EroSofia
Counseling Filosofico e sessualità
Claudio Viganò
2015
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ISFIPP Saggi
La collana ISFIPP saggi vuole raccogliere i più significativi contributi nei campi
della filosofia, della psicologia, della psichiatria, e in particolare nella loro sottile
interconnessione, in un comune territorio di indagine, quale l’uomo e gli aspetti
della sua esistenza.
L’ Istituto Superiore di ricerca e formazione in Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP si propone come punto di incontro tra Filosofia, Psicologia e Psichiatria.
Dall’ apparente loro distinzione formale, l’intento dell’Istituto è quello di cogliere
i rapporti, le connessioni e le reciproche influenze tra queste tre aree del sapere,
sul presupposto di una loro sinergia e condivisione di scopi.
Istituto Superiore di ricerca e formazione in Filosofia, Psicologia, Psichiatria
ISFiPP
Corso Fiume 16 – 10133 Torino tel. 0116606126
www.isfipp.org
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Indice
1. Introduzione e progetto
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2. Erosofia: verso una relazione di aiuto pratica e fenomenologico-esistenziale
dei problemi esistenziali correlati ai disturbi sessuali
2.1 Prolegomeni a una fenomenologia della sessualità
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2.2 Sul concetto di sessualità. Sua polisemia
21
2.3 Dalla concretezza dei dati …
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2.4 … all’universalità filosofica dei messaggi
29
2.5 Filosofia vs sessualità?
33
2.6Il punto di vista psicoanalitico. Cenni
40
2.7Il punto di vista cognitivo-comportamentale. Cenni
44
2.8Cenni di terapia mansionale integrata sessuologica
60
2.9 Perché il counselor filosofico non è un sessuologo clinico né un
consulente sessuale?
64
3. Erosofia: applicazione delle basi filosofiche al problema concreto
3.1 Davide ovvero questione di credenze e di cura di sé
68
3.2 Antonia ovvero la volontà di vivere pienamente la propria esistenza
81
3.3 Marco ovvero la paura del fallimento del proprio progetto di vita
87
3.4 Valentina ovvero il desiderio di un rinnovato progetto esistenziale
104
4. Conclusione
117
5. Bibliografia
122
5
1. Introduzione e progetto
Il counseling filosofico a orientamento fenomenologico-esistenziale può essere
sinteticamente definito come una relazione di aiuto che, servendosi della filosofia
fenomenologico-esistenziale, supporta l’individuo nel proprio percorso di ricerca
interiore e nella soluzione di problemi esistenziali. In una relazione di questo tipo il
counselor aiuta il consultante ad analizzare la struttura della propria esistenza
individuale e della propria visione del mondo (concetti, questi due, appartenenti alla
filosofia fenomenologico-esistenziale), al fine di far fronte a problemi critici della
propria vita, spesso causa di disagio interiore ed angoscia esistenziale. In un contesto
di counseling, la filosofia può aiutare l’individuo a confrontarsi coi propri problemi
personali, mirando a far emergere il senso e il valore di un comportamento e non
tanto il suo perché.
Due sono le anime del counseling filosofico (Nave, 2012) da tenere presente nella
lettura di questo lavoro: la prima afferisce agli strumenti, abilità, tecniche e
atteggiamenti del counseling d’impostazione umanistica (empatia, atteggiamento
incondizionato, ascolto attivo, osservazione autentica, ecc). La professionalità del
counselor trascende una semplice attività di somministrazione di aiuti, consigli o
soluzioni preconfezionate. Il tempo che il counselor dedica al consultante assume
invece la forma di una vera e propria relazione di aiuto, non tecnica ed esperta, ma
semplicemente, nella sua complessità, umana ed esistenziale, che lo mette nella
condizione di sviluppare nuovi processi di esplorazione, chiarificazione e
comprensione del problema riportato al fine di trovare da sé la sua via di uscita e la
sua autentica, personale e potenzialmente risolutiva soluzione alla difficoltà espressa.
Lungi dall’assumere un atteggiamento di tecnico esperto capace di risolvere problemi
specifici della sfera sessuale, il counselor filosofico lavora affinché il consultante
riconosca in modo sempre più chiaro e consapevole: la natura della sua difficoltà
esistenziale ed etica correlata al disturbo specificatamente sessuale; i bisogni e i valori
attinenti alla sua stessa persona; le emozioni, i desideri e le credenze connesse a quella
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situazione problematica; le risorse e le capacità personali in quanto punti di forza su
cui far leva per uscire dal disagio.
La seconda anima del counseling, quella filosofica, va qui considerata da un punto di
vista fenomenologico-esistenziale. La parola chiave su cui fissare l’attenzione è
l’espressione “visione del mondo”, intesa in modo generale come sistema di
coordinate esistenziali grazie cui ciascun individuo, mediante processi di analisi,
organizzazione, percezione, categorizzazione, ecc., conferisce sensi e significati agli
eventi della vita e all’esistenza stessa. Il compito peculiare del counselor filosofico,
che lo differenzia da altri tipi di counseling e soprattutto dalle psicoterapie, sta
proprio nell’andare ad analizzare filosoficamente la visione del mondo del
consultante. Ciò significa che il counselor lavora essenzialmente sulla filosofia
personale della persona richiedente aiuto, cioè su quella rete di concetti, valori,
credenze, giudizi, aspettative, tensioni, emozioni, modi di vivere, teorie
cosmologiche, storiche, estetiche, ecc. che sono per lo più implicite e inconsapevoli al
consultante e che tuttavia lo guidano nel vivere la propria esistenza in questo mondo.
Il punto sta che ciascuno di noi ha una sua filosofia, ma pochi sanno l’influenza che
essa esercita sulle nostre azioni e sui nostri comportamenti: essa è per lo più accolta
passivamente e inconsciamente. Proprio su quest’ultimo punto, il compito del
counselor filosofico è di operare al fine di rendere il consultante consapevole della
sua filosofia personale: nel fare questo ho visto nella distinzione che Husserl compie
tra atteggiamento in presa diretta e atteggiamento in presa riflessa uno strumento
utilissimo. Ho cercato di mostrare, nei casi descritti in questo lavoro, come la
riflessione questionante e quella radicale, elaborate da Husserl, possano essere
efficacemente utilizzate per aiutare il consultante a rendersi consapevole e conscio
delle sue opinioni, credenze, modi di vivere, pregiudizi, idee e valori morali che fino
a quel momento erano per lui abitudinarie e implicite, e che ciononostante guidavano
la propria vita e il suo stare al mondo, i suoi comportamenti e gli stati d’animo che
provava di fronte al problema sessuale. Ho cercato pure di mostrare come non sia
sufficiente rendere conscio l’abitudinario e l’implicito, ma occorra anche rendere
abitudinario e consolidato il conscio che è sortito dagli incontri di counseling
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filosofico tra il counselor e il consultante: una volta riconosciuta la sua filosofia
personale, fonte di disagio esistenziale, il consultante viene aiutato a inserire nella sua
visione del mondo quanto ha costruito nella relazione di aiuto con il counselor e,
mediante esercizi filosofici, impara a rendere consuetudinario il suo nuovo modo di
vedere il mondo, che dovrebbe risultare più consono ad affrontare il problema
riportato. La filosofia individuale delle persone comuni, ma a ben vedere di noi tutti,
è infatti spesso poco pensata, meditata e pensata, per quanto sia vissuta. Gli eventi
della vita, e tra questi anche quelli che afferiscono alla sfera della sessualità, possono
procurare contraddizioni interne alla persona, possono mettere in crisi il sistema
valoriale dell’individuo, possono far sorgere turbamenti esistenziali che impediscono
di vivere un’esistenza serena e rivolta alla ricerca del benessere. Certamente la
filosofia non può fornire strumenti per guarire dai disturbi sessuali e psicosessuali
(alcuni dei quali difficilmente vengono risolti dalla stessa medicina o psicoterapia), ma
può insegnare al consultante a cambiare la propria visione del mondo, il proprio
modo di stare al mondo che prima era fonte di angoscia e di malessere esistenziale.
Ciò è possibile perché il counselor filosofico è consapevole che l’origine della nostra
quiete interiore o del nostro disagio non risiede tanto nelle cose del mondo, quanto
nella visione che ci formiamo degli stessi fatti del mondo mediante le nostre idee,
pensieri, credenze, valori, e via dicendo. Solo agendo sulla visione del mondo del
consultante è possibile cambiare il modo in cui egli reagisce emotivamente agli
ostacoli della vita.
Spendo, in questa breve introduzione, alcune parole sulla distinzione tra counseling
filosofico e psicoterapia. Esistono, a mio modo di vedere, almeno tre livelli su cui
operare questa distinzione. Da un punto di vista antropologico, la concezione di
uomo che il counseling filosofico presuppone non è quella di una macchina che
risponde a certi input (come vuole il comportamentismo) e neppure quella di un
essere prigioniero del suo inconscio (come vuole invece la psicoanalisi). Per il
counseling filosofico l’uomo è sostanzialmente una persona impegnata a creare se
stessa, una persona che crea il significato della sua vita, una persona che incarna una
dimensione di libertà soggettiva.
