Cilindri e feluche La politica estera dell`Italia dopo l

Giancarlo Giordano
Cilindri e feluche
La politica estera dell’Italia dopo l’Unità
ARACNE
Copyright © MMVIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–1733–3
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: maggio 2008
Per il piccolo Michele
Mio amatissimo nipote
Indice
Prefazione ....................................................................................
9
PARTE PRIMA
La politica estera nell’età della Destra (1861–1876)
Capitolo 1 L’esordio: (1861–1869) ............................................
17
Capitolo 2 Neutrali ma non isolati: (1870–1886) .......................
115
PARTE SECONDA
La sinistra al potere (1876–1896)
Capitolo 1 Dalla neutralità alla Triplice (1876–1882) ................
177
Capitolo 2 Voglia di riscatto, sogni di grandezza: (1883–1896) .... 247
PARTE TERZA
Ritorno alla normalità (1896–1901)
Capitolo 1 La politica estera di raccoglimento (1896–1901) ......
7
351
8
Indice
Indice dei nomi .......................................................................... 393
Indice degli autori ...................................................................... 413
Prefazione
Ho scritto questo libro con l’ambizione di colmare un vuoto storiografico offrendo ai lettori, in particolare agli studenti di storia ai quali
insegno, un lavoro che ricostruisse, fin quasi nei dettagli, la trama
complessa della politica estera del nostro paese dall’Unità agli albori
del ventesimo secolo. L’ho fatto avvalendomi soprattutto dei documenti diplomatici italiani, il cui spoglio sistematico mi ha permesso
una migliore valutazione dei fatti esposti. Per quel che ne so, non esiste qualcosa di simile; opere che hanno affrontato aspetti particolari
della politica estera italiana di quel periodo se ne contano a non finire;
così come i contributi inseriti in volumi di storia generale. Ho evidentemente cercato di fare una cosa diversa.
Il quarantennio che va dalla proclamazione ufficiale del Regno
d’Italia, il 17 marzo 1861, all’ascesa al trono di Vittorio Emanuele III
in seguito alla morte del padre, Umberto I, assassinato a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci, coincide con il processo di costruzione dello
Stato–nazione Italia. È anche l’età nella quale viene elaborata, tra scelte spesso controverse, l’immagine della politica estera nazionale.
Per comodità di esposizione ho diviso questo periodo in tre sezioni:
la prima (1861–1876), la seconda (1876–1896) e la terza (1896–
1901). Durante questo arco di tempo il paese conobbe, pur tra alterne
fortune, un notevole sviluppo; all’interno furono consolidate le istituzioni, per metterle al riparo dalle mai del tutto sopite pressioni di matrice repubblicana, divenute più forti dopo la fine del secondo impero
e l’avvento della terza repubblica in Francia; dalle istanze federaliste
di origine risorgimentale e dagli intrighi di stampo secessionista messi
in opera dagli avversari dell’Unità, cui si dovette affiancare la guerra
contro il brigantaggio meridionale. Verso l’esterno, condizionata in
parte da queste questioni, la politica italiana dovette affrontare innanzi
9
10
Prefazione
tutto il problema della legittimazione del Regno nato da poco, la cui
comparsa nell’arena internazionale aveva turbato l’Europa, spaccandola tra chi aveva visto con favore l’Italia tornata una e quanti, pochi
fortunatamente, avevano mal digerito la novità.
Superato il difficile esordio, acquisito l’ingresso a pieno titolo nella
comunità degli Stati, con il rango, ancorché contestato da molti, di
grande potenza, la politica estera della monarchia si volgeva ai grandi
temi postunitari: il completamento del processo di unificazione, vale a
dire la conquista di Venezia e di Roma, ma non di Trieste e del Trentino, sull’aspirazione alle quali toccò mettere la sordina, e il collocamento del paese nel concerto europeo con un ruolo ben definito.
Spettò alla Destra, nel primo quindicennio di vita della nuova compagine statuale, il compito di governare, dovendo affrontare tali e tante difficoltà da far tremare i polsi. Basti ricordare il pesante, minaccioso deficit di bilancio che condizionava il decollo del paese, che aveva
invece bisogno d’infrastrutture per avviarsi sulla via della modernizzazione; l’urgenza di dotare lo Stato di un’amministrazione competente;
l’unificazione legislativa; senza dimenticare la riorganizzazione delle
forze armate, strumento necessario per avere un’influenza non secondaria in campo internazionale.
