgiuchidi, i romani e i bizantini.
I persiani attaccarono intorno al 428 e quando, nel 451, cercarono di imporre
la religione zoroastriana4 si accese una rivolta che alla fine conferì agli armeni una
certa libertà politica e religiosa.
Nel 639 iniziò la conquista araba, completata in meno di un cinquantennio.
Sotto gli arabi gli armeni godettero d'una relativa indipendenza ed espressero una
propria civiltà feudale, portata all'apogeo dalla dinastia dei Bagratidi.
Tuttavia nell'XI secolo i bizantini esautorarono i Bagratidi annettendone il
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- Zoroastrismo: Religione fondata nell’antica Persia dal profeta Zoroastro, nome grecizzato di
Zarathustra. Ldottrine predicate da Zoroastro sono conservate nelle Gatha, gli inni attribuiti allo stesso
profeta contenuti nel testo sacro noto come Avesta . Lo zoroastrismo è noto anche come “mazdismo”, dal
nome del supremo creatore.
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regno, ma non fecero nemmeno in tempo a insediarsi che subito arrivarono i turchi.
Verso la fine del XII secolo fu la volta dei mamelucchi egiziani e dei crociati
europei (che non governarono ma riuscirono a fare alcune riforme in stile
occidentale e a lasciare alcune parole francesi).
Si succedettero poi nella regione ondate di persiani e di turchi ottomani; gli
ottomani riuscirono a stabilirsi saldamente in buona parte dell'Armenia per quasi
400 anni.
A partire dal XVIII secolo gli armeni divisi nei vari imperi cominciarono a
entrare in agitazione con l'obiettivo di ottenere delle riforme e un'identità politica e
culturale. La letteratura armena, l'arte, la religione e l'educazione fiorirono sotto
l'impero ottomano e l'impero russo portando così alla formazione dei movimenti
politici armeni.
All'inizio del XIX secolo la Russia ottenne il controllo di Yerevan e di una
zona che comprende anche parte della Turchia attuale e intorno al 1870 si arrivò al
conflitto tra Russia e Turchia. Gli armeni in Turchia furono massacrati (un
inquietante precedente di pulizia etnica) con l'aumentare delle spinte nazionaliste e
intorno al 1890 il numero delle vittime ammontava ad alcune centinaia di migliaia.
La rivoluzione russa del 1905 e la rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908
fecero sorgere negli armeni la speranza di costruire una nazione nella terra che
storicamente apparteneva loro. Queste speranze furono deluse quando, durante la
prima guerra mondiale, l'impero ottomano e l'impero russo vennero alle armi.
Le persecuzioni e i massacri che gli armeni subirono dai turchi sfociarono nel
genocidio nel 1915. Il movimento dei Giovani Turchi temeva (forse a ragione) che
durante la guerra i cristiani armeni si schierassero con i cristiani russi, quindi li
massacrarono e li deportarono con la forza, uccidendone da uno a due milioni.
Gli armeni sostengono che il trattamento da loro ricevuto fosse motivato
semplicemente dal razzismo e dal conflitto religioso.
Nel 1916 la Russia occupò l'Armenia ottomana ma dovette restituirla
temporaneamente in quanto la prima guerra mondiale aveva messo al tappeto le sue
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forze militari. Lo stato indipendente della Transcaucasia venne rapidamente
formato, ma durò la bellezza di un mese e quattro giorni. Le differenze locali fecero
sì che si dividesse in Azerbaijan, Georgia e Armenia.
La Turchia tornò immediatamente all'attacco e prese una porzione del
territorio ma i russi, sotto la bandiera nuova di zecca dell'Unione Sovietica,
ritornarono e ottennero il controllo sulla regione all'inizio del 1921. Ci furono dei
contrasti per la delimitazione delle frontiere locali, che avrebbero causato in seguito
il malcontento, ma l'apparato sovietico riuscì ad arginare la tensione tra Armenia e
Azerbaijan per quasi 70 anni. Con le riforme della glasnost il campo era pronto per
un'altra ondata di violenza.
Nel dicembre del 1988 un terremoto colpì l'Armenia nord-occidentale,
provocando 25.000 vittime e lasciando un altro mezzo milione di persone senza
tetto. Inoltre distrusse circa il 10% della capacità industriale e degli edifici della
nazione. Nel frattempo il Nagorno-Karabakh, l'enclave cristiana nell'Azerbaijan
musulmano, votò per l'annessione all'Armenia, lamentando che la minoranza
armena (l'80% della popolazione) era stata vittima di repressioni.
Casualmente la regione possiede riserve di petrolio non sfruttate che valgono
miliardi di dollari e che i sovietici, con la loro cartografia poco precisa, avevano
collocato in Azerbaijan.
Ben presto, quando decine di armeni vennero uccisi, a Sumgait esplose la
violenza. Centinaia di migliaia di azeri e armeni che si ritrovarono improvvisamente
dalla parte sbagliata della frontiera cominciarono a spostarsi. Quando l'Unione
Sovietica barcollò scoppiarono le battaglie tra le milizie armene e azere e altri
armeni vennero massacrati a Baku, la capitale dell'Azerbaijan. L'esercito sovietico
riuscì a riprendere il controllo di Baku e a restaurare la sua versione dell'ordine e
mentre l'Azerbaijan votava comunista alle elezioni del 1990, il presidente
nazionalista armeno Levon Ter Petrosian ristabilì il controllo in Armenia.
In ogni caso l'Unione Sovietica avrebbe fatto ben presto parte della storia, e
l'Armenia votò per l'indipendenza nel 1991. Le parti in guerra firmarono il cessate il
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fuoco nel 1994 e da allora mantengono una difficile tregua.
La campagna militare diede fondo alle risorse della nuova repubblica e l'Iran e
la Turchia imposero inoltre un blocco economico. Una buona parte del cuore
dell'Armenia storica, tra cui anche il Monte Ararat, si trova ora in Turchia, ma
l'Armenia vi ha più o meno rinunciato.
Il Nagorno-Karabakh fa ancora formalmente parte dell'Azerbaijan ma è
raggiungibile solo dall'Armenia ed è presidiato dalle truppe armene. Questa
situazione ha ulteriormente danneggiato la debole economia e un conflitto in
Georgia ha bloccato le vie dei rifornimenti, togliendo altra linfa all'economia
armena.
Alle elezioni del marzo 1998 Robert Kocharian fu eletto presidente (con il
59% dei voti) per un periodo di cinque anni.
Il primo ministro Vazgen Sarkisian, il presidente del Parlamento Karen
Demirchian e i suoi due sostituti e altre quattro persone furono assassinati il 27
ottobre 1999, quando cinque uomini irruppero in Parlamento e aprirono il fuoco.
Aras Sarkisian succedette al fratello ma, nel maggio del 2000, il presidente
Kocharian lo rimpiazzò (poiché lo riteneva un rivale politico) con l'attuale primo
ministro Andranik Markarian.
I rapporti tra l'opposizione e il presidente sono tesissimi e frequenti
manifestazioni di piazza chiedono la sua destituzione per non aver attuato le riforme
promesse che avrebbero dovuto migliorare il carente sistema democratico,
imprigionato in clientelismo e corruzione dilaganti tra le forze di polizia e i
funzionari pubblici.
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Superficie: 29.808 Km²
Abitanti: 3.336.000 (stime 2001)
Densità: 112 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Erevan (1.200.000 ab.)
Altre città: Vanadzor 147.000 ab., Gyumri 125.000 ab.
Gruppi etnici: Armeni 93%, Russi 2%, altri 5%
Paesi confinanti: Georgia a NORD, Azerbaigian a EST e a SUD, Iran a SUD,
Turchia ad OVEST
Monti principali: Aragats Lerr 4090 m
Fiumi principali: Araks 1070 Km (totale, compresi tratti azero, iraniano e turco),
Kasah, Debed
Laghi principali: Lago Sevan 1400 Km²
Clima: Continentale
Lingua: Armeno (ufficiale), Russo
Religione: Armena Apostolica
Moneta: Dram armeno
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AZERBAIJAN
L'Azerbaijaan è abitato da almeno 3000 anni, forse anche da molto più tempo.
A Baku e dintorni sono stati scoperti degli insediamenti databili all'età del bronzo.
Gli sciiti si stabilirono nella zona nel IX secolo a.C., seguiti dai medi, seguaci
dello zoroastrismo. Duecento anni dopo, i persiani achemenidi conquistarono metà
del paese, ma furono sconfitti dai greci nel 330 a.C.
A partire dal I secolo d.C., la zona passò sotto il controllo dei romani, ma dopo
il III secolo ci fu un ritorno dei persiani. Nel VII secolo il paese fu invaso dagli
arabi, la cui dominazione, interrotta dalla conquista mongola del XIII secolo, durò
fino al XV sec, quando ritornarono i persiani con la casa dei Safawidi.
Nel 1813 ebbe fine un conflitto tra tre contendenti (Russia, Turchia e Persia)
che si concluse con la divisione dell'Azerbaijaan tra Russia e Persia lungo il fiume
Aras. Durante il periodo della dominazione, l'Azerbaijan fornì alla Russia petrolio
grezzo, prodotti chimici, prodotti tessili, cibo e vino, cosicché l'economia azera
crebbe proporzionalmente a quella russa.
Tuttavia, benché fornisse sempre meno petrolio lavorato all'URSS,
l'Azerbaijan rimase, per tutto il XX secolo, un grande produttore di petrolio grezzo
e di prodotti tessili.
L'Azerbaijan godette di un breve periodo di indipendenza tra il 1918 e il 1920,
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quando, occupato dall'armata rossa, il paese fu proclamato repubblica sovietica (e in
seguito, nel 1936, repubblica federale insieme all'Armenia e alla Georgia).
Nel 1924, l'URSS creò la provincia autonoma di Nagorno-Karabakh, che a
quei tempi era virtualmente tutta armena (e quindi cristiana), all'interno della
Repubblica dell'Azerbaijan, ponendola sotto il controllo degli azeri.
I sovietici sciolsero la repubblica federata nel 1936, ma mantennero le tre
repubbliche all'interno della loro orbita di influenza. Dopo il breve periodo di
occupazione sovietica dell'Iran settentrionale, durante la seconda guerra mondiale, il
governo iraniano represse il nascente movimento indipendentista locale delle etnie
dell'Azerbaijan.
Gli armeni del Nagorno-Karabakh erano da tempo insofferenti al dominio
dell'Azerbaijan; il conflitto esplose nel 1988 e raggiunse il suo picco più alto dopo
la dichiarazione d'indipendenza dell'Azerbaijan, nell'ottobre del 1991.
Gli attacchi armeni ai cittadini azeri nella regione provocarono una serie
d'interventi da parte delle forze armate dell'Azerbaijan. L'esercito dell'Azerbaijan
subì diverse sconfitte che portarono alle dimissioni di due presidenti. Nel 1993, il
conflitto aveva già causato migliaia di morti e circa un milione di profughi.
Un cessate il fuoco proclamato nel 1994 evitò ulteriori spargimenti di sangue,
ma nel 1999 il conflitto non era ancora stato risolto. Il Nagorno-Karabakh si
dichiarò repubblica e si mostrò poco propenso a restituire parte dei territori
all'Azerbaijan, tra cui la stretta striscia di terra che unisce Karabakh all'Armenia
vera e propria. L'altra grave preoccupazione dell'Azerbaijan era, e rimane, il
petrolio. Si ritiene che la regione del Mar Caspio contenga circa 100 miliardi di
barili di petrolio e quasi altrettanti di gas naturale, e l'Azerbaijan rivendica il suo
diritto su buona parte di essi.
La democrazia rimane una specie protetta in Azerbaijan: il Nuovo Partito
dell'Azerbaijan del presidente Äliyev ha vinto senza problemi le elezioni politiche
del novembre 1995, l elezioni presidenziali dell'ottobre 1998, le elezioni
amministrative del dicembre 1999 e le elezioni politiche del 2000.
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Gli osservatori internazionali hanno denunciato pesanti brogli. Per gli
operatori occidentali, che hanno investito miliardi di dollari nella costruzione
dell'oleodotto tra Turchia e Georgia, la stabilità del paese non ha prezzo. La linea è
finalmente entrata in funzione nel 2006, dopo un infinito strascico di polemiche.
Anche se è costata molto più del previsto, si prevede che servirà all'Azerbaijan ad
espandere la propria economia e a esportare risorse petrolifere.
Una seconda linea è in fase di costruzione. Fino al 2004, tuttavia, questa
nazione ha occupato stabilmente la top 10 dei paesi più corrotti secondo
Transparency International. Le fonti più ottimiste parlano di un miglioramento negli
ultimi anni.
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Superficie: 86.528 Km²
Abitanti: 7.771.000 (stime 2001)
Densità: 90 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Baku (2.070.000 ab.)
Altre città: Ganja 295.000 ab., Sumgayit 279.000 ab.
Gruppi etnici: Azeri 90%, Dagestani 3,2%, Russi 2,5%, Armeni 2%
Paesi confinanti: Russia a NORD, Georgia a NORD-OVEST, Iran a SUD, Armenia
ad OVEST
Monti principali: Bazardüzü Dag 4466 m
Fiumi principali: Kura 1520 Km (totale, compresi tratti georgiano e turco), Araks
1070 Km (totale, compresi tratti iraniano, armeno e turco)
Laghi principali: Mar Caspio 371.000 Km² (comprese parti russa, iraniana,
turkmena e kazaka), Mingechaurskoye 400 Km²
Isole principali: Ciloy
Clima: Continentale
Lingua: Azero (ufficiale), Russo, Armeno
Religione: Musulmana 93,5%, Russa Ortodossa 2,5%, Armena Ortodossa 2,5%,
altro 1,5%
Moneta: Manat azero
Nota: Il territorio del Nagorno-Karabakh (o Artsakh) situato nel sud-ovest del
Paese, si è dichiarato indipendente il 6 Gennaio del 1992. Ufficialmente viene
riconosciuto solamente dall'Armenia, che è in lotta per questo territorio con
l'Azerbaigian. Il Nagorno-Karabakh è ampio 4.800 Km², mentre la popolazione
ammonta a circa 150.000 persone (95% armeni, 5% assiri, greci, curdi ed altre
minoranze). La capitale è Stepanakert.
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BIELORUSSIA
La Repubblica di Bielorussia storicamente, in italiano, veniva a volte indicata
come “Russia Bianca” o “Rutenia Bianca”, una traduzione letterale del nome.
Questa traduzione viene usata anche in altre lingue, ad esempio, “Weißrussland” in
tedesco e “Baltarusija” (Baltarus, oggi) in lituano.
Il nome Bielorussia è considerato denigratorio da alcuni, ed è percepito come
una reminiscenza dell'imperialismo russo e sovietico e delle politiche di
russificazione (il titolo completo dello zar russo era "Imperatore di tutte le Russie Grande, Minore e Bianca"). Per questo motivo viene a volte preferito il nome
Belarus, Rus' fa riferimento alla popolazione che precedette Russi, Ucraini e
Bielorussi.
Comunque esiste molta confusione sulla localizzazione del territorio: inoltre
in aggiunta all'approssimazione del moderno territorio della Bielorussia, alcune
mappe antiche segnano "Rutenia Alba" sul territorio della Moscovia.
La spiegazione si può trovare nel Rerum Moscoviticarum Commentarii di
Sigismund von Herberstein, in cui si racconta che i primi zar moscoviti indossavano
vesti bianche -- per distinguersi dagli imperatori Bizantini che usavano vesti color
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porpora e da quelli Persiani che vestivano in rosso -- in accordo con la dottrina della
Terza Roma5 , degli zar russi.
Così, i governanti della Moscovia vennero chiamati Zar Bianchi e questo
appellativo, assieme alla dicitura solenne Zarato Bianco, fu in uso fino alla
scomparsa della Russia.
Alla fine, questo colore venne trasferito al nome dell'Armata Bianca, che
combattè contro l'Armata Rossa e non è ancora chiaro come il nome "Russia
Bianca" sia infine stato applicato ai Bielorussi. Ci sono diverse ipotesi speculative,
comunque nessuna conclusiva prova documentale è stata trovata per alcuna di
queste. Una di queste teorie si basa sul fatto accettato che l'etnia bielorussa si sia
formata principalmente dalle interazioni storiche tra etnie slave e baltiche.
La radice "balt-" significa "bianco" nelle lingue e dialetti del ceppo baltico,
ovvero, in lituano e lettone, quindi "Mar Baltico" (Balta jura in Lituano) significa
letteralmente "mare bianco" per cui "Balta Rusija" potrebbe essere stata l'originale
auto-denominazione, piuttosto che una successiva derivata dalla "Russia".
Un'altra teoria suggerisce che l'etnia bielorussa avesse capelli chiari, essendo
vicina a quelle baltica e scandinava. Un'altra ancora è quella secondo cui i bielorussi
sono così nominati per il colore predominante dei loro abiti tradizionali (lino non
colorato). Esempi simili di nomi "colorati" nelle etnie slave sono i Serbi Bianchi e i
Croati Bianchi.
Storia
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- Dottrina della Terza Roma: è un appellativo assegnato alla città di Mosca.
L'idea di Mosca come Terza Roma ebbe fortuna sin dall'antica Russia zarista. Dopo pochi anni dalla
conquista di Costantinopoli da parte di Mehmed II sovrano dell'Impero ottomano il 29 maggio 1453, alcuni
nominarono Mosca:Terza Roma o Nuova Roma.Il sentimento nacque durante il regno di Ivan III di Russia,
gran Duca di Mosca,che avendo sposato Sofia Paleologa, nipote di Costantino XI, l'ultimo imperatore di
Costantinopoli. e Ivan reclamò l'eredità storica e soprattutto religiosa della città che si definiva seconda
Roma. Questa idea è rimasta nel tempo, avallata dalla presenza nella capitale russa di patriarchi della religione ortodossa e a questo giustificativo possiamo rimandare l'ostilità storica e le tante guerre tra russi e turchi ,
aggravate anche da ragioni d'influenza geopolitica nell'Europa Orientale.
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Il destino della Bielorussia
può essere considerato contemporaneamente
eroico e tragico. A volte potrebbe sembrare illogico.
I proavi della nazione tante volte difesero la loro indipendenza e dignità con
le armi e vinsero tante battaglie ma allo stesso modo le persero persero in seguito a
vari intrighi politici, unioni, divisioni e patti.
Nella seconda metà del primo millennio a.C. le tribù slave cominciarono a
popolare l'area dell'attuale Bielorussia e con questo processo iniziò la cosiddetta
"slavizzazione" delle etnie baltiche locali. Tale sintesi slavo-baltica funge da base
per la formazione dell'etnia bielorussa. La prima forma dello Stato su questa terra
divenne il principato di Polozk (A.D. 862).
Il cristianesimo fu portato in Bielorussia dai missionari di Bisanzio nel
periodo di maggior diffusione in molti paesi europei (in particolare Danimarca,
Polonia, Svezia, Norvegia, Croazia); divenne, però, la religione principale solo a
cavallo tra XI ed il XII secolo quando prese forma una forte opposizione al
paganesimo diffuso in queste terre da decenni.
L'età d'oro della nazione è considerata il periodo del Gran Ducato Lituano,
che formatosi nel Duecento, continuò per un periodo di circa 130-140 anni.
Questo Stato medievale univa i territori che attualmente appartengono alla
Bielorussia, Russia , Ucraina e Lituania, ma per tre quarti la sua popolazione si
componeva di bielorussi.
Il Gran Ducato Lituano fu un Paese unitario democratico, in cui esisteva il
Codice del Gran Ducato (1529, 1566, 1588) e il Tribunale che puniva non solo i
contadini, ma anche i potenti.
In questo periodo il Gran Ducato dovette difendere le proprie terre contro le
invasioni dei Crociati, i quali, dopo le imprese fallite in Palestina, avrebbero voluto
conquistare nuovi territori dirigendosi verso l'Europa dell’Est.
Nel 1410 l’esercito unito del Gran Ducato Lituano vinse la battaglia decisiva
di Grunwald, considerata una delle maggiori dell'Europa medievale: vi
parteciparono circa 80 mila militari. L'ordine teutonico fu completamente sconfitto.
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È solo a partire dal '400 che abbiamo descrizione delle terre bielorusse
(soprattutto fatte da viaggiatori italiani) ed i tratti caratteristici di questa terra,
secondo l'opinione comune dei viaggiatori, furono identificati con inverni rigidi,
boschi e foreste, fiumi e laghi, paludi, ricchezza di animali, uccelli e pesci.
Una nuova fase nella storia bielorussa si aprì con la formazione di un altro
Stato noto con il nome di Rzeczpospolita (dal latino “res publica”- stato comune)
sorto nel 1569 dall'unione del Gran Ducato Lituano e della Polonia.
Nel 1596 fu firmata la cosiddetta Unione di Brest, secondo la quale venivano
formalmente unite la chiesa cattolica e quella ortodossa, riconoscendo l'autorità del
papa e lasciando alla chiesa locale si la possibilità di celebrare i riti ecclesiastici
secondo le regole greco-bizantine. Nacque così la Chiesa dell'unione . Fu uno dei
tentativi della chiesa cattolica locale di opporsi alla Riforma protestante.
Lo Stato di Rzeczpospolita durò poco: i suoi territori furono devastati da una
lunga ed estenuante Guerra del Nord (1700-1721) nella quale si scontrarono gli
interessi della Russia con quelli della Svezia ed alla fine del Settecento lo stato fu
diviso tra la Prussia, l'Austria e la Russia e la Bielorussia divenne una parte
dell'Impero russo.
La situazione geopolitica rimase tale fino al 1797. Nel 1794, sia in Polonia che
in Bielorussia e con a capo Tadeusz Kostuiszko (già noto come uno dei personaggi
importanti della guerra per l'indipendenza dell'America del Nord –1775-83) scoppiò
l’insurrezione per l’indipendenza e per le libertà democratiche, che purtroppo non
riuscì e da quel momento iniziò, e continuò per molti decenni, una forzata
russificazione del popolo bielorusso.
Nei tempi della guerra napoleonica del 1812 i territori bielorussi servirono da
ponte tra i due mondi e furono campo di numerosi combattimenti tra le armate di
Napoleone e l'esercito russo.
Per tutto l'Ottocento la Bielorussia, insieme ad una parte della Polonia, fece
parte della Russia comeGovernatorato Nord-Occidentale, una delle tante province
dello sconfinato impero.
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La prima guerra mondiale fu rovinosa per il paese.
Il colpo di Stato a Pietrogrado nel 1917 fece nascere vari Stati indipendenti nel
territorio dell'ex impero, tra cui la Repubblica Popolare Bielorussa con una vita
piuttosto breve.
Nel 1919 fu proclamata la "Bielorussia Sovietica" che, dal 1922, entrò a far
parte dell' Unione Sovietica.
Nello stesso tempo, dopo il trattato di Riga del 1921, la parte occidentale del
Paese andò alla Polonia in qualità di "compenso agricolo".
Nel 1939, quando scoppiò la II Guerra mondiale, l'Armata Rossa occupò
queste terre, insieme a quelle dell' Ucraina occidentale ed una parte della Moldavia.
La parte est della Bielorussia fu intensamente "sovietizzata" e russificata: dalle
mutazioni forzate della lingua (assimilata a quella russa), alla chiusura delle scuole
bielorusse, dei periodici in lingua nazionale, ecc.
Durante questo periodo la maggior parte dei contadini fu costretta ad iscriversi
nelle cooperative agricole (i kolchoz) e chi si oppose, venne privato della libertà , di
tutti i beni e represso (in totale, circa 1,5 milioni di bielorussi subirono in quegli
anni repressioni di vario genere).
Il 22 giugno 1941 la Germania nazista attaccò improvvisamente l' Unione
Sovietica e, anche in questo caso, le terre della Bielorussia furono le prime a subire
le sanguinose conseguenze dell'avanzata tedesca.
Molte città furono letteralmente rase al suolo già nei primi giorni della guerra.
Secondo il piano del Terzo Reich, la popolazione doveva essere annientata per il
50%, un quarto della popolazione doveva essere schiavizzata ("bestiame da lavoro")
ed il resto doveva essere germanizzato.
Ma nonostante queste circostanze insopportabili e inumane, la gente
bielorussa iniziò a combattere e difendersi fin dall’inizio (basti pensare all'eroica
difesa della fortezza di Brest, al confine con la Polonia) fino alla fine delle guerra
stessa.
Ci fu, di seguito, un periodo di relativa calma fino al 26 aprile 1986 quando
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nella centrale atomica di Chernobyl, al confine tra l'Ucraina e la Bielorussia, ci fu
un disastroso incidente, e le regioni di Gomel', Moghiliov ed in parte quelle di Brest
e di Minsk furono inquinate dalle radiazioni. Centinaia di migliaia di persone
dovettero abbandonare i posti dove avevano vissuto da sempre.
Nel 1990, nell'atmosfera generale della perestroika che si era diffusa in tutta l'
Unione Sovietica, si formarono in Bielorussia le prime correnti ed i primi partiti
democratici.
Il 27 luglio 1990 fu proclamata l'indipendenza della nazione (Repubblica di
Belarus') ed approvata la nuova bandiera nazionale (bianco-rosso-bianco) e lo
stemma.
Il bielorusso diventò lingua nazionale e ufficiale. Nel 1992 la Repubblica
Bielorussa era già riconosciuta da più di 100 Paesi al mondo.
Nel 1994, dopo le prime elezioni presidenziali, il capo dello Stato divenne A.
Lukashenko.
Nel novembre 1996, su iniziativa del Presidente, si svolse un referendum a
suffragio universale in base al quale furono apportate modifiche alla Costituzione
del Paese, vennero modificate la bandiera e lo stemma dello Stato (praticamente
riprese quelle dei tempi sovietici), il russo venne ufficializzato come seconda lingua
nazionale.
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Superficie: 207.650 Km²
Abitanti: 9.849.000 (2003)
Densità: 47 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Minsk (1.741.000 ab.)
Altre città: Homel' 481.000 ab., Mahilëu 365.000 ab., Vicebsk 342.000 ab., Hrodna
315.000 ab., Brèst 298.000 ab.
Gruppi etnici: Bielorussi 81%, Russi 11,5%, Polacchi 4%, Ucraini 2,5%, altri 1%
Paesi confinanti: Lettonia e Lituania a NORD, Polonia ad OVEST, Ucraina a SUD,
Russia ad EST
Monti principali: Dzierzhinsky 345 m
Fiumi principali: Dnepr 690 Km (tratto bielorusso, totale 2201 Km), Berezina 613
Km, Pripjat 495 Km (tratto bielorusso, totale 761 Km), Sozh 493 Km (tratto
bielorusso, totale 648 Km), Neman 459 Km (tratto bielorusso, totale 937 Km), Ptich
421 Km, Dvina Occidentale 328 Km (tratto bielorusso, totale 1020 Km), Chara 325
Km
Laghi principali: Naroch' 79,6 Km², Osveya 52,8 Km², Chervonoye 40,3 Km²
Clima: Continentale
Lingua: Bielorusso (ufficiale), Russo
Religione: Ortodossa 31%, Cattolica 18%, altro 51%
Moneta: Rublo bielorusso
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BULGARIA
A partire dal II millennio A.C., il territorio dell’attuale Bulgaria era occupato
dai traci, antico popolo di origine indoeuropea descritto dallo storico greco Erodoto
come il più grande e numeroso dopo quello degli indiani.
Le tribù dei traci, annesse al regno di Macedonia verso la metà del IV secolo
A.C., recuperarono la libertà alla fine dello stesso secolo.
Nel III secolo A.C. subirono un’invasione di breve durata da parte dei celti per
poi perdere definitivamente la propria autonomia nel 46 a.C. per opera dei Romani.
Il dominio da parte dei Bizantini proseguì sino a quando, nel VI secolo D.C.,
la penisola fu invasa dagli slavi del sud, popolazione appartenente al gruppo etnico
europeo che la storia descrive come ospitali e valorosi.
Grazie anche al favore e al sostegno dei traci, gli slavi riuscirono man mano a
rovesciare il dominio bizantino e nel VII secolo, essi cominciarono a creare
un’organizzazione statale. Nello stesso tempo penetravano nella penisola balcanica i
protobulgari, una popolazione di origine turca proveniente dalla regione costiera del
mare di Azov, a nord del Caucaso che dopo aver sconfitto le truppe romane, si
stabilirono nel territorio della Dobrugia, per penetrare poi sempre più all'interno,
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nelle terre della odierna Bulgaria nord-orientale.
Primo Impero Bulgaro
Nel 681 slavi e bulgari strinsero un’alleanza concludendo la pace con Bisanzio
e fondando un nuovo stato chiamato appunto Bulgaria, la cui capitale fu la città di
Pliska.
Il Primo Impero Bulgaro, economicamente organizzato secondo il sistema
feudale, visse momenti di prosperità sotto la guida di Khan Krum, che governò
dall’803 all’814.
Le sue armate sconfissero le forze bizantine nell’811, arrivando ad assediare
Costantinopoli (l’odierna Istanbul) nell’813.
Anche i suoi successori, con la conquista della Macedonia, contribuirono a
dare lustro allo Stato Bulgaro, che divenne il più potente dell’Europa orientale
durante il regno di Simeone I, dall’893 al 927.
Tra il IX e il X secolo, re Simeone, detto il Grande, combatté e vinse varie
battaglie contro i Bizantini e i magiari, conquistò nuovi territori, tra cui la Serbia e
si creò la fama di sovrano potente. Proclamatosi imperatore di Grecia e Bulgaria nel
925, Simeone, tuttavia, non riuscì mai nel suo intento di conquistare Costantinopoli.
Il suo regno fu caratterizzato dalla diffusione della dottrina cristiana e da un grande
sviluppo culturale, infatti, fu proprio in questo periodo, definito il secolo d'oro della
letteratura bulgara, che nel paese si diffuse l'alfabeto cirillico e nacque una
letteratura autoctona.
Dopo la sua morte, avvenuta nell’anno 927, e particolarmente nella seconda
metà del X secolo, ebbe inizio la decadenza del Primo Impero Bulgaro, causata
dalle invasioni dei magiari e dei russi, che nel 969 conquistarono la capitale e fecero
prigioniera la famiglia reale.
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Nel 970 l’imperatore bizantino Giovanni I Zimiscè, allarmato dall’avanzata
dei russi nell’Europa sud-orientale, intervenne nel conflitto, riuscendo a sconfiggere
i russi e ad annettere al proprio impero le regioni orientali della Bulgaria (972).
L’impero bulgaro, governato dal 976 dallo zar Samuele, fu ridotto alla sola
regione occidentale del paese fino al 1014, quando l’imperatore bizantino Basilio II
sconfisse definitivamente le armate di Samuele, impadronendosi di tutta la Bulgaria.
Secondo Impero Bulgaro
Nel 1185, con una insurrezione popolare guidata dai fratelli Asen, i Bulgari si
ribellarono al dominio bizantino e ristabilirono la propria sovranità, creando il
Secondo Impero Bulgaro, con capitale Veliko Tarnovo.
All’inizio del XIII secolo, governati dalla dinastia degli Asen, i bulgari
riconquistarono gran parte dei territori della Serbia e della Macedonia occidentale.
Ma la Bulgaria perse nuovamente la propria indipendenza dopo il duro assedio
da parte dei turchi ottomani del 1393 che conquistarono la città di Tarnovo e quindi
il resto del regno rendendo la nazione una provincia dell'impero ottomano.
Iniziò quindi uno dei periodi più tristi della storia bulgara, caratterizzato da
massacri e devastazioni. Gli ottomani instaurarono un sistema feudale di tipo
militare, arretrato rispetto a quello preesistente dove la servitù della gleba era stata
abolita, e conducevano una dura politica di assimilazione culturale.
Le numerose insurrezioni popolari furono represse nel sangue costringendo molti
rivoltosi a emigrare.
L’Indipendenza
Il XIX secolo vide il risveglio dell’identità bulgara e la nascita del movimento
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nazionale rivoluzionario, influenzato dalle ideologie occidentali e favorito dal
diffondersi dell’istruzione e dal sostegno dei maggiori esponenti della cultura
letteraria del paese.
Ma fu soprattutto il forte desiderio di ridare vita ad una chiesa bulgara
indipendente a porre le basi per il Risorgimento bulgaro e a spingere la popolazione
oppressa a ribellarsi al dominio turco.
La lotta per la liberazione culminò con l'insurrezione dell'aprile 1876,
brutalmente stroncata dagli ottomani ma l’efferatezza della repressione e il rifiuto
da parte dell’impero ottomano di concedere ai bulgari l'indipendenza, nonostante il
sostegno delle potenze europee e di eminenti personalità di tutto il mondo, indusse i
russi ad intervenire.
Nel 1877, le truppe russe, con l’ausilio dell’esercito rumeno e di un reparto
militare, costituito da volontari bulgari, sconfissero definitivamente i turchi nelle
battaglie del Passo di Šipka e di Pleven. Il 3 marzo 1878 la Turchia firmò a S.
Stefano la capitolazione, riconoscendo l'indipendenza della Bulgaria e attribuendole
le regioni geografiche della Mesia, della Tracia e della Macedonia.
Successivamente le potenze europee, al fine di preservare l'equilibrio in
Europa, convocarono il Congresso di Berlino e rividero il trattato precedente,
ridimensionando lo stato bulgaro proposto.
La Bulgaria venne divisa in tre parti: principato di Bulgaria, Rumelia
(provincia autonoma dell'impero turco), Macedonia (in mano dei turchi).
Nel 1879, Alessandro di Battenberg, nipote dello zar Alessandro II di Russia,
fu proclamato primo principe di Bulgaria e a Tornovo venne approvata la prima
Costituzione, che concedeva la libertà di parola, stampa e riunione e il diritto al voto
per gli uomini con 21 anni compiuti.
Le Guerre Balcaniche
Nella primavera del 1912 Bulgaria, Grecia, Serbia e Montenegro formarono
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l'Alleanza balcanica e nell’ottobre dello stesso anno, con la prima Guerra Balcanica,
gli Stati alleati sconfissero gli ottomani, liberando i territori della penisola balcanica
ancora in mano turca.
I contrasti intervenuti tra gli alleati per la spartizione dei territori conquistati
provocarono però la seconda Guerra Balcanica (giugno 1913), in seguito alla quale
la Bulgaria, sconfitta, perse gran parte della Macedonia a favore della Serbia e la
Dobrugia a favore della Romania.
Le Guerre Mondiali
Dopo le guerre balcaniche, l’opinione pubblica bulgara era contro la Russia e
le potenze occidentali che non erano intervenute in aiuto della Bulgaria.
Per questo motivo e con la speranza di recuperare i territori persi, allo scoppio
della prima guerra mondiale, la Bulgaria decise di allearsi con i tedeschi , anche se
ciò significava diventare un alleato degli ottomani, i tradizionali nemici della
Bulgaria.
La Bulgaria si tenne fuori dal conflitto durante il primo anno della prima
guerra mondiale, mentre recuperava forze dalle guerre balcaniche. Ma quando la
Germania promise di restaurare i confini del trattato di Santo Stefano, la nazione,
che possedeva l'esercito più grande dei Balcani, dichiarò guerra alla Serbia
nell'ottobre 1915.
Per tutta risposta, la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia le dichiararono guerra.
Tra i bulgari iniziò a diffondersi un forte sentimento antibellico. Le gravi
ristrettezze economiche in cui versavano, il rifiuto a combattere contro altri cristiani
ortodossi e, soprattutto, ad essere alleati degli ottomani portarono ad
ammutinamenti nell’esercito che culminarono con un’insurrezione che mirava a
rovesciare la monarchia e ad instaurare un governo repubblicano.
La rivolta venne soffocata, costando al paese migliaia di vite, ma la Bulgaria
nonostante ciò, raggiunse, almeno in parte, il suo scopo: uscire dalla guerra.
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Il periodo fra le due guerre fu caratterizzato dalla mancanza di buoni rapporti
di vicinato, soprattutto con la Jugoslavia e la Grecia, a causa della questione
macedone, che i Bulgari si rifiutavano di considerare definitivamente risolta dal
trattato di pace.
Nel 1929 ci fu un tentativo di riavvicinamento dettato soprattutto da
impellenti ragioni economiche, infatti la nazione non si era più risollevata dagli
effetti disastrosi causati dalle tre guerre, ma nulla di positivo fu possibile concludere
e le relazioni con i due stati peggiorarono in seguito alla conclusione del trattato
greco-jugoslavo del marzo 1929, ritenuto a Sofia come un nuovo tentativo di
accerchiamento.
La profonda crisi economica e le tensioni interne portarono all’instaurazione
di una dittatura apertamente fascista: furono vietati tutti i partiti, imposta la censura
sulla stampa, chiuse le università, si formò un movimento giovanile di ultradestra.
I rapporti con la Germania intanto si facevano sempre più stretti tanto che allo
scoppio della seconda guerra mondiale, la Bulgaria, pur dichiarandosi neutrale per
evitare il coinvolgimento nella guerra, si orientò sempre più verso le potenze
dell'Asse.
Sotto l’influenza tedesca e italiana, nel marzo del 1940 aderì al Patto tripartito
e nel successivo dicembre ottenne dalla Romania: la Dobrugia meridionale.
Nel marzo 1941 dichiarò guerra alla Iugoslavia e alla Grecia, occupando la
Macedonia, la Tracia e i distretti greci di Florina e Kastoria.
Pochi mesi dopo dichiarò guerra anche a Stati Uniti e Gran Bretagna.
C'è da precisare però che, sebbene alleato della Germania nazista, il governo
bulgaro si oppose alla politica di sterminio condotta contro gli ebrei e il governo filo
tedesco venne rovesciato nel maggio 1944 dalle forze partigiane comuniste e
agrarie.
Occupata dalla truppe sovietiche a settembre, nell'ottobre dello stesso anno la
Bulgaria firmò l’armistizio con l’URSS, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna,
ritirandosi dai territori sottratti alla Grecia e alla Iugoslavia e fu allora che cadde
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sotto la sfera d’influenza sovietica.
La Repubblica Popolare di Bulgaria
Con il referendum dell'8 settembre 1946, fu liquidata la monarchia, furono
indette nuove elezioni vinte dal Fronte Popolare e proclamata la Repubblica
Popolare di Bulgaria con Georgi Dimitrov quale presidente del Consiglio.
Cominciò la trasformazione della Bulgaria in senso socialista, con la
nazionalizzazione delle imprese industriali, minerarie e delle banche, la riforma
agraria e in campo politico l'eliminazione delle opposizioni.
Nel 1962, Todor Živkov assunse la presidenza della nazione e la mantenne
fino al 10 novembre 1989, quando inattesa si diffuse la notizia delle sue dimissioni.
Erano gli anni della crisi del sistema sovietico e nel 1992 fu eletto presidente
l'esponente di maggior spicco delle Forze Democratiche, Zeljo Želev.
Solo nel 1997, tuttavia, quando la crisi economica era al culmine, le forze
democratiche raggiunsero stabilmente la maggioranza e avviarono il processo di
avvicinamento alle potenze occidentali. Nel 2001, i socialisti conquistarono la
presidenza con Georgi Parvanov, riconfermato nell'ottobre del 2006.
La Bulgaria è entrata a far parte della NATO il 29 marzo 2004 e nell'Unione
Europea il 1° gennaio 2007, dopo aver firmato il Trattato di Accesso il 25 aprile
2005.
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Superficie: 110.971 Km²
Abitanti: 7.801.000 (31/12/2003)
Densità: 70 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Sofia (1.096.000 ab., 1.209.000 aggl. urbano)
Altre città: Plovdiv 341.000 ab., Varna 315.000 ab., Burgas 193.000 ab., Ruse
162.000 ab.
Gruppi etnici: Bulgari 84%, Turchi 9,5%, Zingari 4,5%, altri 2%
Paesi confinanti: Romania a NORD, Serbia e Macedonia ad OVEST, Grecia e
Turchia a EST
Monti principali: Moussala 2925 m
Fiumi principali: Danubio 520 Km (tratto bulgaro, totale 2858 Km), Iskar 368 Km,
Marica 321 Km (tratto bulgaro, totale 514 Km), Struma 290 Km (tratto bulgaro,
totale 408 Km)
Laghi principali: Jezero Studen Kladenec (artificiale), Burgasko ezero
Isole principali: Belene (nel Danubio) 43 Km²
Clima: Continentale - mediterraneo
Lingua: Bulgaro (ufficiale), Turco, Macedone, Romeno, Armeno
Religione: Cristiana Ortodossa 84%, Musulmana 12%, altro 4%
Moneta: Lev bulgaro
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CROAZIA
Abitata anticamente dagli illiri, la regione fece parte, dopo la conquista
romana, della Pannonia. Conquistata durante il VI secolo d.C. dagli avari, genti del
ceppo mongolo, fu colonizzata durante il VII secolo dai croati, un popolo di razza
slava convertitosi al cristianesimo.
Dopo una breve dominazione da parte dei franchi, venne denominata ducato di
Croazia e di Slavonia.
Nel 925 la Croazia divenne un regno indipendente con Tomislao e tale rimase
fino alla fine dell’XI secolo, quando, in seguito ad un periodo di grave anarchia,
Ladislao d’Ungheria conquistò la Croazia pannonica e il suo successore Colomano
fu incoronato re di Croazia nel 1102, unendo sotto lo stesso potere i due stati.
Nel XVI secolo una parte del territorio fu sottomessa all’impero ottomano,
Dalmazia e Istria caddero in diverse occasioni sotto il dominio di Venezia e della
Francia, mentre gran parte del territorio dell’odierna Croazia costituì un regno
autonomo nell’ambito dell’impero asburgico fino alla rivoluzione ungherese del
1848-49.
Costituita la duplice monarchia austro-ungarica (1867), la Croazia venne
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assegnata alla Corona ungherese, ottenendo un’autonomia limitata e l’unione
formale con la Slavonia nel 1881.
Nel XIX secolo, in seguito all’istituzione da parte di Napoleone I delle
Province illiriche (1809-14), in Croazia si sviluppò l’“illirismo”, un movimento
nazionale ispirato alla rivoluzione francese, tanto che verso il 1830 lo scrittore
Ljudevit Gaj (1809-1872) propugnò la riunificazione degli slavi del sud (iugoslavi)
in un unico stato; a tale scopo Gaj riformò l’ortografia del croato per avvicinarlo al
serbo, dando ai due popoli una lingua letteraria comune.
La politica nazionalistica ungherese, la “magiarizzazione”, suscitò un’aperta
ostilità nei confronti dell’Ungheria e un sentimento di solidarietà tra serbi e croati.
Durante la prima guerra mondiale i due popoli combatterono insieme, nella
speranza di creare un regno che avrebbe riunificato tutte le genti slave del sud.
Nel 1918, in seguito alla caduta della monarchia austroungarica, la Croazia
proclamò la propria indipendenza e l’unione con il nuovo Regno dei serbi, croati e
sloveni, governato dal monarca serbo Alessandro I e nel 1929 il sovrano rinominò il
regno Iugoslavia (Terra degli slavi del Sud).
La nascita della Iugoslavia fu accolta in Croazia con entusiasmo, destinato
tuttavia a spegnersi quando fu chiaro che nel nuovo stato i margini di autonomia per
croati e sloveni sarebbero stati molto ristretti.
I lavori della costituente furono boicottati dal Partito contadino croato di
Stjepan Radić, il quale solo nel 1925, dopo aver invano cercato sostegno all’estero,
accettò di entrare nel governo del regno. Lo scontro tra croati e serbi si acuì negli
anni seguenti, culminando nel 1928 in un attentato contro Radić, ucciso con altri
due membri dell’opposizione croata nel Parlamento di Belgrado da un deputato
montenegrino. I funerali di Radić diventarono in Croazia una vasta manifestazione
popolare contro il predominio serbo.
A partire dal 1929, in Croazia andò affermandosi un nazionalismo radicale e
ferocemente antiserbo, che ebbe come portavoce Ante Pavelić. Questi, fuggito
all’estero, con l’appoggio dell’Ungheria e dell’Italia (entrambe decise a minare la
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monarchia serba) creò l’organizzazione terroristica e filofascista degli ustascia.
Nel 1934 un nazionalista croato uccise a Marsiglia il re Alessandro I.
Il successore di Alessandro, il reggente Paolo, riavviò il dialogo con l’ala
moderata del nazionalismo croato rappresentata dal Partito contadino, concedendo
nel 1939 un’ampia autonomia alla Croazia. L’accordo venne tuttavia respinto dagli
ustascia, fautori di una rottura totale con la Serbia, scontentando nel contempo molti
croati, al punto che, nell’aprile del 1941, Zagabria accolse trionfalmente l’ingresso
delle truppe tedesche.
Nel 1941 la Iugoslavia fu smembrata dalle potenze dell’Asse e nei territori
della Croazia e della Bosnia venne creato uno stato filofascista guidato da Pavelić,
che, perseguendo l’obiettivo di rendere la nazione etnicamente pura, attuò una
feroce politica di sterminio nei confronti di serbi, ebrei, zingari, partigiani, che
causò centinaia di migliaia di vittime.
Il sanguinario regime fascista degli ustascia fu abbattuto nel 1944 dalla
resistenza comunista guidata da Josip Broz Tito.
Nei mesi successivi la Croazia diventò oggetto di una severissima repressione;
molti esponenti del regime fascista, collaborazionisti, ma anche molti semplici
cittadini furono uccisi o reclusi senza nessuna possibilità di difendersi.
Con l’aiuto degli Alleati e della Chiesa cattolica, molti croati – e tra questi
molti membri del regime fascista e delle milizie ustascia – abbandonarono il paese
trovando rifugio soprattutto in Argentina, in Australia, in Canada e negli Stati Uniti.
Nella Repubblica socialista federale di Iugoslavia creata da Tito nel
dopoguerra, la Croazia ebbe un ruolo importante, ma tuttavia subordinato al
centralismo di Belgrado.
Tito, di origini croate, diede alla federazione un sistema istituzionale basato
sull’autonomia degli stati costituenti e su un’unica ideologia, quella comunista, che
nelle attese della leadership iugoslava avrebbe dovuto sostituire quella nazionalista.
La Croazia perse la Bosnia-Erzegovina, che divenne una repubblica autonoma,
ma in base al trattato di pace con l’Italia del 1947, gran parte dell’Istria, prima in
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mano italiana, fu inclusa nel suo territorio (Questione di Trieste).
Per molti anni i croati furono oggetto di uno stretto controllo da parte delle
autorità comuniste e in particolare della polizia segreta del ministro degli interni
Aleksandr Rancović, fautore di un centralismo dogmatico e intransigente.
Le tensioni nazionaliste tra croati e serbi, mai sopite, riaffiorarono negli anni
Sessanta nelle polemiche linguistiche (rivendicazione della specificità della variante
nazionale del serbo-croato), artistiche (rifiuto del “realismo socialista6”),
economiche (adozione di una moneta croata).
Nel 1967 un “manifesto” fortemente nazionalista di intellettuali zagabresi
sollevò un’acuta crisi politica tra Zagabria e Belgrado, che si risolse solo con
l’intervento del vertice della Lega dei comunisti ma negli anni successivi lo scontro
si fece via via più politico, sfociando nel 1971 nelle rivendicazioni della cosiddetta
“primavera croata”: totale autonomia della repubblica croata, costituzione di un
esercito nazionale e invio di una propria rappresentanza alle Nazioni Unite.
Allarmate dall’estensione del movimento e dal sostegno che questo riceveva dalla
diaspora ustascia, le istituzioni federali iugoslave intervennero decapitando la
leadership politica croata ed espellendo migliaia di persone di nazionalità croata
dalle istituzioni pubbliche, dall’esercito e dalla Lega dei comunisti.