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Un secondo livello di distinzione concerne il diverso atteggiamento del counselor
filosofico rispetto a quello dello psicologo e dello psicoterapeuta: l’atteggiamento del
primo è filosofico, ossia guidato dalla trascendenza, della ricerca continua e dalla
maieutica, mentre l’atteggiamento dello psicologo è scientifico e mirante a spiegare il
fenomeno considerato (il disturbo sessuale in questo caso specifico) individuandone
le cause che lo hanno determinato. Lo psicoterapeuta utilizza protocolli
rigorosamente riproducibili che riguardano il perché di un certo comportamento, la
manifestazione di un sintomo e la realtà patologica a cui esso rimanda, oltre che le
dinamiche affettive consce e inconsce che possono instaurarsi tra il terapeuta e il
paziente. Si serve di modelli causalistici e usa strumenti diagnostici o test psicologici
.Il counselor filosofico guarda invece il valore che un certo comportamento ha per il
consultante e si sofferma sulle domande che egli pone in merito alla sua esistenza in
relazione al problema manifestato. Tenta infine di elaborare con lui una visione
filosofica e una filosofia personale nuova o rinnovata con cui guardare il disagio
riportato.
Infine, il terzo livello su cui operare tale distinzione potrebbe essere connotato come
metodologico. Servendosi dell’epochè e della riduzione fenomenologica, il counselor
filosofico aiuta a chiarire al consultante come il problema reso si manifesti alla sua
coscienza, con quale evidenza e con quali tipicità. Mediante la riduzione eidetica e la
variazione immaginativa lo supporta a cogliere l’essenza e la struttura della
problematica condivisa. Grazie alla descrizione statica e all’analisi genetica il
consultante impara a distinguere la situazione che sta vivendo da se stesso in quella
situazione; apprende che una difficoltà a lui si dà e che nel suo darsi ha una propria
modalità di manifestazione; riconosce l’origine di questo disagio e se ne appaga
cognitivamente; prepara il terreno per rispondere alle domande su come poterlo
superare e con quali risorse e strumenti. Diversamente, lo psicoterapeuta si
preoccupa di inquadrare il sintomo in una cornice teorica di riferimento che può
essere neurologica o psicologica, al fine di dedurne un’opportuna diagnosi e quindi
un’efficace terapia. Il counselor filosofico si fa guidare dal vissuto del cliente e
dall’esperienza da lui restituita cercando di mettere il più possibile tra parentesi le
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diverse interpretazioni che del problema si possono fornire; lo psicoterapeuta mira a
spiegare causalmente il funzionamento del problema cercando di riferirsi sempre a
qualche teoria accreditata.
Scopo di questo lavoro è non solo descrivere il mio progetto sperimentale presso
uno studio di psicosessuologia, ma anche e principalmente:
-
trovare punti di possibile integrazione del counseling filosofico all’interno
della pratica clinica psicosessuologica;
-
differenziare la pratica filosofica nella forma di counseling da un intervento di
natura psicosessuologica;
-
confrontare le metodologie cognitivo-comportamentale e di terapia
mansionale integrata sessuologica con il counseling filosofico applicato a
problemi esistenziali legati alla sfera sessuale e sentimentale;
-
costruire una “cassetta degli attrezzi” specifica del counseling filosofico
nell’ambito di una relazione di aiuto.
Cosa si è fatto concretamente:
-
ascolto “casi” in attivo e conclusi;
-
condivisione e ricerca delle potenzialità delle pratiche filosofiche sui temi
specifici dell’amore, del sesso e della relazione sentimentale;
-
presa in carico diretta di consultanti. Sperimentazione di strumenti di lavoro.
Rimando al corpo centrale di questo lavoro e alla conclusione il raggiungimento di
questi obiettivi.
Vorrei infine ringraziare il professore Lodovico Berra che, dopo aver letto una prima
bozza di questo lavoro e in seguito incoraggiatomi con importanti consigli, mi ha
dato la possibilità di trasformarlo in un libro. Ringrazio anche Luca Nave che si è
lasciato tormentare dalle mie incessanti domande che rivolgevo a lui su ogni singolo
10
elemento del progetto sperimentale: senza i suoi stimoli non sarei riuscito a
concludere il lavoro. Grazie ancora a tutti quanti i colleghi del corso di Counseling
Filosofico, che si sono con me diplomati nell’anno 2014, per avermi mensilmente
spronato a percorrere una strada di ricerca illuminata soltanto dal faro del dubbio (mi
mancano gli incontri di discussione con voi). Da ultimo, ma non per importanza,
ringrazio Elena, una persona dall’intelligenza sottile e raffinata, la quale è stata per me
un insostituibile sostegno intellettuale e morale: le letture consigliatemi, il confronto
su ogni caso, le costruttive obiezioni che da lei ho ricevuto, il costante e reciproco
scambio di idee mi hanno dato quella tranquillità necessaria per arrivare dove sono
arrivato. Senza di lei la modesta proposta che qui presento non sarebbe stata
possibile. Un grazie per sempre.
11
2.
Erosofia: verso una relazione di aiuto pratica e
fenomenologico-esistenziale dei problemi esistenziali
correlati ai disturbi sessuali
2.1 Prolegomeni a una fenomenologia della sessualità
Il tema della sessualità è fenomenologicamente importante perché rimanda
all’esperienza che l’io ha dell’alter-ego e quindi al modo con cui quest’ultimo si dà e al
perché, a un certo corpo nel mondo, noi attribuiamo una coscienza come la nostra,
anziché considerarlo come inanimato.
Il tema della sessualità è dunque fenomenologicamente importante giacché concerne
il problema della posizione dell’uomo nel cosmo e della posizione dell’io rispetto agli
altri: la fenomenologia non è mera descrizione di oggetti e di essenze ma, attraverso
l’epochè, è anche vita etica, vita in cui l’individuo deve porsi il problema di come
rapportarsi coi suoi simili e con gli altri in generale. L’epochè stessa non può essere
riduttivamente pensata come un solo atto mentale che mette tra parentesi
l’atteggiamento naturalistico e l’obiettivismo moderno; per vivere l’altro come altro è
necessaria una pratica costante, uno sforzo su se stessi, che ci porti continuamente a
metterci alla prova: è tramite l’epoché che noi abbandoniamo le nostre certezze e le
nostre difese e solo così torniamo a esperire il mondo della vita, quello precategoriale, non ancora invaso da tutte le costruzioni concettuali-scientifiche delle
scienze naturali.
Se è vero che l’uomo conduce la sua esistenza nel mondo in compagnia di altri
uomini e se è vero che la vita sessuale è un’occasione privilegiata di rapporto con
l’altro,
allora
è
anche
vero
che
la
sessualità
ripropone
la
questione
dell’intersoggettività in quanto momento saliente della struttura esistenziale di
ciascuno di noi. Vediamo come questo connubio tra intersoggettività e sessualità
scopra le sue origini nella fenomenologia di Husserl.
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Il problema del rapporto tra l’io e l’altro, tra il medesimo e l’alterità, trova, nella
fenomenologia di Husserl, la sua espressione nella riduzione fenomenologica: ridurre
vuol dire fare in modo che le cose si presentino a noi per quello che sono, per la loro
datità, e non come manifestazioni o parvenze di una realtà sottostante che sarebbe la
realtà effettiva, autentica. Il modo per cui le cose si presentano secondo un essere che
non è il loro vero essere, che è altro dall’essere autentico, è detto da Husserl
“naturalistico”. Secondo questo modo, l’essere ci appare travisato, nascosto, proprio
nel suo manifestarsi: essere e apparire non coincidono. Compito della riduzione
fenomenologica è “trasformare l’apparire falso in apparire vero, cioè in fenomeno
evidente nel quale è presente la cosa stessa, l’essere stesso e non un essere che è altro
dall’apparire. L’essere medesimo, l’essere stesso, è perciò direttamente intuito: non è dedotto,
non consegue a un discorso categoriale in quanto è, caso mai, il fondamento del
discorso: perciò è precategoriale o antepredicativo” (Paci, 1961, pag. 5). La riduzione
è un vero e proprio esercizio filosofico nel quale l’uomo deve mutare se stesso: egli
passa dalla situazione in cui è perduto nel mondo alla situazione nella quale è il
mondo che viene perduto e poi riconquistato, sempre e di nuovo, secondo
l’intenzionalità della verità. Grazie alla riduzione, l’uomo riconquista un mondo, e
con esso una vita e una storia, che ha un senso. L’esercizio fenomenologico della
riduzione è l’esercizio del ricominciare, nel tempo, secondo la verità e quindi secondo
l’intenzionalità.