Proprio la politica estera nella prima fase che va, come detto, dal
1861 al 1876, è stata la prova migliore degli uomini della Destra. Essi
riuscirono a completare l’unità; nel 1866, pur attraverso una guerra
sfortunata, Venezia fu ricongiunta all’Italia. Nel 1870 fu la volta di
Roma, che divenne la capitale del Regno. Fu abbattuto il potere temporale dei Papi e varata la legge delle Guarentigie che regolò i rapporti
tra Stato e Chiesa in maniera tale da tranquillizzare i cattolici sparsi
nel mondo, preoccupati per le sorti del papato. Furono successi straordinari, eccezionali, di cui quegli uomini poterono a buon diritto andare
orgogliosi.
Non si esaurì tutta qui, ovviamente, la politica estera della Destra.
Se nei primi anni l’attenzione dei governi fu certamente assorbita dalle
irrisolte questioni territoriali, una volta raggiunto tale obiettivo e rotta
la sudditanza alla Francia con la presa di Roma, il confronto fu con
una situazione nuova, ardua perché, finito l’allineamento con Parigi,
seguì un periodo d’insicurezza, alimentato dalle conseguenze di Porta
Pia e dallo scontro con il Vaticano, su cui soffiavano gli avversari del
Prefazione
11
giovane Regno, un momento che se mal gestito avrebbe potuto provocare danni enormi all’immagine e alle fortune del paese. Fu buona sorte che alla testa della diplomazia italiana vi fosse chi, il marchese Emilio Visconti Venosta, autore e fedele al motto “indipendenti sempre,
isolati mai”, seppe guidare l’azione internazionale con calma, prudenza e pazienza evitando rotture, ma anche abbracci pericolosi.
Terminata nel marzo 1876 l’avventura della Destra, il cui ultimo
Ministero fu abbattuto da un agguato parlamentare, iniziava la seconda fase, quella che va dal 1876 al 1896. Sono gli anni dell’amarezza,
delle cocenti delusioni, dell’isolamento, temuto e in parte reale, della
faticosa risalita e della drammatica caduta ad Adua. Si cominciò con il
Congresso di Berlino, voluto da Bismarck nel 1878, da dove gli italiani tornarono, come si disse, con le “mani nette… ma vuote”. Fu un’esperienza vissuta drammaticamente dalla classe dirigente al potere,
che temette l’emarginazione politica e diplomatica proprio nel momento in cui si andava edificando in Europa il sistema bismarckiano e
prendeva avvio la parabola imperialistica che avrebbe portato alla
spartizione dell’Africa.
In Africa si recitò il melodramma che traumatizzò, per molti anni,
gli italiani: la perdita della Tunisia per opera della Francia. Ciò accadde non già per carenza di azione diplomatica degli uomini ad essa preposti, piuttosto per l’inadeguata impostazione della politica estera italiana tra il 1876 e il 1881 che non venne messa in grado di confrontarsi con le eccezionali spinte espansive messe in atto dagli altri attori europei.
La disavventura tunisina spalancò le porte ad un cambiamento di
rotta della politica estera italiana. Dopo dieci anni di “raccoglimento
nella libertà dagli impegni”, si passava al “raccoglimento garantito da
alleanze”. L’Italia di Depretis e di Mancini decideva di stipulare un
patto di alleanza difensivo con la Germania e l’Austria–Ungheria in
funzione antifrancese, entrando in un sistema preesistente e già fortemente strutturato.
Garantita con la Triplice alleanza la sicurezza del paese, Depretis e
Mancini avviarono una politica di partecipazione alla conquista coloniale in Africa. Fu un momento costruttivo dell’azione estera dell’Italia che s’inseriva con felice intuito, anche se non sempre con coerenza
d’intenti, nel periodo internazionale particolarmente attivo nella gara
12
Prefazione
espansionista. Il punto più alto di tale positiva congiuntura fu raggiunto nel 1887, dunque a metà di questo tormentato ventennio, quando di Robilant, allora ministro degli Esteri, riuscì a concludere due importanti negoziati paralleli; i primi accordi mediterranei con l’Inghilterra e il primo rinnovo della Triplice, nettamente più favorevole rispetto a quella del 1882, giacché assicurava all’Italia la garanzia dello
status quo nella penisola balcanica e nell’Africa settentrionale, dopo
che nel 1885 si era insediata nel Mar Rosso.
Il “sistema di Robilant”, poneva l’Italia al centro di una complessa
struttura diplomatico–politica, di stampo conservativo e difensivo mediterraneo in funzione antirussa (scambio di note tra Roma e Londra,
cui aveva aderito Vienna) e antifrancese (nuova Triplice e intesa italo–
spagnola del 4 maggio 1887).
Era, questo “sistema”, uno dei più perfetti ed intelligenti meccanismi politici dell’età dell’imperialismo; era il primo esperimento d’inserimento dell’Italia in un quadro internazionale alla cui costruzione
aveva attivamente partecipato. Di Robilant aveva beneficiato di una
congiuntura favorevole; la sua abilità fu di trattare con gli inglesi, i tedeschi, gli austro–ungheresi e gli spagnoli con grande misura, senza
soggezione né superbia, adeguando il linguaggio al reale peso del paese, una potenza di rango certamente, quantunque non di primissimo.