Nel 1974, la nuova costituzione iugoslava concesse una più ampia autonomia
ai croati, ma tra questi si andò tuttavia affermando il disegno indipendentista.
L’esplosione dei nazionalismi
Dopo la morte di Tito (1980), il sistema federale e socialista iugoslavo si avviò
verso il suo definitivo declino. In tutta la federazione andarono moltiplicandosi le
richieste di indipendenza e si rinnovò lo scontro tra Croazia e Serbia; in entrambe le
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- Realismo socialista: Movimento artistico, nato nell’URSS nel corso degli anni Trenta del
Novecento e diffusosi al termine della seconda guerra mondiale negli altri paesi comunisti, che perseguiva
l’obiettivo di rappresentare la funzione storica del proletariato e gli ideali della rivoluzione socialista.
Il periodo della sua massima affermazione si colloca durante il governo di Stalin e in particolare quando, nel 1932, il Comitato centrale del Partito comunista sovietico stabilì lo scioglimento dei movimenti artistici indipendenti e l’istituzione di unioni artistiche direttamente controllate dallo Stato. I soggetti privilegiati
del realismo socialista erano immagini dei lavoratori nei campi o nelle fabbriche, scene di vita quotidiana, ritratti celebrativi di Stalin e di altre personalità di rilievo del paese, rappresentazione di episodi della rivoluzione.
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repubbliche il nazionalismo dilagò alimentandosi di ruggini e di miti vecchi e
nuovi. Singolare a questo riguardo fu il fermento religioso cresciuto in Croazia per
tutti gli anni Ottanta intorno al villaggio di Medjugorje, dove a partire dal giugno
del 1981 si sarebbero verificate diverse apparizioni della Madonna.
Nel timore di sollevare nuove dispute, dopo i primi inefficaci tentativi di
contrasto le autorità federali decisero di tollerare il fenomeno religioso, di cui però
si impadronirono i nazionalisti per ribadire l’estraneità della nazione croata al
sistema culturale e politico iugoslavo.
Nel contempo nella Serbia dilagò un nazionalismo altrettanto esasperato, che
premeva per un’affermazione definitiva della nazione serba sulle altre popolazioni
balcaniche; tra i protagonisti di questa operazione ideologica si distinsero lo
scrittore Dobrica Ćosić, membro dell’Accademia delle scienze e delle arti di
Belgrado, e il presidente Slobodan Milošević.
Nel maggio 1990, con il ritorno al multipartitismo, in Croazia si affermò la
formazione più nazionalista, la Comunità democratica croata (HDZ), creata nel
1989 da Franjo Tudjman, un anziano generale dell’armata federale in pensione.
L’HDZ riportò il 40% dei suffragi e la maggioranza dei seggi nell’Assemblea
nazionale, mentre Tudjman fu eletto alla presidenza del paese.
La presenza nelle file dell’HDZ di correnti esplicitamente ispirate al
movimento degli ustascia e l’insistenza sui temi nazionalistici sollevarono la
preoccupazione dei serbi residenti in Croazia, che trovò una conferma anche nella
scelta del nuovo governo di adottare una bandiera e le divise dell’esercito del paese
somiglianti a quelle della Croazia fascista di Pavelić.
Neanche la nomina di un serbo alla vicepresidenza servì a rassicurare la
comunità serba, che nell’estate del 1990 proclamò a sua volta l’autonomia dalla
Croazia nelle province a maggioranza serba della Krajina e della Slavonia orientale
e in quella mista della Slavonia occidentale.
Il governo Tudjman non riconobbe l’autonomia delle tre regioni.
Indipendenza e guerra civile
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Nel giugno del 1991 la Slovenia e la Croazia proclamarono la propria
indipendenza dalla Iugoslavia, sollevando l’aspra reazione di Belgrado.
In Slovenia la crisi si risolse in pochi giorni con il ritiro dell’esercito federale.
In Croazia, dove la comunità serba era consistente (600.000 persone) e gli
interessi nazionali in gioco più complessi, scoppiò un violento conflitto che si
protrasse per sette mesi.
La Croazia, giunta militarmente impreparata all’indipendenza, subì la pesante
offensiva dei serbi, che si abbatté con particolare violenza sulle città di Vukovar,
Zara e Dubrovnik.
Nel gennaio 1992, in seguito alla firma di un cessate il fuoco, le truppe
federali si ritirarono, conservando però il controllo della Krajina e della Slavonia,
dove fu proclamata la Repubblica serba di Krajina (RSK) con capitale Knin. Nello
stesso mese l’indipendenza della Croazia venne riconosciuta dai paesi dell’Unione
Europea.
Sia durante il conflitto, sia nei mesi che seguirono, si diede avvio alla pratica
della “pulizia etnica”; con lo scopo di ripulire le città e le campagne dai membri
della comunità avversaria, centinaia di migliaia di persone vennero espulse dalle
loro case e costrette a muoversi senza una meta, perseguitate, uccise o internate in
campi di concentramento.
Se i serbi eccelsero in questa condotta, i croati non la ripudiarono; entrambe le
comunità, più quella musulmana, avrebbero riproposto in modo anche più tragico
questa pratica durante il conflitto che nel 1992 travolse la Bosnia (Guerra civile
jugoslava).
Tudjman impose alla Croazia un regime personalistico e autoritario, venendo
riconfermato alla presidenza del paese nel 1992, ma nel corso della primavera, lo
scontro si spostò in Bosnia-Erzegovina.
Agli inizi di maggio del 1995, le forze croate aggirarono le linee dell’ONU
poste a difesa del cessate il fuoco e attaccarono l’enclave serba della Slavonia
occidentale.
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Nel mese di agosto l’esercito croato attaccò la Krajina, conquistandone la
capitale Knin; un nuovo cessate il fuoco mise provvisoriamente fine ai
combattimenti nella regione, sottoposta a una severa pulizia etnica da parte dei
croati.
La nuova Croazia
Gli accordi di Dayton del novembre 1995 posero fine al conflitto nei Balcani e
la Croazia ottenne la restituzione della Slavonia orientale (a partire dal luglio 1997,
dopo una tutela provvisoria dell’ONU).
Nel 1996 la Repubblica federale di Iugoslavia (Serbia e Montenegro) e la
Croazia firmarono un accordo di mutuo riconoscimento e nello stesso anno
quest'ultima fu ammessa tra molte polemiche nel Consiglio d’Europa.
Con la fine del conflitto, il disegno nazionalista di Tudjman iniziò a mostrare
le prime crepe. Emarginato nel contesto internazionale per il suo rifiuto di
collaborare con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia e per la scarsa
attenzione riservata ai diritti politici e umani, Tudjman diventò anche bersaglio di
una crescente opposizione interna.
Grazie allo stretto controllo instaurato sullo stato e sui mezzi di informazione
e alla discriminazione attuata nei confronti delle opposizioni (peraltro severamente
criticata dagli osservatori internazionali), nel giugno del 1997 Tudjman fu
confermato alla presidenza del paese, ma a recarsi alle urne fu solo il 57% degli
elettori.
Nel 1999, Tudjman tentò di rafforzare il traballante regime nazionalista con la
creazione di un Consiglio di presidenza della Repubblica, trasferendovi gran parte
dei poteri del governo.
Il piano era tuttavia destinato ad arenarsi con la morte dello stesso Tudjman,
annunciata, in un clima di fine regno, nel dicembre dello stesso anno.
Agli inizi del 2000, privo della sua guida e diviso dalla lotta per la
successione, l’HDZ subì una clamorosa sconfitta, perdendo sia le elezioni
legislative (in seguito alle quali venne chiamato a guidare il governo Ivica Racan),
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sia quelle presidenziali.
Alla guida dello stato fu eletto il candidato delle opposizioni Stipe Mesić,
ultimo presidente della Iugoslavia nel 1991, per soli pochi giorni, Mesić era stato in
seguito uno stretto collaboratore di Tudjman, da cui aveva presto preso le distanze
nella seconda metà degli anni Novanta.
L'integrazione europea
Dopo la morte di Tudjman, il paese fu attraversato da forti tensioni, dovute sia
al severo piano di austerità messo in atto per affrontare la grave crisi economica, sia
alle proteste nazionaliste sollevate dalla decisione della nuova leadership di
collaborare con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia.
Le accuse rivolte a diversi alti ufficiali dell’esercito croato (e in particolare al
generale Ante Gotovina) per crimini di guerra commessi tra il 1991 e il 1995 contro
i serbi in Croazia e contro i musulmani in Bosnia suscitarono infatti la forte
mobilitazione dell’opposizione nazionalista dell’HDZ e degli ex combattenti.
La questione causò contrasti anche in seno alla nuova maggioranza di governo
formata dai partiti socialdemocratico e social-liberale, e solo nell’estate del 2001,
per scongiurare l’isolamento internazionale del paese, il Parlamento approvò la
linea sostenuta da Mesić e Racan.
Le polemiche indebolirono tuttavia il nuovo governo croato, avvantaggiando i
nazionalisti dell’HDZ, che già nelle amministrative del maggio 2001 recuperarono
parte del consenso perduto nelle elezioni nazionali.
Nonostante un nuova crisi politica scoppiata tra la primavera e l’estate del
2002, il governo croato confermò la sua collaborazione con il Tribunale penale
internazionale e la sua volontà di affrontare l’altrettanto delicata questione del
ritorno dei profughi serbi in Krajina.
Guadagnatasi la fiducia della comunità internazionale, Zagabria intensificò la
sua azione diplomatica rivolta all’ingresso nell’Unione Europea, il principale
obiettivo della politica estera dopo l’indipendenza, e nel febbraio 2003 presentò la
sua candidatura ufficiale. Il governo di Zagabria operò nel contempo per migliorare
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le relazioni con i paesi balcanici, stipulando una serie di accordi con la Slovenia, la
Bosnia-Erzegovina e la Serbia-Montenegro.
La condanna a dodici anni di prigione, comminata per crimini di guerra in
marzo al generale Mirko Norać dal tribunale di Rijeka (Fiume), suscitò nuove
proteste dei nazionalisti.
Le elezioni legislative del novembre 2003 videro il ritorno al potere dei
nazionalisti. L’HDZ, rinnovato nei ranghi e ripulito dalle frange più estremiste,
riuscì infatti a sfruttare la crisi della coalizione di centrosinistra e a riconquistarsi un
vasto consenso tra l’elettorato croato. Formato un nuovo esecutivo, che si avvalse
del sostegno di altre formazioni di destra, il suo leader Ivo Sanader confermò gli
impegni internazionali assunti dal precedente governo, soprattutto a riguardo del
Tribunale penale internazionale e dell’ingresso della Croazia nell’Unione Europea.
Nel gennaio 2005 Stipe Mesić venne confermato con una larga maggioranza
(65,9%) alla guida dello stato, sconfiggendo il candidato dell’HDZ. Rinviati per la
mancata collaborazione delle autorità di Zagabria nella ricerca del generale Ante
Gotovina, accusato di crimini di guerra dal Tribunale penale internazionale per l’ex
Iugoslavia, i negoziati per l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea iniziarono
nell’ottobre 2005.
L’arresto di Ante Gotovina, avvenuto nel successivo dicembre alle Canarie,
spianò inoltre la strada per l’ingresso del paese nella NATO.
La Croazia attuale
Il rapporto della Commissione europea pubblicato nel novembre 2006 esortò
la Croazia ad accelerare il processo di riforme necessarie all’ingresso nell’Unione
Europea, soprattutto riguardo alla lotta alla corruzione, alla ristrutturazione
dell’amministrazione statale e del sistema giudiziario, alla situazione delle
minoranze.
Le elezioni legislative del novembre 2007 registrarono la forte rimonta del
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Partito socialdemocratico, che non riuscì tuttavia a superare la Comunità
democratica croata (HDZ); Ivo Sanader formò un nuovo governo di coalizione con
altri partiti della destra croata.
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Superficie: 56.594 Km²
Abitanti: 4.443.000 (stime 2002)
Densità: 79 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Zagabria (692.000 ab., 779.000 aggl. urbano)
Altre città: Spalato 175.100 ab., Fiume 143.800 ab., Osijek 90.400 ab., Zara 69.600
ab., Slavonski Brod 58.600 ab., Pola 58.600 ab.
Gruppi etnici: Croati 90%, Serbi 4,5%, altri 5,5%
Paesi confinanti: Slovenia a NORD, Ungheria a NORD-EST, Serbia ad EST,
Bosnia Erzegovina a SUD ed EST, Montenegro a SUD
Monti principali: Dinara 1831 m
Fiumi principali: Sava 562 Km (tratto croato, totale 947 Km), Drava 505 Km
(tratto croato, totale 707 Km), Mura 438 Km, Kupa 296 Km, Danubio 188 Km
(tratto croato, totale 2858 Km)
Laghi principali: Vransko jezero 30,7 Km², Dubravsko jezero 17,1 Km²
Isole principali: Krk (Veglia) 405,78 Km², Cres (Cherso) 405,78 Km², Brac
(Brazza) 394,57 Km², Hvar (Lesina) 299,66 Km², Pag (Pago) 284,56 Km², Korcula
(Curzola) 276,03 Km², Dugi otok (Isola lunga) 114,44 Km², Mljet 100,41 Km²
Clima: Continentale - mediterraneo
Lingua: Croato
Religione: Cattolica 88%, Ortodossa 4,5%, altro 7,5%
Moneta: Kuna croato
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CURLANDIA
La nascita di un Ducato di Curlandia indipendente ed autonomo risale al 1562
quando, con il trattato di Wilno si obbligò l’ultimo Gran Maestro dell’Ordine
Livoniano (o dei Portaspada, già facente parte dell’Ordine Teutonico), Gottardo
Kettler, a sciogliere l’ordine stesso ottenendo in cambio l’elezione a Duca di
Curlandia e Semigallia, Ducato che avrebbe ricompreso i territori dell’attuale
Lettonia che erano tra la sponda occidentale del fiume Daugawa (Dvina) ed il Mar
Baltico, con capitale Mitau (Jelgava).
Il paese, sotto la dinastia dei Kettler, conobbe un rapidissimo sviluppo
economico, dovuto alla posizione strategica del paese, che ne faceva il naturale
punto di sbocco verso Occidente ed il Nord Europa di tutti i prodotti provenienti
dall’Est (dalla Russia) ed al tempo stesso il punto di partenza di tutti i prodotti che,
dalla zona del Baltico, penetravano in Russia e nell’Est Europa.
Inoltre, fattore non secondario, la zona del Ducato di Curlandia, si trovava
all’interno della zona di produzione dell’ambra, sempre ricercatissima come
decorazione preziosa.
Questo fantastico sviluppo economico fu incentivato e potenziato dall’autorità
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ducale la quale si era molto adoperata, sotto il Duca Jacob Kettler (1610 – 1682),
conscia di questo potenziale sviluppo.
A tal fine il Duca, fervido ammiratore delle teorie mercantiliste, aveva avviato
il varo di una flotta mercantile di ampio respiro, supportata da due porti principali,
Windau e Libau, oggi rispettivamente Ventspils e Liepaja.
Da questi due porti la flotta curlandese salpava per commercializzare i propri
prodotti; il Duca, infatti, fece aprire rotte commerciali verso Francia, Inghilterra ed
Olanda.
Tuttavia la situazione geografica della Curlandia, economicamente così
favorevole, non era eccezionale. Le conformazioni geografiche del Nord Europa,
del Mar Baltico e del Mar del Nord, infatti, facevano sì che alcuni paesi (Inghilterra,
Danimarca, Svezia, Olanda) potessero bloccare, senza alcuno sforzo, il commercio
curlandese, o comunque rallentarlo ed appesantirlo con balzelli e pedaggi. Oltre a
questo la Curlandia era quasi obbligata ad acquistare i prodotti direttamente da
questi paesi, con un aumento dei costi piuttosto consistente.
Il governo curlandese, con in testa il Duca Jacob, decise (anche seguendo in
maniera pedissequa le teorie mercantiliste) di bypassare l’intervento dei mediatori
inglesi, olandesi o danesi, permettendo ai propri mercanti di ottenere le materie
prime ed i prodotti direttamente alle fonti di produzione: servivano ovverosia delle
colonie.
Da quel momento ebbe inizio l’avventura coloniale curlandese.
La Curlandia in Africa: l’isola di S. Andrea
Una delle due direzioni verso cui si diresse il colonialismo curlandese fu l’Africa. A
quell’epoca il continente nero non era ancora la principale “fonte” di territori
colonizzabili; lo sarebbe divenuto qualche secolo dopo – il XIX per la precisione –
con la corsa alla colonizzazione.
Nel XVII secolo, eccetto pochi e sparuti territori (perlopiù stazioni commerciali o
approdi), la maggior parte del territorio era ancora occupata da regni e tribù locali;
questo non significa che non vi fossero rapporti tra queste tribù ed i mercanti
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europei, ma solo che, a differenza dell’America, non sembrava conveniente
conquistare stabilmente territori da colonizzare.
Da questo punto di vista, anche l’avventura curlandese non si differenziò. Essa
infatti non puntò alla conquista di un vasto territorio, quanto più alla creazione di un
punto d’approdo (con annessa stazione commerciale) atto ad impiantare un
commercio stabile – semistabile con le tribù dell’interno.
A tal fine i luoghi prescelti dovevano avere alcune peculiari caratteristiche:
1. Essere sul mare, con annessa possibilità di costruzione di un porto (la cui utilità è
superfluo indicare).
2. Essere in una posizione tale da avere facili contatti con l’interno del paese, per
permettere ai mercanti di andare a recuperare le materie prime ovvero agli indigeni
di portare le proprie “mercanzie” al luogo di scambio.
3. Essere in una posizione facilmente difendibile, per impedire ad eventuali indigeni
ostili, ovvero ad altre potenze europee di conquistare facilmente il territorio e
spazzare quindi via la colonia (la quale difficilmente potrebbe ricevere rinforzi in
tempi brevi).
Quando, nel 1651, coloni curlandesi si trovarono alla ricerca di un luogo con queste
caratteristiche si imbatterono in un territorio che sembrava perfetto.
Si trattava di un’isola, facilmente difendibile e con possibilità di approdo di navi.
L’elemento più interessante era la posizione di quest’isola, visto che era posta non
sul mare, ma a 30 Km di distanza dalla foce del fiume Gambia. Un’isola nel fiume,
quindi, perfetta per effettuare scambi commerciali con l’interno del paese.
I coloni sbarcarono e diedero a quell’isola il nome di Isola di S. Andrea.
L’attività commerciale si diresse principalmente verso le materie prime che la zona
offriva: avorio, oro, pelli e spezie, tutti prodotti facilmente smerciabili in Europa e
nell’Est in particolare.
La colonia dell’isola di S. Andrea, tuttavia, ebbe una durata effimera. Già nel 1659
gli Inglesi, accortisi della posizione strategica di prim’ordine, conquistarono l’isola
e scacciarono i coloni lì presenti.
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Ribattezzarono l’isola con il nome del Duca di York, James, nome con il quale sono
entrambe oggi conosciute (l’isola è oggi patrimonio dell’umanità secondo
l’UNESCO)
La Curlandia nelle Indie Occidentali: l’isola di Tobago
Una prima spedizione curlandese diretta sull’isola giunse già nel 1637, quando già
spedizioni simili di Spagna ed Olanda erano fallite.
Così, a metà del 1637, 212 coloni curlandesi sbarcarono sull’isola ma vennero
respinti dagli indigeni.
Un secondo tentativo fu compiuto nel 1642 quando due navi, con 300 coloni guidati
dal Capitano Caroon cercarono di stabilirsi sull’isola ma un attacco dei Caribi (la
popolazione locale) provocò la morte di molti coloni e la fuga dei restanti nella
Guyana.
Intanto simili spedizioni inglesi, nel 1639 e nel 1642 fallirono ugualmente.
Finalmente nel 1654, il Duca inviò una nuova spedizione che conquistò l'isola
ribattezzandola Neu Kurland (Nuova Curlandia) e la baia dove erano sbarcati Baia
di Curlandia, si iniziò la costruzione di un forte (Forte Jacob) attorno al quale sorse
l’abitato di Jekaba pilseta tra le cui costruzioni si ricorda una chiesa protestante.
Pochi mesi dopo, tuttavia, coloni olandesi sbarcarono sull’isola, dando vita ad un
proprio possedimento. Si era quindi nella paradossale situazione di due colonie
poste su un’isola piccola, certamente troppo piccola per entrambi i possedimenti.
Intanto erano state avviate fiorenti attività commerciali che comprendevano lo
smercio di zucchero, tabacco, spezie e caffè, tutti prodotti introvabili altrimenti in
Europa e dei quali gli Europei iniziavano a non poter più fare a meno.
La presenza di due nazioni rivali sulla stessa isola peggiorò con lo sbarco, nel 1658,
di 500 coloni francesi. Dal punto di vista strettamente demografico, la presenza
curlandese era la minore, nonostante, l’anno precedente, altri 120 coloni si fossero
uniti ai primi pionieri.
Tuttavia la parabola discendente del possedimento era già iniziata. Nel 1655, infatti,
la Svezia aveva invaso il Ducato e nel 1658 lo stesso Duca Jacob Kettler fu preso
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prigioniero.
Gli Olandesi approfittarono della situazione, che impediva al Ducato di inviare
rinforzi, e nel 1659 attaccarono il possedimento curlandese. L’11 dicembre 1659 il
governatore della Nuova Curlandia, Hubert de Beveren, si arrese alle truppe
olandesi che assediavano il forte Jacob.
Qualche speranza per il ritorno della colonia in mani baltiche si riebbe nel 1660,
quando con il Trattato di Oliva (che concludeva la Seconda guerra del Nord), fu
stabilito che l’isola dovesse tornare in mani curlandesi. Ma anche questa
dominazione ebbe vita breve. Nel 1666, infatti, i coloni si arresero a pirati inglesi
che presero possesso dell’isola, che non sembrava trovare pace: nel giro di due anni
cambiò altre due volte padrone: i Francesi scacciarono gli Inglesi nello stesso 1666,
poi furono scacciati a loro volta dagli Olandesi che, nel 1667, presero possesso
nell’isola.
Le velleità di conquista del Ducato di Curlandia non erano finite, visto che una nave
curlandese cercò di sbarcare truppe e coloni nel 1668. Gli Olandesi, però, riuscirono
a respingere l’invasione.
Fonti testimoniano come negli anni 1675 – 1683, coloni curlandesi fossero riusciti a
riformare un agglomerato ed un possedimento, ma probabilmente si trattò di coloni
curlandesi sottoposti al governo olandese – francese (l’isola continuò a cambiare
padrone più e più volte).Nel 1689 gli ultimi coloni curlandesi lasciarono
definitivamente l’isola di Tobago: era la fine dei possedimenti coloniali del Ducato
di Curlandia. Nonostante la fine del dominio su territori d’oltremare, il Ducato di
Curlandia, fino alla sua dissoluzione nel 1795, continuò a nominare un Governatore
della Nuova Curlandia, in un quanto mai utopico desiderio di rivalsa e riconquist
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ESTONIA
Tribù di origine ugrofinnica, che Tacito menziona come aestii, gli estoni si
organizzarono in piccoli stati federati già dai primi secoli dell’era cristiana e, tra il
IX e il XII secolo, si scontrarono con vichinghi, russi, danesi e svedesi.
Nel 1219 il re di Danimarca, Valdemaro II, per offrire sostegno all’invasione
teutonica del paese, occupò la parte settentrionale della regione, fondando la città di
Reval (oggi Tallinn), ove fece costruire un castello e stabilì la sede del vescovo.
Nel 1242 Aleksandr Nevskij sconfisse nella battaglia del lago Peipus i Cavalieri
teutonici, arrestandone l’avanzata.
La dominazione svedese
In seguito a una sommossa, scoppiata tra il 1343 e il 1345, il sovrano danese
Valdemaro IV cedette i propri territori all’ordine dei Cavalieri teutonici, che
all’epoca già controllavano la regione meridionale (Livonia).
Questi ultimi e la Lega anseatica7 fondarono alcuni centri commerciali lungo la
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- Lega anseatica: (detta anche Hansa) fu un' alleanza di città che nel tardo medioevo e fino
all'inizio dell'era moderna mantenne il monopolio dei commerci su gran parte dell'Europa settentrionale e
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costa e dominarono il paese fino al 1561; dopo questa data la parte meridionale fu
temporaneamente governata dalla Polonia, mentre la nobiltà tedesca prese possesso
delle aree rurali godendo della protezione della corona svedese e sottoponendo la
popolazione estone a durissime condizioni di vita.
Nel 1632 gli svedesi fondarono l’Università di Tartu, rafforzando il luteranesimo
nella regione. Passato dal 1645 sotto il dominio svedese, il paese conobbe un secolo
di grande prosperità, caratterizzato dall’introduzione di riforme sociali da parte di
un regime che si dimostrò illuminato, difendendo i contadini dagli abusi della
nobiltà rurale.
L’Estonia, in base a quanto previsto dal trattato di pace di Nystadt che pose fine alla
guerra del Nord (1700-1721), venne quindi ceduta alla Russia e lo zar Pietro il
Grande restituì alla nobiltà gli antichi privilegi.
Benché tra il 1816 e il 1819 Alessandro I avesse abolito la servitù della gleba e,
dopo la prima metà del secolo, fosse stato concesso ai contadini il diritto di
acquistare le terre, il paese nel corso della dominazione zarista fu sottoposto a una
politica di russificazione, che vanificò ogni sua aspirazione alla costituzione di uno
stato nazionale.
Solo in concomitanza con la Rivoluzione russa del 1905 (successiva alla guerra
russo-giapponese) si poté assistere a un primo risveglio della coscienza nazionale,
manifestatosi con ripetute rivolte popolari, che vennero soffocate nel sangue dalle
forze zariste.
La Rivoluzione russa del febbraio 1917, che sancì la caduta dell’impero zarista,
consentì all’Estonia di costituirsi in stato autonomo (aprile 1917) e nel 1918, in
seguito alla Rivoluzione d’ottobre, l’Estonia proclamò la sua indipendenza.
Il riconoscimento formale da parte del governo sovietico venne concesso solo nel
del Baltico. La sua fondazione viene fatta risalire al XII secolo.
Fu in questo periodo che i mercanti delle varie città iniziarono a formare società, o Hanse, con l'intenzione di commerciare con le città straniere. Queste società lavorarono per acquisire degli speciali privilegi
commerciali per i loro membri. Ad esempio, i mercanti di Colonia furono in grado di convincere Enrico II
d'Inghilterra a garantire loro speciali privilegi commerciali e diritti di mercato nel 1157.
Alla fine, alcune di queste città iniziarono a formare alleanze tra di loro, in forma di una rete di mutua
assistenza che sarebbe diventata, appunto, la Lega Anseatica.
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febbraio 1920 (in base a quanto disposto dal trattato siglato a Tartu) e l’anno
successivo il paese divenne membro della Società delle Nazioni.
All’indipendenza fece seguito un lungo periodo di instabilità politica che condusse,
nel 1933, all’instaurazione di un regime autoritario, trasformato nel 1938, con una
nuova Costituzione, in regime presidenziale.
Nel giugno del 1940, in conformità con il patto Molotov-Ribbentrop8, le forze
dell’URSS occuparono l’Estonia e le altre repubbliche baltiche di Lituania e
Lettonia; il 6 agosto del 1940, dopo lo svolgimento di elezioni controllate da
Mosca, il paese venne incorporato nell’URSS con il nome di Repubblica socialista
sovietica d’Estonia.
Nel 1941 la popolazione estone subì massicce deportazioni e nell’agosto dello
stesso anno il paese venne occupato dalle truppe tedesche nel corso della campagna
di Russia, tornando sotto il controllo sovietico nel settembre del 1944.
Il ritorno dei sovietici fu contrassegnato da nuove epurazioni e deportazioni e nel
contempo si accentuò la russificazione dell’Estonia, con il trasferimento di molti
russi nel paese e la proclamazione del russo a lingua ufficiale.
I successivi decenni di regime comunista non piegarono tuttavia lo spirito
nazionalistico che animava gran parte della popolazione. Infatti, assieme a Lituania
e Lettonia, l’Estonia fu una delle prime repubbliche sovietiche a esercitare, nel
corso degli anni Ottanta, forti pressioni per ottenere l’indipendenza, in aperto
contrasto con il governo centrale.
Con la dissoluzione dell’URSS, il governo sovietico riconobbe formalmente
l’indipendenza delle repubbliche baltiche (6 settembre 1991), che dopo alcune
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- Patto Moltov-Ribbentrop: chiamato anche Patto Hitler-Stalin, fu un trattato di non-aggressione
fra la Germania nazista e l'Unione Sovietica. Venne firmato a Mosca il 23 agosto del 1939, il dal Ministro
degli Esteri sovietico Molotov e dal Ministro degli Esteri tedesco von Ribbentrop.
Si trattò di una conseguenza della politica di accondiscendenza portata avanti dalle potenze europee
occidentali verso le precedenti richieste di espansione territoriale avanzate da Hitler (ai danni della Cecoslovacchia e dell'Austria).
L'accordo definiva, tra l'altro, le sfere d'influenza del terzo reich e dell'Unione Sovietica per le zone
vicine ai confini dei due stati. La conseguenza più spettacolare di questo trattato fu con tutta probabilità la divisione del territorio polacco tra russi e tedeschi, operazione considerata come l'inizio della II Guerra mondiale.
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settimane furono ammesse alle Nazioni Unite.
I primi anni di indipendenza furono contrassegnati da aspri conflitti commerciali e
territoriali con la Russia; un’ulteriore causa di contrasti tra i due paesi furono i
provvedimenti ultranazionalisti approvati dal Parlamento nel 1993, che ponevano
grossi limiti alla concessione della cittadinanza estone ai russi residenti nel paese.
Il paese adottò una nuova Costituzione democratica nel giugno 1992. Le prime
elezioni libere, svoltesi nel successivo mese di settembre, videro il successo di una
coalizione favorevole a una rapida liberalizzazione dell’economia; in ottobre uno
dei suoi esponenti, Lennart Meri, già ministro degli Esteri, fu eletto alla presidenza
della Repubblica. Una prima fase di riforme economiche fu tuttavia sospesa nel
1993, per il coinvolgimento di alcuni esponenti della maggioranza in vicende oscure
legate alle privatizzazioni.
Tra il 1993 e il 1994 l’Estonia diventò membro del Consiglio d’Europa e firmò un
accordo di partenariato con la NATO, in seguito al quale le truppe russe lasciarono
definitivamente il paese. Nell’aprile 1995 l’Estonia firmò un accordo di
associazione con l’Unione Europea.
Le elezioni del marzo 1995 videro la sconfitta della coalizione di governo e il
successo delle opposizioni; il governo guidato da Tiit Vähi, già sotto accusa per la
forte presenza di ex comunisti, subì un primo rimpasto a ottobre, quando il ministro
degli Interni Edgar Savisaar, accusato di corruzione, fu costretto a dimettersi.
Nel 1996, dopo un travagliato scrutinio, Lennart Meri fu confermato alla presidenza
della Repubblica e nel 1997 il primo ministro Vähi fu rimpiazzato da Mart Siiman,
che accelerò le riforme economiche per favorire l’integrazione del paese nell’UE; fu
proprio nello stesso anno, in occasione del vertice europeo di Lussemburgo, che
l’Estonia venne compresa, unico tra i paesi baltici, tra i candidati “prioritari”.
Nel 1998 il Parlamento estone abolì la pena di morte. Nelle elezioni legislative del
marzo 1999 prevalse per pochi seggi una coalizione di centrodestra favorevole a
intensificare ulteriormente il processo di riforma economica e Mart Laar venne
chiamato alla guida del governo.
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Nel settembre del 2001 il candidato governativo alla presidenza venne battuto da
Arnold Rüütel, un esponente del passato regime comunista e tra i maggiori
protagonisti del conseguimento dell’indipendenza.
Agli inizi del 2002 i profondi contrasti sulla politica economica interni alla
maggioranza di governo causarono le dimissioni del primo ministro Laar, al quale
succedette il ministro delle Finanze, Siim Kallas.
Le elezioni legislative del marzo 2003 segnarono l’ingresso sulla scena politica di
Res Publica, una nuova formazione conservatrice guidata da Juhan Parts, che
ottenne il 24,6% dei voti e 28 deputati, al pari del Partito di centro e davanti al
Partito della riforma; Parts formò un nuovo governo di coalizione con il sostegno
del Partito della riforma e dell’Unione popolare.
Il nuovo assetto politico non modificò la politica estera del paese, che proseguì il
cammino di avvicinamento all’Unione Europea con la firma del trattato di adesione
ad Atene nell’aprile 2003.
A settembre un referendum approvò con il 67% dei suffragi l’ingresso del paese
nell’Unione Europea, che avvenne ufficialmente il 1° maggio 2004, poche
settimane dopo l’ingresso nella NATO (29 marzo).
L'Estonia attuale
Nel marzo 2005 cadde il governo diretto da Juhan Parts e venne formato un nuovo
governo guidato dal leader del Partito della riforma Andrus Ansip. Nel giugno dello
stesso anno, una schermaglia diplomatica con Mosca provocò la sospensione di un
trattato sui confini appena firmato.
Nel settembre 2006 venne eletto alla presidenza il socialdemocratico Toomas
Hendrik Ilves, già diplomatico e ministro degli Esteri.
Dopo la vittoria del Partito della riforma (27,8%) nelle elezioni del marzo 2007,
venne confermato alla guida del governo Andrus Ansip. Retrocedono al terzo posto,
dopo il Partito di centro (26%), i conservatori di Res Publica (18%), persero circa
un quarto dei voti rispetto alle precedenti elezioni.
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Superficie: 45.227 Km²
Abitanti: 1.356.000
Densità: 30 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Tallinn (397.000 ab.)
Altre città: Tartu 101.200 ab., Narva 67.800 ab.
Gruppi etnici: Estoni 68,5%, Russi 26%, Ucraini 2%, Bielorussi 1%, Finlandesi
1%, altri 1,5%
Paesi confinanti: Lettonia a SUD, Russia ad EST
Monti principali: Suur-Munamägi 317 m
Fiumi principali: Pärnu 144 Km
Laghi principali: Peipsi järv (Lago dei Ciudi) 1570 Km² (parte estone, totale 3550
Km²), Võrtsjärv 270 Km²
Isole principali: Saaremaa 2672 Km², Hiiumaa 989 Km²
Clima: Temperato
Lingua: Estone (ufficiale), Russo
Religione: Ortodossa 20%, Luterana 14%, Altro 66%
Moneta: Corona esto
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GALIZIA
Regione dell'Europa orientale estesa lungo le pendici settentrionali dei Monti
Carpazi, un tempo territorio della corona austriaca, oggi parte della p
Polonia sudorientale e dell'Ucraina occidentale. Nei secoli XI e XII la Galizia
fu un importante principato slavo e passò in seguito sotto il dominio della Polonia.
Nel 1772, conseguentemente alla prima spartizione della Polonia, la Galizia entrò a
far parte dell'impero austriaco degli Asburgo. Rimase un possedimento della corona
austriaca fino al 1918, anno in cui fu rivendicata dalla nuova Repubblica Polacca.
Nel 1919, al termine della prima guerra mondiale, il trattato di Versailles assegnò la
Galizia occidentale alla Polonia mentre nel 1923 alla Galizia orientale fu concesso il
diritto all'autonomia sotto il protettorato polacco. La Galizia comprendeva le
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province polacche di Kraków (Cracovia), Lwów, Stanisławów e Tarnopol.
A seguito dell'invasione della Polonia da parte della Germania e dell'Unione
delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS) nel 1939, Stanisławów, Tarnopol, e,
parzialmente, Lwów, popolate soprattutto da ucraini e bielorussi, furono incluse
nella zona d'occupazione sovietica. In base all'accordo russo-polacco del 1945, la
Galizia fu assegnata all'URSS e incorporata nella Repubblica socialista sovietica
ucraina che nel 1991 ottenne l'indipendenza.
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GEORGIA
L'istmo che si estende tra il Mar Nero e il Mar Caspio, uno dei collegamenti
principali tra l'Europa e l'Asia, è stato nel corso della storia uno dei territori pi ù
trafficati.
Il grandissimo numero di persone che vi sono arrivate da tutte le direzioni l'ha reso
una delle zone con il panorama etnico più vario del mondo.
Insieme all'Azerbaijan e all'Armenia, la Georgia è uno stato relativamente giovane.
Il paese nacque dalla fusione di alcuni piccoli principati unificati tra il X e il XIII
secolo che, con il passare dei secoli, si separarono e cominciarono a ricostituirsi
solo nel tardo XVIII secolo.
Molto prima che la Georgia cominciasse a destare l'attenzione pubblica, tuttavia, il
territorio era già ritenuto importante dal punto di vista strategico.
Quella che al giorno d'oggi è la parte occidentale del paese venne colonizzata dai
greci probabilmente intorno all'VIII secolo a.C. Le tribù anatoliche provenienti dalla
Turchia si spostarono nella parte orientale circa un secolo dopo, unendosi alle
popolazioni che già vivevano nella zona e formando il regno di Iveria.
Tra il 550 a.C. e il 300 a.C. l'area fu sballottata da un impero all'altro: i persiani, i
macedoni e i seleucidi finché questi ultimi non furono sconfitti dai Romani nel 189
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a.C.
I quali concessero alla gente del posto di costituire degli stati armeni
indipendenti.
Tali stati vennero unificati circa un secolo dopo, costituendo la zona di influenza
romana più potente dell'est, dal Mar Caspio alla Turchia centrale, comprendente
gran parte dell'attuale Georgia.
Intorno al 400 d.C. la parte occidentale dell'Armenia, che comprendeva la Georgia
occidentale, fu conquistata dal potente impero bizantino.
La zona orientale di Iveria finì sotto il dominio persiano fino a quando gli arabi
musulmani non si insediarono nella zona a metà del VII secolo, stabilendo un
emirato a Tbilisi.
Il passaggio di potere tra gli arabi e i bizantini terminò con l'arrivo dei turchi
selgiuchidi, che conquistarono quasi tutta l'Armenia tra il 1060 e il 1070 e spinsero
molti abitanti a spostarsi in Georgia, dove predominava la religione cattolica.
La maggior parte dell'attuale Georgia era ormai stata riunita sotto il nome di Iveria.
Il periodo successivo al 1122, anno in cui Tbilisi riuscì a liberarsi dalla dominazione
araba, fu il periodo d'oro della Georgia, il cui potere si estendeva dall'Azerbaijan
occidentale alla Turchia orientale.
Tuttavia, la stabilità durò ben poco e, per gli 800 anni che seguirono, la regione fu
vittima di avidità e giochi di potere.
I mongoli, i persiani safavidi e i turchi ottomani si disputarono la supremazia sul
territorio; nel XVIII secolo proprio gli ottomani riuscirono a spuntarla.
Sopraggiunse poi la Russia: le truppe di Caterina la Grande si diressero verso la
regione allo scopo di sconfiggere i Turchi.
Nel 1795 l'eunuco persiano Agha Mohammed Khan Qajar saccheggiò Tbilisi prima
che i russi annettessero i principati georgiani, riuscendo a strappare il controllo
totale della zona ai Turchi negli anni tra il 1870 e il 1880.
Con lo sviluppo dell'economia e della tecnologia si risvegliarono i sentimenti
nazionalisti. Nacquero i movimenti nazional-socialisti georgiani (chiamati in modo
poco originale 'primo gruppo', 'secondo gruppo' e 'terzo gruppo'), ciascuno più
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radicale del precedente. Tra i membri del terzo gruppo c'era Iosif Dzhugshvili, che
successivamente cambiò il proprio nome in 'uomo d'acciaio' che, in georgiano, si
traduce con “Stalin”.
Nel 1918 la Transcaucasia si dichiarò una federazione di stati indipendenti da
Mosca, ma ben presto si divise in tre repubbliche separate: la Georgia, l'Armenia e
l'Azerbaijan.
La Georgia, tuttavia, fu riconquistata dall'Armata Rossa nel 1920, dopo essere stata
occupata per breve tempo dagli inglesi dopo la prima guerra mondiale, e tornò a
essere legata ai suoi vicini con il nome di Repubblica Socialista e Federalista
Sovietica Transcaucasica, che fu uno dei membri fondatori dell'Unione Sovietica.
Durante il governo di Stalin in Georgia riemersero tendenze nazionaliste e più di
100.000 persone furono deportate in Siberia.
La Repubblica Socialista e Federalista Sovietica Transcaucasica fu smantellata nel
1936 e la Georgia riacquistò il proprio nome, rimanendo tuttavia sotto il controllo
dell'Unione Sovietica.
Con la caduta della cortina di ferro la nazione divenne la prima repubblica sovietica
a indire elezioni multipartitiche (1990). Molti credettero che questo paese
economicamente dinamico sarebbe stato il primo a riuscire a risollevarsi dalla crisi.
Tuttavia, con le lotte per l'indipendenza nelle regioni dell'Abkhazia e dell'Ossezia
meridionale e una breve guerra civile nel 1992 e nel 1993, il paese tornò a essere
vittima dell'anarchia e della criminalità.
L'uomo politico sovietico Shevardnadze riuscì alla fine a ristabilire una situazione
di relativo equilibrio, indirizzando il paese sulla strada del risanamento economico,
tanto da essere rieletto presidente nell'aprile 2000.
Tuttavia, il 31 ottobre 2001, una delle più imponenti manifestazioni di piazza
organizzate nel paese negli ultimi anni chiese le dimissioni di alcuni ministri del
governo e dello stesso presidente Shevardnadze, per protesta contro l'incursione
della polizia nella sede dell'unica televisione indipendente georgiana, Rustavi-2.
Nel novembre 2003, la 'rivoluzione delle rose' pose fine alla presidenza di
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Shevardnadze e portò al potere Makhail Saakashvili, che con i suoi 35 anni è
divenuto il più giovane presidente di uno stato europeo.
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Superficie: 69.510 Km²
Abitanti: 4.989.000 (stime 2001)
Densità: 72 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Tbilisi (1.342.000 ab.)
Altre città: Kutaisi 165.000 ab., Batumi 100.000 ab., Rustavi 95.000 ab., Suhumi
70.000 ab.
Gruppi etnici: Georgiani 70%, Armeni 8%, Russi 6,5%, Azeri 5,5%, altri 10%
Paesi confinanti: Russia a NORD, Turchia e Armenia a SUD, Azerbaigian a SUDEST
Monti principali: Mount Shkhara 5201 m
Fiumi principali: Kura 1520 Km (totale, compresi tratti azero e turco)
Clima: Continentale
Lingua: Georgiano (ufficiale), Russo, Armeno, Azero
Religione: Ortodossa georgiana 65%, Musulmana 11%, Ortodossa russa 10%,
Apostolica armena 8%
Moneta: Lari georgiano
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GRECIA
Nell'età del bronzo (3000-1200 a.C.) fiorirono tre potenti civilt à marinare:
cicladica, minoica e micenea. Stando a Omero questo fu un periodo di violenze e
guerre dovute alle rivalità commerciali, ma si pensa invece che la civiltà minoica sia
stata pacifica e armoniosa. Verso l'XI secolo le culture minoica e micenea erano
ormai in crisi a causa del mutamento delle vie commerciali e dell'invasione dorica
da nord, e quelli seguenti furono secoli di declino.
Intorno all'800 a.C. la Grecia conobbe un periodo di rinascita culturale e militare
con l'evoluzione delle città-stato, le più potenti delle quali furono Atene e Sparta.
L'espansione ellenica portò al fiorire delle colonie della Magna Grecia, in cui l'Italia
meridionale ebbe un ruolo determinante, e questo periodo fu seguito da un'epoca di
grande prosperità che passerà alla storia come età classica: Pericle ordinò la
costruzione del Partenone, Sofocle scrisse l'Edipo Re, mentre Socrate insegnava ai
giovani ateniesi l'amore per la virtù e per il bene e si sviluppava la tradizione
democratica (letteralmente 'governo del popolo'). L'età classica terminò con le
guerre del Peloponneso (431-404 a.C.), quando la potenza militare di Sparta
prevalse sugli ateniesi.
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Impegnati nelle guerre del Peloponneso, gli Spartani non si accorsero che Filippo di
Macedonia stava espandendo il suo regno a nord, riuscendo così a conquistare
facilmente le città-stato della Grecia, già indebolite dalla guerra. Il figlio di Filippo,
Alessandro Magno, andò ben oltre le ambizioni paterne conquistando l'Asia Minore,
l'Egitto (dove venne proclamato faraone e fondò la città di Alessandria), la Persia e
alcune regioni dell'Afghanistan e dell'India attuali.
L'impero macedone, che durò per tre dinastie dopo la morte di Alessandro
(avvenuta a soli 33 anni), è passato alla storia con la definizione di periodo
'ellenistico' poiché seppe far convergere gli ideali e la cultura greca con le altre
gloriose civiltà del passato, creando così una nuova tradizione cosmopolita del
sapere.
A partire dal 205 a.C. iniziarono le incursioni dei romani e verso il 146 a.C. la
Grecia e la Macedonia erano diventate province di Roma. Dopo la suddivisione del
territorio soggetto ai romani in Impero Romano d'Oriente e d'Occidente nel 395
d.C., la Grecia divenne parte dell'impero bizantino.
Nel XII secolo i Crociati erano ormai allo sbando e la potenza bizantina era
drasticamente ridimensionata dalle invasioni di Veneziani, Catalani, Genovesi,
Franchi e Normanni.
Nel 1453 la capitale bizantina, Constantinopoli, cadde in mano ai turchi e verso il
1500 quasi tutta la Grecia era sotto il controllo di questo popolo. La futura Grecia
divenne quindi una zona rurale, e molti mercanti, intellettuali e artisti furono esiliati
nell'Europa centrale: soltanto lo stile di vita tradizionale dei villaggi e la religione
ortodossa riuscirono a trasmettere ai posteri la nozione di grecità.
La rinascita culturale della fine del Settecento fece precipitare gli eventi verso la
guerra d'indipendenza (1821-32), durante la quale i Greci furono appoggiati nella
loro lotta contro i turchi da giovani aristocratici filelleni come Byron, Shelley e
Goethe. Il movimento d'indipendenza mancava tuttavia di coesione e nel 1827
Russia, Francia e Inghilterra decisero di intervenire. Le potenze europee stabilirono
che la Grecia, dopo aver ottenuto l'indipendenza, sarebbe diventata una monarchia
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con un sovrano non greco, per frustrare le lotte intestine per il potere: nel 1833 fu
quindi insediato sul trono Ottone di Baviera.
I sovrani seguenti riuscirono a mantenere il trono fino alle soglie del XX secolo
nonostante l'ostilità popolare nei confronti della monarchia, ma Giorgio I emanò
una nuova costituzione nel 1864 che restituiva al paese la democrazia e relegava il
re a un ruolo quasi esclusivamente formale
Nel corso del primo conflitto mondiale, le truppe greche si schierarono dalla parte
degli Alleati e occuparono la Tracia. Dopo la guerra il primo ministro Venizelos
inviò un contingente militare a 'liberare' il territorio turco di Smirne (l'attuale Izmir),
dove viveva una popolosa comunità di Greci. L'avanzata greca fu respinta dalle
truppe di Atat Ürk e molti Greci finirono in prigione. Questi eventi culminarono nel
1923 in un brutale scambio di popolazione tra i due paesi e il conseguente afflusso
di profughi (1.300.000 cristiani) gravò pesantemente sulla già debole economia
greca. Attorno alle grandi città sorsero delle baraccopoli e tra i profughi che
vivevano nei centri urbani nacquero i movimenti sindacali: nel 1936 il Partito
Comunista poteva ormai contare su un vasto consenso popolare.