Solo criticando il naturalismo che, nel suo concretizzarsi nelle scienze naturali,
impedisce l’identificazione dell’essere con l’apparire, della cosa in sé con il suo
fenomeno, si può affrontare il problema dell’altro. Non che Husserl misconosca
l’utilità delle scienze naturali o la loro positività; egli nega, però, l’idea di una verità
come cosa che si dia una volta per tutte nella sua totalità, una verità perfetta,
definitivamente esatta, e vi contrappone una verità che è un’idea-limite, un telos, una
possibilità teleologica che, in quanto tale, resta una potenzialità che può essere
approssimativamente attualizzata, ma non in maniera definitiva. Le scienze si
perdono nel mondo quando pretendono di chiudere in sé la razionalità del mondo.
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La fenomenologia mostra che il senso delle scienze naturali e positive è nella storia,
per cui il mondo senza senso delle stesse scienze diventa un mondo orientato
secondo una direzione, un telos.
Di fronte all’impossibilità di un’evidenza totale, Husserl riconosce tuttavia la certezza
di una zona illuminata, di un punto sì finito e limitato, ma di cui non possiamo
dubitare, l’Ego Cogito, intesa come persona incarnata e individuata che vive nello
spazio-tempo, nel qui e ora. Per quanto una persona non potrà mai ricordare tutto il
suo passato e prevedere tutto il futuro, nel suo essere qui, in questo spazio, e ora, in
questo tempo, essa è ciononostante il centro finito che contiene in sé un infinito
potenziale che si attualizza parzialmente negli atti della sua vita: nella presenza
vivente della persona s’incontrano l’esperienza finita e l’idea di una scienza
universale, rigorosa, l’idea di verità. Dopo la riduzione fenomenologica, la persona si
riconosce come intenzionalità, come coscienza di o su qualcosa, legata all’agire del
suo corpo, condizionatamente libera e limitata. Grazie all’epochè (applicata all’indagine
sull’alter-ego: messa tra parentesi di tutti quegli atti che ci rimandano a una
soggettività estranea) e alla riduzione, la persona diviene consapevole di ciò che gli è
proprio, di ciò che si costituisce solo in se stessa e non richiede o rimanda ad altri
soggetti: il suo corpo vivo, Leib, che ha determinata peculiarità. Vediamole
linearmente e sinteticamente (Sini, 2012) :
-
non è un mero corpo fisico (Körper);
-
si muove con lei e rappresenta il qui, il punto spaziale a partire dal quale
può vedere il mondo;
-
possiede delle sensazioni interne (la persona che muove un braccio non
solo lo vede muoversi dall’esterno, ma sa anche che si muove, grazie a
delle sensazioni cinestetiche, senza necessariamente vederlo, mentre le
braccia degli altri corpi le vede muoversi soltanto);
-
ogni volta che tocca il suo corpo ha una doppia sensazione: tocca e si
sente toccata.
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Insomma, la persona si scopre come unità psicofisica: un corpo fisico animato,
capace di sentire. Conoscendosi come corpo proprio, la persona sente l’impossibilità
di vivere l’altro come lei stessa. Si presentifica cioè la coscienza del limite come
trascendenza dell’altro, l’impossibilità di identificare il suo cogito con il cogito
dell’altro, il suo corpo con l’altro corpo.
La fenomenologia ci rende in questo modo consapevoli che l’altro innanzitutto non
ha senso se non per l’Ego Cogito; non può manifestarsi, farsi fenomeno, che in una
vita intenzionale, egologica, ossia in un’esperienza. Il mondo intenzionato dalla
coscienza, frutto della riduzione fenomenologica, è un mondo che ha senso, un senso
teleologico; e lo ha perché la coscienza è intenzionalità, un andare oltre, un
trascendersi che si rinnova sempre e di nuovo.
La coscienza, che in quanto intenzionalità è conferimento di senso, sospende il
mondo così come appare prima della riduzione, quello in cui le cose erano mere cose,
prive di senso. Quello dell’atteggiamento naturalistico è un mondo ridotto alle pure
qualità primarie degli oggetti (grandezza, peso, estensione, ecc.), privati così di tutti
gli elementi soggettivi. Non che questo mondo cessi di esistere, solo che la coscienza,
che intenzionalmente conferisce senso, riprende, a partire dal presente vivente, il
passato per trascendersi verso un mondo mai chiuso di essenze teleologiche che sono
proiettate nel futuro. “In questa ripresa presentifica il passato e presentifica l’avvenire
come idea-limite, come telos: […] per essere attuale la coscienza deve, sempre e di
nuovo, trarre dall’oblio del passato il ricordo presentificante, e proiettare
nell’avvenire un orizzonte teleologico ora, di fatto, irreale e vissuto come idea” (Paci,
1961, pp. 12-13). La coscienza incarnata ha la sua storia nel tempo, può ricordare
parte del passato dimenticato e sulla base di ciò correggere le evidenze con nuove
esperienze e visioni. In poche parole: il senso del mondo è davanti a noi e non dietro
a noi.
Se si riduce la natura al piano dell’ordine geometrico e matematico, non solo lo
scienziato arriva a considerare il mondo delle idee/numeri come un mondo chiuso e
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in sé perfetto, in cui il reale e il razionale coincidono, ma, in più, arriva a perdere la
sua intenzionalità e quindi l’esperienza esistenziale, il mondo della vita, dal quale
anche tutte le costruzioni teorico-scientifiche hanno trovato l’origine. Solo questo
mondo della presenza vivente è il terreno al quale la scienza deve sempre di nuovo
ritornare se non vuole perdere la sua capacità di conferire senso. Ecco perché è
necessario che la coscienza, l’Ego Cogito, scopra in sé il proprio Leib e il proprio
Körper.
L’esperienza che l’io ha della sua sfera propria, del corpo vivo, è un’esperienza
primordiale che afferisce a uno strato sensibile che fonda ogni mondo culturale, ogni
intersoggettività. La persona si accorge innanzitutto del suo corpo proprio senza
l’intervento degli altri e questa sua esperienza diventa, quindi, la condizione di
possibilità di ogni altra costituzione intersoggettiva e culturale. Si tratta di una
fondazione trascendentale, non empirica, perché “mentre posso pensare senza
contraddizione uno strato puramente sensibile del mondo, in cui nessun oggetto
estraneo è ancora apparso, e in cui gli oggetti non hanno alcuna valenza o significato
culturale, non posso al contrario pensare a un mondo culturale senza uno strato sensibile che lo
fondi” (Costa, 2009, pag. 119). La sfera del proprio è la condizione di possibilità e di
scaturigine non solo di un mondo obiettivo e di significati culturali, ma anche
dell’alter-ego, “poiché per poter esperire un soggetto estraneo devo prima esperire un altro corpo
nello spazio” (ivi, pag. 119). Questo significa che “l’altro deve costituirsi come oggetto
intenzionale che, pur manifestandosi in me e attestando in me il suo essere, sia
tuttavia altro dalle mie sintesi costitutive. Il suo modo di manifestarsi deve dunque
essere quello di un’alterità di ordine diverso da quello delle mere cose dello spazio”
(ivi, pag. 120).
L’altro si dà in primo luogo a me come cosa spaziale esterna, come Körper; la
somiglianza fisica del corpo dell’altro al mio corpo motivi una sintesi tra il mio Leib e
il Leib altrui, per cui attribuisco per appaiamento e trasposizione appercettiva all’altro
corpo una vita psichica simile alla mia. Tuttavia l’altro è sempre altro da me e, benché
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ne faccia esperienza come un alter-ego, la sua coscienza non è accessibile in maniera
diretta alla mia. Ebbene, questo accesso indiretto e mediato alla vita cosciente è
chiamato da Husserl empatia: atto con cui l’io rappresenta l’alter-ego sulla base della
propria contemporanea coscienza, atto con cui esperisce il mondo come viene
esperito dall’altro, senza essere l’altro. In modo approssimativo e lineare possiamo
fenomenologicamente rilevare che (Sini, 2012):
-
l’altro si dà a me cosa fisica (spaziale ed esterna);
-
l’altro subisce da me un insieme di affezioni (lo colpisco, lo urto, lo
penetro, ecc.) così come io subisco da lui le stesse affezioni che posso in
generale subire dagli oggetti fisici;
-
l’altro si dà a me come cosa animata (si muove, agisce con il suo corpo, si
dirige verso, ecc.);
-
l’altro ha un corpo simile al mio (dotato di parti simili alle mie: gambe,
braccia, ecc.) che muove in maniera analoga a come lo muovo io;
-
l’altro, attraverso le sue azioni e operazioni, entra in comunicazione con
me, esperisce il mondo in modo simile a quello in cui lo esperisco io.