L’edificio eretto con intelligenza da Robilant venne in gran parte
demolito da Francesco Crispi che governò il paese tra il 1887 e il
1896. Egli modificò la Triplice da alleanza difensiva a strumento di
politica attiva, sottoscrivendo con la Germania una convenzione militare che impegnava l’Italia ad inviare sul Reno, a disposizione del comando supremo tedesco, sei corpi d’armata e tre divisioni di cavalleria. Veniva in questo modo impressa all’alleanza una chiara valenza
antifrancese, destinata ad inasprire i rapporti, già molto tesi, tra Roma
e Parigi.
Crispi cercò anche di coinvolgere l’alleanza nella sua politica interventista in Africa orientale, ma fallì; come non andò a buon fine il
tentativo di estendere la Triplice mediterranea del 1887 al Mediterraneo centrale ed occidentale. Il Gabinetto inglese non ne volle sapere,
preoccupato dal riavvicinamento della Russia alla Francia e dalla rivalità con la Germania. Questi due fatti portarono all’abbandono della
politica di fiancheggiamento alla Triplice alleanza, tramite l’Italia, se-
Prefazione
13
guita fino allora dalla Gran Bretagna, determinando l’affossamento
del “sistema di Robilant”.
La politica di Crispi, volta a realizzare un’attiva alleanza tra Roma
e Berlino a sostegno della sua politica africana, manovra cui la cancelleria germanica si sottrasse con decisione, naufragò a Adua nel 1896.
La sconfitta in Africa segnò la fine della carriera pubblica dell’anziano
uomo politico siciliano e con essa la conclusione della seconda fase
iniziata vent’anni prima.
Sull’onda emotiva della tragedia africana iniziava il terzo ciclo della periodizzazione che ho indicato all’inizio e che copre gli anni 1896–
1901. Iniziava con un processo di revisione della politica estera, africana in particolare, coloniale in generale. Interprete di questo riesame
fu Visconti Venosta che, tranne le parentesi Caetani di Sermoneta, che
fu ministro degli Esteri tra il marzo e il luglio 1896, e dell’ammiraglio
Canevaro che ricoprì la carica tra la seconda metà del 1898 e i primi
mesi del 1899, rimase a capo della diplomazia italiana fino al 1901.
Il compito più importante, delicato anche per le implicazioni tutte
interne al paese, era la liquidazione della politica africana di Crispi;
ma urgeva anche chiarire i rapporti con la Francia, giunti ormai ad una
svolta critica e rivedere l’alleanza con gli imperi centrali, rivelatasi
uno strumento inefficace per la soluzione dei problemi mediterranei
dell’Italia. Visconti Venosta non intendeva certo denunciare la Triplice, ma riteneva che il suo compito si fosse in gran parte esaurito e che
avesse iniziato l’ultimo tratto della sua esistenza. Da ciò l’improrogabilità di risolvere i contrasti con la Francia, una scelta imposta anche
dalla situazione internazionale che si andava nettamente configurando
come divisa in due campi contrapposti.
Visconti Venosta era da sempre un filofrancese; non aveva mai digerito del tutto l’alleanza con le due corti del nord; aveva sempre sostenuto di non credere fosse una buona politica per un paese porsi nella condizione di dipendere per la sua sicurezza da un solo alleato, rimettere il proprio destino nelle mani di chi può porgerle o ritirarle a
suo arbitrio. Era la base concettuale della politica di raccoglimento,
del “colpo di timone”, come si disse allora, impresso alla politica estera italiana.
Quelli tra il 1896 e il 1901 furono infatti, dopo gli sfoggi roboanti
del crispismo, anni di silenzioso lavorio per sgombrare il campo dalle
14
Prefazione
questioni di maggiore gravità onde consentire all’Italia di riprendere
quel ruolo equilibratore in Europa, il solo che convenisse alle sue fortune. Visconti Venosta cominciò con il liquidare la questione tunisina,
rinunciando a ciò che non si poteva conservare, ma ottenendo in cambio un pacchetto di garanzie per gli italiani colà stabiliti che salvava
molti dei loro privilegi. Poi fu la volta del trattato commerciale che
chiudeva la lunga guerra doganale con la vicina repubblica che tanti
guasti aveva procurato all’economia italiana, meridionale soprattutto.
Infine, due accordi politici molto importanti. Quello italo–francese per
l’Africa settentrionale che in prospettiva apriva per l’Italia la strada
verso la conquista della Tripolitania–Cirenaica, contro la concessione
alla Francia della mano libera in Marocco. Il secondo fu l’intesa con
l’Austria–Ungheria per l’Albania.