Nel 1936 il generale Metaxas fu nominato primo ministro dal re e instaurò in breve
tempo una dittatura di stampo fascista. Nonostante fosse un simpatizzante del
nazismo, il generale si oppose ai tentativi di ingerenza da parte tedesca e italiana e
rifiutò il consenso al passaggio delle truppe italiane in Grecia nel 1940. Nonostante
l'appoggio degli Alleati, la Grecia venne occupata dalla Germania nel 1941 e la sua
popolazione fu vittima di stragi e privazioni. Sorsero allora i movimenti di
resistenza che, divisi nelle due fazioni realista e comunista, diedero l'avvio a una
sanguinosa guerra civile durata fino al 1949 e conclusasi con la vittoria dei realisti.
Durante la guerra civile l'America, ispirata dalle teorie della cosiddetta Dottrina
Truman, elargì fondi cospicui al governo anticomunista, che introdusse il Certificato
di Affidabilità Politica, in vigore fino al 1962. Questo documento attestava la fede
politica del possessore: senza di esso non si poteva votare ed era quasi impossibile
trovare un lavoro.
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Temendo il risorgere della sinistra, un gruppo di colonnelli dell'esercito attuò un
colpo di stato nel 1967, definito da Andreas Papandreou come 'il primo putsch
militare di successo della CIA in Europa. La giunta militare si distinse per la
tremenda brutalità dei suoi atti, la repressione e l'incompetenza politica nel
governare il paese. Nel 1974 i colonnelli cercarono di assassinare il presidente di
Cipro, l'arcivescovo Makarios, e la Turchia reagì invadendo l'isola e occupandone la
parte settentrionale: questa vicenda è tuttora una questione spinosa per i greci e i
rapporti con la Turchia si infiammano facilmente.
Nel 1981 la Grecia entrò a far parte della Comunità Europea (oggi Unione Europea)
e il partito socialista di Andreas Papandreou (PASOK) vinse le elezioni. Il PASOK
promise lo smantellamento delle basi aeree statunitensi e il ritiro dalla NATO, ma
questi propositi non furono mai mantenuti. Migliorò invece la condizione
femminile, grazie anche alla legalizzazione dell'aborto. Gli scandali ebbero infine la
meglio su Papandreou e al suo governo subentrò nel 1989 una coalizione di
conservatori e comunisti.
Le elezioni del 1990 portarono al potere i conservatori con la maggioranza di soli
due seggi e, nell'intento di risolvere i problemi economici del paese, il governo
impose misure di austerità drastiche e impopolari. Le elezioni generali del 1993
riportarono in auge l'ormai anziano e malato Papandreou e il PASOK torn ò al
potere.
Kostas Simitis ebbe l'incarico di primo ministro nei primi mesi del 1996, quando era
ormai chiaro che l'era Papandreou stava volgendo al termine: l'anziano statista della
Grecia morì nell'estate di quell'anno.
Simitis fu rieletto nell'aprile 2000 con un risicato margine dell'1%. Sin dall'inizio
del suo mandato, il premier si impegnato per migliorare i rapporti con la Turchia e
per attuare le riforme necessarie a portare il paese ad adottare l'euro nel 2002.
Le elezioni del 7 marzo 2004 hanno segnato la fine dei liberali e la vittoria del
partito Nuova Democrazia. Konstantinos Karamanlis è il nuovo presidente del
Consiglio dei ministri. Ha ricevuto il mandato dal presidente della Repubblica
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Konstantinos Stephanopoulos e si è immediatamente messo al timone
dell'organizzazione delle Olimpiadi.
L'evento
olimpico,
perfettamente
riuscito,
ha
sicuramente
contribuito
a
miglioramenti sociali ed economici in tutto il paese, come già era avvenuto con i
Giochi di Barcellona nel 1992. Gli elettori hanno dimostrato, nell'appuntamento con
il rinnovo del Parlamento europeo, di avere fiducia nel partito Nuova Democrazia,
premiandolo con il 43% dei voti contro il 34% ottenuto dal PASOK.
Dal marzo 2005, Karolos Papoulias è il nuovo presidente della terza repubblica
greca. Nell'aprile 2005 il parlamento greco ha ratificato, con 268 voti a favore e 17
contrari, la nuova costituzione dell'Unione europea. La Grecia è il sesto paese a
ratificare il nuovo trattato.
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Superficie: 131.957 Km²
Abitanti: 10.964.000 (censimento 2001)
Densità: 83 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Atene (746.000 ab., 3.190.000 aggl. urbano)
Altre città: Salonicco 364.000 ab. (800.000 aggl. urbano), Pireo 175.700 ab.,
Patrasso 161.100 ab., Peristérion 137.900 ab., Iráklion (Càndia) 133.000 ab.,
Larissa 124.800 ab., Kallithéa 109.600 ab.
Gruppi etnici: Greci 93%, Albanesi 4%, Asiatici 1%, altri 2%
Paesi confinanti: Albania, Macedonia e Bulgaria a NORD, Turchia ad EST
Monti principali: Monte Olimpo 2917 m
Fiumi principali: Aliákmon (Vistrìzza) 297 Km, Acheloos (Aspropotamo) 220 Km,
Pinios (Peneo) 205 Km, Evros (Marìzza) 204 Km (tratto greco, totale 514 Km)
Laghi principali: Lago Trichonida 96 Km², Lago Volvi 70 Km², Lago Vegoritis 54
Km², Lago di Prespa 39 Km² (parte greca, totale 328 Km²)
Isole principali: Creta 8258 Km², Eubea 3658 Km², Lesbo 1630 Km², Rodi 1398
Km², Chio 858 Km², Cefalonia 781 Km², Corfù 592 Km²
Clima: Mediterraneo
Lingua: Greco (ufficiale)
Religione: Greco ortodossa 97,5%, Musulmana 1,5%, Cattolica ed altro 1%
Moneta: Euro
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LETTONIA
Abitata anticamente da nomadi dediti prevalentemente alla caccia e alla pesca,
la regione fu colonizzata in seguito dai livoni, un gruppo di lingua ugro-finnica, ai quali si
aggiunsero i lettoni, una popolazione di origine indoeuropea. I Cavalieri teutonici9
iniziarono la conversione delle popolazioni baltiche al cristianesimo agli inizi del XIII
secolo.
Protagonista dell’evangelizzazione della regione fu Alberto di Buxhövden, che
fondò Riga stabilendovi la sede vescovile e sottomise i livoni con l’aiuto dei cavalieri
dell’ordine dei Portaspada.
Nel 1207 la Livonia fu riconosciuta feudo dell’impero e divisa tra il vescovo,
la città di Riga e l’ordine dei Portaspada.
Nel 1237 la regione passò sotto l’autorità dei Cavalieri teutonici, rimanendo
nell’impero fino al 1561, quando la Polonia assorbì le province di Latgale e Vidzeme a nord
9
- Cavalieri teutonici: è un antico ordine monastico-militare ed ospedaliero sorto in terrasanta
all'epoca della terza crociata ad opera di alcuni mercanti di Brema e Lubecca per assistere i pellegrini
tedeschi.
Avviò in seguito la conquista dei popoli slavi nell'Europa dell'est ed in una prima fase occupò un vasto territorio sul Baltico, che però nel 1466 si ridusse alla sola Prussia Orientale. Secolarizzato al tempo della
Rifroma, fu soppresso da Napoleone Bonaparte ed in seguito ripristinato dagli Asburgo: venne riformato nel
1929 dalla santa Sede che lo rese un ordine di canonici regolari per la cura d'anime e le opere di carità.
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del fiume Daugava, mentre le province di Kurzeme e Zemgale, a sud e a ovest, costituirono
la Curlandia, un ducato indipendente sotto il controllo polacco.
La Svezia conquistò Riga e Vidzeme nel 1621, perdendole tuttavia a favore
della Russia
agli inizi del XVIII secolo, nel corso delle guerre del Nord. Nel 1795,
con l’ultima spartizione della Polonia, la Russia si assicurò il controllo dell’intera
regione.
Il dominio della nobiltà agraria di origine germanica sui lettoni continuò anche dopo
che la Russia abolì la servitù della gleba nel XIX secolo, impedendo la nascita di
una classe dirigente autoctona; tuttavia, i lettoni resistettero alla russificazione,
costruendo una coscienza nazionale tanto che durante la rivoluzione russa del 1905
si sollevarono in armi contro le autorità zariste e i baroni.
La prima indipendenza
La rivoluzione del 1917 offrì ai nazionalisti lettoni una situazione favorevole
per le loro rivendicazioni. Occupata dai tedeschi in seguito al trattato di BrestLitovsk10, la Lettonia proclamò la sua indipendenza il 18 novembre del 1918, ma il
governo provvisorio di Karlis Ulmanis dovette fronteggiare sia i tentativi tedeschi
di mantenersi nel paese, sia l’invasione delle truppe bolsceviche che occuparono
Riga e instaurarono un regime controllato direttamente dall’Unione Sovietica.
Nel 1920, dopo un periodo di guerra civile, le forze bolsceviche furono
sconfitte e ad agosto Mosca stipulò con Riga un trattato di pace, riconoscendo la
sovranità della Lettonia.
Nel 1922 venne adottata una Costituzione democratica e negli anni successivi
fu attuata una riforma agraria che pose fine ai privilegi dei baroni ma la vita del
10
- Trattato di Brest-Litovsk: fu un trattato di pace stipulato tra la Russia e gli imperi centrali il 3
marzo 1918 in Bielorussia, presso la città di Brest (un tempo conosciuta come "Brest-Litovsk").
Esso sancì l'uscita della Russia dalla I Guerra mondiale. Anche se la fine della guerra portò a esiti diversi rispetto a quanto previsto dal trattato, esso fu, seppur non intenzionalmente, di fondamentale importanza nel determinare l'indipendenza diFinlandia, Estonia, Lettonia e Polonia.
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nuovo stato fu tuttavia segnata da un aspro scontro tra forze socialiste e reazionarie
e da una forte instabilità politica tanto che nel 1934 Ulmanis prese il potere con un
colpo di stato e instaurò nel paese un regime autoritario.
La repubblica sovietica
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, il paese dichiarò la propria neutralità;
nell’ottobre del 1939 la Lettonia siglò un trattato di mutua assistenza con l’URSS e,
successivamente, un accordo con la Germania.
Ma il paese era stato già assegnato all’Unione Sovietica dal patto MolotovRibbentrop; nel giugno del 1940, dopo la caduta della Francia in mani tedesche,
Mosca occupò con un pretesto il paese, facendone una delle repubbliche dell’URSS
deportando decine di
migliaia di oppositori in Siberia.
Nel 1941, in seguito all’invasione tedesca dell’Unione Sovietica (Operazione
Barbarossa), la Lettonia fu aggregata alla Germania e la sua comunità ebraica sparì
pressoché interamente nei campi di sterminio nazisti.
Liberato dai sovietici nel 1944-45, il paese tornò a far parte dell’URSS; riprese così
la russificazione, con l’imposizione del russo come lingua ufficiale, e mentre altre
decine di migliaia di persone furono deportate in Siberia, nel paese vennero
trasferiti cittadini russi e di altre nazionalità della galassia sovietica.
La seconda indipendenza
Il nazionalismo lettone, mai sopito, si riaccese nel corso degli anni Ottanta e
soprattutto a partire dal 1987, nel clima di rinnovamento favorito dalla glasnost11
11
- Glasnost: è una parola russa che significa letteralmente "pubblicità" nel senso di "dominio
pubblico"; tradotta più spesso con "trasparenza".
È stata utilizzata daMikhail Gorbačëv, a partire dal 1986, per identificare una nuova attitudine a non
celare le difficoltà, a discuterne liberamente "in modo trasparente" e criticamente. L'insieme delle riforme poste in essere nel modo di selezionare i quadri del Pcus, al fine di combattere la corruzione e i privilegi del-
70
di Mikhail Gorbačëv.
In quell’anno, migliaia di persone resero omaggio per la prima volta alle
vittime delle deportazioni staliniste. Lo stesso Partito comunista lettone attuò un
profondo rinnovamento della sua dirigenza, in cui si fecero strada personalità
riformiste.
Nel 1988 si formò, riunendo movimenti sociali e politici (inclusi i
comunisti), un Fronte popolare rivolto all’indipendenza della Lettonia, che avviò
trattative sia con il governo locale sia con le autorità sovietiche.
Nel 1990 fu proclamata l’indipendenza del paese, che venne riconosciuta da
Mosca, insieme con quella di Estonia e Lituania, nel settembre del 1991; nello
stesso anno le tre repubbliche furono accolte nelle Nazioni Unite.
Nel 1993 si tennero in Lettonia le prime elezioni parlamentari, che videro
l’affermazione di un movimento d’ispirazione moderata e liberale chiamato Via
lettone e nello stesso anno venne eletto alla presidenza della Repubblica
l’economista Guntis Ulmanis (confermato in seguito, sebbene con pochi voti di
scarto, nel 1996).
Le truppe russe si ritirarono dal paese il 31 agosto del 1994, lasciandovi un
contingente di
circa 3.000 soldati.
Nel 1995 la Lettonia fece richiesta di adesione all’Unione Europe e dopo le elezioni
del 1996, che non espressero una chiara maggioranza, si formò un governo di
coalizione tra partiti di destra e sinistra guidato da Andris Skele.
Una legge di naturalizzazione adottata nel 1994 causò molte tensioni nel paese a
causa delle difficoltà che frapponeva all’ottenimento della cittadinanza lettone; tra
la comunità russa, la più colpita dal provvedimento, fino al 1997 solo mille dei
l'apparato politico prese invece il nome di perestrojka (ristrutturazione). Glasnost indica dunque un'attitudine, mentre perestrojka una politica.
In senso più ampio, glasnost è stata poi utilizzata, sempre in associazione a perestrojka, anche per indicare tutte quelle politiche volte ad attuare una più ampia e più limpida circolazione dell'informazione nell'Unione Sovietica.
71
700.000 membri inoltrarono richiesta di cittadinanza, finalmente la situazione
migliorò nel 1998, quando, sotto la minaccia di sanzioni economiche di Mosca, la
legge venne emendata.
Come per altri paesi emersi dal sistema sovietico, anche per la Lettonia la
transizione alla democrazia fu caratterizzata da problemi economici e, soprattutto,
da una forte instabilità politica. Nel 1997, in seguito al coinvolgimento in un grave
scandalo finanziario di esponenti del governo, Skele rimise il mandato di primo
ministro, che venne affidato a Guntar Krasts.
Le elezioni legislative dell’ottobre 1998 confermarono un quadro politico
estremamente conflittuale e, dopo complesse trattative, fu formato un governo di
minoranza guidato da Vilis Kristopans, già ministro dei Trasporti nel precedente
gabinetto.
Nel luglio del 1999 fu eletta alla presidenza del paese, con ampia maggioranza,
Vaira Vike-Freiberga, prima donna a capo di un paese ex comunista.
Il Fondo monetario internazionale (FMI) annunciò in ottobre un prestito di 45
milioni di dollari in sostegno della politica di riforme economiche del governo.
Nell’aprile del 2000 le tensioni all’interno della maggioranza, in particolare
riguardo alle privatizzazioni, provocarono la caduta dell’esecutivo e un nuovo
gabinetto di coalizione fu chiamato a guidare il paese.
In maggio il Parlamento votò l’abolizione di una norma che prevedeva la
madrelingua lettone per tutti i candidati politici, rimuovendo uno degli ultimi
ostacoli che si frapponevano all’ingresso nell’Unione Europea.
Nelle elezioni di ottobre si affermò, con 26 seggi su 100, un partito moderato di
recente formazione chiamato Nuova Era ed Einars Repse, ex presidente della Banca
centrale, formò un nuovo governo di coalizione.
Nel giugno del 2003 Vaira Vike-Freiberga fu confermata alla presidenza della
Repubblica. A settembre un referendum approvò con il 67% dei voti l’ingresso del
paese nell’Unione
Europea, avvenuto ufficialmente il 1° maggio 2004; poche settimane prima, il 29
72
marzo, la Lettonia diventò membro della NATO.
La vita politica del paese continuò a soffrire di una forte instabilità. Nel febbraio del
2004 il primo ministro Einars Repse venne sostituito da Indulis Emsis, che a
dicembre lasciò la carica ad Aigars Kalvitis.
La Lettonia attuale
Nell’agosto 2006 venne introdotta una severa legge sulla cittadinanza che sollevò le
proteste della comunità russa e secondo la quale la conoscenza del lettone doveva
diventare una condizione indispensabile per l’ottenimento della cittadinanza.
Le elezioni legislative di ottobre registrarono la vittoria della coalizione che
sostenne il primo ministro Kalvitis, che venne confermato nella carica.
Nel marzo 2007, Lettonia e Russia sottoscrissero un accordo che stabiliva
ufficialmente i confini tra i due paesi e nel maggio dello stesso anno venne eletto
alla presidenza Valdis Zatlers.
In dicembre, criticato per aver cercato di rimuovere il responsabile dell’ufficio
anticorruzione, Kalvitis lasciò la guida del governo, che venne assunta da Ivars
Godmanis.
Superficie: 64.589 Km²
Abitanti: 2.319.000
Densità: 36 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Riga (735.000 ab.)
Altre città: Daugavpils 111.200 ab., Liepaja 86.500 ab., Jelgava 66.100 ab.,
Jurmala 55.500 ab.
Gruppi etnici: Lettoni 58,5%, Russi 29%, Bielorussi 4%, Ucraini 2,5%, Polacchi
2,5%, Lituani 1,5%, altri 2%
Paesi confinanti: Estonia a NORD, Russia ad EST, Bielorussia e Lituania a SUD
73
Monti principali: Gaizinkalns 312 m
Fiumi principali: Daugava (Dvina Occidentale) 352 Km (tratto lettone, totale 1020
Km), Gauja 452 Km
Laghi principali: Lubans 81 Km², Razna 57,5 Km², Engure 40,5 Km², Burtnieks
40 Km²
Isole principali: Dole (nel fiume Daugava) 21 Km²
Clima: Temperato - continentale
Lingua: Lettone (ufficiale), Lituano, Russo
Religione: Luterana 13%, Cattolica 11%, Ortodossa 5%, Battista 4%, Atei/Non
religiosi 51,5%, altre religioni 15,5%
Moneta: Lats lettone
74
LIVONIA
La Livonia è una regione baltica che si estende attorno al Golfo di Riga, compresa
tra l'Estonia a nord e la Lettonia a sud. I livoni sono un popolo di stirpe finnica
visto che le nazioni finniche occupavano fino al VII secolo tutta la parte centrosettentrionale della Russia europea.
Poi, sotto la spinta dei popoli slavi (prima del Mille) e dei popoli tedeschi (dopo il
Mille), il loro territorio si è progressivamente ridotto alla parte settentrionale
dell'area baltica e alla Finlandia. Oggi la Livonia non è più un'unità territoriale a sé
stante ma, come la Curlandia, parte integrante della Lettonia.
Le crociate organizzate nel XII secolo dall'Ordine teutonico contro gli ultimi
pagani d'Europa, provocarono l'effettivo ingresso nella storia dei popoli baltici, fino
ad allora rimasti complessivamente isolati nei loro territori.
Il nome Livonia compare per la prima volta nel 1186 quando viene costituita la
prima diocesi della regione, nella città di Ikskile (lungo il fiume Dvina).
Nel 1201 la sede vescovile viene trasferita nella vicina Riga , città di nuova
fondazione, situata alla foce dello stesso fiume Dvina.
Nel 1202 Albrecht von Buxthoeven (Alberto di Buxthoeven), nominato primo
vescovo di Livonia da papa Innocenzo III
75
fondò l'Ordine cavalleresco dei
Portaspada (Fratres Militiae Christi) ai fini di cristianizzare la regione, terra di
frontiera del cristianesimo.
Ma i livòni non volevano rinunciare ai propri riti pagani. La situazione degenerò
quando i missionari cristiani non armati inviati nella regione furono massacrati.
Papa Innocenzo III decise allora di proclamare una crociata ed incaricò l'Ordine dei
Portaspada di conquistare e controllare la regione. Nel 1206 Vinne de Rorbach,
primo Gran Maestro dell’Ordine, vinse la battaglia di Riga e convertì la Livonia al
cristianesimo. Vinne
assunse pertanto il titolo di principe di Livonia (Fürst von Livland). Il successivo
ingresso nel Sacro Romano Impero (data ufficiale 1° dicembre 1225) sancì l'entrata
del paese baltico sotto l'orbita tedesca. Vinne diede in feudo una parte del suo
territorio all' Ordine dei Portaspada.
Nel 1236 i Cavalieri Portaspada persero vicino Bauska la battaglia di Šiauliai contro
i Lituani e dovettero cedere loro la Livonia. La sconfitta determinò la fine dei
Portaspada come Ordine indipendente. Il
12 maggio 1237 il feudo posseduto
dall'Ordine così come i cavalieri rimanenti vennero inglobati nell'Ordine teutonico e
venne creato l'Ordine di Livonia (Livländischer Orden), come branca separata
dell'Ordine teutonico.
Inizialmente sottoposto al vescovado di Riga, l'Ordine di Livonia divenne
totalmente autonomo nel 1413, costituendo la seconda massima autorità del paese.
Nel 1253 il vescovado di Riga inglobò le diocesi di Estonia e Prussia ed assunse il
nuovo titolo di Arcivescovado di Riga.
Nel 1282 la città di Riga entrò a far parte dellaLega anseatica. Nel 1420 venne
costituita la Cofederazione della Livonia (Livländischer Bund), che includeva
l'arcivescovo di Riga, i vescovi delle altre diocesi del territorio, il capo dell'Ordine
di Livonia e i grandi feudatari.
Nei secoli dal XIII al XVI, il nome "Livonia" (o Terra Mariana) corrispose alle
terre della Confederazione (le moderne: Lettonia ed Estonia). Dal 1530 il titolo di
76
Principe di Livonia venne condiviso fra tre autorità: l'arcivescovo di Riga (massima
autorità del paese), il capo dell'Ordine di Livonia (seconda autorità) e il re di
Polonia.
L'ondata protestante che si propagò dalla Germania all'inizio del '500 raggiunse
dopo qualche decennio anche i paesi baltici. Gotthard Kettler, il capo dell'Ordine di
Livonia, si convertì al nuovo credo. Si avviò un processo di riorganizzazione
completa del potere in Livonia. Il 28 novembre 1561 entrò in vigore un nuovo
Trattato tra Arcivescovo di Riga, Ordine di Livonia, e Gran Principe di Lituania che
creò due distinti paesi protestanti: la parte sud diventava Ducato di Curlandia e la
parte nord diventava Ducato di Livonia, quest'ultimo in unione (in realtà
sottomesso) con la Lituania. Nei secoli successivi la Livonia compare nei trattati di
pace tra le potenze confinanti come premio di guerra fra paesi vincitori di varie
guerre.
Durante il XIX secolo, la Livonia e la Curlandia beneficiano di uno status di
autonomia locale. Ma dal 1889 ritornarono entrambe sotto il potere centrale di
Mosca.
La I Guerra mondiale segnò il ritorno all'indipendenza di tutti i paesi baltici. Il
trattato di Brest-Litovsk (1918) sancì, tra l'altro, che Curlandia e Livonia "non erano
più soggette alla sovranità russa".
I territori baltici, le cui èlite religiose e militari avevano sempre parlato tedesco,
ritornarono nell'area di influenza germanica. La Germania mosse le proprie truppe
fino ai paesi baltici per proteggerne i confini con la Russia e divenne tedesca anche
l'amministrazione dei territori.
Il 12 aprile 1918 la Livonia entrò a far parte del nuovo Stato baltico federale
(Baltischer Staat), che si proclamò indipendente e nel giro di una settimana anche la
Lettonia fu proclamata repubblica, sancendo così la dissoluzione dello Stato baltico.
Da questo momento la Livonia cesserà di avere un'esistenza propria.
77
LITUANIA
Le origini
Durante l'età del bronzo (III-II millennio a. C.), alcuni popoli di origine indoeuropea
si stanziarono lungo le coste del Mar Baltico, provenienti dall'Asia centrale.
Oltre al territorio delle attuali Lituania e Lettonia, queste genti abitarono la Russia
occidentale, la Bielorussia, la Polonia, fino ai territori ad ovest del fiume Oder, a
sud-ovest della Finlandia e a sud-est della Svezia.
Unendosi con le popolazioni indigene, le cui tracce in Lituania risalgono al X
millennio a. C., diedero origine ai popoli Baltici.
Questi ultimi sono stati suddivisi dagli studiosi in due gruppi principali: i " balti
marittimi " ovvero i prussiani, i curioni, i golindi occidentali e i "balti continentali",
progenitori dei lituani, dei lettoni e dei golindi orientali.
Tra il III e il IV secolo d.C., i baltici subirono le invasioni prima dei goti e poi degli
unni, ma fu la massiccia migrazione slava del IV secolo che li spinse
definitivamente verso la costa, dove sono rimasti fino ad oggi.
Il medioevo e le crociate
Le crociate organizzate nel XIII secolo dai Cavalieri Teutonici contro gli ultimi
pagani d'Europa, provocarono l'effettivo ingresso nella storia dei popoli baltici, fino
ad allora rimasti complessivamente isolati nei loro territori.
78
Il nome "Lituania" era stato menzionato per la prima volta in alcuni testi datati 1009
d.C. ma fu appunto nel XIII secolo che il Duca Mindaugas riunì¬ alcune contee e
ducati sotto il nome di "Gran Ducato di Lituania" (1240), per respingere l'invasione
dei crociati dell'Ordine Teutonico e dei Cavalieri della Spada.
Chiamati in modo spregiativo " saraceni del nord ", i baltici erano da sempre vissuti
divisi in molte tribù diverse, spesso anche in conflitto tra loro (ad esempio i
samogiti, gli yatovingi, i curioni ecc.) ma si accorsero che questa era la loro
debolezza.
Le guerre contro i crociati furono particolarmente cruente, tanto che l'intera stirpe
dei prussiani fu praticamente distrutta.
Nel 1251 Mindaugas si convertì comunque al cristianesimo e nel luglio del 1253 fu
incoronato re dei Lituani, dopo aver sconfitto l'ordine a Siauliai ed essersi alleato
con Aleksandr Nevskij, principe di Novgorod.
La conversione di Mindaugas e la creazione del vescovato di Lituania servirono
solo in parte a mitigare la pressione teutonica su quei territori e, quando il re morì
nel 1263 e il suo successore Treniotas ripristinò i culti pagani, la guerra riprese
violentemente.
Nel XIV secolo, nonostante i conflitti lungo i confini occidentali, il Gran Ducato si
ingrandì espandendosi verso est e sud-est raggiungendo il Mar Nero ed annettendo
il Ducato di Smolensk. Nel 1316 aveva preso il potere il Gran Duca Gediminas,
destinato a diventare uno dei personaggi più importanti della storia lituana.
Gediminas riprese le trattative con il Papa e fece numerosi tentativi per convertire la
sua terra al cristianesimo, fondò la capitale Vilnius (1323) e potenziò lo stato
soprattutto dal punto di vista militare.
Dopo la sua morte (1341), la Lituania subì l'intensificarsi della pressione dell'Ordine
Teutonico, nonostante le imprese dei fratelli Algirdas e Kestutis eredi della dinastia
degli Jagelloni.
Il figlio di Algirdas, Jogaila, che aveva avuto la meglio nei confronti del cugino
Vytautas, erede di Kestutis, nella lotta tra i due per il potere, nel 1386 sposò la
79
regina Edvige di Polonia e diede vita alla Confederazione lituano-polacca.
Si fece quindi battezzare a Cracovia, divenne re con il nome di Ladislao II e nel
1387 proclamò la conversione della Lituania al cristianesimo.
Vytautas aumentò intanto il suo potere nel Gran Ducato, minacciando altrimenti di
allearsi con l'Ordine Teutonico. Tuttavia, nel 1410, insieme agli alleati polacchi
sconfisse definitivamente i Cavalieri Teutonici nella celebre battaglia di Tannenberg
(Zalgiris in lituano), ponendo fine per secoli all'espansionismo tedesco in questa
parte dell'Europa.
La repubblica dei due popoli
Per tutto il resto della sua vita (morì ne1430), Vytautas tentò di trasformare la
Lituania da Gran Ducato a regno indipendente, equiparandola alla Polonia con cui si
era federata e della quale era ormai più grande per dimensioni e popolazione, ma
non riuscì mai nel suo intento.
Dopo la sua morte, la Lituania attraversò un periodo difficile, pressata ad est dalla
Russia, ad ovest dalla Prussia e a nord dalla Svezia, fino a quando, nel 1569,
Sigismondo II Augusto firmò l'Unione di Dublino" con la Polonia, che decretò di
fatto la fine dell'indipendenza politica lituana.
Nacque quella "Repubblica dei due popoli" che durerà fino al 1795, costringendo i
lituani a rinunciare a molte delle loro prerogative. Il polacco divenne la lingua
ufficiale della Confederazione e le ultime tracce del paganesimo lituano si estinsero
definitivamente.
Nella seconda metà del Cinquecento il regno polacco-lituano si estese dall' Oder
fino all'Ucraina e alla Livonia e dalla catena dei Carpazi fino a Riga.
Lo stato venne organizzato sotto forma di "repubblica nobiliare", dove il re era
affiancato nel governo da rappresentanti dell'alta aristocrazia (i magnati che
costituivano il Senato) e dalla piccola aristocrazia terriera (Camera dei Deputati).
Il re, i senatori e i deputati, formavano insieme la Dieta generale (Sejm).
La morte di Sigismondo II Augusto (1572), privo di eredi, pose fine al potere della
dinastia lituana degli Jagelloni.
80
Il suo successore, Stefan Bathory (1533-1586), apparteneva a una nobile famiglia
ungherese e fu eletto re di Polonia e Gran Duca di Lituania nel 1576. Dopo aver
sposato Anna Jagellona, si dedicò molto alla Lituania fondando nel 1579
l'Accademia di Vilnius, che affidata ai gesuiti diede vita all'Università ed istituendo,
nel 1581, il tribunale lituano.
Strappando poi la Livonia ad Ivan il Terribile, rese più sicuri i confini settentrionali
del Granducato.
Nel corso del XVII secolo fu realizzata una riforma agraria consolidando la pratica
della servitù della gleba e introducendo il sistema della rotazione nelle coltivazioni.
Oltre all'agricoltura crebbero e si potenziarono le città, si diffusero le idee
dell'Umanesimo e della Riforma, vennero perfezionate le tecniche per stampare i
libri e fu promulgato il Codice della Legge Lituana (o Statuto).
L'egemonia culturale e politica della Polonia comunque aumentò sensibilmente nel
corso degli anni, tanto da ridurre la Lituania a semplice provincia del regno Polacco.
I ripetuti conflitti contro russi e svedesi indebolirono la capacità di resistenza della
Confederazione e Vilnius fu più volte devastata dagli invasori. Alla fine del XVIII
secolo la Repubblica dei due Popoli cessò definitivamente di esistere con la sua
spartizione tra Russia, Prussia ed Austria e la maggior parte della Lituania cadde
sotto l'amministrazione zarista (1795) subendo un'intensa russificazione.
Tra la fine del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale moltissimi lituani
emigrarono all'estero, soprattutto in America, ma la forza delle tradizioni e del
sentimento nazionale mantenne viva la coscienza di chi rimaneva in patria.
Nel 1904 il governo zarista, per placare il malcontento diventato ormai
insostenibile, decise di togliere il bando alle pubblicazioni in lingua lituana e l'anno
successivo ne fu autorizzato l'uso nelle scuole private.
Con lo scoppio della rivoluzione russa del 1905, la Lituania espulse molti
funzionari e insegnanti e il 4 dicembre convocò a Vilnius la Prima Assemblea
Nazionale, che elesse presidente il patriota Jonas Basanavicius e proclamò la sua
indipendenza da Mosca.
81
La risposta russa però non si fece attendere e soffocò dopo breve tempo la rivolta.
L'indipendenza
Con lo scoppio della Grande Guerra la Lituania nel 1915 fu occupata dai tedeschi.
L'esercito invasore permise comunque la convocazione di una conferenza a Vilnius
nel settembre del 1917, la quale elesse un Consiglio Nazionale (la Taryba)
presieduto da Antanas Smetona. Il 16 febbraio del 1918 l'assemblea proclamò la
restaurazione dell'indipendenza dello Stato lituano nonostante la presenza dei
tedeschi con i quali fu costretta a raggiungere un compromesso.
La Germania era disposta a riconoscere la Lituania in cambio di precise garanzie
economiche, militari e politiche. Quando infatti l'11 luglio fu eletto sovrano
Guglielmo d' Urach con il nome di Mindaugas II, la scelta non fu gradita alla
Germania che si oppose fermamente.
Subito dopo la sconfitta dei tedeschi i lituani proclamarono la Repubblica e
Smetona diventò capo dello Stato. I due anni successivi furono molto duri per la
nuova Lituania, che nel 1919 fu costretta a combattere i bolscevichi che avevano
occupato il nord-est del Paese e a fronteggiare le mire polacche su Vilnius.
Sebbene fosse stato firmato nell'ottobre del 1920 un trattato con la Polonia, la
Lituania dovette cedere non senza combattere la sua capitale (1922) e Governo e
Parlamento si trasferirono a Kaunas. Il 12 luglio del 1920 era stato intanto firmato il
trattato di pace con la Russia di Lenin, il quale riconosceva solennemente
l'indipendenza della Lituania e della sua capitale Vilnius.
La Costituzione fu adottata il 1° agosto del 1922, con la proclamazione della
Repubblica Parlamentare e presidente fu eletto A. Stulginskis.
Intanto si facevano sempre più tesi i rapporti con la Germania che rivendicava il
possesso della regione di Klaipeda (Memel). Il periodo tra le due guerre fu
comunque di notevole sviluppo sia economico che culturale per la Lituania:
nacquero numerose piccole e medie imprese agricole ed aumentarono le
esportazioni soprattutto di bestiame, mentre l'industria realizzò importanti
ristrutturazioni.
82
L'invasione sovietica e la Seconda Guerra Mondiale
Nonostante il Patto Molotov-Ribbentrop avesse concesso la forza militare lituana
alla Germania in caso di guerra, dopo un po' questa passò sotto l'egemonia russa in
cambio di denaro.
In seguito, la Russia pretese di fare accogliere la propria armata nel territorio
lituano.
Allo scoppio della guerra tra la Germania e l'URSS (22 giugno 1941), seguì
l'immediata reazione dei lituani contro l'occupazione del loro Paese. Gli insorti
crearono un governo provvisorio che però non fu riconosciuto dalla Germania, la
quale occupò a sua volta la Lituania, trasformandola in un distretto tedesco
(Ostland) e rimanendovi fino al 1944.
La dominazione nazista fu molto dura per il popolo lituano, soprattutto per i
numerosi ebrei che da secoli abitavano quelle terre.
Il secondo dopoguerra
Nell'estate del 1944, l'Armata Rossa respinse i tedeschi ed occupò la Lituania ma
l'ordine sovietico fu ristabilito con una certa difficoltà. Fino al 1953 si susseguirono
molti interventi repressivi per sconfiggere la resistenza lituana e la guerriglia dei
partigiani baltici.
Fino alla fine degli anni Settanta la Lituania fu caratterizzata da una crescente
integrazione nel sistema economico ed industriale sovietico e la collettivizzazione
dell'agricoltura portò all'abolizione totale della proprietà privata delle terre.
Fino alla metà del 1988 tutte le attività politiche, economiche e culturali furono
controllate e dirette dal Partito Comunista Lituano, membro a tutti gli effetti del
Partito Comunista dell'URSS.
Gli anni della perestrojka e del distacco da Mosca
Il programma di riforma della "perestrojka" fu accolto positivamente dalla maggior
parte dei lituani. Nell'ottobre del 1988 intellettuali, politici e semplici cittadini
diedero vita al movimento per le riforme denominato Sajudis, che intendeva fare
pressioni su Mosca e sulle comunità internazionali per il riconoscimento della
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Lituania come Stato indipendente.
Il 19 ottobre il segretario del PCL Rimgaudas Songaila fu sostituito da Algirdas
Brazauskas, un riformatore che aveva più volte partecipato alle riunioni del Sajudis.
Pochi giorni dopo all'interno del palazzo dello sport di Vilnius si tenne il congresso
di fondazione del Sajudis come movimento politico organizzato. Intanto sotto la
spinta dei moti popolari, il governo comunista lituano decise una serie di
concessioni al movimento : il ripristino della bandiera e dei simboli nazionali, l'uso
del lituano come lingua ufficiale, la celebrazione della Festa Nazionale del 16
febbraio e la riapertura al culto della cattedrale di Vilnius e delle altre chiese
trasformate in musei dal partito comunista.
Ormai molti membri del PCL appoggiavano le idee del Sajudis che il 20 novembre
dello stesso anno adottò per la prima volta una dichiarazione d'indipendenza morale
da Mosca.
Nel 1989 continuò a crescere la spinta popolare a favore dell'indipendenza ed il 5
febbraio una folla immensa si strinse intorno al Cardinale Sladkevicius in occasione
della riconsacrazione della cattedrale.
Nel dicembre del 1989 avvenne poi il definitivo distacco del PCL guidato da
Brazauskas dal PCUS e l'11 marzo 1990 l'assemblea proclamò l'indipendenza della
Repubblica dall'URSS.
La storica decisione del Parlamento non fu però accettata da Mosca, che dopo aver
chiesto ufficialmente di revocare quell'atto di separazione, intervenne con una serie
di sanzioni economiche contro la Lituania, accompagnate da alcune operazioni
militari.
Tra l'11 ed il 13 gennaio del 1991, le truppe sovietiche occuparono alcuni edifici (tra
cui la sede della televisione ed il centro stampa) e le principali vie di accesso a
Vilnius. Negli scontri morirono 14 persone ed altre 200 restarono ferite ma i lituani
riuscirono a difendere il loro Parlamento. La tensione rimase alta anche nelle
settimane successive, nonostante la ripresa del dialogo tra Vilnius e Mosca.
Fu addirittura organizzato un referendum che doveva far decidere ai lituani se
84
essere a favore o contro la repubblica indipendente, ma Mosca non ne volle
riconoscere il valore giuridico.
Alcuni incidenti alle frontiere (maggio e giugno) fecero temere il precipitare della
situazione ed il 19 agosto a Vilnius i palazzi della televisione e dei telefoni furono
nuovamente presi d'assalto dalle truppe speciali sovietiche.
La grave situazione ebbe però una svolta repentina il 21 agosto, quando la notizia
del colpo di stato a Mosca iniziò a fare il giro del mondo.
Il giorno successivo il PCL venne dichiarato fuorilegge dal Consiglio Supremo e
tutti i suoi beni confiscati. L'esercito sovietico abbandonò gli edifici occupati da
gennaio ad agosto.
Il 2 settembre gli USA riconobbero ufficialmente le tre Repubbliche Baltiche ed il 6
settembre fece lo stesso il parlamento russo.
L'entusiasmo dei lituani per il ritorno dell'indipendenza e della democrazia si
dovette presto scontrare con una crisi economica di grandi proporzioni a causa della
dipendenza energetica da Mosca.
Contemporaneamente alle elezioni politiche i cittadini lituani votarono anche la
nuova Costituzione democratica, che prevedeva una repubblica di tipo semipresidenziale, con poteri equamente ripartiti tra Capo dello Stato, Governo e
Parlamento.
Nell'agosto del 1993 si concluse il lento e contrastato ritiro degli ultimi soldati russi
dal territorio lituano e il 27 gennaio del 1994 fu firmato l'accordo di partnership tra
la Lituania e gli altri Paesi membri della NATO.
Il 12 giugno del 1995 fu invece sottoscritto l'accordo di associazione della Lituania
all'Unione europea entro il 2001.
Dal maggio del 2004 la Lituania è diventata ufficialmente stato membro della
Unione Europea e nel marzo dello stesso anno anche della NATO, ma ha fallito
l'aggancio alla zona euro a causa dell'inflazione e punta ora al 2010.
Nel Dicembre del 2007 è entrata a far parte insieme a Slovenia, Estonia, Lettonia,
Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Malta della zona Schengen.
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Superficie: 65.300 Km²
Abitanti: 3.425.000 (stime 2005)
Densità: 52 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Vilnius (541.000 ab.)
Altre città: Kaunas 369.000 ab., Klaipeda 190.200 ab., Siauliai 131.200 ab., Panevezys
117.600 ab.
Gruppi etnici: Lituani 83,5%, Polacchi 6,5%, Russi 6,5%, Bielorussi 1%, altri 2,5%
Paesi confinanti: Lettonia a NORD, Russia (Kaliningrad) ad EST, Polonia a SUD-OVEST,
Bielorussia a SUD-EST
Monti principali: Juozapine 294 m
Fiumi principali: Nemunas 475 Km (tratto lituano, totale 937 Km), Sventoji 246 Km, Neris
234 Km (tratto lituano, totale 510 Km)
Laghi principali: Druksiai 44,8 Km², Dysnai 24,4 Km², Dusia 23,3 Km²
Clima: Temperato - continentale
Lingua: Lituano (ufficiale), Polacco, Russo
Religione: Cattolica 79%, Ortodossa 4%, altro 17%
Moneta: Litas lituano
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MACEDONIA
Abitata da popolazioni nomadi in età neolitica (circa 6200 a.C.), dopo il 3000 a.C.
una popolazione di lingua greca si stabilì nelle regioni montuose comprese tra
l’Olimpo e il Pindo. Perdicca I fondò un regno nella ricca pianura alluvionale dei
fiumi Aliákmon e Axios. Nel IV secolo a.C., sotto Filippo II, lo stato visse un
periodo di crescita ed espansione; conquistata la Grecia nel 338 a.C., unì greci e
macedoni in un unico impero.
Il figlio di Filippo, Alessandro Magno, prese il comando in seguito all’assassinio del
padre nel 336 a.C., del quale perseguì gli obiettivi, creando un vasto impero che si
estendeva a sud fino all’Egitto e a est, attraverso la Persia, fino all’India
nordoccidentale.
Alessandro morì nel 323 a.C., senza lasciare un diretto successore. Il vuoto creatosi
portò a conflitti all’interno dell’impero e, infine, alla sua dissoluzione. I generali
dell’esercito macedone frazionarono la regione in piccoli regni, che continuarono a
combattere tra loro per diversi decenni, fino al 215 a.C. Dopo una serie di ripetute
guerre (215-168 a.C.), nel 148 a.C. la regione divenne provincia romana.
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All’inizio del periodo cristiano fu luogo importante per le attività missionarie di san
Paolo, che visitò Filippi e Salonicco. Nel 395 la Macedonia divenne parte
dell’impero bizantino. Tra il VI e il VII secolo si stabilirono nella regione numerose
popolazioni slave provenienti da altre parti dell’Europa orientale, che gradualmente
diventarono il gruppo dominante; dal IX secolo fu governata dagli imperi bulgaro,
bizantino e serbo.
Nel 1371 la Macedonia cadde sotto l’influenza dell’impero ottomano e, durante il
periodo della sua decadenza, fu scena di battaglie territoriali fra greci, serbi e
bulgari. In seguito alla guerra dei Balcani (1912-13), la regione fu sottratta al
controllo ottomano e divisa fra Grecia, Bulgaria e Serbia.
Superficie: 25.713 Km²
Abitanti: 2.023.000
Densità: 79 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Skopje (467.000 ab.)
Altre città: Kumanovo 103.200 ab., Bitola 86.400 ab., Prilep 73.400 ab., Tetovo
70.800 ab.
Gruppi etnici: Macedoni 64%, Albanesi 25%, Turchi 4%, Rom 2,5%, Serbi 1,5%,
altri 3%
Paesi confinanti: Serbia a NORD, Bulgaria ad EST, Grecia a SUD, Albania a
OVEST
Monti principali: Golem Korab 2753 m, Titov Vrh 2747 m
Fiumi principali: Vardar 301 Km (tratto macedone, totale 388 Km), Crna 228 Km,
Bregalnica 225 Km, Treska 139 Km
Laghi principali: Lago d'Ocrida 243 Km² (parte macedone, totale 363 Km²), Lago
di Prespa 197 Km² (parte macedone, totale 328 Km²)
Isole principali: Golem Grad (nel lago di Prespa) 0,25 Km²
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Clima: Continentale
Lingua: Macedone (ufficiale), Albanese
Religione: Ortodossa 54,5%, Musulmana 30%, altro 15,5%
Moneta: Dinaro macedone
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MOLDAVIA
Le prime notizie che si hanno di questo territorio risalgono alla metà del secolo
XIV, quando i fondatori del Principato di Moldavia crearono villaggi sparsi, senza
alcuna organizzazione. Ciò è spiegato dal fatto che a quell’epoca il paese era sotto il
dominio dei Tartari, nomadi, essenzialmente guerrieri, che occuparono tutta la parte
orientale dell’Europa fin dalla metà del XIII secolo.
Questa dominazione in parte si indebolì per le continue ribellioni da parte dei russi e
la sua fine diede la possibilità alla Moldavia di sorgere. E ciò fu opera anche di
Luigi il Grande, re di Ungheria. Egli conquistò il paese dove poi lasciò un capo
militare e politico, capace di combattere con armi alla maniera occidentale quanto
con l’arco usato dai tartari.
Di questi capi, i noti “voivodi” romeni, c’era una discreta abbondanza, specialmente
in Transilvania,soprattutto nella zona di Maramures, dove numerosi erano i romeni.
Il compito di impedire il ritorno dei tartari nel paese fu affidato al “voivoda”
Dragos. Egli fu inviato nella zona della cittadina di Baia, dove sin dal secolo XIII si
erano stabiliti i Sassoni. Per questi sassoni la città si chiamava “Mulda”, per gli
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ungheresi “Moldvabanya”. Tutto l’operato del principe Dragos è rimasto
sconosciuto; si sa soltanto che ebbe un figlio, Sas, al quale fu affidato lo stesso
incarico, ma che dovette in breve lasciare il paese per una ribellione condotta dal
“voivoda” del Maramures, Bogdan, sceso anche lui nella Moldavia alla metà del
secolo XIV.
Nel 1360 egli divenne il “dominus”, completamente autonomo, e sventò tutte le
minacce e tutti i pericoli ai quali fu sottoposto il paese.
Lo stato moldavo allora si estendeva da Baia fino alla borgata di Siretiv. La famiglia
di Bogdan si ampliò di un ramo, quello conseguente al matrimonio di Margherita,
figlia ed erede di Latco (suo figlio), con un “voivoda” Stefano di origine
sconosciuta. Da questo matrimonio nacquero tre figli: Pietro, Stefano e Romano,
che originarono la dinastia dei “Musat”: Margherita, infatti, in romeno si diceva
“Musata”, cioè la “Bella”.
Questa dinastia fu la principale artefice dell’espansione al sud dello stato moldavo.
Infatti, sotto il governo di Romano, il paese giunse alla confluenza del fiume
Moldava con Siret. Lì Romano fondò una città che da lui prese il nome di Roman,
e si adoperò per distruggere e far scomparire completamente tutto ciò che era
appartenuto ai Tatari. Egli potè gloriarsi di possedere tutto il paese “dai monti al
mare”.
Alessandro, figlio di Romano, mentre dal popolo era considerato il signore degli
eserciti, padrone assoluto, quasi un “cesare” bizantino, riapparso sulle sponde del
Danubio, per i sovrani vicini era soltanto il padrone della terra moldava; la sua
potenza era limitata, quindi vulnerabile. E ciò pensò Luigi d’Ungheria e dopo di lui
il genero re Sigismondo che tentò di conquistare la Moldavia allorchè fu “voivoda”
Stefano I.