È il nostro corpo proprio, il Leib, l’interfaccia che ci relaziona con le cose del mondo
e soprattutto con l’altro, con altri corpi viventi, con altri Leib.
“Ma, prima ancora di tutto ciò, la somiglianza animale e operativa dell’altro introduce
l’istintivo accoppiamento sessuale, per cui non solo l’altro soddisfa, associandosi
operativamente con me, i suoi bisogni, ma trova già in me - e io in lui l’appagamento dell’impulso sessuale mediante il quale si stabilisce una correlazione
originaria, un nucleo associativo originario che pone i suoi membri l’uno in
dipendenza dell’altro, o l’uno per l’altro” (Sini, 2012, pag. 96).
La percezione dell’altro non avviene sul piano individuale ma sul piano preindividuale: ogni uomo può sentire l’altro e con questi empatizzare perché vive, come
l’altro uomo, nello stesso mondo della vita, in un comune mondo e in un comune
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nutrirsi del mondo. “Nel più profondo del Leib troviamo la vita percettiva e
subpercettiva che congiunge il Leib al sentire preindividuale, al vivere fungente
nascosto fisiologico e somatico. Ciò che unisce le monadi è alla base la loro vita
fisiologica e somatica, la vita che affonda nella sessualità, nel nutrimento, nel sonno”
(Paci, 1961, pag. 129).
La sessualità diventa così espressione del rapporto con l’altro. L’istinto sessuale, la
pulsione sessuale, non è per la fenomenologia una semplice emozione viscerale, ma
rappresenta un modo dell’io di essere-nel-mondo: all’origine di ogni soggetto si trova
già costitutivamente l’altro, in quanto nessun soggetto si costituisce come tale in
solitudine, ma assume quelle tipicità che lo designano come soggetto mediante
un’associazione originaria con l’alter-ego. L’accoppiamento sessuale non può allora
essere visto come un mero accadimento naturale e l’istinto sessuale non è riducibile a
una sola forza meccanica. Si tratta, invece, di qualcosa che inerisce alla sfera
trascendentale e in quanto tale possiede sempre una specifica teleologia. La
problematica
dell’istinto
sessuale
e
quella
teleologica
della
verità,
nella
fenomenologia, si toccano, giacché la manifestazione pulsionale sessuale non è
riducibile a sola casualità: l’intenzionalità dell’impulso sessuale verso altri ha un grado
precedente rispetto alla costituzione, da parte dell’io, del mondo e della realtà
intersoggettiva, nel senso che è in una direzione genetica che stanno i problemi del
rapporto sessuale. In altre parole, la relazione di alterità originaria che consente il
reciproco intrasentirsi delle persone, per cui l’altro può essere intrasentito dall’io (e
viceversa), presuppone un livello in cui le persone siano implicate l’una nell’altra e in
cui non si è ancora costituito il senso di io e di altro. È questo il sostrato primordiale
da cui emerge poi ogni forma di intersoggettività.
Quando s’incontrano le tipicità individuali (l’essere arrabbiato di Pietro, l’essere in
colpa di Lucia, ecc.), entrano in gioco i modi individuali del vivere il corpo proprio, il
Leib, quelli effettivamente esperiti e dai quali sempre si deve partire. Geneticamente
analizzando, è il rapporto precategoriale e pre-riflessivo tra l’ego e l’alter-ego che
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istituisce le prime generalità (innanzitutto quella del “noi due”): senza tipicità
singolari non si ha né alcuna generalità né tanto meno alcun vincolo affettivo. L’altro
mi è noto nel suo corpo, nei suoi movimenti cinestetici e nei suoi comportamenti, mi
è cioè appresentato nel suo modo di essere soggetto: il vincolo affettivo che si
costituisce è concreto e ha a che fare con unità psicofisiche concrete, sicché è nel
primo accoppiamento dei due ego che il corpo esercita tutta la sua funzione
mediativa. Il corpo non è semplicemente un oggetto (Körper) o un involucro che
custodisce la psiche: il corpo proprio è parte essenziale della nostra esistenza e del
nostro essere soggetti pensanti. Il corpo è anche corpo sessuato, ha una vita sessuale,
la cui funzione non è riducibile a quella procreativa, rinviando invece alla vita
relazionale.
Compito della fenomenologia è ricercare le operazioni pre-categoriali concrete dalle
quali sorge il senso delle costruzioni logico-teoretiche elaborate, delle tipicità generali
che trovo già costituite. L’astratta tipicità dei “due sessi” è così ricostruibile dalle
operazioni fondanti che istituiscono il più originario significato distintivo e
accomunativo tra gli ego (Sini, 2012). I tipi comunicativi del rapporto sessuale
diventano importanti giacché ciò che garantisce il legame affettivo tra le persone è il
trasferirsi associativo e intenzionale del primo accoppiamento alle esperienze di
comunicazione successive.
È per questa ragione che Husserl parlava di “fame di sesso”, cercando di fondare
l’esperienza dell’intersoggettività sul livello della vita embrionale e sul problema
madre-figlio (e quindi su un livello sessuale): l’intersoggettività si costituisce per la
prima volta nella storia dell’io nella relazione tra l’infante e il genitore e la nascita è il
punto d’incontro tra la storia dell’io e quella degli altri e la storia culturale e biologica
dell’umanità.
Scrive Husserl: “L’interno della procreazione. L’impulso verso l’altro sesso.
L’impulso di un individuo e il reciproco impulso nell’altro. L’impulso può trovarsi
allo stadio di fame indeterminata che non porta ancora in sé il proprio oggetto come
suo termine. La fame in senso abituale è più determinata quando il suo impulso è
diretto in modo originario e determinato verso un alimento (e già prima che la fame
19
si sia saziata con un alimento simile, l’alimento ha il carattere riconoscibile e perfino
tipico di <<alimento>> come oggetto consueto che soddisfa la fame). Nel caso della
fame sessuale che si dirige in modo determinato verso la meta che l’affetta e l’attrae,
la meta è l’altro. L’appetito sessuale così determinato trova la modalità del proprio
compimento nella copulazione. Nell’impulso stesso è implicita la relazione all’altro
come altro e al suo correlativo impulso. Sia l’uno che l’altro impulso possono
presentarsi nella modalità - nella modalità modificata - dell’astensione, della
ripugnanza. Nella sua modalità originaria l’impulso è un impulso <<non
trattenuto>> e non modificato che si spinge già all’interno dell’altro e che ha
costituito la propria intenzionalità attraverso quella correlativa dell’altro” (Husserl,
“Teleologia universale”, pag.195,in “Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl”,
Paci, 1961). Continua poco più avanti: “Ora il problema è se l’intenzionalità
dell’impulso, anche quella diretta (sessualmente-socialmente) verso gli altri, non abbia
necessariamente un grado precedente, che si pone prima del formarsi della
costituzione del mondo, per quanto la costituzione del mondo possa anche non
estendersi così ampiamente come per l’uomo come essere razionale. Penso qui ai
problemi dei genitori e prima di tutto al problema della madre e del figlio, problemi
che si presentano, del resto, anche in connessione alla problematica della
copulazione” (ivi, pp. 195-197).
Detto altrimenti, il sesso è fenomenologicamente importante perché concerne il
problema del rapporto io-alteri, il problema dell’intersoggettività e la questione della
verità/intenzionalità del vivere umano. La spinta erotica, la pulsione sessuale, non è
considerata da Husserl e dalla fenomenologia un mero automatismo collegato alla
funzione biologica del corpo, ma è soprattutto un’intenzionalità. In quanto
intenzionalità, essa ha natura teleologica, cioè è tensione, volontà, telos per il nostro
fare e per il nostro comportamento, non solo sessuale. La persona, con la sua unità
psicofisica, e il legame tra le persone, che assume innanzitutto carattere sessuale,
fondano la relazione oggettiva e poi i gruppi umani, nonché le varie strutture sociali.