Tutti questi atti avrebbero costituito, per i tre lustri seguenti, fino
alla crisi del luglio 1914, le linee guida della politica estera italiana.
PARTE PRIMA
La politica estera nell’età della Destra (1861–1876)
15
16
PARTE PRIMA
– La politica estera nell’età della Destra (1861–1876)
Capitolo 1
L’esordio: 1861–1869
È una gran miseria in un paese costituzionale
quando il Monarca con i suoi cortigiani vuol
fare della politica, mentre non vi può essere
che quella del Governo e della Nazione legale!
Ricasoli a d’Azeglio, 16 dicembre 1861
Il 6 giugno 1861, alle sette di mattina, moriva il conte di Cavour
dopo una breve quanto inattesa malattia1. Aveva lavorato fino al giorno prima al problema del riconoscimento da parte delle potenze, della
Francia soprattutto, del Regno d’Italia e a fornire chiarimenti ai governi d’Austria e Spagna che s’erano risentiti per il discorso in cui aveva proclamato Roma capitale d’Italia, presentando una nota collettiva di protesta2. Questi due problemi, soprattutto il primo, avevano angustiato gli ultimi giorni del presidente del Consiglio e ministro degli
Affari Esteri, il quale sapeva benissimo quanto un riconoscimento, rapido e molto ampio avrebbe giovato al nuovo Stato e rafforzato la recente unificazione. Alcuni Stati, Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti vi
avevano proceduto subito altri, e la Francia tra questi, indugiavano.
Napoleone III, che aveva rotto le relazioni diplomatiche con Torino
1
Lo annunciava ufficialmente il ministro dell’Interno, reggente gli Affari Esteri, Minghetti, il 6 giugno stesso, al conte Vimercati, addetto militare a Parigi. Cfr. Documenti Diplomatici Italiani, (d’ora in avanti DDI), Iª serie 1861–1870, vol. I, doc. 122. La morte del conte fu
dovuta ad una forma di malaria contratta, pare, nelle risaie delle sue tenute di Leri.
2
Ivi, doc. 115.
17
18
PARTE PRIMA
– La politica estera nell’età della Destra (1861–1876)
dopo l’invasione dell’Umbria e delle Marche, lo condizionava a tutta
una serie di questioni, tra le quali, molto importante, se non addirittura
determinante, una conciliazione tra lo Stato italiano e il pontefice.
Quanto a Roma, Cavour si era dovuto barcamenare tra la promessa di
non attaccare la città, fatta all’imperatore francese per ottenere da lui il
riconoscimento del Regno d’Italia, e le agitazioni delle organizzazioni
democratiche, alcune ispirate a Mazzini, altre a Garibaldi che volevano passare senza altri indugi all’azione e portare a termine il processo
unitario.
Alla sua morte, Cavour consegnava ai successori istituzioni liberali
sostanzialmente sane, quantunque imperfette; non lasciava, però, eredi
della sua statura. Forse fu una lacuna non avere addestrato degli epigoni che sapessero gestire una tecnica di governo tanto spregiudicata,
e avveduta nello stesso tempo, come la sua, ma certo costò questa
mancanza di una classe politica all’altezza delle sfide che stavano davanti al giovane Regno, tra le quali quella, molto delicata, di delineare
una politica estera, costruttiva per gli interessi del paese, credibile per
tranquillizzare un’Europa che aveva seguito, con apprensione per la
pace generale, e malcelata ostilità, salvo poche eccezioni, l’avventura
del Piemonte.
La scomparsa prematura dell’ancor giovane e dinamico presidente
del Consiglio, lasciando incompiuto il processo unitario, apriva una
stagione assai difficile. Erano rimaste fuori della compagine statale
Roma e Venezia, e questo fatto avrebbe condizionato per i successivi
nove anni la politica, sia interna sia estera, del Regno sorto da poco.
La via comunque era tracciata: mettere a punto le condizioni indispensabili perché il completamento dell’unità d’Italia si inserisse nella politica generale dell’Europa.
Il primo successore del conte di Cavour fu il barone Bettino Ricasoli, un toscano proprietario terriero, cattolico osservante e conservatore, che si era messo in luce nel 1859–60, quando aveva ben orchestrato il plebiscito per l’annessione della Toscana al Piemonte3. Digiuno, o quasi, di politica e d’intrighi ministeriali, era stato scelto per
3
Sulle annessioni e i plebisciti in Emilia, Romagna, Toscana e nel Mezzogiorno rimando
all’ampia nota bibliografica che si trova nel vol. IV della Storia d’Italia coordinata da Nino
Valeri, edita a Torino nel 1965, pp. 191–200. Si può consultare anche la bibliografia del vol.
IV della Storia dell’Italia moderna di Giorgio Candeloro, Milano 19778..