Poi fu la volta dei re polacchi a tentare l’annessione della Moldavia al loro regno ma
anche per essi non fu possibile la realizzazione. Poi ci fu il momento
dell’espansione dei turchi; solo un conflitto ci fu fra Moldavia e Turchia, ma fu
sufficiente.
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In seguito Maometto II restituì la libertà al Principato in cambio di un tributo annuo.
Dopo di lui suo figlio Baiazet II tornò ad imporre sulla Moldavia la sua sovranità,
con l’aiuto dei Tatari che erano stati, in precedenza, sottomessi dal sultano.
Nel 1575, sotto Giovanni il Terribile, e poi nel 1595, sotto il principe Aarone,
furono tentate le rivolte contro i turchi.
Nella prima metà del secolo XVII, in unione alla Polonia, che aveva preteso di
estendere il suo dominio fino al Danubio, la famiglia principesca moldava dei
Movila, si ritrovò a combattere contro gli ottomani ma fu un disastro e nessuna altra
guerra fu intrapresa per un certo tempo.
Passarono, infatti, altri 50 anni prima che si verificasse una nuova rivolta, capitanata
da Demetrio Cantemir, alleato dello zar di Russia: era il 1711. A quell’epoca furono
governatori del paese i Fanarioti, greci e romeni. Sotto di loro cominciarono a
nascere i primi movimenti nazionali per la libertà.
Il tentativo di Cantemir ebbe come conseguenza un terribile saccheggio della
Moldavia ad opera dei turchi e dei tatari. E la stessa cosa la subì la Valacchia.
Inoltre la Moldavia perse i distretti settentrionali di Suceava, Campulung, Cernauti,
una parte del territorio di Hotin, che divenne città turca.
Nel 1775, con la Convenzione di Palamutca, la Bucovina passò all’Austria. Nel
1789 scoppiò una nuova guerra e quando si stipulò la “Pace di Iasi” nel 1792 il
territorio della Moldavia non subì altre mutilazioni.
Non fu la stessa cosa nel 1812 quando i russi, con la “Pace di Bucarest” poterono
annettersi le terre tra il Prut ed il Dnestr e, per ingannare i turchi, le chiamò
Bessarabia.
La perdita della guerra e delle terre non impedì però alla Moldavia di acquisire
grande prestigio, anche internazionale, dovuto soprattutto alla cultura, che ebbe un
notevolissimo impulso. Ed infatti nel XVIII secolo, nonostante le difficoltà create
dall’era fanariota, il principato fu alla testa della vita culturale in Romania.
Nel 1857 a Iasi, per decidere le sorti del principato,ci furono i famosi dibattiti del
“Divano” moldavo; ne conseguì la creazione di uno stato unitario che si chiamò
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“Principati uniti di Moldavia e di Valacchia”, dal quale la Moldavia ebbe un grave
danno, tanto da veder accrescere di giorno in giorno il suo indebolimento.
Nel 1919, anche la Bessarabia, con una ultima riforma amministrativa, fu staccata
dal corpo della Moldavia, della cui antica individualità non rimase che qualche
piccolo particolare solo nei dialetti.
L’Unione Sovietica nel 1940 operò l’annessione della Bessarabia e nell’agosto dello
stesso anno fu la Moldavia ad essere innalzata al rango di repubblica e come tale
divenne la 13° Repubblica dell’Unione Sovietica, con capitale Kisinev. Il dialetto
moldavo fu confermato però lingua ufficiale. A questa repubblica fu incorporata la
Bessarabia settentrionale e centrale, mentre quella meridionale fu incorporata alla
Repubblica Ucraina.
Nel luglio 1941 le truppe romene presero possesso di tutti i territori dell’ex
Moldavia autonoma e questi, insieme ad Odessa, furono amministrati dalla
Romania e si chiamarono Transnitria. Ma il 23 agosto 1944, con la resa della
Romania, tutto fu ripristinato come in precedenza. E qui la Repubblica di Moldavia
fu sottoposta ad una completa russificazione, si impose l’alfabeto cirillico, si favorì
l’immigrazione russa ed ucraina, si recisero tutti i legami con la Romania e la
popolazione di origine romena fu deportata in Asia centrale. E così continuò fino
all’avvento di Gorbacev, nel 1989.
In tutte le repubbliche sovietiche insorsero le opposizioni al regime e la repubblica
di Moldavia pretese il ripristino dell’alfabeto latino ed il riconoscimento del romeno
come lingua ufficiale. A maggio del 1989 nacque il Fronte Popolare per la Moldavia
che, però, fu aspramente contrastato dalle minoranze etniche russa, ucraina, e dai
turchi cristiani e ortodossi, i cosidetti “gagauz”, che intendevano limitare l’influenza
dei nazionalisti nel governo.
Al vertice del Partito Comunista Moldavo ci fu il cambio del leader. Prese le redini
P. Luchinsky, giovane riformatore, la cui visione politica era sicuramente più in
sintonia col pensiero di Gorbacev.
Il 23 febbraio del 1990 alle elezioni del Soviet Supremo Moldavo i candidati del
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Fronte ottennero una schiacciante maggioranza. Poi, nel settembre, M. Snegur fu
eletto presidente del Soviet e poi a dicembre 1991 divenne Presidente della
Repubblica.
Il nuovo governo operò subito una liberalizzazione nei settori delle comunicazioni,
poi tolse diversi privilegi al partito comunista, dichiarò la sovranità dello stato, gli
assegnò il nome di Repubblica Socialista di Moldavia e denunciò illegale
l’annessione della Bessarabia.
Le minoranze etniche, dal canto loro, scontente della piega che stava prendendo la
politica di stato, formarono due altre repubbliche. Una si chiamò Repubblica
Socialista Sovietica Gagauz, al sud del paese, ed una fu Repubblica Socialista
Sovietica Dnestr. Ma ambedue queste repubbliche furono annullate dal Soviet
Supremo Moldavo, e le minoranze crearono violenti conflitti e scontri. Mentre a
Mosca si tenevano riunioni fra i rappresentanti del governo e quelli delle
minoranze; riunioni che fallirono. Poi il governo moldavo accelerò la secessione
dall’Unione Sovietica assumendo direttamente il controllo delle imprese, istituendo
una propria banca centrale ed una guardia nazionale.
In seguito fu deciso di togliere dalla denominazione dello stato la parola “socialista,
sovietica” e così si ebbe la Repubblica Moldoveneasca, ed il 27 agosto 1991 fu
proclamata ufficialmente l’indipendenza.
Furono immediatamente sistemati i confini con la Romania, poi con l’Ucraina e poi
si aderì alla Comunità degli Stati Indipendenti. La questione delle minoranze fu
risolta quando in Romania cadde il regime comunista e quindi fu raggiunta la
completa riunificazione.
Nel marzo 1992 scontri violenti si verificarono fra la polizia e la popolazione
russofona. Ci furono parecchi morti e feriti e la situazione risultò molto più
complicata per la presenza sul territorio di truppe russe che stavano appoggiando
l’indipendenza del Transdnestr. Per la fine delle ostilità nell’agosto si svolsero
colloqui che portarono ad un accordo ed alla proclamazione del “cessate il fuoco”,
con conseguente evacuazione del territorio da parte delle truppe russe.
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Dopo avere per molto tempo caldeggiato la totale integrazione con la Romania, la
Moldavia, data la sua difficilissima situazione economica, dovette avvicinarsi alla
Federazione Russa, dalla quale dipendeva, specialmente nel campo energetico. E,
comunque, il progetto di integrazione con la Romania già nel marzo 1994 era stato
accantonato con un referendum, votato in questo senso dalla maggioranza del
popolo di lingua moldava.
Nell’aprile del 1994 fu varato un nuovo governo con la maggioranza degli
esponenti del Partito Agrario Democratico. Nello stesso anno si ebbe una nuova
Costituzione che stabiliva l’elezione del Presidente della Repubblica a suffragio
universale diretto, per un periodo di quattro anni, durante il quale il presidente eletto
doveva condividere il potere esecutivo col Presidente del Consiglio, responsabile
del Parlamento, anche questo in carica per quattro anni.
Questa nuova Costituzione prevedeva pure la possibilità, per le due regioni
separatiste, la Gagauzia e la Transnistria, di raggiungere l’autonomia. Questo
riferimento fu notevolmente gradito agli elettori delle due regioni, tanto che molti
contrasti interetnici automaticamente si appianarono.
Nel febbraio del 1995 la Gagauzia si avvalse di questa possibilità, mentre per la
Transnistria la soluzione non fu subito raggiunta per la presenza di truppe russe,
ancora stanziate nella zona.
Tuttavia esistevano ancora contrasti interni fra il Parlamento ed i nazionalisti filoromeni che pretendevano la denominazione di “romeno” anziché “moldavo”,
specialmente per ciò che atteneva la lingua ufficiale dello stato.
Questi ultimi, in questa diatriba, erano sostenuti dal presidente Snegur che alle
presidenziali del novembre-dicembre del 1996 fu sconfitto e sostituito da P.
Luchinsky, ex Primo Segretario del Partito Comunista, e presidente del Parlamento
già dal 1994.
La carica di Primo Ministro fu assunta da I. Ciubuc nominato nel gennaio del 1997
e confermato con le politiche del marzo 1998. Il Partito Comunista tornò ad essere
la forza politica principale del paese.
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Intanto, i negoziati per l’autonomia della Transnistria erano ripresi, dopo l’elezione
di Luchinsky, nonostante la permanenza delle truppe russe sul territorio, ed avevano
anche registrato qualche passo avanti, sia nel maggio 1997 che nel febbraio del
1998. In questa ultima data era stato anche firmato un accordo di cooperazione
economica, anche se il problema dell’autonomia era rimasto irrisolto.
Nel febbraio del 1999, a causa di contrasti sorti nel governo, Ciubuc si dimise e fu
sostituito da I. Sturza. Le tensioni politiche rimasero e nel dicembre si formò un
nuovo governo presieduto da D. Barghis.
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Superficie: 33.843 Km²
Abitanti: 4.218.000 (stime 2004)
Densità: 125 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Chisinau (780.000 ab.)
Altre città: Tiraspol 185.000 ab., Balti 149.000 ab.
Gruppi etnici: Moldavi 64,5%, Ucraini 14%, Russi 13%, Gagauzi 3,5%, Bulgari
2%, altri 3%
Paesi confinanti: Romania ad OVEST, Ucraina a SUD, EST e NORD
Monti principali: Dealul Balanesti 429 m
Fiumi principali: Prut 695 Km (tratto moldavo, totale 926 Km), Dnestr 630 Km
(tratto moldavo, totale 1370 Km)
Laghi principali: Beleu 6,25 Km²
Clima: Temperato
Lingua: Moldavo (ufficiale), Ucraino, Russo, Gagauzo
Religione: Atei 46,5%, Ortodossi 44,5%, Musulmani 5,5%, altro 3,5%
Moneta: Leu moldavo
Nota: La regione della Transnistria-Pridnestrovie, ubicata nella zona orientale
moldava (fra il Dnepr e l'Ucraina), si è dichiarata indipendente nel Settembre 1990,
anche se non è ufficialmente riconosciuta da nessuno Stato. Il nome completo della
regione è Pridnestrovskaia Moldavskaia Respublika. E' ampia 4.163 Km² e conta
611.000 abitanti (33% moldavi, 29% russi, 29% ucraini, 3% bulgari, 2% polacchi,
2% gagauzi). La capitale è Tiraspol, le altre principali città sono Tighina (125.000
ab.) e Rabnita (62.000 ab.).
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POLONIA
La Polonia dei Piast (X – XI secolo)
Il nome della Polonia trae origine dal nome della tribù dei Polanie, ovvero popolo
che lavora i campi (campo = "pole" in polacco), che viveva nel bacino del fiume
Warta, nella zona più tardi denominata Wielkopolska (Polonia Magna).
Il centro del potere si trovava allora a Gniezno. Nel corso del X secolo, i duca
Polanie (i Piast) conquistarono ed unirono sotto la loro autorità le altre tribù che
vivevano nel territorio racchiuso fra i fiumi Odra e Bug, il litorale baltico e i
Carpazi.
Il primo duca della dinastia dei Piast, menzionato dalle fonti dell'epoca, fu Mieszko
I (intorno a 960-992), considerato il fondatore dello Stato polacco, che riorganizzò i
territori conquistati e li riunì in un sistema statale omogeneo.
La Polonia dal X al XII secolo, come del resto tanti altri Stati del primo Medioevo,
fu una monarchia, considerata dai suoi sovrani come proprietà dinastica – cioè
patrimonium. Il duca e il gruppo di pochi magnati che lo circondava, disponevano
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di un potere forte e centralizzato mentre l’esercito era formato da una squadra di
alcune migliaia di soldati scelti, equipaggiati e mantenuti dallo stesso duca.
Lo stato fu diviso in province in maniera simile alla divisione dei territori tribali, le
province si dividevano a loro volta in circa cento distretti urbani.
Quando Mieszko I prese il potere verso il 960, dovette subito affrontare un dilemma
politico che sarebbe rimasto fondamentale per la Polonia anche nei secoli
successivi: quale rapporto avrebbe dovuto instaurare lo Stato fondato dai Piast con
l'Impero da una parte e con il Papato dall'altra?
Le aspirazioni imperiali della Germania trovarono espressione nell’incoronazione
dell'Imperatore Ottone I nel 962. L’alternativa che si poneva di fronte al duca
polacco era scegliere tra il paganesimo legato alla lotta per una piena indipendenza
politica o, altrimenti, il battesimo, che significava per la Polonia entrare nell'ambito
della civiltà cristiana europea e sistemare così le sue relazioni con l'Impero,
riconoscendo in un certo senso il suo dominio.
Mieszko I scelse la seconda opzione, garantendo alla Polonia possibilità di sviluppo
e la presenza nella comunità degli Stati e dei popoli europei. Egli, infatti, accettò nel
966 il battesimo ed appena due anni dopo venne fondata la prima diocesi polacca di
Poznan.
A Mieszko I succedette il figlio Boleslao il Probo (Boleslaw Chrobry, 992-1025),
che sin dall’inizio del suo governo cercò di consolidare l’indipendenza della Polonia
imboccando la stessa strada del padre. Così nel 997 egli organizzò una spedizione
missionaria del vescovo ceco Adalberto (Wojciech in polacco), nei territori delle
tribù prussiane, e dopo la morte del missionario ne riscattò il corpo utilizzando poi
la canonizzazione del martire per accrescere il prestigio della Polonia.
Nell’anno 1000, infatti, proprio di fronte alla tomba di S. Adalberto, ebbe luogo
l’incontro tra Boleslao il Probo e l’Imperatore Ottone III, che nell’occasione
denominò Boleslao patrizio dell’impero, gli conferì una copia della lancia di S.
Maurizio, ponendo il diadema imperiale sulla sua testa, e, di comune accordo con
Roma, diede il suo consenso alla fondazione a Gniezno della prima metropoli
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0
ecclesiastica polacca.
L’indipendenza politica così conseguita dalla Polonia, dovette essere più tardi difesa
quando i successori di Ottone III cambiarono la linea politica dell’Impero.
Bolesalo il Probo vinse la guerra polacco-tedesca scatenatasi negli anni 1002-1018,
consolidando poi la sua supremazia nell’Europa centro-orientale, con la vittoriosa
campagna di Kiev del 1018. Infine, la sua incoronazione a primo re di Polonia nel
1025, sancì definitivamente l’indipendenza della Polonia.
I suoi successori non furono però capaci di mantenere la piena autonomia dello
Stato, che solo Boleslao II Smialy (il Bravo), riuscì a ripristinare con la sua
incoronazione a re della Polonia nel 1076.
Egli, per salire al trono reale, approfittò del conflitto scoppiato tra l’Impero ed il
Papato, schierandosi dalla parte di Gregorio VII contro Enrico IV, inimicandosi però
i magnati polacchi con cui entrò in conflitto. Il re, lottando con l’opposizione, ne
uccise il leader Stanislao, vescovo di Cracovia, ciò provocò una forte protesta nel
Paese che gli costò la perdita del trono.
Boleslao III Krzywousty (Boccastorta) (1102-1138), illustre comandante e politico,
non riuscì a salire al trono nonostante fosse uscito vittorioso da numerose guerre ed
anche se respinse l'invasione tedesca nel 1109 e fu uno degli organizzatori della
missione di Ottone da Bramberga in Pomerania.
Il territorio polacco misurava al tempo circa 250 mila kmq, popolati da quasi un
milione di abitanti.
Il sistema di potere fortemente centralizzato nelle mani della dinastia dei Piast,
veniva indebolito da una lenta feudalizzazione dei rapporti sociali. Le tendenze
centrifughe erano una caratteristica degli Stati dell'Europa feudale del Medioevo, ed
in Polonia, così come in Russia ciò prese una forma di disintegrazione territoriale:
lo Stato fu diviso in ducati, governati dai rappresentanti di un ramo della dinastia
dei Piast.
Fu il testamento di Boleslao Boccastorta a dare inizio, nel 1138, alla disintegrazione
territoriale dello Stato, con la sua divisione fra i 5 figli e la nomina del maggiore di
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loro a "seniore".
ll seniorato fu presto abolito, ma la crescita della dinastia portò ad ulteriori
divisioni, tant’è che nel periodo culminante della spartizione, a metà del XIII
secolo, la Polonia era divisa in 20 ducati.
I secoli XII e XIII portarono un incremento demografico e un'intensa
colonizzazione.
Principi, vescovi e cavalieri si trovarono impegnati a fondare nuovi villaggi ed a
riorganizzare le città, riallacciandosi ai modelli provenienti dall'estero.
La legge di Magdeburgo gettò le basi dell'autogestione nei villaggi e nelle città, con
un proprio sistema giuridico ed una gestione finanziaria a livello locale. L'afflusso
di coloni tedeschi creò in Polonia una nuova situazione etnica ed a partire dal XIII
secolo, specie nelle città, una percentuale sempre più alta dei sudditi dei duchi, era
costituita da abitanti d'origine tedesca. Nei centri urbani si insediò anche la ricca
popolazione ebrea, la quale, nel 1264, ottenne dal duca di Cracovia, Enrico il
Devoto, un privilegio speciale.
Non meno importanti furono anche le trasformazioni in campo culturale. Fino al XII
secolo l'arte e la letteratura romana avevano un carattere strettamente élitario, ma
nel XIII secolo quest'arte diventò più diffusa. Aumentò notevolmente il numero di
chiese ed iniziò un nuovo stile architettonico - il gotico.
Lo sviluppo economico, demografico, sociale e culturale fu un effetto positivo della
disintegrazione territoriale ma non mancavano anche i fenomeni negativi: la Polonia
divenne oggetto di invasioni ed i principi locali della Pomerania Occidentale
divennero autonomi. I Cavalieri Teutonici, insediati dal duca di Masovia, Konrad,
nella Terra di Chelmno, conquistarono i territori delle etnie prussiane, dopodichè,
dall'inizio del XIV secolo, cominciarono ad espandersi verso la Polonia.
Le tre invasioni dei mongoli del 1241, 1259 e 1287 causarono grandi distruzioni.
Tali pericoli esterni intensificarono le tendenze alla riunificazione delle terre
polacche e del resto, persino nel momento culminante della disintegrazione
territoriale, erano stati mantenuti alcuni elementi di unità: in ogni regione, tranne la
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2
Pomerania, governavano i sovrani della dinastia dei Piast e le terre polacche erano
unite intorno ad una sola Chiesa, con un’unica sede metropolìta.
Continuava ad essere usato il nome Regnum Poloniae e le insegne regali venivano
conservate dal 1076 nella Cattedrale di Cracovia. ll desiderio di unità, inoltre, si
esprimeva anche nel culto di San Stanislao, coltivato in tutta la Polonia.
Ciononostante, la riunificazione del Paese non era un obiettivo facile da
raggiungere, infatti, dopo alcuni tentativi non riusciti, fatti dai duchi della Slesia e
della Piccola Polonia, solo nel 1295 il duca della Polonia Magna Przemyslaw II salì
al trono, ma fu presto ammazzato da un attentatore sconosciuto.
Aspiravano alla sua successione il duca di Sieradz, Leczyca e Brzesk, Ladislao il
Breve ed il re ceco della dinastia di Przemyslid, Venceslao II. Quest'ultimo
conquistò la Piccola Polonia, la Polonia Magna, la Pomerania di Danzica, una parte
della regione di Kujawy, e si incoronò re di Polonia nel 1300.
La morte precoce di Ladislao II e di suo figlio Ladislao III, aprì a Ladislao il Breve
la strada al trono della Polonia; questi, dopo essersi conquistato l'appoggio del Papa,
un aiuto militare dell'Ungheria e dopo aver riunificato una parte delle terre
polacche, si incoronò nel 1320.
Fuori dal suo regno rimasero: la Slesia, i cui duchi resero omaggio al re della
Boemia, la Masovia, che mantenne la sua autonomia, e la Pomerania di Danzica,
occupata negli anni 1308-1309 dai Cavalieri Teutonici.
La perdita della Pomerania aprì un periodo di 150 anni di lotte, tra la Polonia e
l'Ordine Teutonico, per la riconquista di questa terra.
Nel XIV secolo: Francia, Germania, Fiandra, Inghilterra, Italia e gli Stati della
penisola iberica furono travagliati da una profonda crisi economica, dall'epidemia di
Morte Nera (la peste) e dalle disgrazie della Guerra dei 100 anni, viceversa, per i
Paesi dell'Europa centro-orientale, questo fu un secolo di sviluppo economico,
politico e culturale.
Casimiro il Grande (1333-1370), figlio e successore di Ladislao il Breve, uno dei
più illustri sovrani polacchi, firmò la pace coi Cavalieri Teutonici (1343), dando
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loro, come "eterna elemosina", la Pomerania. Egli riconobbe l'omaggio della Slesia
al re della Boemia e dopo aver garantito la pace alla Polonia, si occupò della
riforma dello Stato.
Appoggiò la colonizzazione delle terre, il commercio, promulgò le leggi che
sancivano i principi dell'estrazione di salgemma, di minerali, di piombo, argento e
ferro, realizzò la riforma monetaria.
Il diritto consuetudinario fu codificato ed unificato, la magistratura riformata. Nel
1364 il re fondò la prima università polacca - l'Accademia di Cracovia; destinò
grandi fondi per la costruzione di una rete di castelli ed alla riforma dell'esercito.
Il potere reale, anche se forte, veniva limitato dalla legge di cui la monarchia
doveva essere garante ed esecutore.
Casimiro il Grande iniziò l'espansione della Polonia verso sud-ovest. Dopo la fine
in Russia di Halicz della dinastia dei Rurykowicz, il ducato fu dominato da questo
re polacco (1344 e 1366). Alla fine del regno di Casimiro il Grande, il territorio
dello Stato ammontava a 240 mila kmq, la popolazione era di circa 2 milioni di
abitanti.
In quell’epoca, un milione di persone che parlavano la lingua e coltivavano la
cultura polacca, vivevano fuori dal Regno Polacco - in Slesia, Pomerania e
Masovia, mentre lo Stato polacco veniva abitato, oltre che dagli stessi polacchi,
anche da tedeschi, russi ed ebrei.
Il re, sebbene più volte sposatosi, non ebbe un figlio legittimo ma non fu presa
neanche in considerazione la possibilità di trasmettere il potere ad uno dei Piast di
Slesia o di Masovia privi di prestigio, Casimiro stipulò quindi un accordo con Luigi
d'Angiò, re d'Ungheria e nipote da parte materna di Ladislao il Breve, il quale salì al
trono nel 1370 e regnò fino al 1382.
Egli, non avendo successori maschi, cercò di convincere i nobili polacchi a
riconoscere come successore al trono una delle sue figlie.
Unione con la Lituania. dinastia degli Jagellone. Lo sviluppo nel XV secolo
Nel 1384 Edvige, figlia undicenne di Luigi d'Angiò, chiamata in Polonia dalla
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nobiltà e dai rappresentanti delle città, salì al trono reale. Un gruppo di magnati di
Cracovia, che allora governava la Polonia, decise di darla in sposa al principe
pagano del Gran Ducato Lituano-Jagellone, a condizione però che la Lituania
accettasse il battesimo e fosse inclusa nel Regno della Polonia.
L'unione fu conclusa a Krewa nel 1385 ed un anno dopo Jagellone fu battezzato a
Cracovia e prese il nome di Ladislao per essere poi eletto re di Polonia (1386-1434).
Tale unione polacco-lituana fu dettata anche dalla necessità di far fronte al pericolo
di espansione dell'Ordine Teutonico.
Il Gran Ducato Lituano era uno Stato molto vasto e diversificato al suo interno: gli
stessi lituani, relativamente pochi, abitavano nelle zone nord-occidentali, mentre più
numerosa era la popolazione russa ortodossa. Il battesimo del Granduca e dei
magnati lituani e la loro conversione al Cristianesimo di rito occidentale,
preservarono la particolarità dell'etnia lituana.
Dopo aver formalizzato l'unione con la Polonia, la Lituania conservò il suo sistema
politico, le proprie leggi e strutture sociali. Witold, cugino di Ladislao Jagellone che
gli affidò il governo della Lituania, fu un sostenitore di tali particolarità.
Nel 1413 a Horodle, l'unione polacco-lituana fu modificata in modo tale da
garantire alla Lituania una certa autonomia anche dal punto di vista legale. La
Polonia e la Lituania occupavano nel XIV e XV secolo un territorio enorme, di oltre
1,12 milione kmq, dove abitavano diversi gruppi etnici e religiosi: polacchi, lituani,
tedeschi, russi, ebrei, armeni, tartari, gente di fede cattolica, ortodossa, giudaica e
musulmana. Un così grande proliferare di fedi, nonostante il cattolicesimo fosse
dominante, spingeva i sovrani a seguire una politica di tolleranza.
Con il battesimo della Lituania venne meno la ragione della politica d'espansione
dell'Ordine Teutonico. I Cavalieri Teutonici decisero di prevenire l'aumento della
potenza polacca e lituana, iniziando nel 1409 una guerra con entrambi gli Stati.
Lo scontro decisivo ebbe luogo il 15 luglio 1410 a Grunwald e si concluse, dopo
un'accanita battaglia, con la sconfitta dei Cavalieri Teutonici e la morte del loro
Gran Maestro, tuttavia, nonostante il crollo della potenza dei tedeschi, la città di
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Malbork riuscì a salvarsi.
Re Casimiro Jagellone (1447-1492) dichiarò guerra all'Ordine Teutonico, guerra che
durò 13 anni e che si concluse nel 1466 con la pace di Torun a seguito della quale,
la Polonia riconquistò la Pomerania con Danzica, Malbork, Elblag e la regione di
Warmia.
Le città situate in queste regioni ottennero numerosi privilegi, mentre alla
Pomerania fu attribuita una autogestione territoriale. La restante parte delle terre
dell'Ordine, la cosiddetta Prussia Teutonica, divenne un feudo della Polonia.
Il sistema socio-politico della Polonia quattrocentesca cambiò in seguito ai privilegi
conquistati dalla nobiltà, come l'inviolabilità dei beni dei nobili (1422) e
1'inviolabilità personale (1430-33): il sequestro o la detenzione potevano essere
eseguiti solo in virtù di una sentenza del tribunale.
Nel 1454 fu approvato il cosiddetto privilegio di Nieszawa, secondo il quale il re
non poteva imporre nuove tasse né dichiarare guerra senza il consenso delle giunte
(congressi) locali dei nobili.
L'attribuzione di sempre nuovi privilegi avveniva senza l’opposizione da parte degli
strati sociali inferiori e senza conflitti interni, ciò forse era dovuto al fatto che
l'aumento generale del tenore di vita, la mancanza di tensioni economiche nonché la
possibilità di un avanzamento sociale aperto anche ai borghesi e ai contadini più
dotati, permisero di evitare tali conflitti.
Lo sviluppo dello Stato e della società veniva accompagnato da quello della cultura,
il cui centro fu la corte della regina Edvige, ma anche l'Accademia di Cracovia e i
centri vescovili.
Il Quattrocento è il periodo culminante dello sviluppo del gotico polacco, la sua
espressione più spettacolare è l'altare della Chiesa Mariana di Cracovia, opera di
Weitt Stoss, scultore di Cracovia e di Norimberga. Nel campo della letteratura,
l'opera più importante è la magnifica cronaca scritta in latino da Jan Dlugosz,
canonico di Cracovia e precettore dei figli del re, mentre solo poche opere furono
scritte in polacco.
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Nel corso del XV secolo, all'Accademia di Cracovia si iscrissero oltre 17 mila
studenti, tra cui circa 12 mila provenivano dal Regno Polacco. E sempre a Cracovia
fu fondata nel 1473 la prima tipografia.
Gli Jagellone non regnarono solo in Polonia ed in Lituania, dopo una breve unione
dinastica polacco-ungherese (1440- 1444), nel 1471, il figlio di Casimiro Jagellone,
Ladislao, salì al trono ceco e nel 1490 anche a quello ungherese. A cavallo fra il XV
e il XVI secolo, sotto i governi di due rami di Jagelloni si trovarono quindi la
Polonia, la Lituania, la Boemia e l'Ungheria.
La repubblica nobiliare. Il "secolo d'oro".
Nella storia della Polonia il secolo XVI viene denominato il "secolo d'oro", allora il
territorio della Polonia e della Lituania misurava 815 mila kmq e la popolazione era
di circa 8 milioni di abitanti. I contadini costituivano il 67% della popolazione, i
borghesi circa il 23%, mentre i nobili con il clero il 10%.
L'esportazione di grano ed un positivo bilancio commerciale, garantivano alla
Polonia benessere e un notevole aumento demografico. In campo politico fu un
periodo di splendore e potenza senza la minaccia di pericoli esterni. Fu anche un
periodo di rinascimento e di florido sviluppo della letteratura in lingua polacca,
mentre l'alto livello di istruzione permise ai nobili di accedere al potere e di formare
un sistema socio-politico del tutto particolare - la repubblica nobiliare.
I privilegi ottenuti dalla nobiltà nei secoli XV e XVI, furono estesi alla cavalleria
lituana, nonché ai boiari ortodossi del Granducato di Lituania.
L'unità politica della nobiltà prevaleva sulle divisioni regionali, etniche e religiose
ed alla fine del XV secolo tutte le giunte provinciali inviavano i loro deputati
all'assemblea nazionale cui, oltre ai deputati, partecipavano anche il consiglio reale
e lo stesso monarca.
In questo modo si formò il parlamento composto da due camere e comune ai due
Stati - Polonia e Lituania (1493).
Sin dalla fine del XV secolo, intanto, proseguiva la lotta per il potere fra i magnati e
la nobiltà. Il confine fra i due ceti era abbastanza mutevole, in quanto in Polonia non
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esistevano diritti e titoli aristocratici separati; di fronte alla legge tutti i nobili erano
uguali. In questa rivalità con i magnati, l'indipendenza economica della nobiltà
garantì a quest’ultima il maggiore successo.
E infatti, i ricavi provenienti dall'agricoltura aumentavano di secolo in secolo, per
raggiungere il loro apogeo agli inizi del Seicento, grazie, in particolare, al grande
fabbisogno di grano polacco dell'Europa Occidentale e soprattutto dei Paesi Bassi,
dell'Inghilterra e della Germania settentrionale. Il grano veniva esportato per mare
da Danzica.
I nobili, guidati dai loro leader più illustri, lottavano per la conquista del potere
soprattutto in ambito parlamentare.
La costituzione del parlamento di Radom del 1505, denominata Nihil Novi,
dichiarava che senza il consenso del parlamento non potevano essere varate nuove
leggi, tuttavia il re Sigismondo il Vecchio (1506-1548) basò il suo governo sui
magnati, politica che fu continuata da suo figlio Sigismondo Augusto (1548-1572).
La guerra contro Mosca e la necessità di riscuotere le tasse, nonché il problema
della successione al trono, indussero però il re, che non aveva eredi, a collaborare
con i nobili.
Le Diete degli anni '60 realizzarono pertanto numerose riforme, a partire da quella
del tesoro ed in conformità alle aspirazioni dei nobili, fu risolta anche la questione
della successione e della prosecuzione dell’unione con la Lituania. Nel 1569 fu
approvata l'Unione di Lublino, in virtù della quale il re rinunciò alla successione al
trono in Lituania, aprendo così nei due Stati la strada verso l'elezione comune di un
nuovo sovrano. La Polonia e la Lituania conservarono uffici, leggi, eserciti e tesori
separati, rimanendo unite da parlamento, sovrano e politica estera comuni.
Dopo l’estinzione della dinastia di Jagelloni nel 1572, Jan Zamoyski, leader della
classe nobiliare propose la cosiddetta libera elezione, alla quale poteva votare ogni
nobile pervenuto all'assemblea elettorale di Varsavia.
La Dieta approvò questa soluzione nel 1573, inoltre, con 1'Atto della cosiddetta
Confederazione di Varsavia, stabilì la tolleranza religiosa e il divieto di guerre
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religiose e questo fu un fenomeno davvero insolito in un'Europa attanagliata da
conflitti di carattere religioso.
Al trono polacco si presentarono ari contendenti ma alla fine fu scelto, per motivi
rigidamente di convenienza politica, il duca d'Anjou Enrico di Valois, a cui furono
presentati i cosiddetti pacta conventa12 legati agli “atti enriciani” che
determinavano i principi dei sistemi politici polacco e lituano.
Il futuro re doveva rinunciare al principio di eredità al trono, riconoscere il quello di
libera elezione e giurare di rispettare la tolleranza religiosa; in caso di violazione di
queste norme i nobili avevano diritto a negare ubbidienza al re.
All'epoca del re Stefan Batory (1576-1586), il tribunale di corte fu sostituito dai
tribunali composti da giudici che venivano eletti dai nobili.
In questo modo si perfezionò il sistema politico della Polonia e della Lituania come
monarchia e al contempo come una Repubblica nobiliare.
La parità dei diritti di tutti i nobili, le prerogative del parlamento, il controllo
esercitato sul potere reale e la tolleranza religiosa furono le basi di questa
democrazia nobiliare, un sistema originale ed attraente, che garantiva ai nobili i
diritti civici, completamente diverso dai regimi politici assolutisti allora presenti in
Europa.
La nobiltà, sfruttando la buona congiuntura economica ed impegnata nella lotta per
il potere, non era interessata a conflitti esterni, così, fra le poche guerre del
Cinquecento si annovera quella contro l'Ordine Teutonico negli anni 1520- 1525,
conclusasi con l'omaggio prussiano a Cracovia nel 1525. Albrecht Hohenzollern
ottenne dal re il consenso alla secolarizzazione dell'Ordine, alla conversione al
luteranesimo e all'istituzione in una parte del territorio Prussiano, di un ducato laico
feudale.
Nel 1561 fu secolarizzato anche l'Ordine dei Cavalieri delle Spade e anch'esso
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- Pacta conventa: (1573). Base del contratto che legò alla dieta nobiliare i re elettivi di Polonia a
cominciare da Enrico di Valois (futuro Enrico III di Francia). Erano collegati ai cosiddetti "articoli enriciani",
che ponevano forti limitazioni al potere del re (convocazione periodica della dieta e poteri preminenti di
questa in fatto di guerra e tasse), mentre essi definivano i suoi obblighi positivi (in particolare farsi carico
delle spese della flotta e dell'esercito).
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accettò la sottomissione feudale alla Polonia. Ciò scatenò le guerre con la Russia
negli anni 1562-70 e 1577-82, conclusesi con la vittoriosa campagna di Psków del
re Batory e con l'arresto dell'aggressione russa agli Inflanti.
Meno soddisfacenti furono i risultati della politica dinastica dei Jagelloni. Quando
nel 1526, nella battaglia contro i turchi nei pressi di Mohacz perì, giovane e senza
prole, Lodovico Jagellone, gli asburgo si impadronirono della corona ceca e del
potere in quella parte dell'Ungheria che era sfuggita al dominio turco.
Nel XVI secolo avvenne uno sviluppo particolare del Rinascimento polacco. Il
centro culturale fu sempre Cracovia, dove si trovavano la corte reale, l'Università,
numerose tipografie, botteghe artigianali di scultori ed architetti.
Il Rinascimento cracoviese, che risplendeva su tutto il Paese, si sviluppava sotto
l'influenza italiana: negli anni 1507- 36 gli artisti italiani ristrutturarono il Castello
di Wawel; la cappella rinascimentale del re Sigismondo nonché i sepolcri di
Sigismondo il Vecchio e di Sigismondo II Augusto venivano riprodotti in tutta la
Polonia; una città completamente nuova, Zamosc - detta anche la Padova del Nord,
fu costruita per Jan Zamoyski da Bernardo Morante.
Nella Prussia reale prevaleva, invece, il Rinascimento settentrionale, grazie ai
contatti commerciali fra Danzica e i Paesi Bassi. Una sintesi particolare della
cultura polacca, russa ed osmana, si può osservare a Leopoli.
Lo sviluppo della letteratura raggiunse il suo apogeo nella creatività di Jan
Kochanowski (1530-1584), nelle sue Bagatelle, nei suoi Canti e nelle Poesie
Funebri scritte dopo la scomparsa della adorata figliola.
In Polonia regnava la tolleranza, il re Sigismondo Augusto diceva: "non voglio
essere padrone delle vostre coscienze".
Ogni corrente religiosa cercava di conquistarsi il campo tramite le scuole e la
propaganda. La Controriforma usava per questo scopo una rete di scuole gestite dai
gesuiti. Il Collegio di gesuiti di Vilnius, grazie alla Fondazione di Stefan Batory, si
trasformò in università (1578).
La scienza polacca fu strettamente legata a quella europea e un settore
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particolarmente sviluppato fu l'astronomia, con il suo rappresentante più illustre
Niccolò Copernico (1473-1543), autore di De revolutionibus orbium coelestium.
Nelle opere degli storici cinquecenteschi veniva rispecchiata la crescente
convinzione dei nobili di avere origini completamente diverse da quelle dei
contadini e dei borghesi. Secondo questa opinione, la nobiltà proveniva dall'antica
tribù di guerrieri detti Sarmati. ll mito sarmatico si diffuse nella II metà del XVI e
nel XVII secolo, epoca in cui il fascino della cultura nobiliare aveva una grande
forza di attrazione fra gli altri ceti sociali in Polonia e nei Paesi vicini.
La crisi del XVII e della prima meta' del XVIII secolo
Durante il lungo governo di Sigismondo III (1587-1632), discendente della dinastia
svedese dei Waza, si estinsero gradualmente sia il trend di sviluppo dell'economia
che le aspirazioni riformatrici dei nobili. Nel XVII secolo i rapporti di forza in
campo internazionale non furono favorevoli per la Polonia nè per la Lituania.
La crescente potenza della Svezia che voleva conquistare la supremazia sul Baltico
e sul suo litorale, non poteva lasciare indifferente la Polonia. La Russia intendeva
realizzare il suo programma di dominare tutte le terre e tutti i popoli ortodossi, il
che la poneva in conflitto con la Polonia e la Lituania. La Turchia, dopo essersi
impadronita dell'Ungheria, puntò ad espandersi verso le zone meridionali della
Polonia.
Gli Asburgo non garantivano un’alleanza sicura, tuttavia a cavallo fra il XVI e il
XVII secolo la ricca Polonia trovò ancora forze sufficienti per opporsi a questi
pericoli, tentando addirittura di espandersi ulteriormente. E infatti, all'inizio del
XVII secolo fu nuovamente la Polonia ad attaccare Mosca e dopo la vittoria nella
battaglia di Kaluszyn (1610) del comandante Stanislao Zólkiewski, le truppe
polacche entrarono a Mosca….ma il successo non durò a lungo.
Negli anni 1648-1673 la Polonia fu travagliata da numerose guerre ed attaccata da
più parti. Lo Stato fu scosso dalla rivolta dei Cosacchi (1648), alla quale si
aggregarono i contadini ucraini. La rivolta si trasformò in un'insurrezione socionazionale contro il potere polacco in Ucraina, così, approfittando della situazione,
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nel 1645, due armate russe si introdussero nel territorio della sempre più indebolita
Polonia.
In questa situazione estremamente pericolosa per la nazione, ci fu anche l'attacco da
parte degli svedesi (1655), che con le loro truppe occuparono in pochi mesi la
maggior parte del territorio polacco, compresa la capitale Varsavia.
L'improvvisa sconfitta della Polonia causò un tale squilibrio di forze nell'Europa
centro-orientale ed occidentale, che l'Impero, sentendosi costretto ad aiutare la
Polonia, riuscì insieme ad essa ad arrestare le operazioni belliche della Russia.
Nella stessa Repubblica, considerata dagli svedesi come un trofeo di guerra,
cresceva l'opposizione armata che, grazie all'eroica condotta del comandante Stefan
Czarniecki, cacciò gli svedesi fuori dalla Polonia. Nel 1660 fu stipulata la pace
polacco-svedese di Oliwa.
Anche i cosacchi furono sconfitti ed in conformità all'armistizio di Andruszów
(1667), la Russia ottenne Smolensk, una parte dell'Ucraina e Kiev.
Per combattere i turchi (1620-21 e 1672-73), la Polonia si alleò con gli Asburgo,
così, quando nel 1683 la potente armata turca assediò Vienna, la capitale
dell'Impero fu liberata grazie all'intervento polacco guidato dal re Giovanni III
Sobieski (1674-1696).
La maggior parte delle lunghe guerre della II metà del XVII secolo ebbe luogo nel
territorio polacco e lituano e la Polonia ne uscì distrutta e spopolata. Le guerre,
inoltre, venivano accompagnate da epidemie e fame cosicché, la popolazione che
prima del 1645 ammontava a circa 10 milioni, alla fine del secolo fu ridotta ad
appena 6.
La crisi toccò anche l'organizzazione politica dello Stato. La posizione della nobiltà
impoverita divenne molto più debole e ciò indusse i magnati a prendere il
sopravvento. Il parlamento fu indebolito dal principio di liberum veto: nel 1652 si
riconobbe per la prima volta, che era inammissibile imporre la volontà della
maggioranza anche ad un solo deputato, quindi ogni deputato poteva sciogliere il
parlamento opponendosi al voto degli altri.
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Il Liberum veto divenne ben presto uno strumento di rivalità per raggruppamenti di
magnati e più tardi anche per le influenze straniere.
Nel XVII secolo la Polonia combatté contro la Russia ortodossa, contro la Svezia
protestante e contro la Turchia musulmana, diventando un antimurale della
cristianità. La tolleranza, mantenuta ancora a livello legislativo, era in effetti
fortemente limitata nella vita quotidiana e nel costume.
Il Seicento fu un periodo di rigoglio del barocco e di una cultura tipicamente
polacca, il sarmatismo.
La corte dei Waza fu centro di pittura (Dolabella), di teatro e di opera lirica
(Mecenatismo di Ladislao IV), e di scienza (mecenatismo della regina Maria
Lodovica Gonzaga di Nevers).
Moda, armi, decorazioni, costumi e opinioni della nobiltà polacca crearono
un'originale sintesi del barocco e delle correnti orientali.
I drammatici tempi delle guerre portarono al diffondersi di memorie scritte da nobili
e borghesi. Il caos e la crisi economica provocarono il declino dell'istruzione
pubblica a tutti i livelli.
L'inizio del XVIII secolo fu il periodo più nero della Repubblica. Ai tempi di
Augusto II detto Forte (1697-1733), durante la guerra del Nord, la Polonia non fu
che un campo di battaglia per gli eserciti stranieri e anche il trono reale diventò
oggetto di intrighi internazionali.
La Russia di Pietro il Grande cominciò a determinare la politica interna della
Polonia. I nobili cercavano di mantenere a ogni costo la loro "libertà d'oro", senza
capire che il sistema politico disorganizzato non garantiva più alcuna libertà.
Tentativi dl riforme. Illuminismo e declino dello stato
L'attività riformatrice trovò due ostacoli difficili da superare, il primo consistette
nella politica delle potenze vicine, le quali vedevano di proprio interesse il
mantenimento del caos politico in Polonia; il secondo fu l'oscurantismo e
l'ignoranza di una parte notevole della nobiltà, nonché la sua avversione per i
sacrifici materiali e politici.
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Nel 1763 il partito dei Czartoryski, che governava allora in Polonia, concordò con la
Russia la candidatura al trono reale di Stanislao Augusto Poniatowski (1764-1795).
I primi anni del suo regno furono dedicati alle riforme scolastiche, militari e
finanziarie e ciò riscontrava però una forte obiezione da parte della zarina Caterina
II, senza il consenso della quale non era possibile una riforma efficace dello Stato.
La brutalità dell'intervento politico e militare russo provocò una resistenza armata
dei nobili sotto forma di combattimenti di carattere partigiano che durarono 4 anni.
La confederazione di Bar (1768-1772), in cui si manifestò la prima insurrezione
polacca, fu soffocata e, per la prima volta nella storia, migliaia di polacchi furono
deportati in Siberia.
L'accordo delle tre potenze: Russia, Prussia ed Austria a scapito dell'indifesa
Repubblica Polacca, venne raggiunto nel 1772.
Nella prima spartizione la Polonia perdette 211 mila kmq e 4,5 milioni di abitanti,
rispetto ai 733 mila kmq e 14 milioni di abitanti che vi risiedevano prima della
spartizione.
Il trauma della prima spartizione e i processi di sviluppo economico e demografico
svegliarono dal letargo la società polacca. Le idee dell'Illuminismo, accompagnate
da quelle patriottiche e riformatrici, venivano divulgate dalle scuole, dalla stampa,
dalla letteratura, dal teatro, dalla musica, pittura e storiografia.
Varsavia, città di centomila abitanti, divenne centro della cultura illuministica e
nell'atmosfera del forte risveglio della vita politica, la Dieta dei Quattro Anni, detta
anche Grande Dieta (1788-1792), promulgò la Costituzione del 3 Maggio 1791,
che fu la seconda nel mondo, dopo quella degli Stati Uniti, e la prima in Europa.
La Costituzione prevedeva il consolidamento del potere reale, la riorganizzazione
del governo, l'abolizione del liberum veto, l’estensione delle libertà civili dei nobili
ad una parte della borghesia. Si creavano le condizioni per far uscire lo Stato dalla
crisi politica, pertanto tale Costituzione suscitò una ferma protesta della Russia, che
inviò nuovamente i suoi eserciti in Polonia.
La guerra del 1792 si concluse con una
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sconfitta, con l'abolizione della
Costituzione e con la seconda spartizione della Polonia (1793), alla quale
parteciparono la Russia e la Prussia.
Il rimanente territorio polacco - circa 200 mila kmq con 4 milioni di abitanti, si
venne a trovare sotto il protettorato della Russia.
Nel 1794, sotto la guida di Tadeusz Kosciuszko scoppiò un'insurrezione per tentare
di sovvertire la spartizione della Polonia ma anch’essa si concluse con una sconfitta,
con l'entrata delle truppe russe a Varsavia e con la terza spartizione del Paese
(1795) fra la Russia, la Prussia e l'Austria.
Lo Stato polacco fu così distrutto proprio nel periodo in cui le riforme interne e lo
stato dell'istruzione e dell'economia, crearono basi solide per il suo funzionamento e
sviluppo.
Le terre polacche sotto il dominio straniero
Dal periodo delle spartizioni fino alla prima guerra mondiale, sempre nuove
generazioni di polacchi tentarono di riconquistare l'indipendenza, tuttavia la poco
favorevole congiuntura internazionale rendeva difficile la ricostruzione della
nazione.