20
Solo se intendiamo la vicenda sessuale come qualcosa che va oltre la funzione
biologica e va oltre i meccanismi fisiologici del suo funzionamento, possiamo
spiegare il nostro progetto esistenziale, le nostre relazioni con gli altri, i nostri
atteggiamenti di conquista o di fuga, la nostra condotta e il giudizio che elaboriamo
su di essa. La sessualità è perciò strettamente connessa alla vita totale dell’esistenza
dell’uomo, tale per cui ridurla alla mera genitalità non consente di prendere
consapevolezza di tutti gli altri sensi di cui si fa latrice. Se rimaniamo vincolati
unicamente all’atteggiamento naturalistico, caratterizzato, come sappiamo, dal
sussumere ogni esperienza sotto un’idea scientifica, non riusciamo a comprendere
come la spinta erotica sia in grado di mettere l’uomo nella condizione di presentarsi
un mondo sessuale, per cui amare, per esempio, una donna, assume il significato di
“essere-oggetto-del-mio-amore” e io, se da lei sono amato, il significato di “meoggetto-per-lei” (io ho bisogno dell’altro per cogliere pienamente le strutture del mio
essere, e viceversa); per cui accarezzarla non significa soltanto toccare o tastare; o,
ancora, per cui guardarla non vuol dire solo vedere. Mentre la scienza naturale
analizza, per esempio, la libido sessuale o le rappresentazioni psichiche della tipicità
“donna desiderabile” in generale, la fenomenologia è sintetica, per cui amare quella
donna (noesi) e quella donna amata (noema) sono inscindibili: l’oggetto intenzionato
dall’intenzionalità “amare”, il senso oggettuale, ossia la donna amata, e la noesi stessa
dell’amare, sono indissociabili. La pulsione sessuale è secondo Husserl una “fame”
diretta verso una meta, una forza desiderante che collega un Leib a un altro Leib, per
cui la sessualità non è, di fondo, avulsa dalla relazione con gli altri e con il mondo. I
modi sessuali sono relazionati ai vari significati che nascono dal desiderio sessuale,
sicché, se è vero che il reticolo di significati che caratterizzano l’esistenza di una
persona nel mondo altro non è che la sua visione del mondo, allora la sessualità, in tal
senso, è una visione del mondo (Galimberti, 2008).
21
2.2 Sul concetto di sessualità. Sua polisemia
Che il termine “sessualità” sia polisemico è oggi riconosciuto dagli stessi scienziati del
sesso: “La sessualità non è un settore staccato della persona ma parte integrante di
tutto l’essere; è dunque inevitabile che, affrontando le tematiche sessuali, emergano
problemi anche di altro genere.” (Fenelli e Lorenzini, pag. 78, 2011).
Una dichiarazione, questa, in netta armonia con gli insegnamenti fenomenologici,
sennonché affermare, poco dopo, che “si tratta di decidere di quali occuparci e quali
invece trascurare. Il criterio generale è quello di affrontare solo quelle difficoltà che
ostacolano il procedere della terapia sessuale” (ivi, pag. 78, 2011), non fa pienamente
tesoro dello stesso insegnamento fenomenologico, se è vero che, come ha voluto
Jaspers, i disturbi psichici non sono soltanto delle mere entità astratta, delle unità
morbose, ma in primo luogo modi d’essere di persone in carne e ossa, di
individualità, di soggetti di esperienza vissuta. Ecco perché egli contrapponeva la via
del comprendere a quella dello spiegare: si comprende quando ci si traspone
interiormente negli altri, ci si immedesima con essi; si spiega quando consideriamo
singoli elementi del fenomeno, per esempio il disturbo sessuale, nella loro
connessione e in quanto dati da trattare scientificamente (Berra, appunti anno 2013).
Sempre più la sessuologia d’impronta medica si occupa del corpo inteso come Körper,
al posto del corpo vivente, privandosi in questo modo e inevitabilmente della
dimensione più globale dell’esistenza.
Si badi bene, qui non si sta misconoscendo il contributo dei modelli scientifici per il
trattamento dei disturbi sessuali, bensì si sta sottolineando che quando questi
vengono assunti come verità definitive, in sé chiusi e quindi ritenuti assolutamente
certi, allora l’esperienza vissuta dal paziente viene messa da parte e, con ciò, anche il
paziente stesso, con la conseguenza, da parte del terapeuta, di sottovalutare tutti gli
altri aspetti connessi al problema sessuale riportato e quindi di non comprendere il
problema medesimo nella sua complessità.
Oggi gli stessi studiosi del sesso, i cosiddetti “sessuo-logi”, riconoscono nella
sessuologia clinica non una scienza autonoma, bensì un’area interdisciplinare che si
22
definisce in funzione di un oggetto, la sessualità, e non di un metodo univoco
(Cociglio, 2002). E la sessualità, intesa come oggetto di questa disciplina, non viene
ridotta alla funzione riproduttiva; anzi, la sua estensione semantica è identificabile
con quella di funzione erotica, che comprende, tra le altre cose, il desiderio,
l’eccitazione, l’orgasmo, il piacere, gli affetti, l’identità di genere, l’amore, i valori. La
sessualità rinvia pertanto a un insieme di caratteri e di fenomeni che sì concernono il
sesso, ma che soprattutto permeano tutta quanta l’esistenza. Proprio in virtù della sua
polisemia, la sessualità richiede un’integrazione pluridimensionale, che va dalla
biologia alla religione, dalla medicina alla filosofia, dalla psicologia e dalla psicoanalisi
all’etologia, dalla bioenergetica alla sociologia e all’antropologia. La sessualità si
confonde con la vita stessa e, in quanto tale, non può essere ridotta alla mera
funzione biologica. Ne segue che il problema sessuologico è primariamente un
problema umano, dell’uomo inteso nella sua totalità e unità psicofisica e noetica,
sicché esso manifesta molte implicazioni (mediche, religiose, psicologiche, sociali,
filosofiche, ecc.), che di fatto possono disorientare la persona che si fa portatrice del
disagio sessuale. Di qui la necessità di un approccio integrato, perché la sessuologia
non è una tecnica, ma un ordine di problemi posti dall’utenza (Cociglio, 2002).
Non solo il concetto di sessualità è multidimensionale, anche lo stesso concetto di
sesso non può essere ridotto a un unico e puro significato biologico. In primo luogo
perché la stessa biologia riconosce una varietà di sessi (cromosomico, gametico,
genetico, ormonale ed anatomico) e tutti questi sessi non sono suddivisioni di
un’unica entità, bensì fenomeni diversi al punto tale che un individuo può essere
maschile per un sesso e femminile per un altro (si pensi per esempio alla sindrome di
Morris o ai transessuali). In secondo luogo perché non si parla solo di sesso
biologico, ma anche per esempio di sesso psicologico (legato al vissuto dell’identità
dell’individuo, per esempio il suo sentirsi uomo piuttosto che donna), di sesso sociale
(legato al sesso che il tessuto sociale di appartenenza attribuisce all’individuo) o di
sesso desiderato (legato alle fantasie consce e al mondo dei valori, per cui l’individuo
vorrebbe essere un maschio o vorrebbe essere una femmina). Tutto ciò ci dice che
23
non esistono l’individuo maschile e quello femminile come “entità pure”, in sé e per
sé perfettamente vere (quanto la fenomenologia avrebbe da dire su queste costruzioni
astratte e sulle operazioni che ne hanno determinato la genesi), ma la femminilità e la
mascolinità come categorie concettuali - idee limite, telos - verso le quali far tendere
diverse esperienze legate alla sessualità. Definire cosa è maschile e cosa invece è
femminile non è infatti per nulla semplice, perché affermare riduttivamente che il
massimo comun denominatore del sesso sarebbe una differenza genica e l’attività
sessuale uno scambio di geni fra due genomi diversi, non tiene conto delle seguenti
obiezioni: qual è il comportamento autentico maschile o femminile? In base a cosa si
può definire questa autenticità? Anche supposto esistano dei criteri per definirla, essi
sono a loro volta autentici? Il cromosoma XO di che genere è ? (Cociglio, 2002).
Il sesso ha indubbiamente (ivi, 2002):
-
un significato biologico, in quanto esiste per creare individui diversi e
nuovi, oltre che per promuovere i processi evolutivi della vita in
controtendenza rispetto all’entropia;
-
un significato bioenergetico, se lo si vuole riconoscere come energia
buona e creazione, espansione e armonia;
-
un significato psicoanalitico, se il sesso viene visto come pulsione di vita e
spinta verso l’altro o come relazione, emozione-segnale di avvenuta
relazione oggettuale creativa e riparativa, ma anche distruttiva, in virtù del
suo legame con l’aggressività e il conflitto;
-
un significato religioso, se si vuole fare del sesso non solo uno strumento
per entrare in contatto con l’Essere Supremo (si pensi ad alcune religioni
orientali, come l’induismo), ma anche per allontanarsene (sesso come
dono e punizione divina, come preghiera o peccato);
-
un significato etologico, in quanto l’energia che sottende alla formazione
dell’imprinting è energia sessuale e un animale “imprinted” alla nascita da un
determinato oggetto normalmente reagirà verso di esso, una volta
raggiunta la maturità sessuale, se non intervengono altri intensi
condizionamenti;
24
-
un significato antropologico, se del sesso si considera la sua forza creativa
e distruttiva di strutture culturali;
-
e un significato sociologico, se è vero che a seconda della società
considerata, i rapporti sessuali assumono diversi significati.