La Russia, l'Austria e la Prussia conducevano una politica comune volta a
mantenere lo status quo ed a evitare conflitti reciproci, sicché sconfiggere le tre
potenze contemporaneamente era per la Polonia praticamente impossibile. Si
trattava infatti di tre potenze assolute con un sistema che contrastava con le
tradizioni di democrazia, autogestione e libertà civili, tanto care ai polacchi.
La lotta per l'indipendenza fu una lotta contro la prepotenza e l'assolutismo, per
questo la causa della Polonia fu strettamente legata ai movimenti di liberazione
democratici europei.
Ciò trovò espressione nella partecipazione dei polacchi alle insurrezioni e alle
rivoluzioni europee del XIX secolo, nonché nella partecipazione degli stranieri alle
rivolte polacche. La parola d'ordine "per la vostra e la nostra libertà" divenne un
simbolo del contributo polacco nella democratizzazione dei sistemi politici europei.
A cavallo fra il XVIII e il XIX secolo la Polonia trovò un alleato nella Francia
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napoleonica. In base al trattato di pace di Tilsit (1807), su una parte delle terre
polacche annesse alla Prussia fu istituito il Granducato di Varsavia, al quale
Napoleone conferì una costituzione. Venne formato un governo polacco del
Granducato, fu introdotto il Codice Napoleonico ed i contadini ottennero la libertà
personale.
Il futuro della Polonia fu però compromesso dalla sconfitta di Napoleone nella sua
campagna contro la Russia del 1812 e dalla Battaglia dei Popoli persa dalla Francia
a Lipsia (1813), nella quale cadde eroicamente il principe Jòzef Poniatowski,
comandante dell'esercito del Granducato di Varsavia.
Il Congresso di Vienna, svoltosi nel 1815, assegnò una parte del Granducato con
Poznan alla Prussia, mentre sul resto del territorio fu fondato il Regno della Polonia
unito alla Russia, del quale divenne re lo stesso zar Alessandro I.
Il Regno aveva una propria costituzione, il governo, il parlamento e l'esercito ma far
convivere il sistema costituzionale del Regno con il regime despotico della Russia,
fu impossibile; la costituzione veniva, infatti, continuamente violata e l'opposizione
legale disprezzata. Ciò suscitava proteste e complotti di natura patriottica, che
sfociarono infine nelle insurrezioni.
La prima di esse scoppiò a Varsavia il 29 novembre 1830, dove venne formato un
governo autonomo, la Dieta detronizzò lo zar ed iniziò la guerra polacco-russa.
L'esercito del Regno, perfettamente addestrato ed armato lottò fino a settembre
1831, ma nulla potè contro il gran numero di uomini e le risorse economiche di cui
poteva disporre la Russia. La sconfitta dell'insurrezione portò all'abolizione della
Costituzione, allo scioglimento dell'esercito del Regno, nonché alla chiusura
dell'Università di Varsavia. I polacchi residenti in Lituania, Bielorussia ed Ucraina
furono duramente perseguitati e fu chiusa anche l'Università di Vilnius.
Tale sconfitta provocò l’emigrazione di quasi 10 mila ex insortie quasi tutti si
recarono in Francia e proprio a Parigi crearano le loro opere i poeti Adam
Mickiewicz e Juliusz Slowacki, il compositore Federico Chopin e lo storico
Joachim Lelewel.
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Una lotta diplomatica per la sopravvivenza della causa polacca veniva guidata dal
principe Adam Czartoryski. La discussione fondamentale sui motivi della sconfitta
dell'insurrezione si concentrava sulla situazione dei contadini polacchi i quali non
erano a quei tempi proprietari delle loro terre. Dare la terra a chi la lavora - questo
fu considerato indispensabile sia per modernizzare la struttura economica sia per
coinvolgere le masse contadine nel movimento polacco a favore della riconquista
dell'indipendenza.
La riforma agraria fu realizzata prima dalle autorità prussiane e gli Austriaci la
effettuarono durante la Primavera dei Popoli ma la questione contadina rimase
irrisolta nel Regno della Polonia.
Negli anni 1861-62, nel Regno si osserva un'ondata di manifestazioni religiose e
nazionali: i cospiratori prepararono un'insurrezione, che scoppiò in gennaio del
1863. La guerra partigiana durò un anno e mezzo e non si limitò al territorio del
Regno, ma si estese fino in Lituania, Bielorussia e Wolyn.
Il Governo Nazionale Clandestino, con uno dei suoi primi decreti diede la terra ai
coltivatori, ma le speranze di una partecipazione massiccia alla lotta non si
realizzarono: l'ultimo leader dell'insurrezione - Romuald Traugutt fu arrestato ed
impiccato il 5 agosto 1864. L'insurrezione fu soffocata e il Paese - punito con
apposite repressioni e la conseguente legge marziale che rimase in vigore sino alla I
guerra mondiale.
Il 2 marzo 1864, lo zar proclamò il proprio decreto agrario, basato su quello del
Governo Nazionale, con lo scopo di attirare i contadini allo zarato. Tuttavia,
conseguì l’effetto opposto in quanto questi ultimi, liberi dagli oneri feudali,
diventarono pian piano membri sempre più coscienti della comunità nazionale.
L'enorme mercato russo, l'arrivo di capitali stranieri nel Regno Polacco e la
manodopera libera, favorivano uno sviluppo dinamico dell'industria; si stava
sviluppando anche l'economia dell'area occupata dalla Prussia, mentre la Galizia
amministrata dagli austriaci era piuttosto arretrata. Tutte e tre le zone furono
caratterizzate di un forte aumento demografico e nel 1919 esse erano popolate da
117
circa 22,5 milioni di abitanti, il 75% dei quali era polacco.
Nella seconda metà del XIX secolo, il positivismo introdusse il modello di lavoro
organico, portò la divulgazione dell'istruzione e lo sviluppo dell'economia. Fioriva
la creatività storica e allo scrittore Henryk Sienkiewicz fu conferito il premio Nobel
per il romanzo "Quo vadis" (1905). Durante tutto il periodo dell’oppressione,
sempre più numerosi intellettuali e studiosi furono costretti ad emigrare in Francia.
Proprio li Maria Sklodowska-Curie trovò condizioni per svolgere la sua attività di
pioniere nel campo della fisica che le fruttò premio Nobel insieme al marito Pierre
nel 1903 e quello individuale nel 1910. Negli Stati Uniti fiorivano i talenti
dell'attrice Helena Modrzejewska e del pianista Ignacy Paderewski.
La cultura polacca si concentrò anche in Galizia, specie dopo il 1861, quando il
territorio occupato dagli austriaci ricevette l'autonomia. Vi operavano due università
(Cracovia e Leopoli), L'Accademia delle Abilità e numerose associazioni culturali.
Alla fine del XIX e all'inizio del XX secolo si formarono i partiti contadini, operai e
nazionali moderni.
Contemporaneamente allo sviluppo dell'industria e dei centri urbani, sorse la
questione operaia, che trovò espressione nella rivoluzione del 1905 che coinvolse la
Russia e il Regno di Polonia.
La
questione
polacca
nella
I
guerra
mondiale
e
la
riconquista
dell'indipendenza
L'approssimarsi della I guerra mondiale mise i politici polacchi di fronte alla
necessità di operare un scelta politica. Si intravedeva una chance per la Polonia nel
fatto che gli occupanti si trovarono in campi politici opposti, così la Democrazia
Nazionale con a capo Roman Dmowski voleva allearsi con la Russia, mentre il
Partito Socialista Polacco e specie la sua ala guidata da Józef Pilsudski si preparava
alla guerra a fianco dell'Impero Austro - Ungarico. In Galizia furono create le
Legioni che combatterono insieme all’Austria contro la Russia.
Nella I guerra mondiale tutte e tre le potenze furono sconfitte: l'Austria e la
Germania si arresero e la Rivoluzione d'Ottobre escluse la Russia dal gruppo dei
118
vincitori; ciò apri alla Polonia la strada verso l'indipendenza. Nella notte tra il 6 ed il
7 novembre 1918, a Lublino fu istituito un governo composto dai partiti socialista e
contadino. Il 10 novembre arrivò a Varsavia Józef Pilsudski per assumere la
funzione di Capo dello Stato ed iniziarono i preparativi per le elezioni che furono
indette in virtù di una legge elettorale democratica, che attribuiva i pieni diritti alle
donne. Fu introdotta una giornata lavorativa di 8 ore e la previdenza sociale per gli
operai.
Uno dei problemi più difficili del nuovo Stato polacco fu quello della
determinazione dei suoi confini. Nel 1918 scoppiò l'insurrezione nella Polonia
Magna, che, dopo accaniti combattimenti contro i tedeschi, portò, nel 1919, la
regione di Poznan ad essere inclusa nel territorio polacco.
Il Trattato di Versailles decise che la Polonia avrebbe ricevuto anche la Pomerania,
ma Danzica sarebbe rimasta autonoma, mentre per quanto riguarda l’appartenenza
della Prussia Orientale e dell'Alta Slesia, essa doveva essere risolta tramite plebisciti
locali. Il loro risultato fu negativo per la Polonia, ma le tre insurrezioni della
popolazione polacca dell'Alta Slesia portarono all'inclusione di una parte di questa
regione alla Polonia.
Più difficile fu delineare la frontiera orientale. Il ripristino di quella precedente alle
spartizioni era impossibile, data la coscienza nazionale degli ucraini, lituani e
bielorussi formatasi nel XIX secolo, non poteva neppure essere applicato un criterio
etnico, visto che le zone di frontiera erano state per tanti anni abitate da diversi
gruppi etnici.
La Russia sovietica già alla fine del 1918 iniziò la sua offensiva in Ucraina e in
Bielorussia; all'inizio del 1919 le truppe polacche passarono al contrattacco, al
contempo proseguivano i tentativi di istituire uno Stato ucraino autonomo.
L'Inghilterra propose la linea Crurzon (sul fiume Bug) come frontiera orientale della
Polonia. Nel maggio del 1920 l'esercito polacco, insieme ai soldati ucraini
dell'atamano Petlur entrarono a Kiev, ma la Polonia era però troppo debole ed il
contrattacco dell'Armata Rossa interruppe la linea del fronte. Nell'agosto del 1920 le
119
truppe sovietiche arrivarono nei dintorni di Varsavia e l'indipendenza della Polonia,
ma anche quella della Germania e dell'intera Europa si trovò di fronte ad un
pericolo mortale.
Tra il 12 ed il 15 agosto si svolsero accaniti combattimenti nei sobborghi di
Varsavia, mentre il 16 agosto partì la controffensiva guidata da Jozef Pilsudski che
portò alla sconfitta dei bolscevichi. Il Trattato di Pace stipulato a Riga il 18 marzo
1921, stabilì la frontiera orientale polacca sul fiume Zbrucz, il risarcimento dei
danni, e la restituzione dei beni culturali rubati dalla Russia nel periodo delle
spartizioni. Nel corso delle operazioni belliche, l'esercito polacco occupò Vilnius.
Il ventennio fra le due guerre mondiali
Lo Stato polacco ricostruito occupava circa 389 mila kmq. La sua popolazione
secondo il censimento del 1921 ammontava a 27 milioni, dei quali il 69% era
costituito da polacchi (18,7 milioni), il 14% da ucraini, 1'8% da ebrei, il 3,9% da
bielorussi e il resto da lituani, boemi ed altri.
I contadini costituivano il 55% della popolazione, gli operai il 27% e la borghesia e
gli intellettuali - il 18% circa. Le operazioni belliche, la gestione economica basata
sul saccheggio e lo sperpero da parte degli occupanti, ed infine le perdite umane,
avevano distrutto l'economia polacca. Il consolidamento economico delle zone che
per tanto tempo si erano trovate sotto l'occupazione straniera, fu un compito
oltremodo difficile.
I primi anni di funzionamento dello Stato indipendente furono dedicati alla
ricostruzione dell'economia e alla formazione dell'apparato statale; i cui esiti furono
trasposti nella Costituzione approvata il 17 marzo 1921. Nelle elezioni del 1922 i
partiti di destra ottennero il 29% di voti, quelli di centro il 24%, quelli di sinistra il
25% e le minoranze etniche il 22%.
L'Assemblea Nazionale elesse a presidente della Repubblica Gabriel Narutowicz,
candidato del centro - sinistra e delle minoranze etniche, il che indusse la destra a
scatenare un'aggressiva campagna antipresidenziale. Il 16 dicembre 1922 il
Presidente fu ucciso da un attentatore psicopatico, tale omicidio e la dimensione
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0
della tragedia placarono le masse isteriche dei seguaci della destra e fu eletto
Presidente Stanislaw Wojciechowski.
Le tensioni sociali si sarebbero però aggravate a causa della difficile situazione
economica e dell'iperinflazione. Il governo di esperti convocato alla fine del 1923
da Władysław Grabski realizzò con successo la riforma monetaria e ripristinò
l'equilibrio economico. Gli scontri fra partiti, la caduta del governo di Grabski alla
fine del 1925, come pure le difficoltà nel formare un nuovo governo scossero il
sistema politico polacco.
Nel maggio del 1926 Józef Piłsudski, che fino a quel tempo era stato tenuto lontano
dal potere, fu autore di un colpo di stato. Il sistema politico autoritario, così
formatosi nel 1926, fu denominato sanacja, termine che proveniva dall'idea di
risanare i governi dall'eccessiva influenza dei singoli partiti e dalla corruzione, che
aveva caratterizzato la politica dei predecessori di Piłsudski. Le trasformazioni del
sistema politico in Polonia trovarono corpo nella Costituzione del 23 aprile 1935,
che rafforzò il potere del Presidente.
I governi di risanamento sfruttarono inizialmente una buona congiuntura
economica,
ma
la
crisi
mondiale
degli
anni
1929-33
colpì
assai
profondamente1'economia polacca che si riprese solo dopo il 1935. Gli anni 193639 furono anni caratterizzati da una buona congiuntura, da uno sviluppo
dell'industria, soprattutto nel Distretto Industriale Centrale fra i fiumi Vistola e San.
L'interventismo dello Stato, la giusta scelta di investimenti furono merito del vice
primo ministro Eugeniusz Kwiatkowski. Cresceva il tenore di vita della
popolazione, diminuiva la disoccupazione e l'eccesso di manodopera nelle
campagne veniva assorbito dai nuovi investimenti. Nel 1939 la popolazione della
Polonia ammontava a 35 milioni.
La politica estera della Polonia era minacciata dalla potenza militare della Germania
e dell'Unione Sovietica. I preparativi delle due potenze alla guerra richiedevano del
tempo, perciò i due Stati stipularono con la Polonia patti di non aggressione:
I'URSS nel 1932 e la Germania nel 1934. Ma l’atteggiamento condiscendente
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1
tenuto dalle potenze occidentali di fronte alle mire espansionistiche della Germania,
intaccava l'equilibrio europeo. Il punto culminante di questa politica fu l'Accordo di
Monaco di Baviera, che sacrificò gli interessi della Cecoslovacchia a favore di una
pace illusoria (1938).
All'inizio del 1939 la diplomazia tedesca avanzò pretese nei confronti della Polonia,
chiedendo tra l'altro l'annessione di Danzica al Reich e il permesso per la
costruzione di un'autostrada extraterritoriale attraverso la Pomerania polacca. Per la
prima volta nella sua espansione, la Germania di Hitler dovette riscontrare una
ferma resistenza, il che cambiò anche la politica della Gran Bretagna, che
concedette alla Polonia garanzie per la sua indipendenza, garanzie che furono poi
confermate dalla Francia.
Fu la stessa Unione Sovietica ad aiutare la Germania portandola fuori
dall'isolazionismo. L'URSS, infatti, continuava negoziati paralleli con la Germania
da una parte e la Francia e l’Inghilterra dall’altra. Stalin cercò di trarre vantaggio
dall'alleanza con la Germania ed il 23 agosto 1939 fu stipulato il Patto RibbentropMolotov, la cui clausola segreta determinò i limiti dell’influenza reciproca dei due
Stati ed il confine della nuova spartizione tra di essi della Polonia. Il primo
settembre 1939 la Germania, senza dichiarare guerra, attaccò la Polonia.
L'indipendenza della Polonia durò, dunque, appena 20 anni. Il suo successo più
grande fu il consolidamento in un organismo statale omogeneo dei territori e delle
economie delle tre zone occupate per tanto tempo nonché l'introduzione di una
nuova legislatura, al contrario la realtà economica rimaneva assai complicata. La
Polonia era uno Stato mediamente sviluppato ed i conflitti sociali e il basso tenore
di vita di una parte dei cittadini turbavano il Paese sicché non si potevano evitare
conflitti sociali, nazionali, religiosi.
Un altro grande successo della Polonia fra le due guerre mondiali fu il rigoglio della
sua cultura: nel campo della letteratura il premio Nobel fu assegnato nel 1924 a
Stanisław Reymont; opere letterarie di carattere ultramoderno e precursore furono
create da Stanisław Ignacy Witkiewicz (Witkacy), Bruno Schultz e Witold
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Gombrowicz; nella scienza il successo più eclatante fu la nascita della scuola
polacca di matematica di Leopoli e Varsavia, formatasi intorno a due illustri
studiosi, Stefan Banach e Wacław Sierpinski.
La seconda guerra mondiale
L'invasione tedesca della Polonia, avvenuta il primo settembre del 1939 diede inizio
alla II guerra mondiale. Il 3 settembre la Francia e l'lnghilterra dichiararono guerra
alla Germania, il 17 settembre la Polonia fu aggredita ad est dall'Unione Sovietica.
La sconfitta della Polonia fu inevitabile di fronte all'enorme supremazia dei due
nemici e all'astenersi dalle operazioni militari da parte della Francia e della Gran
Bretagna.
Così la Polonia si trovò nuovamente sotto l'occupazione di due Stati crudeli
caratterizzati entrambi da sistemi totalitari. Nel corso dei 18 mesi dell'occupazione,
le autorità sovietiche sterminarono la classe dirigente polacca, arrestarono e
deportarono nei lager centinaia di migliaia di persone, dove la stragrande
maggioranza morì di fame.
Nella primavera del 1940 su ordine personale di Stalin e di altri dirigenti dell'URSS
a Katyn e in altre località furono trucidati 15 ufficiali dell'esercito polacco e 7 mila
altri prigionieri di guerra tra medici, studiosi, avvocati, ingegneri, cappellani ed
insegnanti.
Orribile fu anche la vita dei cittadini polacchi sotto l'occupazione tedesca in modo
particolare venivano perseguitate le élites. Le autorità tedesche chiusero università e
scuole superiori, saccheggiarono e portarono in Germania i tesori della cultura
polacca, mentre proseguivano gli arresti e le esecuzioni di massa. Gli occupanti
organizzarono una rete di campi di concentramento, in cui prigionieri lavoravano
come schiavi e dove furono trucidate centinaia di migliaia di persone. Nelle camere
a gas installate nei campi di sterminio (Auschwitz, Majdanek, Treblinka) trovarono
la morte circa 3 milioni di ebrei polacchi, nonché i polacchi e cittadini di altri Stati.
La sconfitta della campagna di settembre non soffocò la resistenza dei polacchi, si
formò in esilio il governo polacco riconosciuto dagli Stati della coalizione
12
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antihitleriana e ne diventò primo ministro Wladyslaw Sikorski. Mentre nel Paese
sorse l'Armata Nazionale (Armia Krajowa) e la rappresentanza del governo
clandestina. Si svilupparono forme di insegnamento clandestino, venivano
pubblicate centinaia di testate di stampa clandestina, si stampavano libri vietati. Il
governo in esilio sin dal 1940 cominciò a formare forze armate in Occidente, basti
ricordare la partecipazione dei polacchi alla vittoriosa battaglia aerea dell'lnghilterra. Dopo l'attacco della Germania all'Unione Sovietica (giugno 1941), in
seguito all'accordo polacco - sovietico, nell'URSS si formarono le forze armate
polacche con a capo il generale Władysław Anders.
Quest'esercito, dopo l'evacuazione nel Medio Oriente avvenuta nel 1942, si rese
famoso nelle lotte liberatrici in Italia (battaglia di Monte Cassino).
La controffensiva dell'Armata Rossa peggiorò la situazione della Polonia nei
confronti dell'URSS, la quale nel 1943 ruppe i rapporti diplomatici con il governo
polacco; i comunisti residenti nell'Unione Sovietica fondarono l'Unione dei Patrioti
Polacchi ed iniziò a formarsi anche una divisione militare sotto i loro auspici. Il
1943 fu un anno particolarmente tragico per la Polonia, in una catastrofe aerea morì
il primo ministro, generale Władysław Sikorski, fu arrestato il comandante
dell'Armata Nazionale Stefan Grot-Rowecki e nel ghetto di Varsavia scoppiò
un'insurrezione, soffocata brutalmente dai tedeschi. Nel luglio 1944, dopo aver
attraversato il fiume Bug, i sovietici istituirono il Comitato Polacco di Liberazione
Nazionale (PKWN), sottomesso al regime.
L'ultimo tentativo di conquistarsi la piena indipendenza fu rappresentata
dall'insurrezione di Varsavia, scoppiata il 1 agosto 1944. La rivolta durò fino al 2
ottobre e vi persero la vita circa 17 mila insorti e 180 mila abitanti della capitale.
Dopo la sconfitta dell'insurrezione i tedeschi cominciarono a radere al suolo la città.
Durante l'insurrezione e poi anche durante la distruzione di Varsavia, l'Armata
Rossa non intervenne. Il destino della Polonia fu determinato alla conferenza di
Jalta (4-11 febbraio 1945), nella quale essa non fu rappresentata. Le tre potenze con
a capo Roosevelt, Churchill e Stalin decisero di convocare il Governo Provvisorio
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di Unità Nazionale, composto da membri del governo prosovietico e da militanti
politici in esilio, che doveva indire elezioni libere, ma ciò non fu mai realizzato.
Quando il 9 maggio 1945 cadde il Reich tedesco e si concluse la più sanguinosa
guerra nella storia del mondo, la Polonia teoricamente si trovava fra i vincitori. Nei
combattimenti e in seguito all’oppressione, il Paese perdette 6,5 milioni di cittadini,
tra cui quasi tutti gli ebrei che vi abitavano. La capitale fu totalmente distrutta, le
perdite materiali e culturali furono enormi. La Polonia uscì dalla guerra con un
governo imposto dall'esterno e composto da uomini che non suscitavano alcuna
fiducia fra il popolo.
Gli anni 1945 - 1989
Già nel 1944 il Comitato Polacco di Liberazione Nazionale stipulò con l'URSS un
accordo sulla delimitazione della frontiera orientale della Polonia lungo la linea di
Curzon, che fu confermato con il trattato del 16.08.1945. La Conferenza di Potsdam
(Truman, Churchill, Stalin), svoltasi fra il 17.07 e il 2.08.1945, tracciò la frontiera
occidentale della Polonia lungo la linea dei fiumi Odra e Nysa. La superficie della
Polonia ammontava così a 312 mila kmq e la popolazione a 24 milioni
(secondo il censimento del 1946). Lo spostamento del territorio dello Stato verso
l'Ovest era legato alla deportazione della popolazione tedesca decisa alla
Conferenza di Potsdam, nonché al trasferimento di milioni di polacchi dai territori
orientali perduti.
Il Governo Provvisorio di Unità Nazionale fu composto dai rappresentanti del
Partito Operaio Polacco (PPR), del Partito Socialista Polacco (PPS) e del Partito dei
Contadini (PSL), guidato da Stanisław Mikołajczyk, vice primo ministro.
Tuttavia, il potere reale si trovava nelle mani del PPR comunista, il quale disponeva
dell'esercito, dell'apparato di sicurezza e godeva dell'appoggio sovietico. Dopo la
brutale liquidazione di residui di organizzazioni clandestine, il PSL fu disintegrato e
i risultati delle elezioni parlamentali del 1947, falsati.
12
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Il passo successivo fu la liquidazione del PPS tramite l'unificazione di questo partito
e del PPR in una sola struttura denominata Partito Operaio Unificato Polacco
(dicembre 1948), da quel momento il partito comunista aveva ormai il pieno
monopolio del potere. I tentativi di conquistarsi un appoggio sociale iniziarono già
con il Comitato Polacco di Liberazione Nazionale, il quale promulgò il decreto sulla
riforma agraria. Iniziò la lotta contro l'analfabetismo, l'istruzione divenne
gratuita ed obbligatoria, i lavoratori godevano di assicurazioni sociali, venivano
stampati libri a buon mercato, ma tutte queste riforme erano accompagnate dai
tentativi di soffocare
le aspirazioni nazionali polacche.
Gli anni postbellici furono caratterizzati da un boom demografico e dall'enorme
lavoro per la ricostruzione del Paese. I polacchi deportati dall'URSS si stabilirono
nelle terre occidentali e gli abitanti di Varsavia tornarono a quel cumulo di macerie
per ricostruire la capitale.
L'anno 1948 portò ad un irrigidimento della politica dei comunisti. In economia,
dopo la distruzione dell'attività privata e del commercio, furono aboliti i principi di
libero mercato e al loro posto fu introdotta un'economia centralizzata, iniziarono
enormi investimenti nelle acciaierie gigantesche e nelle fabbriche di armi; la
struttura economica della Polonia veniva così adattata ai bisogni dell'URSS.
Il Partito iniziò anche la collettivizzazione delle campagne che coincise con il
periodo di massima ferocia del terrore stalinista. Il momento culminante della lotta
contro la società fu l'attacco alla Chiesa cattolica, conclusosi con l'imprigionamento
del primate di Polonia, cardinale Stefan Wyszyński (1953), solo il disgelo politico
nell'URSS fece modificare la politica del POUP.
Nell’ottobre del 1956 ebbe luogo una svolta politica fondamentale con l’elezione a
primo segretario del Partito di Władysław Gomulka e la sua promessa di imboccare
“la strada polacca verso il socialismo” che riscontrò un largo appoggio sociale. Il
cardinale Wyszyński fu rimesso in libertà, le autorità rinunciarono alla
collettivizzazione delle campagne, uscirono dalle prigioni gli innocenti soldati
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dell'Armata Nazionale. Il grande appoggio di cui Gomułka godeva in ottobre andò
però sprecato quando egli provocò un'altro grave conflitto con la Chiesa. La famosa
lettera dell'Episcopato Polacco ai vescovi tedeschi ("vi perdoniamo e chiediamo
perdono") che aprì l'epoca del difficile dialogo polacco-tedesco, negli anni 1965 e
1966, riscontrò una ferma protesta da parte del Partito.
Grandi danni furono recati alla Polonia anche dal conflitto in seno allo stesso Partito
di governo e dall'uso da parte di un gruppo dei suoi dirigenti di slogan antisemiti.
Anche se l'ala antisemita del POUP non prese mai il potere, la sua politica portò
all'emigrazione di quasi tutti gli ebrei rimasti in Polonia dopo la guerra e danneggiò
il buon nome della Polonia (1968).
Nel dicembre del 1970 a Danzica, Gdynia e Stettino scoppiarono gli scioperi e
l’esercito ricevette l'ordine di sparare sulla folla di operai. In seguito Wladyslaw
Gomulka perse il potere e Edward Gierek fu eletto primo segretario del POUP.
La nuova équipe di governo intraprese il secondo tentativo di riformare il sistema,
dopo quello del 1956, ma le strutture burocratiche non volevano arrendersi
facilmente, mentre quelle industriali difendevano i loro investimenti che nulla
avevano in comune con il mercato. La politica agraria, contraria alle aziende
individuali, creò difficoltà sul mercato alimentare. I grandi crediti concessi dai Paesi
sviluppati, riuscirono solo a rinviare la catastrofe, senza poterla prevenire.
Quando nel 1976 scoppiarono gli scioperi degli operai, essi vennero soffocati con la
forza. Un gruppo di intellettuali formò il Comitato per la Difesa degli Operai
(KOR), ma non si trattava di un’organizzazione numerosa, così come non lo erano
le altre strutture dell'opposizione. La maggior parte della società polacca temeva
uno scontro aperto con il potere, al quale, l'inefficacia dell'apparato dirigente, la
mancanza di prestigio e la dipendenza dall'URSS toglievano qualsiasi credibilità.
Un grande ruolo nella formazione della coscienza sociale svolse la cultura, infatti,
nonostante la censura, il mecenatismo dello Stato lasciava un certo margine di
libertà, il che permise lo sviluppo, dopo il 1956, del cinema polacco, del teatro,
della musica, della letteratura e delle arti figurative.
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Importantissima fu anche la missione dell’opera letteraria, scientifica e giornalistica
di quanti si trovavano all’estero. Il suo significato crebbe ancora di più dopo che il
premio Nobel per la letteratura fu assegnato nel 1980 a Czeslaw Miłosz.
La Chiesa cattolica, che era portavoce non solo della fede ma anche di fermi
principi morali e delle tradizioni nazionali ebbe un'influenza particolare
sull'atteggiamento dei polacchi. L'elezione a papa del cardinale Karol Wojtyła
(ottobre 1978) e il suo viaggio pontificio in Polonia nel giugno 1979, segnano una
grande svolta nella storia contemporanea della Polonia. La società polacca ritrovò la
sua unità, forza e senso della dignità.
Nell’estate del 1980 la Polonia fu travagliata da una ondata di scioperi. Lech Wałesa
si trovò a capo del comitato di sciopero dei Cantieri Navali di Danzica. Gli
intellettuali polacchi si impegnarono nella protesta nella veste di consiglieri. Le
autorità furono costrette a dare il loro consenso alla creazione di sindacati liberi,
così, nel corso di due mesi, sorse l'enorme “Solidarnosc” con 10 milioni di membri.
Le concessioni del partito di governo, tuttavia, non durarono a lungo e dopo 18 mesi
di coesistenza burrascosa di “Solidarnosc” e del POUP, di fronte all'aggravarsi della
situazione economica e degli scioperi, nella notte tra il 12 e il 13 dicembre 1981, un
gruppo composto da ufficiali dell'esercito e da esponenti del partito, con a capo il
generale Wojciech Jaruzelski, proclamò la legge marziale alla quale la società
rispose con la resistenza civile. Tale situazione scavò nuovamente un precipizio fra
le autorità alienate e la società civile. Lo stato di guerra non risolse alcun problema
in quanto il potere sfuggiva dalle mani dell'apparato dirigente, mentre l'economia
era in rovina. Cresceva invece il prestigio dell'opposizione, tant’è che nel 1983 Lech
Wałesa ricevette il Premio Nobel per la pace. Nel 1988, gli operai polacchi
organizzarono numerosi scioperi in tutto il Paese e nel 1989, con la mediazione
della Chiesa, iniziarono i colloqui della "tavola rotonda", favoriti dalla congiuntura
internazionale, dalla perestroika nell'URSS e dall'appoggio degli Stati occidentali
per le riforme polacche. Così nel giugno 1989 ebbero luogo le elezioni parlamentari, basate su un contratto fra il potere e l'opposizione, e grazie all'attività di
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Lech Walesa si potè formare il primo governo non comunista nel blocco sovietico,
presieduto da Tadeusz Mazowiecki.
Ben presto l'esempio della Polonia accelerò le trasformazioni in tutta l'Europa
centro-orientale.
La riconquista della sovranità e gli anni delle grandi trasformazioni
In seguito alla buona congiuntura internazionale e agli sforzi costanti della società
polacca, nel 1989 la Polonia riconquistò la piena sovranità che in politica estera
significò l'uscita dalla Polonia delle truppe sovietiche, la stesura degli accordi di
amicizia e collaborazione con tutti i vicini, e la rinuncia a qualsiasi rivendicazione
territoriale.
La libertà nella politica interna ha permesso di ripristinare i pieni diritti civici, di
abolire la censura, di rispettare i risultati delle elezioni libere, di riconoscere il
diritto di proprietà e quelli delle minoranze etniche. Nel gennaio del 1990 il governo
di Tadeusz Mazowiecki realizzò la riforma del mercato di cui fu autore il vice primo
ministro Leszek Balcerowicz.
La moneta acquisì il suo valore reale, la libertà nell'attività economica liberò
un'enorme energia sociale, nacquero migliaia di imprese piccole e medie ed i
processi di privatizzazione abbracciarono una parte delle grandi imprese statali.
L’effetto di tutto ciò è stato l’affluire negli ultimi anni del capitale straniero e la
crescita degli investimenti. I risultati macroeconomici della riforma di Balcerowicz
sono stati senz’altro positivi e dal 1993 si osserva un continuo incremento
dell’economia.
Tuttavia, per numerosi gruppi sociali la riforma è stato un trauma difficile da
sopportare,
con l’approfondimento eccessivo delle sperequazioni nel tenore di vita dei diversi
strati sociali; così accanto alla ricchezza si osservano povertà e disoccupazione.
L'elenco dei successi e delle sconfitte è molto lungo, resta il fatto che la Polonia sta
realizzando in modo democratico e pacifico grandi trasformazioni storiche, di cui il
risultato finale potrà essere valutato soltanto dalle future generazioni.
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Superficie: 312.685 Km²
Abitanti: 38.191.000
Densità: 122 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Varsavia (1.689.000 ab., 2.200.000 aggl. urbano)
Altre città: Lódz 780.000 ab. (1.000.000 aggl. urbano), Cracovia 760.000 ab.,
Breslavia 639.000 ab., Poznan 577.000 ab., Danzica 462.000 ab. (755.000 aggl.
urbano), Stettino 415.000 ab., Bydgoszcz 372.000 ab., Lublino 358.000 ab.,
Katowice 323.000 ab. (2.600.000 aggl. urbano)
Gruppi etnici: Polacchi 97%, Tedeschi, Ucraini, Bielorussi ed altri 3%
Paesi confinanti: Germania ad OVEST, Repubblica Ceca e Slovacchia a SUD,
Lituania, Bielorussia e Ucraina ad EST, Russia (Kaliningrad) a NORD
Monti principali: Rysy 2499 m
Fiumi principali: Vistola 1047 Km, Warta 808 Km, Oder 742 Km (tratto polacco,
totale 854 Km), Bug Occidentale 587 Km (tratto polacco, totale 772 Km)
Laghi principali: Sniardwy 114 Km², Mamry 104 Km², Lebsko 71 Km², Dabie 56
Km²
Isole principali: Wolin 265 Km²
Clima: Oceanico - continentale
Lingua: Polacco (ufficiale), Tedesco, Ucraino, Bielorusso
Religione: Cattolica 90,5%, Ortodossa 1,5%, altro 8%
Moneta: Zloty polacco
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ROMANIA
L'antica Romania fu abitata da tribù tracie. Nel I secolo a.C. la Grecia vi fondò lo
stato della Dacia per contrastare la minaccia di Roma. La Dacia, poi, si arrese a
Roma nel 106 d.C., diventando una provincia dell'Impero romano.
Trovandosi a fronteggiare gli attacchi dei goti, nel 271 l'imperatore Aureliano decise
di ritirare le legioni romane a sud del Danubio, ma gli abitanti ormai romanizzati
della Valacchia rimasero in Dacia, formando il popolo rumeno.
Intorno al X secolo sorsero alcuni piccoli stati rumeni il cui consolidamento port ò
alla formazione dei principati della Moldavia, della Valacchia e della Transilvania.
Fin dal X secolo i magiari iniziarono a diffondersi all'interno della Transilvania che
intorno al XIII secolo divenne un principato autonomo sotto la corona ungherese.
Nel XIV secolo le forze ungheresi provarono, senza riuscirvi, a impadronirsi della
Valacchia e della Moldavia.
Nel corso dei secoli XIV e XV la Valacchia e la Moldavia opposero una tenace
resistenza nei confronti dell'espansione dell'Impero ottomano. Durante questa
guerra, il principe di Valacchia Vlad Tepes divenne un eroe leggendario; più tardi la
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sua figura fu associata al personaggio di Dracula. La Transilvania cadde sotto il
controllo ottomano nel XVI secolo e, in conseguenza di ci ò, la Valacchia e la
Moldavia dovettero pagare un tributo ai turchi per poter conservare la propria
autonomia.
Nel 1600 i tre stati rumeni si unirono, per un breve periodo, sotto Michele il Bravo,
principe di Valacchia, che aveva congiunto le proprie forze con quelle dei potenti
principi della Moldavia e della Transilvania per combattere i turchi. L'unità durò
però solamente un anno; il principe venne infatti sconfitto dall'azione congiunta di
un esercito asburgo-transilvanico, quindi catturato e decapitato.
La Transilvania cadde allora sotto il dominio asburgico, mentre la sovranità turca
continuò incontrastata in Valacchia e Moldavia fino al XIX secolo inoltrato. Nel
1775 la parte settentrionale della Moldavia, la Bucovina, venne annessa
dall'Austria-Ungheria. A ciò seguì la perdita, nel 1812, del territorio orientale, la
Bessarabia, a favore della Russia. Dopo la guerra russo-turca del 1828-29, il
dominio ottomano sui principati terminò definitivamente.
Dopo il 1848 la Transilvania passò sotto il diretto governo dell'Impero austroungarico, e Budapest la sottopose a una spietata ungarizzazione. Nel 1859
Alexandru Ioan Cuza fu eletto principe della Moldavia e della Valacchia, creando
uno stato nazionale che nel 1862 prese il nome di Romania. Carlo I gli succedette
nel 1866 e nel 1877 la Dobrugia divenne parte del nuovo stato. Nel 1881 la
Romania assunse la dignit à di regno, con Carlo I come re. Quando morì, agli inizi
della prima guerra mondiale, gli successe il nipote Ferdinando I che, nel 1916, entrò
in guerra a fianco della Triplice Intesa.
Il suo obiettivo era liberare la Transilvania dalla dominazione austro-ungarica. Nel
1918 la Bessarabia, la Bucovina e la Transilvania entrarono a far parte della
Romania.
Dopo la prima guerra mondiale emersero in Romania numerosi partiti politici, tra i
quali la Legione dell'Arcangelo Michele, meglio nota come la Guardia di Ferro, di
ispirazione fascista.
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Guidato da Corneliu Codreanu, questo partito dominò la scena politica dal 1935.
Carlo II, che successe al padre Ferdinando I sul trono della Romania, impose nel
1938 una dittatura reale e sciolse tutti i partiti politici. Nel 1939 mise alle strette la
Guardia di Ferro (che precedentemente aveva attivamente sostenuto) e Codreanu e
altri legionari vennero assassinati. Nel 1940 la Russia occupò la Bessarabia, e la
Romania venne costretta da Germania e Italia a cedere la parte settentrionale della
Transilvania all'Ungheria.
La Dobrugia meridionale venne poi ceduta alla Bulgaria. Queste cessioni
suscitarono una protesta generale, e il re chiamò in aiuto il Generale Ion Antonescu
per placare questa crescente isteria di massa. Antonescu costrinse il re ad abdicare
in favore del figlio diciannovenne, Michele, e quindi impose una dittatura fascista
con egli stesso come conducador (duce).
Nel 1941 si unì alla guerra antisovietica di Hitler. Nel 1944, con l'Unione Sovietica
sempre più vicina alle sue frontiere, la Romania cambiò schieramento all'ultimo
momento.
Il ritorno della Transilvania alla Romania, architettato dall'Unione Sovietica, aiutò i
comunisti, sostenuti da Mosca, a vincere le elezioni del 1946. Un anno pi ù tardi re
Michele fu costretto ad abdicare e venne proclamata la Repubblica Popolare
Rumena.
Seguì un periodo di terrore, durante il quale tutti i leader ante guerra, gli intellettuali
di spicco e i sospetti dissidenti vennero imprigionati in duri campi di lavoro. Sul
finire degli ultimi anni '50 la Romania iniziò a prendere le distanze da Mosca e a
portare avanti una politica estera indipendente, sotto la guida di Gheorghiu-Dej
(1952-65) prima e di Nicolae Ceausescu (1965-1989) poi. Ceausescu condannò
l'intervento sovietico del 1968 in Cecoslovacchia, guadagnandosi le lodi e gli aiuti
economici dell'occidente. Se in politica estera si dimostrò molto abile, in politica
interna fu assolutamente incapace e megalomane.
Quasi tutti i suoi grandiosi progetti (la costruzione del canale Danubio-Mar Nero,
l'immensa Casa del Popolo a Bucarest) si dimostrarono un fallimento clamoroso. La
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Securitate (la sua polizia segreta) pose sotto controllo la popolazione, reclutando
una vasta rete di informatori.
L'avvento di Mikhail Gorbaciov, nel 1985, portò gli Stati Uniti a non aver pi ù
bisogno della Romania e a privarla dello status di 'nazione privilegiata'. Per far
fronte al crescente debito estero del paese, Ceausescu decise di esportare prodotti
alimentari.
Mentre Ceausescu e sua moglie Elena (suo primo ministro delegato) vivevano nel
lusso, il popolo lottava per sopravvivere; pane, uova, farina, olio, sale, zucchero,
carne e patate vennero infatti razionati; verso la metà degli anni '80 la carne era un
bene introvabile. Nel 1987 vennero soffocate a Brasov alcune manifestazioni di
protesta. Il 15 dicembre del 1989, mentre i regimi comunisti uno dopo l'altro
collassavano nell'Europa dell'est, Padre Laszlo Tokes parlò contro Ceausescu dalla
sua chiesa di Timisoara. Quella sera una gran folla si radunò fuori della sua
abitazione per protestare contro la decisione della Chiesa Riformata di Romania di
rimuovere il sacerdote dal suo incarico. Gli scontri tra i dimostranti e la Securitate
proseguirono per i successivi quattro giorni. Il 19 dicembre l'esercito aderì alla
protesta.
Il 21 dicembre gli operai di Bucarest fischiarono Ceausescu durante un raduno di
massa; iniziarono cos ì gli scontri per le strade della capitale tra le truppe armate, la
Securitate e la popolazione. Il giorno seguente i coniugi Ceausescu cercarono di
fuggire dalla Romania, ma vennero arrestati, giudicati da una corte improvvisata e
giustiziati da un plotone di esecuzione il giorno di Natale.
Si pensa che i membri del Fronte per la Salvezza Nazionale, che prese il controllo
della Romania dopo la morte di Ceausescu, avessero cospirato mesi per rovesciarlo,
ossia ben prima che le dimostrazioni del dicembre 1989 li forzassero ad agire più in
fretta.
Nel 1990 venne eletto un governo di garanzia, guidato da Ion Iliescu. Le
manifestazioni studentesche di protesta contro i suoi dirigenti ex-comunisti vennero
soffocate quando 20.000 minatori del carbone, provenienti dalla Valle di Jiu,
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vennero portati a Bucarest per inscenare una contro manifestazione. I minatori
vennero portati a Bucarest ancora un anno dopo per forzare le dimissioni del primo
ministro riformista Petre Roman. Iliescu e il Fronte per la Salvezza Nazionale
vennero rieletti nel 1992 ma la incontrollata inflazione, la disoccupazione, le prove
della corruzione del governo fecero s ì che nel 1996 Iliescu perdesse le elezioni a
favore di Emil Constantinescu, capo della riformista Convenzione Democratica
della Romania.
Il ballottaggio per le elezioni presidenziali rumene del dicembre 2000 ha portato
alla reintegrazione di Iliescu alla presidenza. I rumeni hanno evidentemente
considerato quest'ultimo il male minore, essendo il rivale di Iliescu Corneliu, Vadim
Tudor, esponente del partito della destra nazionalista.
Continuano le discriminazioni nei confronti dei magiari e dei gitani, alimentata dai
partiti ultra-nazionalisti. L'inefficienza del governo ha provocato un clima di
disaffezione e si teme che le contestazioni degli operai e dei minatori, sostenuti
dagli studenti, si ripetano con i picchi già raggiunti nel 1997 e nel 1999.
All'apertura del vertice della NATO a Praga, il 21 novembre 2002, i leader dei
diciannove paesi membri hanno formalmente invitato a entrare, entro il 2004,
nell'Alleanza Atlantica sette paesi che in passato appartennero alla cosiddetta
'cortina di ferro': Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica slovacca,
Romania, Slovenia.
Con la firma della «Carta di partenariato dell'Adriatico », siglata dal segretario di
stato americano Colin Powell a Tirana il 2 maggio 2003, si è concluso il negoziato
tra Washington e le tre nazioni balcaniche rimaste escluse dall 'allargamento della
NATO, definito a Praga. La «Carta » accompagnerà Albania, Macedonia e Croazia
verso l'ammissione a pieno titolo nell'Alleanza Atlantica. Mancano ancora
all'appello Serbia, Bosnia e Montenegro ma gli USA hanno già espresso la loro
disponibilità ad accoglierli nel partenariato. Attualmente sono proprio i paesi dell
'Est quelli più solidali nell'appoggiare gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo
globale.
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Dopo la Romania, infatti, l 'Albania ha sottoscritto un 'intesa bilaterale che esenta il
personale militare americano dalla nuova Corte Penale Internazionale.
Nel gennaio 2005, si sono tenute in Romania le elezioni parlamentari e
presidenziali. I sondaggi davano per favorito Adrian Nastase, ma il ballottaggio del
12 dicembre ha assegnato la vittoria a Traian Basescu, gi à sindaco di Bucarest. La
coalizione di governo è guidata da Calin Tariceanu, che ha annunciato come
obiettivi principali del suo governo la riduzione della corruzione e la conclusione
dell 'iter legislativo necessario a condurre la Romania all'ingresso nell'Unione
Europea. Il processo di integrazione nell'UE si è concluso positivamente e l'ingresso
della Romania nell'Unione è avvenuto come previsto il 1 ° gennaio 2007.
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Superficie: 238.391 Km²
Abitanti: 21.795.000
Densità: 91 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Bucarest (1.934.000 ab.)
Altre città: Costanza 312.000 ab., Timisoara 308.800 ab., Iasi 303.700 ab., Galati
302.800 ab., Craiova 300.500 ab., Cluj-Napoca 297.000 ab., Brasov 285.700 ab.,
Ploiesti 237.400 ab., Braila 222.300 ab., Oradea 210.000 ab.
Gruppi etnici: Romeni 89,5%, Ungheresi 6,5%, Rom 2,5%, altri 1,5%
Paesi confinanti: Moldavia a EST, Ucraina a NORD, Ungheria, Serbia a OVEST,
Bulgaria a SUD
Monti principali: Moldoveanu 2544 m, Negoiu 2535 m
Fiumi principali: Danubio 1075 Km (tratto romeno, totale 2858 Km), Mures 761
Km (tratto romeno, totale 803 Km), Prut 742 Km (tratto romeno, totale 926 Km),
Olt 615 Km, Siret 559 Km (tratto romeno, totale 670 Km)
Laghi principali: Razim 415 Km², Sinoie 171 Km²
Isole principali: Letea (nel delta del Danubio) 1480 Km²
Clima: Continentale
Lingua: Romeno (ufficiale), Ungherese, Tedesco
Religione: Ortodossa 87%, Protestante 6,5%, Cattolica 5,5%, altro 1%
Moneta: Leu romeno
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RUSSIA
Origini del popolo russo
Prima dell’era cristiana, il territorio russo era popolato nelle regioni settentrionali da
tribù nomadi di slavi. Più a sud, nella Scizia, si stanziarono numerose popolazioni
di origine asiatica fra le quali i cimmeri, gli sciti e i sarmati, mentre mercanti e
coloni greci stabilirono stazioni commerciali e insediamenti lungo la costa
settentrionale del Mar Nero e in Crimea.
Prime invasioni
I fenomeni migratori furono agevolati dall’estensione delle pianure. Durante i primi
secoli dell’era cristiana, i popoli della Scizia furono cacciati dai goti, che fondarono
un regno ostrogoto sulle coste settentrionali del Mar Nero. Nel IV secolo gli unni
conquistarono e distrussero la Scizia. In seguito giunsero nella regione gli avari, i
magiari, i vichinghi e i cazari, che mantennero il controllo del territorio fino a circa
la metà del X secolo.
Nel frattempo, le tribù slave che abitavano a nord-est dei Carpazi cominciarono a
migrare suddividendosi in gruppi: a ovest si stanziarono i moravi, i polacchi, i cechi
e gli slovacchi, a sud i serbi, i croati, gli sloveni e i bulgari, a est i russi, gli ucraini e
i bielorussi. Gli slavi orientali, facilitati dai numerosi sistemi idrografici che si
estendevano dalle alture del Valdaj in tutto il territorio, fondarono importanti centri
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come Kiev a sud e Novgorod a nord.
La casata dei Rjurikidi
L’organizzazione politica degli slavi orientali, ancora di tipo tribale, non disponeva
di un’autorità suprema capace di risolvere i costanti conflitti interni. Le ostilità tra i
clan divennero talmente violente che, sotto la minaccia di un’invasione dei cazari,
fu presa la decisione di ricorrere a un principe straniero in grado di unire le fazioni
sotto un’unica entità statale. Fu scelto Rjurik, capo vichingo (in russo variago o
rus’) che nell’862 fondò il principato di Novgorod, cui si fa risalire, secondo la
tradizione, l’inizio della storia dell’impero russo, avviando un periodo di
consolidamento interno e di espansione dell’influenza slava verso le regioni
settentrionali.
Nell’879 il giovane Igor, figlio di Rjurik, succedette al padre ma il potere, di fatto,
fu assunto da un parente di Rjurik, Oleg, che nell’882 conquistò la regione di Kiev,
città che divenne la capitale del regno (“Terra di Rus’”). In seguito Oleg guidò le
proprie truppe verso sud spingendosi fino a Costantinopoli, con cui siglò un trattato
nel 911.
Da quel momento in poi gli scambi culturali e commerciali russi con l’impero
bizantino divennero molto intensi. Igor assunse il potere nel 912 e nel 945, alla sua
morte, gli succedette la moglie Olga, che si convertì al cristianesimo; a questa nel
969 succedette il figlio Svjatoslav, grande condottiero, che rafforzò la posizione
russa nel sud guidando le proprie truppe contro i cazari, i peceneghi e i bulgari.
Alla morte di Svjatoslav l’impero fu spartito fra i tre figli, dopo una serie di conflitti
che finirono nel 980, quando il più giovane dei tre, Vladimiro, divenne l’unico
sovrano. Nel 988 egli si convertì al cristianesimo di Bisanzio, che divenne religione
ufficiale del popolo russo.
La Chiesa ortodossa russa, le cui funzioni si svolgevano in lingua slava, godeva di
grande autonomia, nonostante fosse rimasta sotto l’autorità del patriarca di
Costantinopoli.
Nel 1015, dopo la morte di Vladimiro, scoppiò una sanguinosa lotta di successione
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fra i suoi figli, dalla quale uscì vittorioso Jaroslav il Saggio, principe di Novgorod,
che nel 1036 si proclamò sovrano di tutta la Russia. Durante il suo regno fece
costruire a Kiev magnifici palazzi, come la cattedrale di Santa Sofia; inoltre, emanò
un primo corpus di leggi, la Russkaja pravda (“Verità russa”).
Dopo la morte di Jaroslav (1054) i figli si spartirono l’impero e, in seguito, ogni
principe suddivise ulteriormente i propri territori tra i figli. La Russia divenne così
un insieme di piccoli stati, in continuo conflitto tra loro ma vincolati da lingua,
religione e tradizioni comuni. Nel frattempo da occidente, polacchi, lituani e
Cavalieri teutonici iniziarono a invadere il paese.
L'invasione mongola
Nel 1223, l’esercito mongolo di Gengis Khan invase il sud-est del paese. I principi
russi si allearono per combattere il nemico comune, ma nella battaglia del fiume
Kalka (oggi Kalmius) la coalizione fu sconfitta. Nel 1237, sotto il comando di Batu
Khan, nipote di Gengis Khan, i mongoli conquistarono, devastandola, tutta la
Russia meridionale.
Nel 1240 i mongoli conquistarono anche il territorio sudoccidentale, distrussero la
città di Kiev, devastarono la Polonia e l’Ungheria, arrivando fino alla Moravia. Nel
1242 Batu stabilì la capitale a Sarai (vicino all’attuale Caricyn), fondando il khanato
dell’Orda d’Oro, indipendente di fatto dall’impero mongolo.
L’invasione dei mongoli distrusse gli elementi di autogoverno e le assemblee
rappresentative che si erano sviluppate in alcune città russe; si ebbe inoltre l’arresto
del progresso economico e culturale, con il conseguente isolamento della Russia
rispetto ai paesi dell’Europa occidentale.
La città di Novgorod, che era sfuggita all’invasione mongola, nel 1240 subì la
minaccia degli svedesi, che giunsero fino alle sponde della Neva ma furono sconfitti
da Aleksandr Nevskij. Due anni dopo i Cavalieri teutonici attaccarono da ovest, ma
ancora una volta Aleksandr fermò il tentativo di invasione. Per evitare il rischio di
una terza offensiva da sud, egli adottò una politica di sottomissione all’Orda d’Oro
e di conciliazione con il khan.
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Nel 1246 Aleksandr succedette al padre come duca di Novgorod e nel 1252 gli fu
conferito dai principi tatari il riconoscimento del principato di Vladimir e Suzdal.
La maggior parte dei principi russi seguì allora l’esempio di Aleksandr, rendendo
omaggio al regno tataro.
L'ascesa di Mosca
La città di Mosca, nel principato di Vladimir, occupava una posizione geografica
estremamente favorevole; essa era infatti al centro delle principali rotte commerciali
fluviali. Nel 1263 Aleksandr Nevskij concesse Mosca al più giovane dei suoi figli,
Daniele, che divenne così capostipite della potente casata dei duchi di Moscovia.
Grazie alle buone relazioni con i mongoli, Daniele ampliò gradualmente i suoi
possedimenti, fino a organizzarli in un nuovo stato russo. Con Ivan I Kalità, figlio di
Daniele, divenuto duca nel 1328, i signori di Moscovia iniziarono a fregiarsi del
titolo di principi “di tutta la Russia”.
A metà del XIV secolo numerosi conflitti interni indebolirono il potere dell’Orda
d’Oro e il granduca Dmitrij Donskoj ne approfittò per ribellarsi contro i mongoli
sconfiggendoli nel 1380 a Kulikovo e creando così le condizioni per una rapida
espansione della Moscovia.
Espansione della Moscovia
Nel 1453 Costantinopoli fu conquistata dai turchi ottomani e la Chiesa ortodossa
russa, da quel momento, considerò Mosca la “terza Roma”, erede di Costantinopoli
e nuovo centro dell’ortodossia.
Il granduca Ivan III il Grande assoggettò la città di Novgorod nel 1478 e la regione
di Tver nel 1485. In seguito, dopo aver posto fine al rapporto di vassallaggio con i
mongoli, Ivan rivolse la sua attenzione ai territori occidentali controllati da Lituania
e Polonia e arrivò a controllare molti territori di confine. Basilio III, figlio e
successore di Ivan, continuò l’aggressiva politica espansionista del padre con
l’annessione di Pskov nel 1510, di Smolensk nel 1514 e di Rjazan nel 1521.
Ivan IV, detto il Terribile, succedette al padre Basilio III nel 1533 all’età di tre
anni; morta anche la madre nel 1538, lo stato fu sconvolto da un continuo conflitto
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per il potere scatenatosi fra i nobili, i cosiddetti boiari.
Nel 1547 Ivan si proclamò zar assumendo le redini del governo per contrastare il
potere dei boiari. Nel 1549 introdusse il primo Zemskij Sobor (assemblea nazionale
che rappresentava i proprietari terrieri) al fine di consolidare la sua posizione di
autocrate e di limitare il potere dei boiari e della Chiesa. Tra il novembre e il
dicembre del 1564 abdicò e rientrò a Mosca dopo aver ricevuto poteri assoluti.
Quando i boiari organizzarono un complotto contro lo zar, Ivan scatenò una
violentissima repressione nei loro confronti.
Nel 1552 l’esercito moscovita tolse ai tatari Kazan e nel 1556 Astrahan divenne
parte del territorio russo. I confini della Moscovia si estesero ulteriormente grazie
alle scorrerie dei cosacchi, stabilitisi lungo il corso inferiore del Volga e del Don.
Alcuni si spinsero più a nord e nel 1581 il loro ataman, Jermak Timofejevič, guidò
una spedizione verso est attraverso gli Urali, portando sotto il dominio russo quasi
tutto il bacino del fiume Ob e avviando la conquista della Siberia.
Alla morte di Ivan il Terribile, Boris Godunov divenne reggente per conto di
Teodoro I; sotto la sua guida lo stato russo continuò a espandersi aumentando
ricchezza e prestigio. Nel 1598 la casata dei Rjurikidi si estinse con la morte di
Teodoro, privo di eredi, e Boris fu eletto zar dallo Zemskij Sobor. Quando però si
diffuse la convinzione che Godunov fosse il responsabile della morte di Demetrio,
figlio ed erede di Ivan il Terribile misteriosamente scomparso nel 1591, nuovi
pretendenti al trono inaugurarono la cosiddetta “epoca dei torbidi”.
Tre mesi dopo la morte di Godunov, nel 1605, un pretendente al trono che si faceva
chiamare Demetrio I, detto anche il “Falso Demetrio”, entrò a Mosca e si impadronì
del potere proclamandosi zar. Fu un sovrano coscienzioso e abile, ma il suo regime
era ostile ai boiari i quali si ribellarono, assassinandolo in una congiura ordita dal
principe Vasilij Šuiskij, successivamente eletto zar. I cosacchi e i contadini,
temendo la severità del regime boiaro, si ribellarono unendosi a un secondo
pretendente, Demetrio II, il cui esercito era già sulla strada di Mosca. Nello stesso
tempo, anche il re di Polonia Sigismondo III, nell’intento di conquistare il trono
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russo, invase il territorio dall’ovest mentre la Svezia su richiesta di Vasilij inviò
inutilmente dei rinforzi, non riuscendo a evitare la deposizione dello zar nel 1610:
l’esercito polacco entrò a Mosca e l’intero territorio cadde in un completo stato di
anarchia.
La riscossa russa fu organizzata dal principe Požarskij che, alla testa di un esercito
composto anche da cosacchi, partì da Novgorod per Mosca e, nel 1612, cacciò i
polacchi. L’anno dopo, lo Zemskij Sobor elesse zar Michele Romanov (discendente
della zarina Anastasia Romanovna, moglie di Ivan il Terribile) inaugurando la
dinastia dei Romanov.
Le principali conseguenze dell’epoca dei torbidi furono la rovina della nobiltà
boiara e l’ascesa al potere della piccola aristocrazia terriera.
Sotto il governo dei due primi Romanov, Michele e suo figlio Alessio I che gli
succedette nel 1645, non vennero attuate grandi riforme e nuove leggi conferirono
ulteriori privilegi ai proprietari terrieri. Nel 1670 scoppiò una grande rivolta agraria
nel sud-est, soffocata con grande difficoltà un anno dopo dalle truppe dello zar.
Questa prima ribellione stabilì le basi di future rivolte.
Nel frattempo, nel 1654, i cosacchi dell’Ucraina, dopo essersi ribellati contro il
dominio polacco, offrirono la loro fedeltà allo zar Alessio. Nella successiva guerra
con la Polonia (1654-1667) la Russia riconquistò l’Ucraina orientale, compresa la
città di Kiev.
Con Fedor III, figlio di Alessio, la Russia vinse la prima guerra contro l’impero
ottomano. Alla morte di Fedor nel 1682, il suo fratellastro Pietro il Grande fu
incoronato zar.
L'impero russo.
Nel 1697 Pietro organizzò una missione tecnico-diplomatica in Occidente
assentandosi dalla Russia per diciotto mesi. Dopo questo periodo avviò, con decreti
e riforme, una radicale trasformazione dell’assetto istituzionale del paese. Decretò
la riorganizzazione dell’esercito, della marina militare, della struttura del governo e
della società seguendo i parametri occidentali, incoraggiando lo sviluppo
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dell’industria e del commercio, dell’istruzione e delle scienze.
Durante il regno di Pietro, la Russia conquistò numerosi nuovi territori. Il principale
conflitto, la grande guerra del Nord (1700-1721), fu combattuto contro la più
potente nazione baltica di allora, la Svezia. Il controllo del mar Baltico era infatti
necessario per la creazione di una grande flotta militare e per l’espansione del
commercio estero russo.
Dopo un’iniziale sconfitta a Narva (nell’attuale Estonia) nel 1700, Pietro
riorganizzò il suo esercito e attaccò le basi svedesi in Livonia. Nel 1703 avviò la
costruzione della nuova e splendente capitale, la città di San Pietroburgo, in un
territorio paludoso conquistato alla Svezia (il governo vi si trasferì da Mosca nel
1714). L’esercito russo sconfisse gli svedesi a Poltava nel 1709, sancendo il
predominio della Russia sul Baltico. Con la pace di Nystad (10 settembre 1721), la
Russia acquisì Livonia, Estonia, Ingria, parte della Carelia e diverse isole del
Baltico. Pietro fu formalmente proclamato imperatore nel 1721.
Dopo la morte di Pietro, si verificò una rapida successione di sovrani causata da
congiure spesso ordite dalle guardie di palazzo. Nel 1741 salì al trono Elisabetta,
figlia di Pietro il Grande. Durante il suo regno l’impero estese i propri domini,
conquistando parte della Finlandia nella guerra con la Svezia (1731-1743), e si alleò
con l’Austria e la Francia per muovere guerra alla Prussia (guerra dei Sette anni,
1756-1763). Suo nipote e successore fu Pietro III che nel 1762, anno in cui firmò la
pace con Federico II di Prussia, fu deposto e assassinato. Sua moglie, una
principessa tedesca, gli succedette col nome di Caterina II, detta Caterina la
Grande.
Caterina fu la prima tra i successori di Pietro il Grande a proseguirne le politiche.
Combatté contro l’impero ottomano per ottenere i porti sul Mar Nero necessari al
commercio russo, e nel corso della guerra turco-russa, dal 1768 al 1774, conquistò
la Crimea. Le successive campagne militari contro la Turchia (1787-1792) estesero
il dominio russo fino a ovest del fiume Dnestr.
Con le tre spartizioni della Polonia (1772, 1793, 1795), la Russia acquisì vasti
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territori verso occidente. Caterina fu influenzata dalle idee degli illuministi francesi,
ma la sua politica interna provocò lo svilupparsi di forti conflitti sociali, che
culminarono nella rivolta contadina guidata dal cosacco Emeljon Pugačëv, soffocata
nel 1775. Anziché riformare le leggi oppressive della servitù della gleba, Caterina le
rafforzò, abbandonando completamente ogni progetto di riforma in senso liberale
dopo l’inizio della Rivoluzione francese, nel 1789.
Nel 1796 Paolo I succedette alla madre Caterina; sovrano autocratico, dispotico e
squilibrato, fu assassinato nel 1801 in seguito a una congiura ordita dalla nobiltà.
Suo figlio Alessandro I, nipote prediletto di Caterina, concesse l’amnistia ai
prigionieri politici, elaborò un progetto di Costituzione per l’impero e abolì molte
misure restrittive adottate dal padre. Il processo di riforma subì però una battuta
d’arresto quando la Russia fu coinvolta in una serie di guerre su diversi fronti.
Nel 1805 aderì alla terza coalizione contro Napoleone I ma, dopo la sconfitta di
Friedland (14 giugno 1807), Alessandro si accordò con Napoleone firmando il
trattato di Tilsit, grazie al quale ottenne libertà d’azione contro la Svezia e la
Turchia. Attaccando la Turchia (vedi Guerre russo-turche) la Russia ottenne la
Bessarabia, mentre al termine della guerra contro la Svezia (1808 e 1809) acquisì le
isole Åland e la Finlandia. In seguito, i rapporti con la Francia si deteriorarono e nel
1812 Napoleone invase la Russia.
In settembre l’esercito francese entrò a Mosca, che però era stata incendiata dai suoi
stessi abitanti. Dopo la disastrosa ritirata francese, Alessandro divenne la figura
centrale dell’alleanza che rovesciò Napoleone. Nel 1815, al congresso di Vienna, i
territori del ducato di Varsavia furono concessi alla Russia.
Nel 1825, dopo la morte di Alessandro, Nicola I succedette al fratello benché un
gruppo di giovani ufficiali avesse organizzato una congiura, la cosiddetta rivolta
decabrista, per un regime costituzionale. Soffocata rapidamente la cospirazione, lo
zar adottò una serie di provvedimenti restrittivi, fra i quali la creazione di una nuova
polizia segreta e l’applicazione di una rigida censura su tutte le pubblicazioni. Dopo
le rivoluzioni del 1848, Nicola intensificò la campagna repressiva contro l’ideologia
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liberale diffusasi nei circoli culturali di Mosca e di San Pietroburgo.
Nicola I dispiegò una strategia espansionista nei Balcani, estendendo l’impero a
sud-ovest verso le province turche, a sud attraverso il Caucaso fino all’Asia centrale
e a est fino all’oceano Pacifico. La guerra con l’Iran, cominciata nel 1826, finì due
anni dopo con la conquista di una parte dell’Armenia. La flotta russa, nel contempo,
si unì alle navi britanniche e francesi, insieme alle quali distrusse la flotta turca nella
battaglia di Navarino il 20 ottobre 1827. Nelle successive campagne militari del
1828 e del 1829, la Turchia fu nuovamente sconfitta e con la pace di Adrianopoli
(14 settembre 1829) la Russia ottenne la sovranità sui popoli del Caucaso e il
protettorato di Moldavia e Valacchia.
Le altre potenze europee formarono allora un blocco per neutralizzare
l’espansionismo russo. Nel 1853, quando Nicola invase i principati del Danubio, la
Turchia dichiarò guerra alla Russia che nella guerra di Crimea (1853-1856) fu
nettamente sconfitta da una coalizione formata dagli eserciti britannico, francese,
piemontese e ottomano.
Nel 1855 Nicola I morì e la pace fu conclusa un anno dopo da suo figlio
Alessandro II. La Russia fu costretta ad abbandonare il territorio di Kars e parte
della Bessarabia e a rinunciare ai protettorati danubiani.
Per arginare i nefasti effetti provocati dalla guerra di Crimea, Alessandro II
promosse alcune riforme. Nel 1861 sancì l’emancipazione dei servi della gleba e,
nel 1864, creò le assemblee provinciali elettive (zemstvo) e riorganizzò la giustizia.
Lo zar si rifiutò però di approvare una Costituzione o l’organizzazione di
un’assemblea nazionale rappresentativa. Durante il suo regno si moltiplicarono i
fermenti rivoluzionari: dal movimento nichilista, che lottava per l’emancipazione
individuale, a quello populista del narodniki, attivo nell’organizzazione delle rivolte
contadine. Alessandro II fu assassinato nel 1881 da un membro del gruppo
rivoluzionario Narodnaja volja (Volontà del popolo).
Il nuovo zar, Alessandro III, condusse una politica reazionaria e repressiva
riducendo drasticamente le competenze degli zemstvo e proseguendo l’opera di
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russificazione delle minoranze dell’impero. La propaganda rivoluzionaria e le teorie
marxiste trovarono molti sostenitori tra i lavoratori delle fabbriche, aumentati
notevolmente dopo la realizzazione di un intenso programma di industrializzazione.
Nicola II succedette al padre Alessandro III nel 1894. Sovrano debole, mantenne il
sistema autocratico del padre e perse completamente il contatto con il popolo.
Durante il suo regno l’aumento dell’oppressione e del controllo esercitati dalla
polizia si scontrò con un’ondata di atti terroristici e una forte crescita del
movimento socialista. In politica estera, i progetti di espansione in Estremo Oriente,
che sfociarono nell’occupazione della Manciuria, portarono la Russia a scontrarsi
con il Giappone con cui entrò in guerra l’8 febbraio 1904.
La rivoluzione del 1905
Il governo, con lo scopo di ottenere l’appoggio popolare per la prosecuzione della
guerra contro il Giappone, consentì agli zemstvo di riunirsi a San Pietroburgo nel
novembre 1904, ma ne ignorò le richieste e una manifestazione di migliaia di
persone il 22 gennaio 1905 fu soffocata nel sangue dalle truppe imperiali: il
massacro scatenò una rivolta popolare estesasi in breve in tutto il paese.
La guerra con il Giappone si risolse disastrosamente per la Russia e la sconfitta,
acuita dalla pressione degli avvenimenti interni, costrinse il governo a concedere
una riforma costituzionale, in seguito alla quale lo zar approvò l’insediamento di
un’assemblea legislativa, o Duma. Vedi anche Rivoluzione russa (1905).
La rivoluzione d'ottobre
Lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 arrestò temporaneamente le
attività rivoluzionarie dei radicali, ma le sconfitte dell’esercito russo, pesanti quasi
quanto i disastri di Crimea e Giappone, in breve tempo resero la guerra impopolare
in tutto il paese. Diserzione, repressione e corruzione aumentarono notevolmente, e
l’imperatore si trovò completamente soggiogato dalla moglie Alessandra e da
Rasputin, la cui sgradita presenza a palazzo provocava tanta irritazione che, nel
dicembre 1916, egli fu assassinato da un gruppo di aristocratici. Nel febbraio 1917
scoppiò un’insurrezione a Pietrogrado (il nome di San Pietroburgo durante la
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guerra), nel corso della quale le truppe zariste si unirono ai rivoltosi; Nicola II e suo
figlio furono costretti ad abdicare (15 marzo) lasciando il potere in mano a un
governo provvisorio nominato dalla Duma. Questo atto segnò la fine dell’impero
russo.
Gli eventi del 1917 portarono a una crisi generale delle istituzioni e a una
drammatica lotta per il potere, sfociata nella Rivoluzione d’ottobre e nella
successiva costituzione dell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (URSS).
La Russia dopo l'Unione sovietica
La Russia ebbe un ruolo di primissimo piano sia nella vita dell’Unione Sovietica sia
nella vicenda che portò alla sua dissoluzione. In Russia si produssero infatti, nella
seconda metà degli anni Ottanta, le maggiori spinte alla riforma del vacillante
sistema comunista.
A interpretare questo fermento furono due principali correnti: la prima, riunita
intorno al presidente dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov, orientata a
riformare profondamente l’organizzazione politica ed economica dello stato,
salvaguardandone tuttavia le basi federative e socialiste; la seconda, capeggiata da
Boris Eltsin, eletto nel giugno 1991 alla presidenza della Russia, risoluta invece a
rompere con il passato sovietico e ad attuare una totale liberalizzazione politica ed
economica
del
sistema.
Nell’estate
del
1991
il
confronto
si
risolse
drammaticamente, dopo un maldestro tentativo di colpo di stato attuato da un gruppo di conservatori, a favore di Eltsin.
Alla fine di agosto questi proclamò l’indipendenza della Russia promuovendo poi,
con altre dieci repubbliche dell’URSS, la creazione di una Comunità degli stati
indipendenti. Il 21 dicembre l’URSS cessò formalmente di esistere; la Russia
ereditò il suo seggio presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU e il controllo del suo
arsenale nucleare.
Con lo scioglimento dell’URSS si intensificò in Russia la lotta per il potere e il
conflitto tra riformatori e innovatori. Eltsin si scontrò violentemente sia con la Corte
costituzionale, che respinse il decreto di scioglimento del Partito comunista, sia con
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la Duma (il Parlamento), che si oppose alla nomina a primo ministro di Igor Gaidar,
autore di un piano improntato a un’ampia liberalizzazione dell’economia.
Lo scontro ebbe il suo culmine nel settembre 1993, quando Eltsin rimosse
Aleksandr Rutskoj dalla carica di vicepresidente con l’accusa di corruzione e
decretò lo scioglimento del Parlamento, giungendo a ordinare l’attacco armato
contro i deputati asserragliati nell’edificio della Duma. Nel breve e drammatico
scontro trovarono la morte più di 140 persone. Il 4 ottobre 1993, Rutskoj e il
presidente della Duma Ruslan Khasbulatov furono imprigionati. La vittoria di Eltsin
fu tuttavia di breve durata; già a dicembre le elezioni legislative videro
l’affermazione del Partito comunista e di un movimento ultranazionalista a sua volta
contrario alle riforme liberiste. Rutskoj e Khasbulatov furono liberati nel febbraio
1994, amnistiati dalla nuova Duma.
La guerra di Cecenia
Nel 1994 si acuirono le tensioni nel Caucaso, dove nel 1991 la Cecenia aveva
proclamato l’indipendenza. A dicembre, nell’intento di ristabilire l’ordine nella
repubblica ribelle, Eltsin vi inviò l’esercito. L’operazione, che nelle intenzioni di
Mosca avrebbe dovuto risolversi in breve tempo, innescò un violentissimo conflitto
costato decine di migliaia di morti, in gran parte civili.
Nell’estate del 1995 i ribelli ceceni attaccarono la città di Budenovsk, nella Russia
interna, prendendo in ostaggio duemila persone. Si aprì allora, sia pure su fragili
basi, un negoziato fra le autorità di Mosca e gli indipendentisti ceceni, che si
concluse con la firma di un cessate il fuoco. Gli scontri tuttavia ripresero, con una
serie di bombardamenti sulle principali città cecene, in particolare Grozny e
Samacki, che l’aviazione e l’artiglieria russe rasero al suolo.
Nel maggio del 1996, in vista delle imminenti elezioni presidenziali, per
conquistarsi il favore dell’opinione pubblica russa ormai ostile al conflitto, Eltsin
affidò al generale Aleksandr Lebed l’avvio di nuovi negoziati con la guerriglia
cecena. Il 31 agosto, con l’accordo di pace di Khassaviurt siglato dal primo ministro
russo Viktor Černomyrdin e dal capo dell’esecutivo ceceno Aslan Maskhadov,
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Mosca riconobbe la sovranità della Cecenia in seno alla Federazione russa e si
impegnò a ritirare le sue truppe; l’accordo lasciò tuttavia in sospeso la questione
dello status definitivo della repubblica.
Eltsin venne rieletto nel luglio 1996 superando di misura il candidato comunista
Ghennadi Ziuganov. La Russia continuò a soffrire un’acuta crisi politica e sociale,
inasprita da una preoccupante situazione economica.
Il tracollo della fragile democrazia fu evitato soprattutto grazie al credito politico ed
economico che i paesi occidentali concessero alla controversa leadership russa. Lo
sviluppo politico ed economico del paese fu molto lento e continuamente ostacolato
dalla lotta che le potentissime oligarchie politico-finanziarie ingaggiarono per il
controllo del vasto patrimonio pubblico ereditato dall’Unione Sovietica.
Privatizzato per una sua buona parte, spesso con operazioni al limite della legalità, il
patrimonio fu diviso, negli anni seguenti, tra membri del clan eltsiniano, ex
esponenti del PCUS, imprenditori privi di scrupoli e criminalità organizzata. La vita
politica fu pesantemente condizionata da questa corsa all’accaparramento delle
risorse e sfociò spesso in duri conflitti tra Eltsin e la Duma.
Il presidente, avvalendosi di una Costituzione che gli garantiva ampie prerogative
(compresa quella di sciogliere il Parlamento), fece infatti del suo enorme potere un
uso spregiudicato per affermare la propria strategia e per assicurare agli uomini del
suo entourage i ruoli chiave dell’amministrazione.
Il paese cercò nel contempo di riaffermarsi a livello internazionale e svolse un
importante ruolo nelle crisi dell’Iraq (dicembre 1998) e del Kosovo (marzo-giugno
1999), quando l’intervento della diplomazia di Mosca fu determinante per giungere
all’accordo che pose fine all’offensiva della NATO.
Lo scontro al vertice del potere si inasprì nel 1998. In pochi mesi Eltsin sostituì più
volte il capo del governo; dopo Victor Černomyrdin, licenziato in marzo, si
alternarono al posto di primo ministro Sergei Kiriyenko ed Evgenij Primakov,
sostituito a sua volta nel maggio 1999 con Sergej Stepašin, già capo del
controspionaggio e ministro dell’Interno.
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0
Fatto segno da una procedura di impeachment e coinvolto in un’inchiesta
giudiziaria che aveva portato alla luce il ruolo della cosiddetta “Famiglia” (il suo
clan) in alcuni gravi scandali finanziari, alla fine dell’estate Eltsin destituì anche
Stepašin – ritenendolo inadatto ad affrontare l’imminente battaglia presidenziale – e
chiamò alla guida del governo Vladimir Putin.
Funzionario quasi sconosciuto dei servizi di sicurezza, Putin si conquistò il
consenso popolare sfruttando la forte ripresa del sentimento nazionalista e la diffusa
ostilità verso le popolazioni caucasiche.
Egli colse infatti l’occasione fornitagli da una virulenta ripresa della guerriglia
cecena per sferrare nel settembre 1999 una massiccia offensiva contro le milizie di
Shamil Basaev, che, sconfinate nel Dagestan, vi avevano proclamato uno stato
islamico indipendente. Ignorando le proteste internazionali, nell’autunno le truppe
russe ripresero l’offensiva contro la Cecenia.
Dopo una martellante campagna propagandistica che oscurò tutti gli altri partiti,
nelle elezioni per il rinnovo della Duma del dicembre 1999 Putin ottenne una netta
vittoria con il suo partito Unità, appena costituito. Il 31 dicembre, in seguito alle
improvvise dimissioni di Eltsin, Putin assunse anche la presidenza della Russia, alla
quale fu confermato, prevalendo sul leader comunista Zyuganov, nel marzo 2000.
Putin ereditò un paese profondamente trasformato dalla rottura radicale con il
passato sovietico e dalle riforme introdotte negli anni Novanta. I risultati conseguiti
da Eltsin erano tuttavia contraddittori; le riforme economiche, dettate dalla foga
iconoclasta nei confronti dell’economia socialista ma soprattutto dalla corsa
all’accaparramento dei settori redditizi dell’industria statale, avevano drasticamente
ridotto il ruolo dello stato nell’economia e favorito lo sviluppo dell’impresa privata
ma, allo stesso tempo, avevano determinato una massiccia concentrazione di
ricchezza in poche mani e spinto quasi la metà della popolazione nella povertà.
Con i cospicui guadagni della privatizzazione, la nuova oligarchia (spesso erede
diretta dell’apparato politico del periodo sovietico) si era lanciata sui mercati
finanziari internazionali, facendo mancare al paese le risorse necessarie allo
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sviluppo interno.
Le riforme politiche avevano prodotto risultati altrettanto incerti. Iniziato
all’insegna della glasnost (“trasparenza”) e della perestrojka (“ristrutturazione”)
gorbacioviane, il processo di riforma era stato in seguito piegato alle esigenze di un
unico clan e di un presidente con poteri quasi dittatoriali; la politica di Eltsin, volta
alla limitazione del ruolo democratico dei partiti, della Duma e delle altre istituzioni
dello stato, aveva causato una forte instabilità e un diffuso scetticismo nei confronti
del sistema democratico.
Il paese, in pieno caos economico e politico, viveva inoltre un isolamento
internazionale mai sperimentato dalla caduta dell’Unione Sovietica a causa del
conflitto ceceno, che alimentava le proteste della comunità internazionale.
Per ridare stabilità al paese dopo anni di frenetici rivolgimenti e rafforzare l’autorità
del governo centrale, Putin lanciò un’energica offensiva contro i leader regionali e
le potenti lobby politiche ed economiche. Il presidente avviò la ristrutturazione
dell’amministrazione
dello
stato,
sostituendo
funzionari
della
passata
amministrazione con suoi fedelissimi provenienti dai servizi segreti o dal cosiddetto
“gruppo di San Pietroburgo”.
Lanciò poi una campagna contro la corruzione, rivolta principalmente a colpire i
potentati economici a lui avversi; l’offensiva di Putin fece così diverse vittime
illustri, tra cui i magnati Boris Berezovszij e Vladimir Gusinskij, che agli inizi del
2000 furono costretti a cedere le reti televisive ORT e NTV e a rifugiarsi all’estero.
Nei mesi successivi passarono sotto il controllo governativo molte testate
giornalistiche; altre, bersagliate da una raffica di controlli fiscali e di processi per
diffamazione, furono costrette a sospendere le pubblicazioni.
Agli inizi del 2003, con la chiusura dell’ultima televisione indipendente, TV6, dove
avevano trovato rifugio i più popolari conduttori di NTV, Putin stabilì un controllo
pressoché completo sull’informazione russa.
Putin attuò anche una riforma del sistema politico del paese, allo scopo di limitarne
la frammentazione e semplificarne il funzionamento. Nell’estate del 2001 restrinse
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la partecipazione alle elezioni ai partiti rappresentati contemporaneamente nella
Duma centrale e nei parlamenti delle repubbliche della federazione, cancellando con
un sol colpo il 90% delle innumerevoli formazioni nate in seguito alla
liberalizzazione politica. Fomentando le divisioni nell’opposizione di destra, Putin
si assicurò poi una più ampia maggioranza nella Duma, relegando il Partito
comunista a un ruolo di pura testimonianza.
Per portare avanti il suo piano, oltre che sulla sua popolarità, Putin poté contare
sulla benevolenza della stampa ma anche sull’indifferenza dell’opinione pubblica;
questa, stanca delle convulsioni che avevano accompagnato il processo di
democratizzazione, si disinteressò alle lotte al vertice del potere e ai suoi effetti sul
sistema democratico russo.
Putin fu fatto oggetto di severe critiche e subì un momentaneo calo di popolarità
solo agli inizi della suo mandato presidenziale, nell’agosto 2000, in seguito
all’incidente accorso al sottomarino nucleare Kursk, affondato nel mare di Barents
durante un’esercitazione con i suoi 118 uomini di equipaggio.
Nell’ottobre 2003 Putin si sbarazzò del suo ultimo pericoloso avversario; con
l’accusa di frode ed evasione fiscale venne infatti arrestato Michail Khodorkovsky (
e condannato nel 2005 a nove anni di prigione), il titolare della compagnia
petrolifera Iukos, uno degli ultimi oligarchi schierati con i partiti dell’opposizione.
Ripresa del conflitto ceceno
Nel febbraio 2000, dopo averla sottoposta a un massiccio bombardamento, le truppe
russe riconquistarono la capitale cecena Grozny. In giugno la repubblica caucasica
passò sotto l’amministrazione di un capo religioso filorusso, Akhmad Kadyrov,
posto alle dirette dipendenze di Putin. Nonostante il consistente impiego di uomini e
armi, la Russia non riuscì ad aver ragione della resistenza cecena, che intensificò la
sua azione, basata su improvvisi attacchi terroristici, sia all’interno della Cecenia
contro le truppe di occupazione e l’amministrazione filorussa, sia in territorio russo.
Nella primavera del 2002, con un sanguinoso attentato a Kaspijsk, nel Dagestan,
effettuato in occasione della cerimonia di commemorazione della vittoria sovietica
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sulla Germania nazista, la guerriglia cecena inaugurò una nuova e più virulenta
strategia terroristica. In agosto un elicottero russo in procinto di atterrare in una base
militare nei pressi di Grozny venne abbattuto da un missile lanciato da un
commando guerrigliero ceceno; nell’attacco persero la vita 115 militari russi.
L’offensiva della guerriglia proseguì in ottobre con il sequestro di oltre 750
spettatori nel teatro Dubrovka di Mosca, che si concluse con la morte di 48 dei 50
membri del commando ceceno (tra cui 18 vedove di guerra) e di oltre 120 ostaggi,
uccisi dal gas utilizzato dalle truppe speciali russe.
Putin non riconobbe mai alla questione cecena una valenza nazionale,
considerandola, soprattutto dopo l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 a New
York e Washington, solo una variante locale del più ampio fenomeno del terrorismo
fondamentalista islamico.
Il conflitto ceceno, alimentando il sentimento nazionalista dei russi, rafforzò
peraltro la posizione del presidente e dei fautori della linea dura. L’appello alla
riapertura delle trattative rivolto a Mosca nel novembre 2002 dall’ex presidente
Aslan Maskhadov, esponente dell’ala moderata e non islamista del separatismo
ceceno, cadde così nel vuoto.
La Cecenia ripiombò nella spirale di violenza e terrore, alimentata dalle divisioni
all’interno della guerriglia e dalle severissime condizioni imposte dalle truppe di
occupazione russe alla popolazione. Per dimostrare che la situazione nella
repubblica caucasica si andava stabilizzando, nel marzo 2003 Putin vi fece svolgere
un referendum sull’adozione del nuovo statuto. Secondo i dati ufficiali si recò alle
urne l’85% degli elettori ceceni e di questi il 96% si dichiarò favorevole a restare
nell’ambito della Federazione russa.
Il referendum non fermò l’offensiva della guerriglia. Nel febbraio 2004, con un
attentato alla metropolitana di Mosca, la guerriglia cecena riportò il conflitto nel
cuore della Russia. In maggio si riaffacciò a Grozny, uccidendo durante una
manifestazione ufficiale Akhmad Kadyrov, eletto pochi mesi prima, tra molte
contestazioni, alla presidenza della repubblica caucasica.
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Il 1° settembre, nel giorno di inaugurazione dell’anno scolastico, un commando
ceceno fece irruzione in una scuola della città di Beslan, nell’Ossezia Settentrionale,
sequestrando circa 1500 persone tra bambini, genitori e insegnanti; la vicenda si
concluse drammaticamente il 3 settembre, quando nella scuola si accese un furioso
scontro tra i sequestratori e le forze di polizia russe e ossete provocando un numero
imprecisato di morti (330 secondo le fonti ufficiali, più di 600 secondo altre fonti),
di feriti e di dispersi.
All’attacco alla scuola di Beslan, rivendicato da Shamil Basaev, seguì una nuova
offensiva russa, rivolta a decapitare la leadership della resistenza cecena. Nel marzo
2005 Aslan Maskhadov cadde vittima di un imboscata di un commando
dell’esercito russo. Nel luglio 2006 Basaev venne ucciso a sua volta nel corso di
un’operazione speciale dell’esercito russo.
La Russia nel contesto internazionale
Sul piano internazionale, a un’impasse diplomatica con i paesi occidentali (causata
sia dal conflitto ceceno, sia dall’annuncio della ripresa del programma National
Missile Defense, il cosiddetto “scudo spaziale”, da parte del nuovo presidente
statunitense George W. Bush) Putin fece corrispondere un rafforzamento delle
relazioni con i paesi asiatici. Nel 2001 la Russia formò con la Cina, il Tagikistan, il
Kazakistan, il Kirghizistan e l’Uzbekistan il cosiddetto Gruppo di Shanghai,
sottoscrivendo un accordo di assistenza militare. Putin compì in seguito diversi
viaggi in Asia, stipulando importanti accordi soprattutto con l’India e l’Iran.
L’attacco terroristico subito dagli Stati Uniti l’11 settembre 2001 causò un
improvviso riavvicinamento tra Mosca e Washington. Putin accolse infatti la
richiesta di sostegno di Bush, per riconquistare alla Russia un ruolo significativo
nello scenario politico aperto dalla nuova offensiva del fondamentalismo islamico,
ma anche per ottenere un allentamento della pressione internazionale riguardo alla
guerra in Cecenia.
La Russia offrì così il pieno appoggio alla coalizione capeggiata da Washington, pur
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non partecipando direttamente alla campagna militare Enduring Freedom (“Libertà
duratura”) in Afghanistan. Nel maggio 2002 la Russia e gli Stati Uniti firmarono un
nuovo accordo sugli armamenti strategici, che prevedeva una riduzione del numero
delle testate nucleari da 6.000 a circa 2.000 entro il 2012, istituendo nel contempo
un nuovo organismo di collaborazione militare, il Consiglio NATO-Russia.
Con il riavvicinamento all’Occidente, Putin conseguì un altro importante risultato
diplomatico; ottenendo il riconoscimento di “economia di mercato” da parte
dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, la Russia compì infatti un primo passo
verso l’ingresso nell’Organizzazione mondiale per il commercio (WTO).
Le relazioni con gli Stati Uniti subirono una battuta d’arresto nel 2003, quando
Mosca si unì alla Germania e alla Francia contro l’intervento anglo-americano in
Iraq. Nello stesso anno la Russia istituì uno Spazio economico unico con l’Ucraina,
la Bielorussia e il Kazakistan. Alla fine del 2003, lasciando in secondo piano il
disaccordo sulle questioni cecena e irachena, Russia, Stati Uniti e Unione Europea
ribadirono la volontà di cooperazione strategica, soprattutto riguardo alla questione
energetica e a quella del terrorismo internazionale.
Precedute da una propaganda senza precedenti, in cui vennero oscurati tutti i partiti
dell’opposizione, le elezioni legislative del dicembre 2003 modificarono
profondamente la scena politica russa. Russia Unita, la nuova formazione del
presidente Putin, intorno alla quale si erano riuniti gruppi oligarchici vecchi e nuovi,
con il 37,6% dei voti (e 222 seggi dei 450 della Duma), diventò il primo partito
russo, superando il Partito comunista. Con i partiti alleati, Putin si assicurò una
solida maggioranza pari a circa i due terzi dei seggi della Duma.
Le elezioni presidenziali del marzo 2004 sancirono la definitiva vittoria di Putin,
che venne confermato alla presidenza con il 71,2% dei voti. A novembre, il ruolo di
Putin venne ulteriormente rafforzato con l’approvazione di un pacchetto di riforme
che gli conferiva poteri straordinari tra i quali la designazione diretta dei
governatori regionali.
Durante il suo secondo mandato, Putin avviò un piano destinato ad affrontare i gravi
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problemi del paese nei campi della sanità, dell’educazione e degli alloggi e a
rilanciare l’agricoltura. Operò nel contempo per riaffermare la supremazia russa
nello spazio ex sovietico e a rilanciare il ruolo del paese, anche in campo militare,
sulla scena internazionale. Contrastò quindi fermamente i progetti statunitensi di
espansione dello scudo spaziale alle sue frontiere, in particolare in Polonia e nella
Repubblica Ceca, e l’ingresso di Ucraina e Georgia nella NATO. Le accresciute
tensioni con i paesi occidentalie in particolare con Stati Uniti e Gran Bretagna
indussero nel 2007 la Russia a sospendere la partecipazione al trattato Conventional
Armed Forces in Europe (CFE), che limita lo spiegamento di armi sul territorio
europeo.
Sviluppi recenti
Dmitry Medvedev, stretto collaboratore di Vladimir Putin, si aggiudica con il 70%
dei voti le elezioni presidenziali del marzo 2008. In maggio il nuovo presidente
affida a Putin la carica di primo ministro.
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La Russia è divisa fra Asia (la parte maggiore) ed Europa.
Superficie: 17.075.400 Km² (12.836.900 Km² parte asiatica, 4.238.500 Km² parte
europea)
Abitanti: 144.168.000 (1/1/2004)
Densità: 8,5 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Mosca (10.125.000 ab.)
Altre città: S. Pietroburgo 4.160.000 ab., Novosibirsk 1.425.000 ab., Nizni
Novgorod 1.311.000 ab., Jekaterinburg 1.294.000 ab., Samara 1.158.000 ab., Omsk
1.134.000 ab., Kazan 1.105.000 ab., Celjabinsk 1.077.000 ab., Rostov-na-Donu
1.068.000 ab., Ufa 1.042.000 ab., Volgograd 1.011.000 ab., Perm 1.002.000 ab.,
Krasnojarsk 909.000 ab., Saratov 873.000 ab., Voronez 849.000 ab., Togliatti
702.000 ab.
Gruppi etnici: Russi 79,8%, Tartari 3,8%, Ucraini 2%, Baschiri 1,2%, Ciuvasci
1,1%, Ceceni 0,9%, Armeni 0,8%, altri 10,4%
Paesi confinanti: Lituania a NORD e Polonia a SUD (Kaliningrad), Norvegia a
NORD-OVEST, Finlandia, Estonia, Lettonia, Bielorussia ad OVEST, Ucraina a
SUD-OVEST, Georgia, Azerbaigian, Kazakistan, Mongolia, Cina e Corea del Nord
a SUD
Monti principali: Elbrus 5642 m
Fiumi principali: Amur 4416 Km (totale, compresi tratti mongolo e cinese), Lena
4400 Km, Irtys 4248 Km (totale, compresi tratti cinese e kazako), Jenisej 4092 Km,
Ob 3680 Km, Volga 3531 Km, Vilyuy 2650 Km, Tunguska Inferiore 2550 Km,
Ishim 2450 Km (totale, compreso tratto kazako), Ural 2428 Km (totale, compreso
tratto kazako), Olenëk 2292 Km, Aldan 2273 Km, Dnepr 2201 Km (totale,
compreso tratti bielorusso ed ucraino), Kolyma 2129 Km
Laghi principali: Mar Caspio 371.000 Km² (comprese parti azera, iraniana,
turkmena e kazaka), Lago Bajkal 31.500 Km², Lago Ladoga 17.700 Km², Lago
Onega 9610 Km², Bacino di Samara (artificiale) 6450 Km², Bacino di Bratsk
15
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(artificiale) 5494 Km², Bacino di Rybinsk (artificiale) 4580 Km², Lago Tajmyr 4560
Km²
Isole principali: Sahalin 76.400 Km², Nuova Zemlya settentrionale 48.904 Km²,
Nuova Zemlya meridionale 33.275 Km², Isole della Nuova Siberia 38.400 Km²
(Kotelny 11.665 Km², Nuova Siberia 6200 Km², Lyakhovsky 4600 Km²), Isole della
Terra del Nord 37.500 Km² (Isola della Rivoluzione d'Ottobre 14.170 Km²
Clima: Continentale - polare
Lingua: Russo (ufficiale)
Religione: Russa Ortodossa, Musulmana ed altre
Moneta: Rublo russo
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SERBIA e MONTENEGRO
Il territorio dell’attuale Serbia fece parte anticamente della regione dell’Illiria;
conquistato dai romani nel 44 d.C., divenne provincia dell’impero. Intorno al III
secolo i goti compirono incursioni nella regione che, dopo il 395, divenne parte
dell’impero bizantino. Tra il VI e il VII secolo i serbi, una popolazione slava
proveniente dalla Galizia, si stanziarono soprattutto nella regione a ovest della
Morava e cercarono alleanze con i bizantini. Organizzati in piccoli principati guidati
da uno zupan, subirono, tra il VII e il XII secolo, il dominio dei grandi imperi
vicini: prima quello bizantino, poi quello bulgaro di Simeone, poi nuovamente
quello bizantino. Durante questo periodo iniziarono a emergere due entità nazionali:
la Zeta, all’origine del Montenegro, e la Rascia (o Raska), dalla quale sarebbe nata
la Serbia. Entrambe subirono l’influenza politica, culturale e religiosa dell’impero
bizantino e, grazie all’attività missionaria di Cirillo e Metodio, videro la diffusione
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del cristianesimo e dell’alfabeto cirillico.
La formazione dello stato serbo
I serbi furono unificati a opera di Stefano Nemanja, che intorno al 1168 fondò sul
territorio della Rascia il regno di Serbia. A Stefano Nemanja succedette il figlio
secondogenito Stefano I. Durante il suo regno (1196-1227) venne creata una Chiesa
ortodossa serba autocefala e la religione ortodossa diventò religione di stato.
La Serbia si espanse gradualmente fino a comprendere, sotto l’impero di Stefano IX
Dušan (1331-1355), gran parte dell’odierno territorio di Serbia, Montenegro,
Albania e Grecia. L’impero “dei serbi e dei greci” visse un periodo di stabilità e di
sviluppo; vi fiorirono le arti e furono codificati leggi e statuti. Alla morte di Stefano
Dušan scoppiò la lotta tra i nobili, che portò a una veloce disgregazione dello stato.