Il sesso ha pure un significato filosofico, “anche se la filosofia contemporanea
mantiene la tendenza ad evitare tale argomento o lasciarlo relegato ai margini della
ricerca filosofica” (Berra, “La Filosofia”, pag. 375, in “Il manuale del consulente
sessuale. Volume I”, Franco Angeli, 2002, a cura di Cociglio). Significato che
potremmo generalizzare dicendo che il sesso assume, sotto questo punto di vista, la
forma di una forza creativa e di essenza della vita e dell’universo. Secondo la filosofia
fenomenologico-esistenziale, come abbiamo visto poco più sopra, il sesso rimanda al
soggetto e al suo “essere-per-altri”: necessità di trascendenza, dunque; desiderio di un
oggetto trascendente che è anche fondamentalmente compreso come soggetto, e che
tuttavia può assumere la veste di repulsione, conflitto o frustrazione. Ma non è
sempre stato concepito così: nell’antica Grecia, Platone aveva esplicitamente
contrapposto l’amore celeste all’amore terrestre, facendo di quest’ultimo un qualcosa
destinato a convivere, nei secoli posteriori, con la colpa, la non purezza, il peccato, la
volgarità, ecc. Aristotele concepiva la donna come una mostruosità naturale resa
inevitabile dalla conservazione della specie. Nel medioevo, Tommaso D’Aquino
sosteneva che l’atto sessuale è immorale o quando non ha come fine la procreazione
o quando è in conflitto con la ragione, come nei casi di adulterio o di incesto. Anche
Kant vedeva il sesso come principio di degradazione della natura umana e come
mero strumento utile a soddisfare il proprio piacere, le proprie inclinazioni e i propri
desideri, attraverso l’altro. Egli riteneva che l’uomo moralmente ispirato debba
svincolarsi dalle inclinazioni istintuali. Si potrebbe dire che con Schopenhauer muta il
modo di vedere la sessualità: egli infatti sosteneva che l’attrazione sessuale risponde
alla Volontà di vita, al “genio della specie”, che favorisce la propagazione della specie
consentendo all’uomo di tendere all’immortalità. Per lui l’uomo è in essenza istinto
sessuale fatto corpo e l’atto sessuale è la più forte affermazione della vita che l’essere
25
umano può esprimere. Senonché la sua filosofia, che mira a un ideale di saggezza e di
santità imperturbabili e raggiungibili mediante l’abolizione di ogni volontà di vita, lo
conduce a vedere nella sessualità una vergogna universale. Lo stesso Kierkegaard ha
eletto uno stile di vita etico contro quello estetico incarnato dal Don Giovanni di
Mozart.
Non si direbbe neppure il falso se si affermasse che il sesso è complessità: ha
significato relazionale e di spinta trascendentale, di unione e fusione, ma anche di
separatezza, solitudine, incompletezza e limitatezza. Una derivazione etimologica di
sesso, guarda a caso, afferisce al verbo “secare”, che vuol dire tagliare, separare (il
maschio dalla femmina). Il sesso è anche conflittualità, perché i due amanti non
possono essere sempre in armonia su tutto. Il sesso è pure creatività e desiderio: una
seconda derivazione etimologica della parola sesso afferisce a feto, la cui radice “fytos”
vuol dire fabbricare e creare. Il sesso rinvia, di nuovo, all’identità di genere: un terzo
significato etimologico di sesso è proprio quello di identità (εξις). Il sesso è pure
motore verso la conoscenza, è evoluzione della mente e della vita. Armonia vs
conflitto; fusione vs separatezza; desiderio vs repulsione; conoscenza vs chiusura;
amore vs odio; creatività vs distruttività; evoluzione vs entropia; creazione vs
distruzione; relazione vs solitudine. Ecco cos’è il sesso: una ridda di opposti e di
elementi complementari.
Già solo da questa semplice rassegna emerge come il concetto di sesso contenga
diversi elementi che possono entrare in contrasto tra loro o essere tra loro
complementari. Ecco perché il sesso è complessità: non è semplice somma delle
parti, ma qualcosa che va altre tale sommatoria. Un qualcosa che non si può definire
univocamente.
L’attività sessuale umana non solo è altamente difficile da definire, ma rivela al
contempo un senso pratico che è bene evidenziare nella sua complessità. L’atto
sessuale ha in primo luogo una funzione pratica evidente che, oltre a essere fonte di
gioia, consente la conservazione della specie: la procreazione. È vero che le tecniche
di fecondazione artificiale stanno lentamente e inesorabilmente soppiantando il coito
26
come principale strumento riproduttivo, tuttavia esso rimane, allo stato attuale, l’atto
sessuale principale con cui l’essere umano vive stati emotivi che rimandano allo
scorrere della vita, alla possibilità di generare la vita, nonché al rivivere l’evento che
ha dato origine alla propria vita. Per converso, l’atto sessuale può anche generare
dolore e portare alla distruzione della vita: basti pensare alle perversioni e ai disturbi
parafilici, agli abusi e alle violenze, ai plagi e alle manipolazioni. Secondo il punto di
vista psicoanalitico, in questi casi la pulsione di vita si asservisce a quella di morte, per
cui l’attrazione e il piacere sessuale in realtà nascondono odio, angoscia e dolore.
In secondo luogo il rapporto sessuale favorisce la crescita psicoaffettiva, diventando
strumento di dialogo in cui dare e ricevere sentimenti, affetti, emozioni e pensieri.
Aiuta altresì le persone a percepire meglio e diversamente il proprio corpo, grazie alle
cinestesi legate al rapporto sessuale stesso; tuttavia l’attività sessuale può generare
sensi di colpa, può portare a distruggere le cose buone costruite nella vita, può
indurre timore e dolore, può ferire il corpo.
In terzo luogo, molti sono stati gli artisti, i religiosi e gli scienziati che hanno visto
nella sessualità e una fonte d’ispirazione e un impulso alla creatività. L’atto sessuale
manifesta pertanto quest’altra funzione pratica: fornire l’energia e il coraggio per
creare cose nuove, per superare le barriere che impediscono la genialità e l’estro. Così
come non va sottovalutato che l’attività sessuale rinforza i legami ed è artefice di
amore, soddisfa i bisogni di protezione e di appartenenza e possiede funzione
aggregante donando piacere intenso. Ciononostante l’atto sessuale è connesso alla
mercificazione degradante, per cui le persone (soprattutto donne e bambini) perdono
dignità e diventano meri oggetti di violenza, umiliazione e soprusi.
Infine, si può notare come l’atto sessuale sia anche modalità di gioco e divertimento,
anche se nella nostra società e nella nostra cultura occidentale la funzione erotica
viene vista o come una realtà molto seria o come un qualcosa di svilito che degenera
nella pornografia, come se l’uomo potesse rinunciare alla voglia di giocare, divertirsi e
cercare piacere. Inoltre, il gioco sessuale e l’aspetto ludico della sessualità spesso si
trasformano in giochi di morte, di dolore e di sofferenza immane.
27
In definitiva, definire la sessualità, rispondere alla domanda socratica di cosa essa sia,
coglierne la sua essenza, si presenta come un lavoro arduo, forse mai definitivamente
compiuto e, se si vuole stare in sintonia con l’insegnamento fenomenologico, si
presenta come un esercizio che dobbiamo sempre ricominciare, perché la lotta della
ragione contro la stanchezza deve essere sempre rinnovata: movimento perenne e
tensione infinita verso il telos, verso l’idea limite.
2.3 Dalla concretezza dei dati …
“La filosofia contemporanea mantiene la tendenza ad evitare tale argomento o a
lasciarlo relegato ai margini della ricerca filosofica. Abbiamo da augurarci che in
futuro i filosofi dedichino maggiore spazio alla sessualità quale innegabile ed
indiscutibile aspetto essenziale della vita umana” (Berra, “La Filosofia”, pag. 375, in
“Il manuale del consulente sessuale. Volume I”, Franco Angeli, 2002, a cura di
Cociglio).
Facendo mio questo auspicio, desidero qui entrare più nel vivo nel mio progetto
sperimentale, per poi ritornare, a fine di questo capitolo, a trattare questioni più
teoriche e inerenti anche il rapporto tra il counseling filosofico e altre forme di
relazione di aiuto. L’idea di approfondire il percorso tematico “Erosofia: counseling
filosofico e sessualità” è nata dalla possibilità, collaborando con una psicosessuologa,
di avere a disposizione una concretezza di dati su cui iniziare un lavoro più
prettamente filosofico. Per un counselor filosofico in formazione permanente, quale
sono io, penso sia stato e sia tutt’ora molto interessante collaborare
professionalmente con un esperto di problematiche sessuali, se non altro per il fatto
che capita sovente che i pazienti di una sessuologa, nel riportare le loro specifiche
questioni (eiaculazione precoce, vaginismo, calo del desiderio, ecc.), manifestino
anche tematiche di natura più propriamente filosofica, che spaziano da questioni di
natura etica e morale, ad argomenti relativi il senso dell’amore, del vivere in coppia,
dell’omofobia e dell’identità di genere, giusto per citarne alcuni.
28
Da un punto di vista fenomenologico (“ritornare alle cose concrete”), ritengo sia
essenziale prestare una genuina attenzione alla concretezza dei dati che il cliente porta
durante un percorso di counseling filosofico.
La prima cosa da mettere in atto è dunque un ascolto attivo che tenda, sebbene non
possa mai giungere a una netta identificazione con gli stati emotivi e mentali del
cliente, a cogliere quanto egli riporta di se stesso, della sua vita, dei suoi vissuti, dei
suoi scopi, dei significati della propria esistenza, e via così; e tutto ciò in un modo che
sia il più possibile scevro da pregiudizi e/o precomprensioni che possano distorcere
la relazione di aiuto. Si tratta, in sostanza, di attuare quell’epoché di husserliana
memoria (sospensione del giudizio: non giudicare, considerare con occhio avalutativo
la narrazione riportata), al fine di instaurare un rapporto empatico con il consultante.
Armato di questo strumento, ho cominciato il mio progetto di lavoro ascoltando
quanto la professionista sessuologa mi riportava in merito ai suoi pazienti e le
narrazioni che costoro le rivolgevano. In questa situazione ho tentato di empatizzare
direttamente con la professionista, sebbene l’immaginazione mi portasse
immediatamente in uno scenario in cui io ero il counselor e la sessuologa uno dei
pazienti che interpretava. Di seguito la sintesi di alcune narrazioni.
Davide, per esempio, raccontò di una esperienza accaduta nella sua famiglia: suo
fratello, dopo avere ricevuto, in uno scambio erotico di messaggi telefonici con una
persona anonima, una foto di un pene, si masturbò e da lì l’avvio di un problematico
cammino che lo portò inizialmente a riconoscersi come omosessuale e poi a
effettuare la conseguente scelta di dichiarare apertamente il proprio orientamento
sessuale (coming out). Davide raccontò quei momenti difficili, vissuti da lui e a da tutti i
suoi familiari in maniera molto tragica e conflittuale. Espresse la sua paura di essere
egli stesso omosessuale, come il fratello e l’obbligo, da parte dei genitori, di farsì che
anch’egli si rivolgesse a un professionista per accertare o smentire questa sua
ipotetica condizione. Poi, una volta convintosi di non esserlo, l’affiorare di un
sentimento di profondo odio e avversione verso gli omosessuali in generale, perché a
29
suo dire persone che praticano il sesso contro natura e che distruggono le famiglie. A
causa di ciò, Davide si rivolse alla sessuologa professionista per farsi aiutare a non
vivere, con tali sentimenti di disprezzo, eventuali rapporti sociali con persone
omosessuali (fratello, colleghi di lavoro, amici di amici, semplici conoscenti, ecc.)
Elisa, invece, raccontò della sua difficoltà a sperimentarsi nel sesso orale, pratica per
lei fonte di disagio e di problemi relazionali con il partner. Ella decise pertanto di
rivolgersi alla professionista psicosessuologa per ricevere un aiuto a capire questo suo
disagio e i motivi della sua resistenza.
Marco riportò all’esperta la sua crisi esistenziale: da una parte sentiva di volere ancora
molto bene a sua moglie e di amare la sua famiglia, ma dall’altra avvertiva una forte
attrazione e si sentiva innamorato di un'altra donna. Come conciliare queste due
tendenze contraddittorie?
Ercole si presentò nello studio di sessuologia perché diceva di soffrire di disturbi
legati alla sfera del desiderio: per quanto fosse stato felice della sua vita matrimoniale,
non riusciva più a desiderare sessualmente sua moglie. Ciò lo mise di fronte a
domande che concernevano il senso della sua vita coniugale, il valore della famiglia e
della fedeltà alla persona con cui si è sposato.
Questi pochi esempi hanno un denominatore comune: chi si rivolge, in questo caso,
a una sessuologa, lo fa per riportare non solo una problematica sessuale, ma anche, e
strettamente connesso a questa, un malessere esistenziale. Non si sta qui affermando
che tutte le questioni sessuali necessariamente abbiano uno sviluppo filosofico, ma
che questo può esserci. Una cosa è l’intervento clinico di un esperto di sessuologia in
merito a patologie gravi e compromettenti (o in merito a situazioni che richiedono
un’analisi della struttura di personalità della persona), altra è l’aiuto che un counselor
filosofico può donare al consultante rendendolo, così, un soggetto capace di
autocostituirsi attraverso un complesso lavoro su se stessi, un esercizio filosofico che
potremmo chiamare “cura di sé”.
30
Ma cosa c’è o si può trovare di filosofico nell’ascolto di un racconto e di un problema
sessuale? O meglio, ancor più fondamentale, cosa di filosofico inerisce all’ascoltare?
Quando si ascolta il discorso reso dalla persona richiedente aiuto, accade una sorta di
processo linguistico ruotante, in ultima analisi, intorno a due (tre) poli: da una parte la
parola (dell’interlocutore), la materialità grezza dei vocaboli che usa, delle sue
espressioni originarie; dall’altra il counselor che, primariamente e asintoticamente alla
neutralità, riceve il detto dell’interlocutore, e poi cerca di meditare l’intreccio delle sue
parole non già per operare una vera e propria riformulazione (che succede solo in un
secondo momento), bensì per ascoltare di quali messaggi e annunci tale discorso si fa
latore (datità del problema).
Da una parte il cliente il cui detto riguarda un annuncio da dare, un messaggio da
riferire; dall’altra il counselor che, ancor prima di riformulare, ode, presta attenzione,
rivolge lo sguardo e tutto il suo corpo, al messaggio che inevitabilmente precede la
sua parola e il suo domandare.
Dire e udire, parlare e ascoltare, dare e ricevere: è questa la dialettica filosofica che a
mio avviso sostanzia l’atto dell’ascoltare e che precede ogni attività di aiuto. L’ascolto
presuppone un dire, e si dice qualcosa se c’è qualcosa da dire e qualcuno che ascolta
quanto si dice. L’ascolto si apre allora al messaggio che precede la parola del
counselor: senza un messaggio contenuto nel detto (e nel non detto) del cliente, non
si ha nemmeno la possibilità di analizzare, ossia di comprendere e chiarificare, il
senso e il voler dire dell’annuncio che il cliente vuole manifestare.
In una frase: un dire concernente un annuncio da dare e un udire il messaggio che
precede la propria parola (D’Alessandro, 1991).
Quando si ascolta la problematica riportata dal consultante, appare quindi già in
opera la funzione della filosofia: l’ascolto pone il counselor nella condizione di
ricevere un messaggio e una domanda che deve essere poi analizzata, compresa e
riformulata all’interno della visione del mondo e del progetto esistenziale
dell’interlocutore. Che il problema sia il vaginismo o il calo del desiderio o
l’eiaculazione precoce, l’intervento filosofico ha comunque il compito precipuo di
evidenziare e svelare i valori e i significati che caratterizzano e dirigono l’esistenza del
31
singolo cliente. La funzione filosofica è quella di supportare il consultante nel
recuperare il senso profondo della sua sessualità, che per forza di cose influenza
anche il suo comportamento sessuale, i suoi rapporti interpersonali, il rapporto che
egli ha col suo corpo e con se stesso. Riscoprire nuovi significati della sessualità può
essere d’ausilio per affrontare i problemi sessuali e sentimentali.
2.4. . . All’universalità filosofica dei messaggi
Le parole di Davide, quelle di Elisa e di Marco, ma anche quelle di Ercole e di molte
altre persone, nella loro materialità significante, si fanno portatrici di un messaggio da
comprendere e capire nel suo senso e nei suoi significati. Solo da questo punto di
partenza il counselor filosofico può intendere il senso delle problematiche raccontate
nelle dinamiche esistenziali della passione, del desiderio e della relazione con gli altri.
Non si tratta di spiegare la causa del problema sessuale (compito che spetta ad altri
professionisti), facendo del sesso un oggetto di sapere, bensì di rivolgersi al soggetto
che vive il sesso, indagando i suoi pensieri, la sua vita, le sue emozioni, desideri,
valori e credenze, per contestualizzare la sua visione del mondo.
Ebbene, di quali annunci quelle parole e altre ancora di tanti altri clienti si fanno
messaggere?
A
quali
significati
rinviano?
Quali
domande
(filosofiche)
presuppongono?
I casi, di cui ho potuto ascoltare gli interventi da parte della sessuologa professionista,
nascondono questioni di uno spessore filosofico non indifferente:
Cosa è normale? La questione sulla normalità
È normale cambiare tanti partner? È non normale che io non voglia sperimentarmi
nel sesso orale? È normale che la passione svanisca dopo pochi mesi? Sono malato se
per eccitarmi devo essere calpestato? È normale che mia moglie non si masturbi e
non voglia farlo? È normale non provare alcun piacere durante i rapporti sessuali col
32
mio partner? È normale trovare attraente un uomo, anche se non sono omosessuale?