Il dominio ottomano
Nel 1389 i serbi furono sconfitti nella battaglia del Kosovo dall’esercito dell’impero
ottomano. La conquista turca continuò con la presa di Smederevo nel 1459 e con
quella di Belgrado nel 1521. Gli ottomani non intervennero sulla struttura della
società serba, che conservò l’autonomia religiosa e una forte identità nazionale.
La Serbia non conobbe infatti, contrariamente alle vicine Macedonia e Bosnia,
l’islamizzazione (anche se le conversioni furono numerose, per ragioni politiche o
economiche) né l’insediamento di altre popolazioni sul suo territorio.
La libertà religiosa fu rispettata e il patriarcato, sospeso nel 1459, fu ripristinato nel
1557 (fino al 1765). I serbi erano obbligati a pagare le imposte, a fornire giornate di
lavoro gratuito nelle corvè e giovani per il corpo dei giannizzeri.
Per tutto il periodo del dominio ottomano fu attiva una guerriglia contadina
condotta sulle montagne dai cosiddetti haïduk (cioè “fuorilegge”), che andò via via
rafforzandosi, soprattutto a partire dalla fine del XVII secolo, quando Austria e
Russia iniziarono a scontrarsi con i turchi per il controllo sui Balcani.
Dopo i trattati di Karlowitz (1699) e di Passarowitz (1718) molti serbi
colonizzarono gli estremi lembi di territorio (krajne) passati sotto l’impero
austriaco, assumendo così un’importantissima funzione di difesa dagli ottomani. Le
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aree lasciate libere dai serbi vennero spesso occupate da altre comunità; nella
regione meridionale del Kosovo crebbe infatti la presenza di popolazioni albanesi di
fede islamica.
All’inizio del XIX secolo, contemporaneamente al declino dell’impero ottomano,
cominciò la lotta per l’indipendenza dello stato serbo, guidata da Gjeorgje Petrovič,
detto Karagjeorgje; nel 1804 iniziarono violenti scontri che si protrassero per i nove
anni successivi, fino a quando, nel 1813, l’impero ottomano riaffermò il proprio
controllo sulla regione. Due anni dopo, Miloš Obrenovič guidò una seconda rivolta
che liberò gran parte dei territori serbi.
Obrenovič fu riconosciuto principe ereditario nel 1817 e alla Serbia venne concessa
un’indipendenza limitata sotto la sovranità del sultano; in base al trattato di
Adrianopoli, con cui si concluse la guerra russo-turca del 1828-29, la Serbia ottenne
un’autonomia più ampia e il numero dei presidi turchi sul territorio venne ridotto.
La sanguinosa rivalità tra la famiglia degli Obrenovič e quella dei Karagjeorgjević
(discendenti di Karagjeorgje, ucciso nel 1818 in un complotto al quale la famiglia
Obrenovič non fu estranea) portò negli anni successivi a frequenti cambiamenti al
vertice del potere: nel 1839 Miloš Obrenovič fu costretto ad abdicare in favore del
figlio Milan, cui succedette nello stesso anno il fratello Michele.
Nel 1842 salì al trono il figlio di Karagjeorgje, Alessandro. Questi dotò il paese di
nuove istituzioni (in particolare di un Codice civile nel 1844), favorì lo sviluppo
dell’istruzione e stabilì buone relazioni con le grandi potenze occidentali, in
particolare con la Francia di Napoleone III. Alessandro venne tuttavia deposto nel
1858, quando fu restaurata la dinastia degli Obrenovič.
Durante il conflitto russo-turco del 1877-78 la Serbia strinse un’alleanza con la
Russia, nell’intento di allontanare definitivamente gli ottomani dai Balcani.
Nel 1878 il congresso di Berlino riconobbe l’indipendenza dei serbi, ma il paese fu
di fatto sottomesso all’impero austroungarico. Nel 1882 Milan Obrenovič, con il
sostegno dell’Austria, si autoproclamò sovrano e nel 1885 dichiarò guerra alla
Bulgaria, ma i serbi subirono una dura sconfitta e scongiurarono la conquista del
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loro territorio solo grazie all’intervento austriaco. In seguito all’esito sfortunato del
conflitto, il sovrano abdicò (1889) a favore del figlio, Alessandro I Obrenovič.
Dispotico e corrotto, Alessandro fu ucciso nel 1903 dalla “Mano Nera”,
un’associazione segreta di ufficiali dell’esercito. Con lui ebbe fine la dinastia degli
Obrenovič e venne proclamato re Pietro I Karagjeorgjević.
I rapporti con l’Austria andarono deteriorandosi, soprattutto in seguito
all’annessione da parte di quest’ultima della Bosnia-Erzegovina (1908), che fu
determinante nell’avvicinamento della Serbia alla Russia. Nel 1912-13 i serbi
presero parte alle guerre balcaniche, che portarono all’annessione del Kosovo, di
parte della Macedonia e del Sangiaccato.
La I Guerra mondiale e la Iugoslavia
Nella crescente preoccupazione con cui l’Austria guardava all’espansione della
Serbia, il 28 giugno 1914, nella città di Sarajevo, fu compiuto l’assassinio
dell’erede al trono austriaco, l’arciduca Francesco Ferdinando, e di sua moglie per
mano di un nazionalista serbo (vedi Attentato di Sarajevo). Il governo austriaco,
accusando la Serbia dell’accaduto, le dichiarò guerra e invase il paese, dando inizio
alla prima guerra mondiale.
Nel 1917 un comitato formato da patrioti serbi, croati, sloveni e montenegrini firmò
un documento, impegnandosi a riunificare, sotto l’autorità del re serbo Alessandro
Karagjeorgjević, i popoli slavi del Sud. Caduta la monarchia austroungarica, il 1°
dicembre del 1918 fu proclamato il Regno dei serbi, croati e sloveni, rinominato nel
1929 Regno di Iugoslavia.
L'antagonismo serbo-croato
Nel nuovo stato scoppiò presto il conflitto tra il centralismo dei serbi e
l’autonomismo delle altre nazioni. Nel 1934 Alessandro I venne ucciso a Marsiglia
da un nazionalista croato; i contrasti tra serbi e croati si trasformarono in una vera e
propria guerra combattuta nell’ambito della seconda guerra mondiale dopo la
creazione, nel 1941, dello stato croato ustascia di Ante Pavelić, sostenuto dalla
Germania nazista e dall’Italia fascista.
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La criminale condotta del regime ustascia allargò il fossato che separava i due
popoli, producendo nello stesso momento una profonda spaccatura tra gli stessi
croati, una cui cospicua parte alimentò le file della Resistenza partigiana guidata da
un leader comunista croato, Josip Broz, detto Tito. Durante il conflitto mondiale,
oltre alle forze ustascia e a quelle di Tito, nei Balcani agirono le milizie realiste e
nazionaliste serbe dei cetnici, che raccolsero molti ufficiali dell’esercito monarchico
intorno al generale Draža Mihajlović.
Occupata nella primavera del 1941 dalle forze naziste, la Serbia fu liberata a partire
dal 1944 dall’esercito partigiano di Tito, che proseguì la sua avanzata fino a
occupare, il 1° maggio del 1945, la città di Trieste, stabilendovi per circa un mese
una propria amministrazione (Questione di Trieste). Dopo la sconfitta delle potenze
dell’Asse, nel 1945 fu proclamata la nascita della Repubblica federale socialista di
Iugoslavia, di cui la Serbia fu una delle repubbliche costituenti.
Sotto Tito la Iugoslavia tentò due difficili esperimenti, entrambi destinati al
fallimento: il primo riguardava la costruzione di un modello socialista diverso e
indipendente da quello sovietico; il secondo riguardava invece la costruzione di una
cittadinanza “iugoslava”, atta a superare le divisioni e i contrasti che avevano
contraddistinto sino ad allora il rapporto tra le diverse nazionalità. Con la morte di
Tito, nel 1980, apparve chiara sia la crisi del modello politico (celata per anni) sia il
fallimento del progetto nazionale; il nazionalismo, riapparso già negli anni Sessanta
in Slovenia e Croazia, si diffuse in tutta la federazione, causando in breve una crisi
irreversibile.
Nella vicenda dello sviluppo del contrasto nazionalista, la Serbia ebbe una parte
rilevante. Alla rivolta albanese esplosa nel Kosovo nel 1981, all’indomani della
morte di Tito, la Serbia reagì alimentando un forte risentimento nei confronti della
provincia meridionale, accusata di volersi riunire con l’Albania privando la civiltà
serba della sua “culla”.
Nell’estate 1986 alcuni membri dell’Accademia delle scienze e delle arti di
Belgrado, tra cui il romanziere Dobrica Ćosić, firmarono un Memorandum che
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conteneva – oltre che una forte critica rivolta alla leadership comunista iugoslava
per la gestione dello stato e per l’“indebolimento” della Serbia nei confronti delle
altre repubbliche – considerazioni sull’identità nazionale serba e sull’importanza del
Kosovo nel suo sviluppo. Il Memorandum ebbe l’effetto di scatenare una violenta
polemica all’interno della Iugoslavia e il rafforzamento delle tesi nazionaliste serbe,
ma anche la ripresa della “mitologia” serba, legata al ruolo svolto dai serbi nello
scontro tra l’islam e il cristianesimo nei Balcani.
Nel 1986 Slobodan Milošević, un personaggio poco conosciuto e da poco entrato in
politica, divenne segretario della Lega dei comunisti. Il nuovo leader iugoslavo
tentò di sfruttare il malcontento generale, il risentimento serbo e le polemiche
nazionali (spesso artificiose e funzionali all’indebolimento della Federazione),
alimentate dalle tensioni in Kosovo, per consolidare la sua posizione all’interno del
regime.
Nella primavera del 1989 la Serbia revocò l’autonomia alla Vojvodina e al Kosovo.
In giugno, nel seicentesimo anniversario della battaglia del Kosovo, Milošević
raccolse più di un milione di persone nei pressi di Priština, rivendicando la sovranità
serba sulla regione e la centralità della componente serba nella Federazione
iugoslava. Milošević venne eletto alla presidenza della repubblica serba nel
dicembre dello stesso anno. Nel 1990 la Lega dei comunisti, il partito unico al
potere, aprì il sistema politico al multipartitismo. Le elezioni tenute in dicembre
confermarono Milošević alla presidenza della Serbia.
Scoppio del conflitto
Nel giugno del 1991 Croazia e Slovenia proclamarono l’indipendenza. La Serbia
compì un estremo tentativo di scongiurare la dissoluzione della Federazione
inviando le truppe federali nelle due repubbliche. Se in Slovenia il contrasto durò
pochi giorni e fu sostanzialmente incruento, il conflitto con la Croazia durò diversi
mesi e causò migliaia di vittime. Nell’arco di pochi mesi si consumò la fine dello
stato federale iugoslavo; dopo la Slovenia e la Croazia, anche la Macedonia e la
Bosnia-Erzegovina (dove scoppiò il conflitto più lungo e violento) proclamarono
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infatti l’indipendenza.
La Repubblica Federale di Iugoslavia
Nell’aprile 1992 Serbia e Montenegro proclamarono la costituzione della
Repubblica federale di Iugoslavia, dichiarata erede legittima della precedente
repubblica; il nuovo stato non ottenne però il riconoscimento della comunità
internazionale.
Nei mesi seguenti la situazione politica ed economica della Serbia andò
continuamente peggiorando. Milošević mise in atto una politica fortemente
autoritaria – imponendo uno stretto controllo sulla stampa e sulle televisioni e
mettendo a tacere le opposizioni e le minoranze – e sostenne i serbi nella guerra che
li opponeva in Bosnia ai croati e ai musulmani.
Nel dicembre del 1992 Milošević venne confermato alla presidenza del paese in
elezioni fortemente contestate dalle opposizioni; non riuscì però a ottenere la
maggioranza dei seggi in Parlamento e fu costretto a formare un governo di
coalizione.
In seguito alla grave situazione economica e sociale del paese e alle pressioni
internazionali, a partire dal 1994 la Serbia ridusse progressivamente il proprio
sostegno ai serbo-bosniaci; questo nuovo atteggiamento – che fruttò al paese un
alleggerimento delle sanzioni economiche – consentì anche l’avvio di trattative di
pace in Bosnia, che nel novembre 1995 approdarono alla ratifica degli accordi di
Dayton e alla fine del conflitto bosniaco. Nell’ottobre del 1996, in seguito agli
accordi, le sanzioni internazionali che gravavano sulla Serbia furono parzialmente
revocate.
Sebbene il territorio serbo non fosse stato interessato che in minima parte dallo
scontro militare, il conflitto causò in Serbia una profonda crisi economica e politica,
e una forte opposizione al potere di Milošević.
Nel novembre 1996 la decisione di Milošević di annullare le elezioni municipali in
cui il suo Partito socialista (l’ex Lega dei comunisti) era stato battuto, provocò un
moto di rivolta delle opposizioni e della società civile.
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Dopo tre mesi di manifestazioni di piazza e una missione dell’OSCE per trovare una
soluzione alla crisi, il regime fu costretto a riconoscere i risultati delle elezioni, che
assegnavano il governo di una ventina di città, tra cui Belgrado, all’opposizione
democratica del cartello Zajedno (“Insieme”). Le speranze suscitate dalla vittoria
delle opposizioni durarono tuttavia pochi mesi; infatti, a causa delle rivalità sorte tra
i suoi leader, la coalizione si sciolse.
Nel luglio 1997 il presidente Milošević, che non avrebbe più potuto candidarsi alla
presidenza serba, si fece eleggere alla presidenza della Repubblica federale. Nelle
elezioni presidenziali serbe di settembre il candidato del Partito socialista, Zoran
Lilić, fu battuto dal leader ultranazionalista Vojislav Šešelj, ma la consultazione, che
non aveva raggiunto il quorum del 50% dei voti, venne annullata. Nelle contestuali
legislative, boicottate dalle opposizioni, il Partito socialista ottenne solo 98 seggi su
250 e per costituire il governo dovette ricorrere al sostegno dell’ultranazionalista
Partito radicale serbo.
A dicembre venne eletto alla presidenza della repubblica serba un membro del
Partito socialista, Milan Milutinović. La Serbia che uscì dalle diverse prove
elettorali del 1997 era un paese spaccato e pericolosamente sbilanciato su una linea
autoritaria e ultranazionalista, sottolineata dalla presenza al governo del leader
radicale Šešelj.
Crisi del Kosovo
Nel 1998 il conflitto nazionalistico si riaccese lì dove era sorto quasi dieci anni
prima: nel Kosovo. Durante tutti gli anni Novanta la situazione nella provincia a
maggioranza albanese si era andata progressivamente deteriorando, fino a indurre
una parte della popolazione kosovara ad abbandonare la posizione pacifista
sostenuta da Ibrahim Rugova.
A peggiorare la situazione fu l’insediamento, peraltro contenuto, nella provincia, di
profughi serbi della Bosnia e della Croazia; il timore che Milošević volesse
utilizzare i profughi per colonizzare il Kosovo e modificarne a favore dei serbi gli
equilibri demografici, causò tra i kosovari-albanesi la crescita del malcontento e il
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farsi strada di posizioni più radicali. Nel 1996 fece la sua comparsa un movimento
di resistenza armata, l’Esercito di liberazione del Kosovo (UÇK).
Dall’estate del 1997 l’azione dell’UÇK si intensificò e la sua posizione
indipendentista ottenne un crescente sostegno tra la popolazione albanese del
Kosovo. Nel tentativo di ripristinare il controllo sul territorio, il regime serbo
rispose rafforzando la sua presenza militare nella provincia. L’offensiva lanciata
dalle truppe serbe nel 1998 contro l’UÇK coinvolse pesantemente la popolazione
civile, causando centinaia di vittime e la distruzione di interi villaggi.
Al risoluto intervento delle truppe ufficiali si aggiunse – analogamente a quanto era
successo in Bosnia durante il precedente conflitto – la criminale operazione di
pulizia etnica delle bande paramilitari.
Nel marzo 1998, temendo che lo scontro in Kosovo potesse provocare la ripresa
della guerra e la sua estensione al resto dei Balcani, il Gruppo di contatto (istituito
per vigilare sulla pace nell’ex Iugoslavia e formato da Stati Uniti, Russia, Francia,
Germania, Regno Unito e Italia) impose, con il solo parere contrario della Russia,
sanzioni economiche alla Serbia e minacciò un intervento militare se questa non
avesse accettato di ritirare le proprie truppe e di avviare un negoziato di pace con i
rappresentanti della popolazione albanese del Kosovo. In ottobre fu raggiunto un
accordo che stabiliva il cessate il fuoco e l’invio di 2000 osservatori dell’OSCE nel
Kosovo.
Le continue violazioni della tregua verificatesi nei mesi seguenti e l’aumento del
flusso dei profughi, dovuto alle crescenti violenze sulla popolazione civile,
portarono a un’ulteriore iniziativa diplomatica. Tra febbraio e marzo 1999 una
bozza di accordo preparata dal Gruppo di contatto fu sottoposta alle delegazioni del
governo serbo e della popolazione kosovaro-albanese convocate a Rambouillet, in
Francia; l’accordo prevedeva il rispetto dei diritti fondamentali della comunità
albanese (politici, religiosi, culturali ecc.) e la concessione di una sostanziale
autonomia al Kosovo.
Sebbene le parti avessero raggiunto una buona convergenza su molti punti, la prima
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fase della conferenza di Rambouillet non ebbe tuttavia alcun esito. Infatti, mentre i
rappresentanti della popolazione kosovaro-albanese cercavano di cogliere
l’occasione favorevole per
indurre
le
potenze
occidentali
all’immediato
riconoscimento del Kosovo come stato indipendente, la Serbia respingeva le
clausole che imponevano al paese l’accettazione incondizionata della presenza di
forze militari NATO sul territorio dell’intera Federazione iugoslava. Inoltre, la
Serbia respingeva l’ipotesi di un referendum da tenersi in Kosovo a distanza di tre
anni dall’accordo, che avrebbe riproposto e reso a quel punto inevitabile il distacco
dalla Serbia di un Kosovo protetto da truppe straniere.
Nella seconda tornata dei negoziati i complessi problemi politici e diplomatici
rimasero irrisolti; al termine della conferenza, mentre i rappresentanti dei kosovaroalbanesi dichiaravano infine la loro disponibilità a firmare l’accordo, i serbi lo
respinsero definitivamente. In seguito al fallimento della conferenza, Stati Uniti,
Regno Unito, Francia, Germania e Italia, sostenuti dagli altri paesi della NATO,
concordarono l’intervento militare; la notte del 24 marzo 1999 iniziarono le
incursioni e i bombardamenti degli aerei dell’Alleanza atlantica sulla Serbia e sulle
truppe serbe in Kosovo.
Giustificata come un’inevitabile “ingerenza umanitaria” negli affari interni di un
paese sovrano, l’operazione “Allied Forces” della NATO costituì il primo intervento
militare lanciato senza una preventiva autorizzazione delle Nazioni Unite.
Dopo 78 giorni di bombardamenti, agli inizi di giugno la Serbia accettò una
proposta di accordo che escludeva la presenza di truppe militari straniere sul suo
territorio,
confermava
la
sovranità
serba
sul
Kosovo,
ma
accettava
un’amministrazione provvisoria del Kosovo da parte delle Nazioni Unite (UNMIK,
United Nation Mission in Kosovo) e concedeva alla provincia albanese un’ampia
autonomia, garantita da un contingente di sicurezza dell’ONU (KFOR) analogo a
quello stanziato dal 1995 in Bosnia e costituito da truppe dei paesi del Gruppo di
contatto, compresa la Russia.
Nel Kosovo le conseguenze del conflitto furono drammatiche. La comunità
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albanese, costretta, dopo l’inizio dell’attacco aereo della NATO, ad abbandonare le
proprie case dalla repressione serba e a cercare rifugio nei paesi vicini (Albania,
Macedonia e Montenegro), trovò al suo rientro città e villaggi colpiti dai
bombardamenti e sistematicamente saccheggiati e messi a ferro e fuoco dalle truppe
di Belgrado. La comunità serba fu sottoposta nei mesi successivi alla rappresaglia
albanese (in cui si distinsero le milizie dell’UÇK) e fu a sua volta costretta ad
abbandonare in massa la provincia.
L’intervento della NATO inflisse gravissime perdite, umane ed economiche, alla
Serbia, sottoposta per più di due mesi a un intenso bombardamento che colpì, oltre
agli obiettivi militari, la rete di comunicazione stradale e ferroviaria, ospedali,
scuole e numerose fabbriche. Il regime serbo, pur essendo riuscito a contenere la
crisi che lo stava erodendo da anni, fu del tutto isolato a livello internazionale e
incapace ad avviare la ricostruzione del paese.
Nel corso del 2000 Milośević, accusato di crimini contro l’umanità dal Tribunale
dell’Aia, vide precipitare il suo consenso presso la popolazione serba, sempre più
stretta nella morsa della crisi economica, ma perse anche il sostegno di interi settori
del regime e dell’esercito. Nel tentativo di puntellare il suo ormai traballante potere,
tra la primavera e l’estate impose al Parlamento federale una serie di emendamenti
alla Costituzione della Federazione e, assicuratosi in questo modo il diritto di
concorrere nuovamente alla presidenza, indisse nuove elezioni.
Le successive elezioni presidenziali federali, svoltesi a settembre, causarono un
profondo rimescolamento del quadro politico balcanico. La strategia di Milošević
naufragò infatti contro la ritrovata unità delle opposizioni, cheraccolsero un forte
consenso intorno al loro candidato Vojislav Kostunica. Sconfitto già al primo turno,
Milośević tentò di invalidare i risultati del voto ma fu infine costretto a riconoscere
la vittoria delle opposizioni.
La sconfitta di Milošević aprì nella Serbia e nei Balcani una prospettiva del tutto
inedita. Nelle elezioni legislative svoltesi alla fine di dicembre del 2000, il fronte
dell’Opposizione democratica, composto da diciotto partiti, ottenne il 64% dei voti
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0
e 176 dei 250 seggi del Parlamento serbo.
Nel febbraio 2001 si insediò il nuovo governo serbo, alla cui guida fu chiamato
Zoran Djindjić. Di simpatie apertamente filoccidentali, Djindjić si apprestò a
chiudere i conti con il passato regime.
Milošević venne accusato di abuso di potere e di reati finanziari. Il 31 marzo, dopo
giorni di convulse consultazioni istituzionali e una drammatica trattativa, l’ex leader
serbo si consegnò alle forze di polizia e fu posto agli arresti.
Durante tutta la primavera, la vicenda di Milošević alimentò un’aspra contesa tra le
istituzioni federali e quelle serbe e, soprattutto, tra i due più importanti artefici della
disfatta del vecchio regime e del suo forte apparato, Kostunica e Djindjić: il primo,
nazionalista e gradualista, attento a mediare tra le varie componenti sociali e
politiche del paese per non compromettere il processo di democratizzazione; il
secondo, risoluto a stabilire un forte legame con i governi occidentali e a operare
un’ampia ristrutturazione economica e politica. Il 28 giugno 2001, scavalcando le
autorità federali, Djindjić consegnò Milošević al Tribunale penale internazionale per
la ex Iugoslavia.
La decisione del governo serbo portò alla luce la debolezza del ruolo della
presidenza federale e causò la crisi della coalizione democratica. A emarginare
ulteriormente Kostunica fu anche la ripresa del contrasto federale con il
Montenegro.
Nel marzo 2002 i rappresentanti delle repubbliche di Serbia e Montenegro,
affiancati dalla diplomazia europea, sottoscrissero un accordo che prevedeva una
nuova unione di tipo confederale chiamata “Serbia e Montenegro”. Ratificato nel
febbraio 2003, l’accordo prevedeva, trascorsi tre anni, la possibilità di accedere
all’indipendenza attraverso un referendum.
La Serbia, sempre più debole e isolata, scivolò in un nuovo periodo di instabilità e
violenza. Caddero infatti, sotto i colpi di ignoti sicari, diversi esponenti del mondo
politico-istituzionale, dell’esercito e del sottobosco affaristico-criminale che aveva
prosperato durante la guerra civile; tra questi, Zeljko Raznatović, meglio conosciuto
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con il nome di Arkan, capo delle “Tigri”, una delle più potenti e sanguinarie milizie
paramilitari serbe attive nella guerra in Bosnia-Erzegovina.
Nell’autunno del 2002 i due principali partiti democratici si presentarono separati
nella corsa alla presidenza serba, e dopo il primo turno il partito di Djindjić, di
fronte alla sconfitta del suo candidato, disertò le elezioni; tra ottobre e dicembre si
tennero due diversi turni elettorali, ma in nessuno dei due fu raggiunto il quorum
del 50% previsto dalla legge.
Nel 2003 si intensificò la lotta tra poteri e apparati nuovi e vecchi. Alla fine di
gennaio, sottoposti a fortissime pressioni, si consegnarono al Tribunale penale
internazionale dell’Aia due esponenti di primissimo piano del passato regime
iugoslavo: Vojislav Sešelj, leader del nazionalismo serbo più estremo e capo del
Partito radicale serbo, e Milan Milutinović, ex presidente della repubblica serba. La
risposta dei vecchi apparati non si fece attendere; il 12 marzo, il primo ministro
Zoran Djindjić venne raggiunto da diversi colpi d’arma da fuoco davanti alla sede
del governo, morendo poche ore dopo.
Nelle settimane che seguirono, con il paese in stato d’assedio, furono arrestati più di
mille esponenti del mondo politico, della polizia, dell’esercito e dei servizi segreti
legati al passato regime. Nel contempo venne lanciata una campagna di epurazione,
congedando molti funzionari dello stato e della magistratura.
La profonde divisioni politiche e la sfiducia verso il nuovo regime si rifletterono
sulle elezioni legislative anticipate del 28 dicembre 2003. Caratterizzate da un
elevato astensionismo, le elezioni assegnarono la vittoria al Partito radicale serbo di
Vojislav Sešelj. Dopo difficili consultazioni, venne formato un governo di
minoranza guidato da Vojislav Kostunica. Il Partito radicale serbo ottenne un nuovo
sorprendente risultato nelle elezioni presidenziali serbe del giugno 2004, quando il
suo candidato, vinto il primo turno, raccolse il 45% dei voti al secondo turno, nel
quale tuttavia si affermò, grazie a una ritrovata unità dei partiti democratici e
moderati, il candidato del Partito democratico Boris Tadić.
Nel marzo del 2004 riesplose la tensione in Kosovo. Gli scontri, che ebbero per
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epicentro la città di Mitrovica, provocarono in pochi giorni una quarantina di morti
(in gran parte serbi) e più di seicento feriti, tra cui una sessantina di soldati della
forza multinazionale della NATO, oltre alla distruzione di una trentina di chiese
ortodosse e di una decina di villaggi serbi. Nelle elezioni legislative kosovare
dell’ottobre 2004 si affermò la Lega democratica del Kosovo (45,4%), seguita dal
Partito democratico (28,9%), legato all’UÇK. Alle elezioni non partecipò tuttavia,
in segno di protesta, la minoranza serba.
Indipendenza del Montenegro
Nell’ottobre 2005 vennero avviati i colloqui di associazione all’Unione Europea
della Serbia e Montenegro. Agli inizi del 2006 scomparvero, a poche settimane di
distanza, sia il presidente del Kosovo Ibrahim Rugova sia l’ex presidente serbo
Slobodan Milošević. La morte del controverso leader serbo, avvenuta nelle carceri
del Tribunale penale internazionale dell’Aia, alimentò molte polemiche nel paese.
Nei mesi seguenti la Serbia venne formalmente richiamata dall’Unione Europea per
la scarsa collaborazione fornita nella ricerca del generale Ratko Mladić, accusato di
gravi crimini compiuti durante la guerra civile e in particolare dell’eccidio di
Srebrenica.
Nel maggio 2006 il Montenegro si pronunciò, attraverso un referendum, per
l’indipendenza, che venne proclamata il 3 giugno. Nello stesso mese iniziarono a
Vienna, sotto l’egida delle Nazioni Unite, i negoziati per lo status del Kosovo. In
ottobre un referendum boicottato dai kosovari albanesi approvò in Serbia una nuova
Costituzione, che proclamava il Kosovo parte inalienabile del paese. Nel febbraio
2007 la proposta presentata dall’incaricato delle Nazioni Unite Martti Ahtisaari,
favorevole all’indipendenza del Kosovo, venne rigettata dalla Serbia.
Nelle elezioni legislative del gennaio 2007 il Partito radicale serbo, la formazione
ultranazionalista di Vojislav Sešelj, si confermò primo partito della Serbia. Alle sue
spalle si piazzarono il Partito democratico e il Partito democratico serbo, che a
maggio diedero vita a un nuovo governo di coalizione guidato da Vojislav
Kostunica.
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Sviluppi recenti
Nel novembre 2007 i negoziati di Vienna sullo status del Kosovo giungono a una
situazione di stallo. La Serbia respinge l’indipendenza del Kosovo, ma l’offerta di
un’amplissima autonomia alla provincia albanese viene a sua volta respinta dalla
leadership nazionalista kosovara.
Il 3 febbraio 2008 il leader del Partito democratico Boris Tadić è rieletto alla
presidenza serba battendo per pochi voti il candidato nazionalista Tomislav Nikolić.
Il 17 febbraio il Parlamento di Priština proclama l’indipendenza del Kosovo, che la
Serbia giudica illegale. Il 21 febbraio, ai margini di una folta manifestazione
promossa dal governo serbo a Belgrado, gruppi ultranazionalisti assaltano
l’ambasciata degli Stati Uniti. I contrasti tra il presidente Tadić, propenso ad
accettare l’indipendenza del Kosovo in cambio dell’ingresso nell’Unione Europea, e
il premier Kostunica provocano le dimissioni di quest’ultimo e il ricorso alle
elezioni anticipate.
Per una Serbia europea, la coalizione promossa dal Partito democratico di Boris
Tadić, vince le elezioni del maggio 2008 senza ottenere tuttavia una maggioranza
sufficiente a governare il paese. Al secondo posto si piazza l’ultranazionalista
Partito radicale, seguito dal Partito democratico serbo e dal Partito socialista.
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SERBIA
Superficie: 88.361 Km²
Abitanti: 9.397.000 (stime 2005, per il Kosovo i dati sono risalenti all'ultimo
censimento)
Densità: 106 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica federale
Capitale: Belgrado (1.120.000 ab., 1.576.000 aggl. urbano)
Altre città: Novi Sad 299.000 ab., Nis 251.000 ab., Kragujevac 176.000 ab.,
Pristina 166.000 ab.
Gruppi etnici: Serbi 66%, Albanesi 21,5%, Ungheresi 3%, Bosniaci 1,5%, altri 8%
Paesi confinanti: Croazia e Bosnia Erzegovina a OVEST, Ungheria a NORD,
Romania e Bulgaria ad EST, Montenegro a SUD-OVEST, Macedonia e Albania a
SUD
Monti principali: Deravica 2656 m, Peskovi 2651 m
Fiumi principali: Danubio 588 Km (tratto serbo, totale 2858 Km), Zapadna
Morava 308 Km,
Laghi principali: Lago di Derdap 178 Km² (artificiale - parte serba, totale 253
Km²)
Isole principali: Ostrvo (nel Danubio) 60 Km²
Clima: Temperato continentale
Lingua: Serbo (ufficiale), Albanese, Ungherese
Religione: Ortodossa 68%, Musulmana 20%, Cattolica 4,5%, altro 7,5%
Moneta: Dinaro (in Serbia), Euro (in Kosovo)
MONTENEGRO
Superficie: 13.812 Km²
Abitanti: 624.000
Densità: 45 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica
Capitale: Podgorica (173.000 ab.)
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5
Altre città: Niksic 75.000 ab.
Gruppi etnici: Montenegrini 43%, Serbi 32%, Bosniaci 8%, Albanesi 5%, altri
12%
Paesi confinanti: Croazia ad OVEST, Bosnia Erzegovina a NORD-OVEST, Serbia
ad EST, Albania a SUD
Monti principali: Bobotov Kuk (Durmitor) 2522 m, Maja Rozit 2522 m
Fiumi principali: Tara 141 Km (tratto montenegrino, totale 146 Km), Lim 123 Km
(tratto montenegrino, totale 220 Km), Cehotina 100 Km (tratto montenegrino, totale
125 Km)
Laghi principali: Lago di Scutari 222 Km² (parte albanese, totale 370 Km²)
Isole principali: Vranjina (nel lago di Scutari) 4,8 Km², Isola di Sveti Nikola
Clima: Continentale-mediterraneo
Lingua: Serbo (ufficiale), Bosniaco, Albanese, Croato
Religione: Ortodossa 74%, Musulmana 18%, altro 8%
Moneta: Euro
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SLOVACCHIA
Le tribù slave occuparono l'attuale Slovacchia nel V secolo d.C. Nell'anno 833 il
principe di Moravia conquistò Nitra e creò l'impero della Grande Moravia, che
comprendeva la Slovacchia centrale e occidentale, la Repubblica ceca e parti della
Polonia, dell'Ungheria e della Germania. L'impero si convert ì al cristianesimo con
l'arrivo dei fratelli missionari di Tessalonica, Cirillo e Metodio, nell'863.
Nel 907 l'impero della Grande Moravia crollò a causa degli intrighi politici dei suoi
governanti e dell'invasione ungherese. Nel 1018 l'intera Slovacchia fu annessa
all'Ungheria e restò dominio magiaro per i successivi 900 anni, anche se dal 1412 al
1772 la regione di Spis nella Slovacchia orientale rimase sotto la giurisdizione
polacca.
Dopo un'invasione dei Tatari nel XIII secolo, il re ungherese invit ò i Sassoni
tedeschi a stabilirsi nelle spopolate regioni lungo il confine nordorientale. Quando i
Turchi sconfissero l'Ungheria all'inizio del XVI secolo, la capitale magiara fu
trasferita da Buda (parte dell'odierna Budapest) a Bratislava. Solo nel 1686 la
presenza ottomana fu definitivamente respinta a sud del Danubio.
La formazione dell'impero austro-ungarico nel 1867 rese l'Ungheria indipendente
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nelle questioni interne e in Slovacchia fu avviata una politica di 'magiarizzazione'
forzata tra il 1868 e il 1918.
Nel 1907, l'ungherese divenne l'unica lingua utilizzata per l'istruzione elementare.
In reazione a tutto ciò, gli intellettuali slovacchi stabilirono legami culturali pi ù
stretti con i Cechi, a loro volta sudditi austriaci.
Il concetto di un singolo stato ceco-slovacco nacque per scopi politici e, dopo la
sconfitta dell'impero austro-ungarico nella prima guerra mondiale, Slovacchia,
Rutenia, Boemia e Moravia furono unite per formare la Cecoslovacchia.
Le tendenze centralizzatrici dei cechi infastidirono molti slovacchi e, dopo l'accordo
di Monaco del 1938 che obbligò la Cecoslovacchia a cedere parte dei propri territori
alla Germania, la Slovacchia dichiar ò la propria autonomia. Il giorno prima che le
truppe di Hitler invadessero il territorio ceco, nel marzo del 1939, fu istituito uno
stato fantoccio guidato da monsignor Jozef Tiso (giustiziato nel 1947 come
criminale di guerra) e la Slovacchia divenne un alleato della Germania.
Nell'agosto 1944, i partigiani slovacchi diedero vita all'insurrezione nazionalista
slovacca e occorsero diversi mesi ai nazisti per soffocarla.
Agli inizi del 1945, due mesi prima della liberazione di Praga e nell'imminenza
dell'avanzata russa, fu formato a Kosice un governo cecoslovacco. La seconda
Cecoslovacchia, costituita dopo la guerra, avrebbe dovuto avere carattere federale,
ma con la salita al potere dei comunisti nel febbraio 1948, l'amministrazione fu
ancora una volta centralizzata a Praga.
Molti di coloro che si opposero alla nuova dittatura comunista furono eliminati
senza piet à, torturati o ridotti alla fame nei campi di lavoro. Sebbene la costituzione
del 1960 garantisse a cechi e slovacchi eguali diritti, questo concetto fu realmente
messo in atto soltanto con le riforme della 'Primavera di Praga', introdotte nel 1968
da Alexander Dubcek.
Nell'agosto del 1968 le truppe sovietiche intervennero per sopprimere le riforme
democratiche e nonostante Repubblica ceca e Slovacchia fossero teoricamente
membri paritari della confederazione, il potere restò a Praga.
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8
La caduta del comunismo in Cecoslovacchia nel 1989 port ò alla rinascita del
nazionalismo e ad agitazioni in favore dell'autonomia della Slovacchia. Dopo
l'elezione del nazionalista Vladimir Meciar nel giugno 1992, il parlamento slovacco
votò per dichiarare la propria sovranit à e la federazione fu dissolta pacificamente il
1 ° gennaio 1993. Meciar fu sfiduciato come primo ministro nel marzo del 1994 a
causa della recessione economica e delle sue tendenze sempre pi ù autoritarie, ma
dopo le elezioni effettuate alcuni mesi più tardi egli riuscì a formare un nuovo
governo di coalizione.
Il governo semi-autoritario di Meciar ha attirato critiche in altri ambiti. Esiste una
legge volta a proteggere la Repubblica che prevede l'arresto di chiunque critichi il
governo; inoltre, i mezzi di informazione sono sotto stretto controllo.
Lo slovacco è stato dichiarato unica lingua ufficiale, questo significa che la
cospicua minoranza ungherese è diffidata dall'usare la madre lingua nei luoghi
pubblici. Maciar ha ricevuto critiche da diverse organizzazioni per i diritti umani e
da diversi leader dei paesi occidentali.
Le seconde elezioni della storia della Repubblica slovacca si sono tenute nel 1998,
ma nessun candidato è riuscito ad aggiudicarsi la maggioranza richiesta dalla legge.
Rudolf Schuster, del partito SOP, ha vinto le successive elezioni presidenziali nel
maggio 1999, che lo vedranno ricoprire la carica di presidente per un periodo di
cinque anni.
Nonostante alle elezioni del settembre 2002 abbia ottenuto la maggioranza relativa,
l'autocratico Movimento per la Slovacchia democratica (Hzds), guidato dal tre volte
premier Vladimir Meciar, non ha i numeri per governare. Inoltre, Meciar è isolato in
ambito internazionale per la sua linea politica, tracciata negli anni Novanta, ostile
all'Unione Europea e alla Nato.
Il nuovo governo è stato dunque formato dalla coalizione di centro-destra guidata
dal primo ministro Mikulas Dzurinda, favorevole all'ingresso nelle organizzazioni
occidentali.
All'apertura del vertice della NATO a Praga, il 21 novembre 2002, i leader dei
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diciannove paesi membri hanno formalmente invitato a entrare, entro il 2004,
nell'Alleanza Atlantica sette paesi che in passato appartennero alla cosiddetta
cortina di ferro: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica slovacca,
Romania, Slovenia.
La Repubblica slovacca ha detto sì all'ingresso nell'Unione Europea con il 92,6%
dei votanti e dal primo maggio 2004, insieme ad altri nove paesi (Polonia,
Repubblica Ceca, Slovenia, Ungheria, Lettonia, Estonia, Lituania, Malta e Cipro), è
divenuta tutti gli effetti membro dell'Unione Europea. L'affluenza registrata per il
referendum d'adesione del maggio 2003 è stata del 52,12%.
Nel maggio 2005, il parlamento slovacco ha ratificato la costituzione europea.
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Superficie: 49.035 Km²
Abitanti: 5.380.000 (stime 31/12/2003)
Densità: 110 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Bratislava (429.000 ab.)
Altre città: Kosice 236.000 ab., Presov 92.800 ab., Nitra 87.300 ab., Zilina 85.400
ab., Banská Bystrica 83.100 ab.
Gruppi etnici: Slovacchi 86%, Ungheresi 9,5%, Romeni 1,5%, Cechi 1%, altri 2%
Paesi confinanti: Polonia a NORD, Repubblica Ceca ed Austria ad OVEST,
Ungheria a SUD, Ucraina ad EST
Monti principali: Monte Gerlach 2655 m
Fiumi principali: Danubio 2858 Km (totale, compresi tratti tedesco, austriaco,
ungherese, croato, serbo-montenegrino, romeno, bulgaro e ucraino), Vah 390 Km
Laghi principali: Orava 35 Km² (artificiale), Zemplinska Sirava 33 Km²
(artificiale)
Clima: Continentale
Lingua: Slovacco (ufficiale), Ungherese
Religione: Cattolica 69%, Atei/Non religiosi 13%, Evangelica 7%, Cattolica greca
4%, altro 7%
Moneta: Corona slovacca
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SLOVENIA
I primi sloveni si insediarono nelle valli dei fiumi del bacino del Danubio e sulle
Alpi Orientali nel VI secolo.
Nel 748 la Slovenia passò sotto il controllo delle popolazioni dell'attuale Germania,
prima con l'impero franco dei Carolingi, che convertirono la popolazione al
cristianesimo, e poi come parte del Sacro Romano Impero nel IX secolo.
La monarchia austro-tedesca conquistò il paese all'inizio del XIV secolo e continuò
a mantenere il controllo (a partire dal 1804, come Impero asburgico) fino al 1918,
con un'unica breve interruzione. Durante questi sei secoli, le classi sociali pi ù alte
furono completamente germanizzate, mentre i contadini mantennero la loro identità
slava (pi ù tardi slovena).
Nel 1809, in un tentativo di isolare l'impero asburgico dall'Adriatico, Napoleone
fondò le cosiddette province dell'Illiria (Slovenia, Dalmazia e parte della Croazia) e
stabilì la capitale a Lubiana (dove è ancora oggi).
Gli Asburgo tornarono nel 1814, ma le riforme francesi nel campo dell'istruzione,
del diritto e della pubblica amministrazione resistettero. La rivoluzione culturale che
attravers ò l'Europa nel 1848 accrebbe la coscienza politica e nazionale degli
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sloveni; dopo la prima guerra mondiale e la caduta dell'impero austro-ungarico, la
Slovenia entrò a far parte del cosiddetto regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Durante la seconda guerra mondiale gran parte della Slovenia venne annessa dalla
Germania, mentre l'Italia e l'Ungheria ne presero solo una minima parte. I partigiani
sloveni lottarono contro gli invasori dalle loro basi di montagna. Nel 1945 la
Slovenia si un ì alla Repubblica Iugoslava e rimase per molti decenni dietro alla
cortina di ferro.
Gli sloveni si preoccuparono quando la Serbia, alla fine degli anni '80, iniziò a
muoversi per affermare la sua supremazia culturale ed economica sulle altre
repubbliche iugoslave. Alla fine del 1988, quando Belgrado pose improvvisamente
fine all'indipendenza del Kossovo, gli sloveni iniziarono a temere che anche a loro
sarebbe potuta accadere la stessa cosa.
Ciò che spinse gli sloveni a dividersi dalla Iugoslavia fu il fatto che da alcuni anni
gli interessi della Slovenia avevano cominciato a spostarsi verso il nord e
l'occidente capitalistico. Allo stesso tempo, il suo legame con il resto della
Iugoslavia era diventato un fardello economico e una minaccia politica.
Nella primavera del 1990, la Slovenia fu la prima repubblica iugoslava a indire
elezioni libere e a porre fine a 45 anni di comunismo. Nel dicembre dello stesso
anno, gli elettori si espressero pressoch
É all'unanimità (90%) a favore di una repubblica indipendente. Temendo il peggio,
il governo sloveno iniziò a fare incetta di armi e il 25 giugno 1991 usc ì dalla
federazione iugoslava una volta par tutte. Per dare enfasi alla sua lotta per
l'indipendenza e per ottenere l'appoggio della comunit à internazionale, la Slovenia
provoc ò deliberatamente la guerra con l'esercito federale iugoslavo tentando di
assumere il controllo dei posti di blocco presso la frontiera.
Seguì una guerra della durata di 10 giorni, ma la resistenza dei militari sloveni fu
molto forte e, dal momento che non c'erano in gioco pretese territoriali o questioni
relative a minoranze etniche, il governo iugoslavo acconsentì a un armistizio
proposto dalla Comunità Europea. La Slovenia ottenne subito una nuova
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costituzione e, il 15 gennaio 1992, la Comunità Europea riconobbe formalmente il
nuovo stato. Nel maggio del 1992 la Slovenia fu ammessa a far parte delle Nazioni
Unite.
Nell'ottobre del 2000, nella terza tornata elettorale nazionale dall'indipendenza, il
Partito Liberaldemocratico torn ò al potere e Janez Drnovsek riprese l'incarico di
primo ministro dal quale era stato sollevato sei mesi prima, quando la sua coalizione
aveva perso la maggioranza.
Candidatosi alla presidenza, Janez Drnovsek ha vinto il ballottaggio del 1 °
dicembre 2002, superando Barbara Brezigar, esponente del centro-destra, e dal 23
dicembre è il nuovo presidente. Le tappe fondamentali del nuovo mandato
presidenziale saranno l'allargamento della NATO e l'ingresso nell'Unione Europea.
Entrambe sono già state tracciate.
All'apertura del vertice della NATO a Praga, il 21 novembre 2002, i leader dei
diciannove paesi membri hanno formalmente invitato la Slovenia a entrare, entro il
2004, nell'Alleanza Atlantica insieme ad altri sei paesi che in passato appartennero
alla cosiddetta 'cortina di ferro': Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica
Slovacca e Romania.
Nel marzo 2003, il referendum di adesione all'Alleanza Atlantica ha ottenuto il 66%
dei voti, mentre il 90% degli elettori ha votato a favore dell'Unione Europea. Il 2
aprile 2004 la Slovenia è ufficialmente entrata nella NATO.
La Slovenia ha firmato il 16 aprile ad Atene la sua adesione all'Unione Europea ed è
entrata a farne parte a tutti gli effetti il primo maggio del 2004, insieme ad altri nove
paesi: Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Ungheria, Estonia, Lettonia,
Lituania, Malta e Cipro.
Alle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, in giugno, la coalizione
liberaldemocratica al governo ha ottenuto il 21,9% dei voti ma è stata superata dal
23,5% raccolto dal partito conservatore all'opposizione, Nova Sloveniya.
In un referendum svoltosi nel 2004, a sorpresa, il popolo sloveno ha detto 'no' alla
proposta del governo di riconoscere i diritti civili e di propriet à alle persone
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originarie di Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia ma residenti in Slovenia.
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Superficie: 20.273 Km²
Abitanti: 1.999.000 (30/9/2004)
Densità: 99 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Lubiana (258.900 ab.)
Altre città: Maribor 93.800 ab., Celje 37.800 ab., Kranj 35.600 ab.
Gruppi etnici: Sloveni 83%, Serbi 2%, Croati 2%, Bosniaci 1%, altri 12%
Paesi confinanti: Italia a OVEST, Austria a NORD, Ungheria ad EST, Croazia a
SUD ed EST
Monti principali: Triglav (Monte Tricorno) 2864 m
Fiumi principali: Sava 221 Km (tratto sloveno, totale 947 Km), Drava 142 Km
(tratto sloveno, totale 707 Km)
Laghi principali: Cerknisko jezero 24 Km²
Clima: Continentale - mediterraneo
Lingua: Sloveno (ufficiale), Serbo-Croato
Religione: Cattolica 58%, Non religiosi/Atei 10%, Musulmana 2,5%, Ortodossa
2,5%, altro 27%
Moneta: Euro (dal 1° Gennaio 2007 ha sostituito il tallero)
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UCRAINA
La storia antica dell’Ucraina rappresenta un capitolo importante nella più generale
storia russa. Kiev, centro di un fiorente principato tra il IX e il XIII secolo, è ancor
oggi nota come la 'madre delle città russe'.
La dominazione polacca
Nel XIII secolo l’area tra il Dnepr e i Carpazi subì l’invasione dei mongoli, che
determinò il declino e poi lo smembramento del principato di Kiev. Conservò la
propria indipendenza il principato occidentale di Galizia (fondato nel XII secolo),
che passò sotto il controllo della Polonia nel corso del XIV secolo. In questo stesso
periodo Kiev e il principato ucraino di Volinia furono conquistati dalla Lituania ma,
sul finire del XIV secolo, caddero anch’essi sotto il controllo polacco.
Contro le mire espansionistiche della Polonia sulle vaste steppe a est del Dnepr, i
cosacchi animarono una tenace resistenza, culminata nel 1648 in una violenta
rivolta. Nel 1654, offrendo protezione ai cosacchi, la Russia avviò la sua
penetrazione in Ucraina.
Nel 1667, la Polonia cedette definitivamente la regione alla Russia, che stroncò i
tentativi (1707-1708) dei cosacchi di sottrarsi al suo dominio. In seguito alle prime
due spartizioni della Polonia (1722 e 1793), tutta la regione cadde sotto l’autorità
russa, a eccezione della Galizia, della Bucovina e della Transcarpazia, incorporate
nell’impero austroungarico (1722).
La dominazione russa
Caterina la Grande incoraggiò la colonizzazione dell’Ucraina, che divenne il
principale bacino agricolo dell’impero. Verso la fine del XIX secolo la regione visse
anche un forte sviluppo industriale, il quale, concentrato nelle aree di Kiev e nel
bacino del Donez, attrasse molta manodopera russa.
Nel 1848, una violenta rivolta scoppiata nei domini austro-ungarici e sconfinata a
est ebbe come esito l’abolizione della servitù della gleba e la concessione di una
Costituzione. Nella seconda metà del secolo l’Ucraina vide la comparsa, soprattutto
nelle città, di un movimento culturale e politico di stampo nazionalista, prontamente
represso dalle autorità russe, che nel 1863 e nel 1876 proibirono l’uso della lingua
ucraina nelle scuole. Il nazionalismo ucraino poté invece ampiamente svilupparsi
nei territori occidentali governati dagli austroungarici, grazie al benevolo
atteggiamento delle autorità.
Rivoluzione nazionale e sociale
Con i profondi sommovimenti determinati dalla prima guerra mondiale, l’Ucraina si
ritrovò a sperimentare un’intensa e complessa stagione politica.
Nel novembre del 1917, in seguito alla rivoluzione bolscevica, i nazionalisti ucraini
raccolti nella Rada proclamarono una repubblica autonoma con sede a Kiev, guidata
da Simon Petlyura. A questa si contrapposero sia un movimento contadino guidato
dall’anarchico Nestor Machno, sia un movimento di tendenze bolsceviche, diffuso
soprattutto tra gli operai di origini russe; il primo congresso dei soviet dell’Ucraina,
celebrato nello stesso mese di novembre a Kharkiv, proclamò a sua volta una
repubblica sovietica.
Occupata nel 1918 dalle truppe austrotedesche in seguito alla pace di Brest-Litovsk,
la regione fu sconvolta per tre anni dallo scontro che oppose le armate bianche ai
bolscevichi.
Nel 1918, i territori affrancatisi dal dominio austriaco proclamarono una loro
repubblica nella Galizia orientale (1918).
Nel 1920, l’avanzata dei bolscevichi nell’Ucraina orientale favorì l’alleanza tra il
governo nazionalista di Petlyura, insediato a Kiev, e la Polonia. Nel 1921, con il
trattato di Riga, l’Ucraina restò sotto il controllo bolscevico, a eccezione della
Galizia orientale e della Volinia, che furono assegnate alla Polonia.
L'Ucraina sovietica
Diventata nel 1922 repubblica federata dell’Unione Sovietica, per alcuni anni
l’Ucraina godette di una relativa autonomia. Ma i tentativi compiuti dal Michailo
Šypnyk di rafforzare la repubblica in senso nazionale, pur nel contesto federativo
sovietico, vennero vanificati dai drammatici eventi degli anni Trenta, quando la
collettivizzazione dell’agricoltura imposta da Mosca provocò una grave carestia e la
morte di alcuni milioni di persone e l’offensiva antinazionalista lanciata da Stalin
colpì duramente, oltre che gli intellettuali nazionalisti, i quadri comunisti ucraini.
La II Guerra mondiale
In seguito all’estensione del controllo sovietico sulla Polonia orientale previsto nel
patto Molotov-Ribbentrop, nel 1939 la Galizia polacca fu incorporata nella
repubblica federata di Ucraina.
Nel 1941, confidando nella possibilità di costituire una repubblica autonoma sotto la
protezione della Germania, i nazionalisti ucraini accolsero favorevolmente le truppe
tedesche. La brutalità dell’occupazione nazista, che in Ucraina assunse aspetti
profondamente razzisti, indusse tuttavia i nazionalisti a rivolgere le armi contro i
tedeschi, conducendo nel contempo una lotta armata contro i sovietici, che sarebbe
durata, con sacche di resistenza armata, anche dopo la fine della guerra. Nel 1944
l’Ucraina ripassò sotto il controllo delle forze sovietiche, che scatenarono una
feroce repressione nei confronti della popolazione, accusata collettivamente di
collaborazionismo con i nazisti. Dopo la fine del conflitto, alcune zone della
Bessarabia e della Bucovina settentrionale rumena furono incorporate al territorio
ucraino, con l’aggiunta (1945) della regione rutena della Cecoslovacchia e, nel
1954, della Crimea.
La restaurazione del potere sovietico in Ucraina si accompagnò a persecuzioni
politiche, linguistiche e religiose e a deportazioni di massa. Nella seconda metà
degli anni Quaranta, gli ucraini andarono a infoltire le schiere del sistema
concentrazionario dei gulag.
La russificazione della regione continuò anche dopo la morte di Stalin, ma il nuovo
corso aperto a Mosca produsse in Ucraina una parziale apertura politica che si
interruppe nel 1968 con la primavera di Praga. Nei due decenni che seguirono,
l’Ucraina fu tenuta in condizioni di sostanziale subalternità alla Russia.
Nel 1986, sul paese si abbatté la catastrofe nucleare di Černobyl, i cui deleteri effetti
economici e sanitari si sarebbero protratti per molti anni. L’incidente di Černobyl e
il contemporaneo processo di riforma avviato a Mosca da Michail Gorbaciov con la
perestrojka favorirono un inedito intreccio tra rivendicazioni nazionali, lotta per i
diritti civili ed ecologismo, di cui si fecero sostenitori sia i nazionalisti sia i
comunisti riformatori.
L'indipendenza
Nel 1991, in seguito al collasso del regime sovietico, l’Ucraina proclamò la sua
indipendenza, sancita nello stesso anno da un referendum e dalle elezioni
presidenziali che portarono alla guida del paese Leonid Makarovič Kravčuk, il
leader del Partito comunista ucraino. Nel dicembre 1992, il primo ministro Leonid
Kučma avviò una serie di riforme economiche che coincisero con una grave crisi
economica e una violenta inflazione.
Subito dopo l’indipendenza si manifestarono tensioni tra Russia e Ucraina per il
possesso della Crimea. Appoggiata dai russi, nel 1992 la Crimea proclamò
l’indipendenza (in seguito ritirata); nel contempo Mosca denunciò l’accordo con il
quale nel 1954 la regione era stata concessa all’Ucraina. La questione si appianò nel
1995, quando la Russia rinunciò formalmente a rivendicazioni sulla regione.
Un altro motivo di contrasto russo-ucraino riguardò la flotta del Mar Nero,
stazionata nelle acque del porto di Sebastopoli. Nel 1992 i due paesi stabilirono un
controllo congiunto sulla flotta fino al raggiungimento di un accordo definitivo.
Nel 1994, in un quadro di forte crisi economica, il presidente Kravčuk cedette parte
dell’arsenale nucleare ucraino alla Russia, in cambio di combustibile destinato alla
produzione di energia.
Agli inizi del 1994, per favorire lo smantellamento dei depositi di armi nucleari
presenti nel paese e la chiusura dell’obsoleta centrale di Černobyl, gli Stati Uniti
incrementarono i loro aiuti all’Ucraina. In cambio, Kiev aderì al programma
Partnership for Peace, che portò l’Alleanza atlantica a ridosso dei confini russi.
Eletto alla presidenza del paese (luglio), Kučma tentò di avviare un programma di
riforme economiche, scontrandosi con la maggioranza parlamentare comunista e
con una forte opposizione sociale. Nonostante gli aiuti del Fondo monetario
internazionale e della Banca Mondiale, la situazione economica del paese rimase
critica.
La crisi finanziaria che colpì la Russia nel 1998 si rifletté pesantemente
sull’economia ucraina, vanificando i modesti risultati ottenuti da Kučma. La scena
politica, dominata da potentissimi clan e caratterizzata da una diffusa corruzione e
da un aspro scontro tra Parlamento e presidenza, non subì sostanziali cambiamenti
con le elezioni del 1998; il Partito comunista, risultato primo partito, rimase fuori
dal governo di coalizione guidato da Viktor Yuščenko, fautore di una riforma
economica di stampo neoliberista.
Le elezioni di ottobre-novembre 1999 confermarono Kučma alla carica di
presidente, ma solo grazie a un elevato astensionismo e a innumerevoli brogli, che
causarono la sospensione degli aiuti internazionali.
Sul piano diplomatico il paese compì notevoli passi in avanti, pervenendo a diversi
accordi con i paesi vicini (Polonia, Romania e Bielorussia) sulle delicate questioni
dei confini e delle minoranze presenti nei vari paesi. Permasero invece problemi con
la Russia, anche se i due paesi firmarono un accordo con il quale Mosca
riconosceva la sovranità di Kiev sulla Crimea, in cambio della concessione del porto
di Sebastopoli per vent’anni. Agli inizi del 2000, dopo diversi tentativi di riavviare
l’ultimo reattore operante della centrale nucleare di Černobyl, il governo ucraino
deliberò la chiusura definitiva dell’impianto.
Nel 2000 si intensificarono le tensioni tra il presidente Kučma e le opposizioni.
Alimentato dalle attitudini autocratiche del presidente, che tentò con un referendum
di limitare il ruolo del Parlamento, lo scontro sfociò in una gravissima crisi
istituzionale nel febbraio del 2001, quando Kučma venne accusato dalle opposizioni
dell’assassinio del giornalista Gheorghi Gongadze, autore di numerose inchieste
sulla corruzione del sistema politico ucraino.
Temendo la perdita di controllo sulle privatizzazioni, Kučma si oppose al piano
economico del primo ministro Yuščenko, favorevole a una più decisa apertura del
mercato ucraino ai paesi occidentali, costringendolo a dimettersi.
Nelle elezioni legislative di aprile 2002 il Blocco Viktor Yuščenko Nostra Ucraina
diventò il primo partito ucraino con il 23,6% dei voti e 112 seggi; il Partito
comunista, con il 20% dei voti, ottenne solo 66 seggi, perdendo molte delle sue
posizioni. Kučma diede l’incarico di formare il nuovo governo a Viktor Yanukovič,
esponente della lobby politico-economica filorussa della regione del Donbass.
Nei mesi seguenti, il paese vide il moltiplicarsi delle manifestazioni di protesta da
parte delle opposizioni, sia di quella comunista, contraria allo smantellamento delle
conquiste sociali del vecchio regime, sia di quella filoccidentale, diventata di mese
in mese più incisiva, di Yuščenko. Kučma riuscì tuttavia a puntellare il suo
traballante regime grazie a un riavvicinamento politico ed economico alla
Federazione russa, con la quale tra il 2003 e il 2004 firmò una serie di accordi
economici e politici, soprattutto in materia territoriale (delimitazione della frontiera
marittima sul mar d’Azov) ed energetica.
Nell’imminenza delle elezioni presidenziali, si acuì lo scontro istituzionale.
Sostenute da una straordinaria mobilitazione popolare, le opposizioni riuscirono a
contrastare nel Parlamento l’offensiva di Kučma, respingendo a più riprese le sue
proposte di modificare l’equilibrio dei poteri a favore della presidenza. Sottoposto
infine al rischio di destituzione, Kučma preparò la sua uscita dalla scena politica,
riavvicinandosi clamorosamente agli Stati Uniti; nella primavera del 2003, Kučma
schierò infatti un contingente militare ucraino accanto alle truppe statunitensi
nell’operazione militare che portò al rovesciamento del regime di Saddam Hussein
in Iraq, ottenendone in cambio assicurazioni di immunità.
La “rivoluzione arancione”
Il primo turno delle elezioni presidenziali (31 ottobre 2004) si concluse
ufficialmente con la sostanziale parità tra i due candidati; il primo ministro Viktor
Yanukovič, sostenuto dal presidente Kučma, ottenne infatti il 39,9% dei voti, contro
il 39,2% del leader dell’opposizione filoccidentale Viktor Yuščenko. Il voto fu
tuttavia considerato irregolare sia dalle opposizioni, che denunciarono molti brogli,
sia dagli osservatori internazionali.
In seguito alla protesta delle opposizioni (la cosiddetta “rivoluzione arancione”),
che occuparono pacificamente per molti giorni le piazze delle principali città
ucraine, la Corte suprema annullò il risultato, ordinando la ripetizione del voto. Il
clima politico, già molto teso, si aggravò in seguito alle dichiarazioni di Yuščenko,
che denunciò di aver subito un tentativo di avvelenamento all’inizio dell’autunno.
La denuncia fu confermata da autorità mediche austriache, che attribuirono alla
somministrazione di una massiccia dose di diossina l’infezione virale e la
devastante acne che avevano colpito Yuščenko durante la campagna elettorale.
Il 26 dicembre, con il 52% dei suffragi, Yuščenko conquistò al primo turno la
presidenza ucraina. Il risultato fu confermato agli inizi di gennaio del 2005 dalla
Commissione elettorale, che respinse tutti i ricorsi presentati da Yanukovič.
Nel gennaio 2005, Yulia Tymošenko, protagonista della “rivoluzione arancione”, fu
chiamata dal presidente Yuščenko a formare il nuovo governo, ma lasciò la carica
già in settembre in seguito a un caso di corruzione. Durante l’inverno si accese
un’aspra polemica tra la Russia e l’Ucraina per le forniture di gas, che il governo di
Mosca sospese a gennaio, per diversi giorni, fino alla firma di un nuovo accordo.
Le elezioni del marzo 2006 registrarono la crisi della coalizione Nostra Ucraina del
presidente Yuščenko, che ottenne solo il 14% dei voti e 81 seggi; si affermarono le
opposizioni del Partito delle regioni di Viktor Yanukovič (32% dei voti e 186 seggi)
e del Blocco di Yulia Tymošenko (22% dei voti e 129 seggi).
Le profonde divisioni tra i partiti filoccidentali dei due protagonisti della
“rivoluzione arancione” Viktor Yuščenko e Yulia Tymošenko provocarono il
fallimento delle trattative per la formazione del governo. Per scongiurare nuove
elezioni, il presidente Yuščenko fu infine costretto ad affidare la guida del governo
al suo acerrimo avversario Viktor Yanukovič.
La vita politica del paese continuò tuttavia a soffrire di una profonda instabilità,
registrando aspri scontri tra la fazione filoccidentale e quella filorussa. Nel febbraio
2007 le dimissioni del ministro degli Esteri Boris Tarasyuk, stretto alleato del
presidente Yuščenko, aprirono un nuovo periodo di crisi, che portò il paese sull’orlo
del conflitto civile.
Sviluppi recenti
Nel marzo 2007 le strade della capitale sono teatro di un preoccupante confronto tra
i sostenitori del presidente e quelli del primo ministro. In aprile il presidente
Yuščenko scioglie il Parlamento e chiama il paese alle urne, sollevando un’ondata di
proteste. Le nuove elezioni, che si svolgono a settembre, registrano la vittoria del
Partito delle regioni di Viktor Yanukovič (34,3% dei voti e 175 seggi), che tuttavia
perde 11 seggi rispetto alle elezioni precedenti; al secondo e al terzo posto si
piazzano il Blocco di Yulia Tymošenko (30% dei voti e 156 seggi) e la coalizione
Nostra Ucraina del presidente Viktor Yuščenko (14% dei voti e 72 seggi). Dopo
lunghe e complesse trattative, a dicembre Yulia Tymošenko forma il nuovo governo.
Superficie: 603.700 Km²
Abitanti: 47.622.000
Densità: 79 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica presidenziale
Capitale: Kiev (2.639.000 ab., 3.200.000 aggl. urbano)
Altre città: Kharkiv 1.464.000 ab. (1.675.000 aggl. urbano), Dnipropetrovsk
1.063.000 ab. (1.450.000 aggl. urbano), Odessa 1.013.000 ab. (1.100.000 aggl.
urbano), Donetsk 1.004.000 ab. (1.700.000 aggl. urbano), Zaporizhzhia 815.000 ab.,
Leopoli 733.000 ab., Kryvyi Rih 669.000 ab., Mykolaiv 514.000 ab.
Gruppi etnici: Ucraini 78%, Russi 17,5%, Bielorussi 0,6%, Moldavi 0,5%, Tatari
0,5%, Bulgari 0,4%, altri 2,5%
Paesi confinanti: Bielorussia a NORD, Russia ad EST e NORD-EST, Moldavia e
Romania a SUD-OVEST, Ungheria, Slovacchia e Polonia ad OVEST
Monti principali: Goverla 2061 m, Brebenskoul 2032 m
Fiumi principali: Dnepr 1121 Km (tratto ucraino, totale 2201 Km), Dnestr 925 Km
(tratto ucraino, totale 1370 Km), Bug meridionale 806 Km, Donec 700 Km (tratto
ucraino, totale 1053 Km), Horyn' 577 Km (tratto ucraino, totale 659 Km), Desna
575 Km (tratto ucraino, totale 1130 Km), Inhulets 549 Km, Psel 520 Km (tratto
ucraino, totale 692 Km)
Laghi principali: Yalpuh 149 Km², Kahul 93 Km², Kuhurluy 82 Km²
Isole principali: Dzharylgach 60 Km²
Clima: Continentale
Lingua: Ucraino (ufficiale), Russo
Religione: Atei/Non religiosi 57,5%, Ortodossa 30%, Cattolica 8%, Protestante
3,5%, altro 1%
Moneta: Hrivna ucraina
UNGHERIA
Popolata fin dal neolitico, la regione fece parte delle province romane di Dacia e
Pannonia, le prime dell’impero a subire le invasioni delle popolazioni germaniche,
le quali furono soppiantate successivamente dagli unni. Dopo la morte di Attila, il
territorio fu ripopolato da tribù germaniche, che nel corso del V secolo vennero
scacciate dagli avari. Declinato il potere di questi ultimi, durante l’VIII secolo la
popolazione slava dei moravi si stabilì nelle aree settentrionali e orientali della
regione, mentre quelle sudoccidentali caddero sotto l’influenza carolingia.
I magiari
Nel IX secolo, sotto la pressione dei peceneghi, la popolazione ugro-finnica dei
magiari si spostò a occidente, stabilendosi nelle pianure pannoniche. Sotto la guida
del principe leggendario Arpad i magiari conquistarono la Moravia, irrompendo
anche in Italia, dove si scontrarono con Berengario, e in Germania. L’espansione
magiara proseguì per più di mezzo secolo dopo la morte di Arpad (907). Sconfitti
nel 955 dall’imperatore Ottone I, i magiari stabilirono un legame sempre più saldo
con il Sacro romano impero, aprendosi all’influenza politica e religiosa occidentale.
Géza, un discendente di Arpad, convertitosi al cristianesimo nel 975, gettò le basi di
uno stato che il figlio Stefano I sviluppò anche grazie al sostegno della Chiesa di
Roma: nel Mille egli venne infatti riconosciuto formalmente sovrano da papa
Silvestro II.
Con Stefano I, detto il Santo, l’Ungheria si dotò di una nuova organizzazione
politica e di un vero e proprio sistema amministrativo basato sulla divisione del
territorio in comitati. Stefano sostenne l’attività degli ordini religiosi, favorendo la
diffusione del cristianesimo. Alla sua morte, il paese fu coinvolto nel conflitto tra
impero e papato, prendendo le parti di quest’ultimo. Grazie all’alleanza con papa
Gregorio VII, Ladislao I rafforzò notevolmente lo stato e inaugurò una politica di
espansione, conquistando la Slavonia (1089) e la Croazia (1091) e avviando un
lungo conflitto per il dominio della Dalmazia.
Nel XII secolo la dinastia degli Arpad si avviò verso il declino. La crescente
influenza dell’impero bizantino causò una riorganizzazione feudale dello stato
magiaro e il trasferimento di una significativa parte del potere alla nobiltà. Dopo la
morte dell’imperatore Manuele I Comneno (1180) l’influenza bizantina si affievolì,
ma i grandi feudatari conservarono i titoli e i privilegi acquisiti (Bolla d’oro Super
reformationem Regni nostri, 1222). Nel XIII secolo Béla IV (1235-1270) cercò di
rinsaldare l’autorità regia, ma il suo tentativo venne vanificato dall’invasione dei
mongoli (1241-70), in seguito alla quale si riaffermò il potere dell’oligarchia
nobiliare
La morte di Andrea III (1301) pose fine alla dinastia degli Arpad. Dopo una dura
lotta dinastica che oppose gli Asburgo agli Angiò di Napoli, nel 1308 Carlo Roberto
d’Angiò salì sul trono ungherese con il nome di Carlo I d’Ungheria. Ristabilito
l’ordine all’interno del regno, Carlo I riaffermò il potere regio limitando i poteri
della nobiltà feudale e riprese la politica espansionistica verso i Balcani,
conquistando la Bosnia e parte della Serbia.
La minaccia ottomana
A Carlo I succedette il figlio Luigi I (sul trono fino al 1382), che continuò il
progetto paterno impegnandosi a espandere il regno (guerre di conquista contro
Venezia). Luigi promosse riforme strutturali e amministrative, lo sviluppo del
commercio, della scienza e dell’industria, contenendo nel contempo il potere dei
grandi feudatari. Le spedizioni condotte in Italia dopo l’assassinio del fratello
Andrea (1345), e quelle contro i lituani (1351-54), indebolirono tuttavia il suo
regno, nel momento in cui nei Balcani si profilava la minaccia ottomana.
Il successore di Luigi, Sigismondo, incoronato nel 1387, intraprese una crociata
contro i turchi, ma fu sconfitto a Nicopoli nel 1396. In seguito, la lotta contro i
riformatori hussiti (vedi Guerre hussite), che Sigismondo perseguì con pervicacia,
indebolì ulteriormente lo stato ungherese.
La minaccia turca tornò ad affacciarsi durante i due anni di regno del genero di
Sigismondo, Alberto II d’Asburgo, alla cui morte (1439) si scatenò una violenta
lotta di successione che rese il paese nuovamente vulnerabile alla minaccia
ottomana, scongiurata dal voivoda Janos Hunyadi, che nel 1456 fermò a Belgrado
l’avanzata dei turchi.
Il figlio di Hunyadi, Mattia Corvino, fu eletto re d’Ungheria nel 1458; il nuovo
monarca riformò il sistema amministrativo del regno, promuovendone lo sviluppo
commerciale, e creò un esercito permanente. Nel 1480 strappò il controllo
dell’Austria agli Asburgo e conquistò Vienna. Con l’acquisizione di Moravia, Slesia
e Lusazia, fece dell’Ungheria il regno più potente dell’Europa centrale. Alla sua
morte (1490), l’Ungheria fu riunita dagli Jagelloni alle corone di Polonia e di
Boemia. I signori feudali riacquistarono gli antichi privilegi, tornando ad alimentare
un clima di intrighi e di lotte di potere che fece precipitare nuovamente il paese
nell’instabilità, rendendolo vulnerabile agli attacchi esterni; in questo contesto
esplose la rivolta contadina guidata da György Dozsa, soffocata nel sangue nel
1514.
La spartizione dell'Ungheria
Nell’agosto del 1521 il sultano Solimano I guidò personalmente la presa di
Belgrado e Šabac, il caposaldo meridionale del regno. Nell’agosto del 1526,
Solimano sconfisse l’esercito ungherese nella battaglia di Mohács – in cui trovò la
morte anche il re Luigi II – e il 10 settembre conquistò Buda.
Per più di un secolo dopo la sconfitta di Mohács, il paese fu teatro di ripetuti
conflitti tra gli imperatori della casa d’Asburgo, che progressivamente
s’impadronirono della zona occidentale del regno ungherese, i turchi, che
affermarono il loro dominio nella regione centrale, e la nobiltà stanziata soprattutto
in Transilvania.
Quest’ultima
divenne
il
centro
del
nazionalismo
magiaro,
diretto
contemporaneamente contro i turchi e gli Asburgo. I magiari abbandonarono la
Chiesa cattolica nel periodo della Riforma; durante la Controriforma, furono
protagonisti di un aspro conflitto con gli imperatori.
Al termine della cosiddetta “Lunga Guerra” (1593-1606), l’imperatore Rodolfo II fu
costretto a riconoscere ai signori di Transilvania autonomia politica e religiosa,
estensioni territoriali e altri privilegi. Lo scontro proseguì durante la guerra dei
Trent’anni (1618-1648), con il principe di Transilvania Gábor Bethlen che costrinse
Ferdinando II ad accordare libertà religiose e politiche alla Transilvania.
Giorgio I Rakoczy, succeduto nel 1631 a Bethlen come principe di Transilvania,
intensificò l’offensiva contro gli Asburgo e, alleatosi con svedesi e francesi, invase
l’Austria nel 1644. L’imperatore Ferdinando III si vide costretto a fare ulteriori
concessioni ai magiari, tra cui la libertà totale di culto per la popolazione ungherese
soggetta al dominio asburgico.
Sotto il principato di Giorgio II Rakoczy (1648-60), i turchi estesero la loro sfera
d’influenza alla Transilvania, riducendola gradualmente allo status di provincia.
Inoltre, l’azione dei missionari nei territori ungheresi acquisiti dagli Asburgo
indusse molti a riabbracciare il cattolicesimo e ad abbandonare la lotta nazionalista.
Il conte Imre Thököly compì l’estremo tentativo di opporsi alla casa d’Austria,
conseguendo con l’aiuto dei turchi una serie di vittorie sulle forze di Leopoldo I.
Fermati i turchi a Vienna (1683), gli Asburgo soffocarono nel sangue la rivolta
magiara, imponendo il proprio diritto sulla corona d’Ungheria. Nel 1699, il trattato
di Karlowitz lasciò alla Turchia la regione del Banato, mentre la Transilvania veniva
riunita ai possedimenti asburgici.
Nel 1703, Ferenc II Rakoczy (1676-1735), approfittando del coinvolgimento
austriaco nella guerra di successione spagnola, guidò una nuova rivolta contro
Vienna, ma nel 1711 l’imperatore Carlo VI offrì ai ribelli, già sconfitti militarmente,
accettabili condizioni di pace. La concessione di un’amnistia generale, della libertà
di culto e di una serie di autonomie minori favorì l’accordo tra Asburgo e magiari,
garantendo all’Ungheria un lungo periodo di stabilità.
L’Ungheria uscì devastata dal lungo periodo di conflitto, ma per tutto il Settecento
conobbe, soprattutto dopo l’ascesa al trono di Maria Teresa, una forte ripresa
economica e culturale e un grande cambiamento sociale. Alla vecchia nobiltà,
afflitta da una profonda crisi, si andò infatti sostituendo nel controllo della proprietà
terriera un’aristocrazia strettamente legata alla corte di Vienna e spesso di origine
straniera.
La Rivoluzione francese e il periodo napoleonico videro la nobiltà ungherese
conservarsi fedele alla corona asburgica, dando tuttavia nuovo impulso al
nazionalismo magiaro. La crescita del movimento liberale, promossa da uomini
quali István Széchenyi, Lajos Kossuth e Lajos Batthyány, s’accompagnò a una
grande effervescenza letteraria e culminò in una larga vittoria nelle elezioni per il
rinnovo della Dieta del 1847. Inizialmente le autorità austriache sottovalutarono
questo risultato, ma l’anno successivo l’ondata insurrezionale scoppiata a Vienna
(Rivoluzioni del 1848) le indusse a cedere alle richieste ungheresi, autorizzando la
formazione di un esecutivo nazionale guidato da Batthyány.
La legislazione da questi introdotta nel marzo del 1848 troncava di fatto ogni
legame di dipendenza dall’Austria per costituire uno stato indipendente dalla
marcata identità magiara; tuttavia, le altre componenti etniche del regno (soprattutto
quelle romena e croata) si sentirono discriminate e le loro rivendicazioni furono
strumentalmente sostenute da Vienna, che nel settembre tentò di ristabilire la sua
egemonia con la forza occupando Budapest. La reazione ungherese diede vita a una
strenua
resistenza
che
sfociò
nell’aprile
1849
nella
proclamazione
dell’indipendenza.
Con l’appoggio dello zar Nicola I, nell’estate del 1849 l’imperatore Francesco
Giuseppe intervenne contro gli ungheresi e dopo una rapida e sanguinosa campagna
stroncò ogni resistenza patriottica. Nell’autunno i capi rivoluzionari furono
giustiziati o costretti all’esilio e l’autorità asburgica venne pienamente ripristinata.
Negli anni seguenti, l’impegno militare richiesto dalla lotta risorgimentale italiana
(Guerre d’indipendenza italiane) indusse comunque Francesco Giuseppe ad adottare
un atteggiamento conciliante verso i magiari.
Nel 1865 il governo imperiale approvò la prima stesura di una nuova costituzione
ungherese, ma prima che il documento fosse completato la Prussia sconfisse
l’Austria nella guerra austro-prussiana, rafforzando così la posizione negoziale degli
ungheresi. In seguito alle condizioni del compromesso (Ausgleich) adottato nel
marzo del 1867, la corona ungherese fu riconosciuta autonoma da quella imperiale,
benché unificata nella persona dello stesso sovrano.
La costituzione concesse all’Ungheria sovranità assoluta nella conduzione degli
affari interni e parità con l’Austria per le decisioni relative alla difesa nazionale e
agli affari esteri. Su questa base, l’8 giugno 1867 l’imperatore Francesco Giuseppe
fu incoronato re d’Ungheria nell’ambito del neocostituito impero austroungarico.
La I Guerra mondiale e la repubblica
Nei decenni seguenti, l’Ungheria rafforzò la propria coesione, lasciando tuttavia
irrisolto il problema, gravissimo, delle minoranze. Allo scoppiare della prima guerra
mondiale, i leader politici ungheresi appoggiarono l’Austria, temendo che la vittoria
russa avrebbe causato la defezione delle minoranze slave e, con essa, lo
smembramento del paese. Tra la leadership magiara vi fu tuttavia anche chi si
oppose strenuamente alla guerra, temendo la crescente potenza della Germania. La
difficile situazione determinata dal conflitto si aggravò in seguito alla scomparsa di
Francesco Giuseppe (novembre 1916), quando venne meno uno degli ultimi legami
tra Austria e Ungheria.
Caduta la monarchia austroungarica alla fine del conflitto, il 16 novembre 1918 il
Consiglio nazionale ungherese proclamò la repubblica, con Mihály Károlyi alla
presidenza. Il dopoguerra fu caratterizzato da profonde tensioni sociali e politiche.
In un breve arco di tempo l’Ungheria vide due rivoluzioni, l’occupazione straniera
di ampie parti del territorio e, infine, una violenta controrivoluzione. Alla
rivoluzione democratica di Károlyi, nel 1919 seguì infatti quella comunista di Béla
Kun, che a giugno proclamò l’effimera repubblica dei soviet. Invasa dai cechi a
nord e dai rumeni a sud, la repubblica sovietica crollò infatti il 1° di agosto; tre
giorni dopo Budapest fu occupata dai romeni.
Sotto la supervisione alleata, fu formato un governo provvisorio guidato da Miklós
Horthy de Nagybánya, protagonista della controrivoluzione. Nel marzo 1920,
l’Assemblea generale, eletta dopo una severa rappresaglia contro i movimenti
liberali e di sinistra, ripristinò la monarchia sotto la reggenza di Horthy, che governò
con poteri dittatoriali per oltre due decenni. Il 4 giugno l’Ungheria firmò il trattato
del Trianon, con il quale veniva privata della Transilvania, della Croazia e della
Slovacchia.
Durante l’ufficio di primo ministro (1921-1931) di István Bethlen, le difficoltà
economiche e le umilianti condizioni di pace favorirono la ripresa di un movimento
nazionalista di stampo radicale. Con la nomina a premier di Gyula von Gömbös
(1932-35), l’Ungheria si lanciò in una politica estera aggressiva nei confronti dei
paesi vicini, manifestando una forte simpatia per i regimi totalitari dell’Italia
fascista e della Germania nazista. Sotto il governo di Gömbös crebbero movimenti
revanscisti e antisemiti, tra cui quello delle Croci frecciate di Ferenc Szálasi.
La collaborazione con la Germania fruttò, nella spartizione della Cecoslovacchia,
l’assegnazione all’Ungheria di Slovacchia e Rutenia. Ritiratasi dalla Lega delle
Nazioni nel gennaio 1939, l’Ungheria sottoscrisse con Germania, Italia e Giappone
il patto Anticomintern.
La II Guerra mondiale
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, il governo ungherese proclamò la
propria neutralità, ma di fatto condivise i progetti dell’Asse. Nel 1940 Italia e
Germania riconobbero i diritti dell’Ungheria sulla Transilvania e, nell’aprile
dell’anno successivo, il regime ungherese approfittò dell’attacco tedesco alla
Iugoslavia per riappropriarsi dei territori persi con il trattato del Trianon.
Tra il giugno e il dicembre del 1941 l’Ungheria dichiarò guerra prima all’Unione
Sovietica e poi agli Stati Uniti. Costretta a subire pesanti perdite sul fronte
sovietico, nel 1943 tentò invano di trattare con gli Alleati una pace separata.
Nel marzo 1944 il paese fu invaso dalle truppe naziste con il consenso di Horthy,
che venne in seguito costretto alle dimissioni e sostituito dal capo delle Croci
frecciate Ferenc Szálasi; questi avviò una campagna di terrore contro gli oppositori
e collaborò con le forze naziste nella deportazione degli ebrei.
Nell’aprile del 1945 l’Ungheria fu liberata dai sovietici; dopo la firma
dell’armistizio con le forze alleate, fu istituito un governo provvisorio sottoposto al
controllo delle autorità militari sovietiche. Alle elezioni dell’Assemblea nazionale la
maggioranza relativa venne tuttavia conquistata dal Partito dei piccoli proprietari e
dei contadini di Zoltán Tildy, che fu eletto presidente. Proclamata la repubblica, fu
formato un gabinetto di coalizione guidato da Ferenc Nagy; Mátyás Rákosi, capo
dei comunisti, assunse la carica di vicepremier.
Il regime comunista
I primi mesi della nuova repubblica furono dominati dai gravissimi problemi della
ricostruzione. Nel gennaio del 1947 una cospirazione si abbatté sul Partito dei
piccoli proprietari e alcuni dei suoi leader, accusati di cospirare contro la repubblica,
vennero arrestati.
A Nagy, costretto alle dimissioni, succedette il compagno di partito Lajos Dinnyés
che, sottoposto a forti pressioni, sciolse il Parlamento e indisse nuove elezioni. Il
risultato dei comunisti fu inferiore alle aspettative (22%); essi dominarono tuttavia
la coalizione di governo formata da Dinnyés, eliminando man mano tutte le forze
dell’opposizione.
Epurato dei suoi leader più indipendenti, nel 1948 il Partito socialdemocratico si unì
al Partito comunista per dar vita al Partito ungherese dei lavoratori. Alla ormai
scontata affermazione comunista alle elezioni del maggio 1949 fece seguito
l’adozione da parte della nuova assemblea di una Costituzione che istituiva la
Repubblica popolare ungherese.
Negli anni successivi il regime avviò un ampio processo di trasformazione
economica e sociale in senso comunista. Furono stipulati trattati di amicizia e
cooperazione con l’Unione Sovietica e gli altri paesi comunisti; le scuole religiose
furono nazionalizzate e molti membri del clero furono arrestati. Numerose industrie
furono nazionalizzate, mentre ai contadini restii a integrarsi nel sistema delle
cooperative vennero confiscate le terre; migliaia di oppositori politici furono inviati
nei campi di lavoro.
La morte di Stalin nel 1953 determinò forti cambiamenti nel sistema politico
ungherese. Preoccupata per la critica situazione del paese, Mosca favorì infatti
l’ascesa di una leadership riformatrice. Rákosi, primo ministro dal 1952, mantenne
la guida del Partito comunista ma venne costretto ad abbandonare quella del
governo, che fu assunta da Imre Nagy. Fu stabilito un programma economico più
flessibile, mentre il governo concesse un’amnistia e abolì i campi di lavoro. Nel
1955 l’Ungheria si unì con altri paesi comunisti nel patto di Varsavia.
Il cauto processo di liberalizzazione subì una brusca interruzione nell’aprile del
1955, quando Nagy fu destituito dall’incarico di premier ed espulso dal partito con
accuse pretestuose. A beneficiare del ripensamento di Mosca fu Rákosi, che riprese
in mano il controllo del governo. Tuttavia, la condanna dello stalinismo pronunciata
dal leader sovietico Nikita Sergeevič Kruscev nel 1956 tornò a favorire le posizioni
riformiste all’interno del Partito comunista ungherese.
La rivoluzione del 1956
Anche a causa del clima di incertezza creatosi all’interno del blocco sovietico in
seguito alla sfida mossa dalla Polonia all’egemonia di Mosca (vedi Polonia: Il
socialismo nazionale di Gomułka), opposizione politica e malcontento popolare
trovarono spazi di espressione mai avuti prima.
Nel luglio del 1956 Rákosi venne nuovamente costretto ad abbandonare il governo.
Un crescendo di manifestazioni studentesche e operaie espresse appoggio ai
lavoratori polacchi di Poznań. Il 23 ottobre un’imponente manifestazione attraversò
le strade di Budapest, chiedendo il ritorno di Nagy alla guida del paese: ebbe così
inizio la rivoluzione ungherese (o, nella vulgata di regime, i “fatti d’Ungheria”),
destinata a consumarsi in pochi giorni in un crescendo di tensione e violenza.
Il governo comunista, ormai incapace di controllare la situazione, chiese
l’intervento delle truppe sovietiche, disintegrandosi subito dopo. Il 28 ottobre Nagy
assunse la guida del governo, mentre János Kádár, un nazionalista già imprigionato
per le sue critiche al regime, assumeva quella del partito, ribattezzato il 1°
novembre con il nome di Partito socialista operaio ungherese.
Il 4 novembre, fallito ogni tentativo di mediazione, le truppe sovietiche entrarono a
Budapest, reprimendo nel sangue la rivolta. L’intervento armato sovietico provocò
migliaia di morti e una fuga di circa 200.000 persone dal paese. Imre Nagy, rapito e
portato in Romania, fu condannato a morte e giustiziato nel 1958 dopo un processo
a porte chiuse.
Confermato premier e capo del Partito dei lavoratori socialisti ungheresi (PSOU),
Kádár compì in breve tempo la restaurazione dell’ordine sovietico. Per due anni,
fino al 1958, attuò una severa repressione: diverse centinaia di rivoltosi vennero
giustiziati o deportati in Unione Sovietica e migliaia furono gli arresti eseguiti dalla
polizia politica.
Negli anni seguenti, grazie anche al sostegno dell’Unione Sovietica, l’Ungheria
visse un periodo di forte sviluppo economico. Dagli inizi degli anni Sessanta Kádár
ammorbidì la dittatura, perseguendo una politica di pacificazione rivolta a
conquistare al regime il consenso della popolazione ungherese.
Verso la metà degli anni Sessanta l’Ungheria ripristinò ed estese gli scambi
commerciali e culturali con i paesi non comunisti. La rete di rapporti così creata
favorì lo sviluppo economico del paese, determinando anche una certa apertura del
sistema politico. L’Ungheria restò tuttavia sotto la diretta influenza di Mosca, al cui
fianco nel 1968 partecipò all’invasione della Cecoslovacchia (vedi Primavera di
Praga).
A partire dalla metà degli anni Settanta, l’Ungheria, sebbene in misura inferiore agli
altri paesi comunisti, venne colpita da una seria crisi economica, che di lì a pochi
anni si sarebbe rivelata fatale. Le pesanti ripercussioni dell’inflazione sul livello di
vita della popolazione resero Kádár oggetto di critiche sempre più manifeste e
alimentarono la richiesta di riforme liberali in favore della libertà di espressione.
Agli inizi degli anni Ottanta l’Ungheria fu tra i paesi comunisti quello più
influenzato e interessato dagli avvenimenti che in Polonia videro l’affermarsi del
sindacato Solidarność.
La democrazia
Il nuovo segretario del partito Károly Grósz, subentrato a Kádár nel 1988, avviò un
severo programma di risanamento economico (introduzione di nuove imposte,
drastico taglio dei sussidi statali, incoraggiamento dell’iniziativa privata),
accompagnandolo con un processo di liberalizzazione politica (riduzione della
censura, libertà di formazione di gruppi politici indipendenti, legalizzazione del
diritto di sciopero).
Nel 1989 l’Ungheria riabilitò Imre Nagy e le vittime del 1956. Nello stesso anno il
paese archiviò senza alcuna violenza, né rimpianti, il suo passato comunista; fu
reintrodotto il multipartitismo e il paese cambiò il suo nome in Repubblica
d’Ungheria.
Nell’aprile del 1990 una coalizione di centro-destra (il Forum democratico
ungherese) vinse le prime elezioni libere dopo 45 anni. Al vertice dello stato venne
eletto un intellettuale, Arpád Göncz. Nello stesso anno l’Ungheria fu la prima
nazione europea del Blocco orientale a unirsi al Consiglio d’Europa e tra il 1991 e il
1992 il governo siglò accordi di cooperazione con altri paesi dell’ex blocco
orientale.
Nell’aprile del 1994 il paese fece richiesta di adesione all’Unione Europea. A
maggio le elezioni legislative videro il trionfo del Partito socialista, nato dalla
trasformazione dell’ex partito unico. Il suo leader Gyula Horn, divenuto primo
ministro, nell’intento di ridurre il pesantissimo debito estero introdusse rigorosi
tagli al bilancio dello stato e una riforma intesa a rilanciare il programma di
privatizzazione. Membro dal 1994 del programma Partnership for Peace, nel 1997 il
paese venne ammesso, con Polonia e Repubblica Ceca, al primo gruppo di
allargamento della NATO, in cui entrò ufficialmente nel 1999.
Nelle elezioni del 1998 il Partito socialista conservò la maggioranza dei voti, ma a
ottenere più seggi fu l’Alleanza dei giovani liberali (FIDESZ), il maggior partito
dell’area conservatrice; il suo leader Viktor Orbán costituì un governo di coalizione
con il Partito dei piccoli proprietari e agrari (FKgP) e con il Forum democratico.
Il nuovo governo confermò, rafforzandola, la politica di liberalizzazione economica,
che diede buoni frutti anche grazie alla favorevole congiuntura internazionale.
Tuttavia, per un buon terzo della popolazione ungherese colpito dalla
disoccupazione e dalla crescente povertà, gli effetti della ristrutturazione economica
si rivelarono drammatici; la crisi economica e sociale vissuta dalle fasce popolari
ebbe un inquietante risvolto statistico, segnato da un sensibile aumento del tasso di
mortalità e da un drastico calo delle nascite.
Nell’agosto del 2000 il giurista Ferenc Mádl succedette ad Arpád Göncz alla carica
di presidente della Repubblica. Nello stesso anno alcuni scandali investirono il
governo conservatore, senza tuttavia minarne la stabilità.
La vita politica del paese proseguì in un clima di accesa polemica, provocato dalle
tendenze accentratrici e autoritarie del premier Orbán. Nel giugno 2001 il
Parlamento ungherese approvò un provvedimento a favore delle minoranze magiare
all’estero che suscitò una certa tensione soprattutto con la Slovacchia e la
Repubblica Ceca, ma anche la contrarietà dell’Unione Europea. L’ultimo anno di
mandato di Orbán fu caratterizzato da un aspro scontro ideologico tra i partiti di
opposizione e la maggioranza di governo, la quale, nel tentativo di scongiurare una
nuova affermazione socialista, compì una manovra di avvicinamento all’estrema
destra nazionalista e filomonarchica.
Le elezioni legislative di aprile 2002 registrarono una sconfitta di misura della
coalizione del premier uscente Orbán, che, con il 41,1% dei suffragi, conquistò 188
dei 386 seggi dell’Assemblea nazionale. Ottenendo il 42,1% e 178 seggi, grazie
all’accordo con l’Alleanza dei liberi democratici (5,5% dei suffragi e 20 seggi) il
Partito socialista riconquistò la guida del governo ungherese, affidandola a Péter
Medgyessy. Non entrarono nel nuovo Parlamento né il Partito ungherese della
giustizia e della vita, nazionalista e xenofobo (4,4%), né il Partito dei piccoli
proprietari, che subì un clamoroso crollo (0,8%).
Un aspro scontro ideologico continuò a turbare il clima politico ungherese,
alimentato dalla scelta del governo di sostenere nel 2003 l’offensiva degli Stati
Uniti contro l’Iraq, ma anche dal rafforzamento, all’interno della destra, di forze
ultranazionaliste e apertamente antisemite.
Il 1° maggio del 2004 l’Ungheria entrò ufficialmente nell’Unione Europea. A
settembre, il primo ministro socialista Péter Medgyessy lasciò l’incarico al
compagno di partito Ferenc Gyurcsány.
Sviluppi recenti
Nel giugno 2005 il Parlamento elegge Laszlo Solyom, sostenuto dalle opposizioni,
alla presidenza del paese. A dicembre il Parlamento ratifica la Costituzione europea.
Le elezioni legislative dell’aprile 2006 confermano alla guida del governo la
coalizione di centrosinistra tra il Partito socialista e l’Alleanza dei liberi
democratici, che ottengono rispettivamente il 43% e il 6,5% dei suffragi (190 e 20
seggi). L’Alleanza dei giovani liberali FIDESZ-Partito civico ungherese, il
principale partito di opposizione, conquista il 42% dei voti e 164 seggi, mentre il
Forum democratico ungherese, con il 5% dei voti, ottiene 11 seggi.
Superficie: 93.030 Km²
Abitanti: 10.096.000 (1/1/2005)
Densità: 109 ab/Km²
Forma di governo: Repubblica parlamentare
Capitale: Budapest (1.695.000 ab., 2.100.000 aggl. urbano)
Altre città: Debrecen 205.900 ab., Miskolc 180.300 ab., Seghedino 162.900 ab., Pécs
158.900 ab.
Gruppi etnici: Magiari 93%, Rom 2%, Tedeschi 0,5%, altri 4,5%
Paesi confinanti: Slovacchia a NORD, Austria e Slovenia ad OVEST, Croazia e Serbia a
SUD, Romania e Ucraina ad EST
Monti principali: Kékes 1015 m
Fiumi principali: Tibisco 579 Km (tratto ungherese, totale 966 Km), Danubio 420 Km
(tratto ungherese, totale 2858 Km)
Laghi principali: Balaton 592 Km²
Isole principali: Csepel (sul Danubio) 257 Km²
Clima: Continentale
Lingua: Ungherese
Religione: Cattolica 54,5%, Protestante 19,5%, altro 26%
Moneta: Fiorino (Forint) ungherese
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