È normale che mi ecciti a vedere mio marito in atti sessuali con altre donne?
Ecco una ridda di domande che presuppongono tutte la questione filosofica
fondamentale su cosa sia la normalità. La riflessione filosofica sulla normalità (su ciò
che è normale fare e su ciò che non lo è), implica profonde questioni morali che
possono, in caso di contrasti di valori, generare malessere esistenziale (si pensi, per
esempio, agli atti masturbatori vissuti con sensi di colpa perché non indirizzati alla
procreazione.) Il disagio esistenziale può dunque nascere da convinzioni incoerenti
che debbono essere messe in discussione.
Cosa è giusto fare? Come comportarsi? La questione morale
È giusto tradire mia moglie? Se tradisco ho un senso di colpa, ma se non lo faccio
non mi sento bene: come decidere e in base a cosa? Non riesco più condividere e
restare fedele ai miei valori in ambito relazionale e sentimentale: come posso essere
aiutato? Perché io e mio marito non ci capiamo più? Sono cambiati i nostri valori?
Perché dovrei rispettare certe regole e certi codici a scapito del piacere fisico e carnale
che potrei provare? Si può essere contemporaneamente innamorati di più persone?
Anche la questione morale - cosa è giusto fare e perché - fa da ombrello a un insieme
di domande specifiche che una sessuologa si sente spesso rivolgere dai suoi pazienti.
Si possono, in effetti, osservare i disturbi sessuali come conseguenze di problemi
all’interno della coppia: un tradimento può essere correlato a sintomi d’impotenza o
di anorgasmia; la decisione di sposarsi può essere connessa a un vissuto di limitazione
della propria libertà; una separazione brusca e vissuta in malo modo può
compromettere la vita sessuale della persona.
Che cosa c’entra la filosofia con tutto ciò? Non è da escludere che un chiarimento
concettuale e valoriale di certe condizioni possa produrre una risoluzione di alcune
difficoltà legate alla vita sessuale.
33
Qual è il senso di ciò che accade? La questione esistenziale
Perché proprio a me doveva capitare il vaginismo? Che cosa significa amare? Esiste
l’amore senza sesso o viceversa? Esiste l’amore? Si può sopportare tutta la vita il
proprio partner? Che senso ha essere fedeli? Perché non dovrei tradire mio marito?
Da quando ho questo problema di eiaculazione precoce, non riesco più a trovare
tranquillità nei rapporti con le donne e non riesco più ad avere una relazione degna di
questo nome: mi sento umiliato, incapace e non ce la faccio più. Posso guarire? Non
riusciamo ad avere dei figli a causa della sua infertilità: che senso ha stare ancora
insieme? Abbiamo due stupendi bambini ma non ci amiamo più: perché non
dovremmo separarci?
Di nuovo: molteplici sono le domande di senso che i pazienti sollevano quando si
rivolgono a una sessuologa.
Questa lineare rassegna di domande, che concretamente i pazienti rivolgono alla
sessuologa professionista, mostra come loro stesse rinviino a questioni di valore
universale e generale. Se si pensa a come la filosofia, fin dalla sua nascita con i presocratici, abbia cercato di cogliere l’unità nella molteplicità, le essenze delle apparenze
fenomeniche, il generale al di là del particolare, allora è possibile pensare a un legame
tra filosofia e sessualità.
2.5 Filosofia vs Sessualità?
“Il sesso, quello vivo, carnale, sensuale, si lascia pensare? […] Può essere oggetto di
sapere? […] Cosa c’è da riflettere filosoficamente sulla sessualità? […] La filosofia, in
quanto amore del sapere, può occuparsi di qualcosa che sapere non è? […] Quale
sophia potrebbe eventualmente accompagnare a riflettere il sesso in sé e per sé che
non si pensa ma si fa, cercando di evitare che esso possa risultare alcunché di astratto
34
o reificato a semplice oggetto e quindi strumentalizzato nella sua intima essenza? […]
In quale maniera possiamo applicare la sophia al sesso in modo che il sapere stesso
non risulti astratto e lontano dalla realtà di cui intende parlare?” (Nave, pag. 37-39, in
“Platone e il Viagra”, a cura di Berra L. e Nave L., 2009).
Nel rispondere a queste domande, L. Nave ammonisce il lettore a non cadere
nell’errore, nel tentativo di applicare il pensiero filosofico alla sessualità, di fare della
filosofia un solo pensiero lontano dalla realtà del sesso e, simmetricamente, di fare
del sesso una realtà lontana dal pensiero.
Nel momento in cui si medita, spiega, confessa e categorizza il sesso, esso diviene sì
oggetto di sapere, ma perde il suo statuto di puro evento che avviene: diviene oggetto
reificato da studiare e conoscere. Il sesso, in sé e per sé, è un mero fatto che accade
nell’incontro intimo tra due o più persone. Eletto a oggetto di studio, diviene altro da
se stesso, si trasforma in qualcosa di pubblico che può essere studiato, spiegato,
confessato e classificato. Ma in questo modo può essere sentito e compreso nella sua
totalità?
Prima di analizzare come L. Nave abbia affrontato le suddette questioni, e quindi
mostrato l’esistenza di una filosofia pratica in questo campo, è forse utile vedere
sinteticamente come, nella sua storia di pensiero occidentale, la filosofia si sia spesso
domandata in merito al rapporto tra le singole cose che ci sono e che accadono e il
pensiero generale che su di esse si può elaborare. In particolare, vale la pena, a mio
avviso, soffermarsi sulla nascita e sulla trattazione del problema universali/particolari,
da parte dei filosofi antichi (Bonino G., 2008).
Il punto di partenza, da cui presentare questa breve storia è senza dubbio la seguente
domanda socratica:
Che cos’ è (Eros)?
35
È noto come Socrate abbia dato un’importanza fondamentale alla domanda “che
cos’è’?”, poiché inaugura una riflessione che mira a cogliere l’essenza delle cose, la
loro definizione, in contrapposizione agli esempi particolari, che si limitano a esporre
casi singoli. A dire di Platone, Socrate non si accontentava di spiegare un certo
concetto ricorrendo a uno o più esempi, voleva invece trovare una definizione che
definisse la natura comune ai vari casi riportati. Si tratta di una definizione linguistica,
per lo più rivolta a virtù morali (che cos’è il coraggio? E la santità? ecc.)
Platone compie uno spostamento dal piano linguistico a quello ontologico: egli
ricerca la natura comune a più cose particolari non più sul piano linguistico, bensì su
quello reale. La natura generale, che viene colta nella definizione, indica, per il
filosofo greco, un’entità distinta e separata dalle cose singole, che chiama idea. Da
una parte i singoli oggetti e i singoli individui che appartengono al mondo sensibile,
che mutano continuamente e che possono anche contraddirsi; dall’altra l’iperuranio,
inteso come realtà meta-fisica sede delle essenze generali. Il rapporto tra le idee e le
cose sensibili, che ne costituiscono un’esemplificazione, è quello di partecipazione e
d’imitazione: le cose particolari partecipano delle idee e le imitano in quanto loro
modello perfetto. Le idee, secondo Platone, possiedono una realtà oggettiva,
indipendente dalla mente umana e dalle cose sensibili e particolari del mondo
fenomenico. Mentre le cose singole del mondo sensibile sono materiali, le idee
universali del mondo intelligibile sono incorporee. Le idee sono per lui gli oggetti
immutabili, perfetti e coerenti, propri della conoscenza scientifica, che per sua natura
è infallibile. Gli oggetti sensibili sono invece di dominio dell’opinione. Gli oggetti
sensibili sono colti dai sensi, le idee universali dall’intelletto attraverso un
meccanismo di reminiscenza.
Oggi si chiamano platonistiche quelle concezioni realiste secondo cui le idee
universali esistono anche in mancanza di particolari che le esemplificano: gli
universali sono concepiti come dei “super particolari”, con cui le cose singole
sarebbero in relazione. Insomma, la “cosa in sé” sarebbe una X tra le altre,
36
caratterizzata da una perfezione e un’immutabilità di cui sono prive le cose
particolari.
Se per Platone le idee trascendono il mondo sensibile, secondo Aristotele, invece, gli
universali (universale è ciò che per sua natura si può predicare di più cose particolari)
sono immanenti nelle cose sensibili. Tuttavia, per l’allievo di Platone, gli universali
non sono solo proprietà che si possono predicare di cose particolari, ma anche
categorie - generi sommi - realmente esistenti cui le espressioni linguistiche
predicative si riferiscono. Ciò che primariamente esiste, secondo Aristotele, sono le
sostanze individuali (questo così-e-così); tutte le altre categorie (qualità, quantità,
relazione, ecc.) esistono solo perché subordinate all’esistenza delle sostanze prime a
cui ineriscono. Per lui non si può parlare d’idee che sussistono indipendentemente e
separatamente dalle sostanze stesse (“l’essere si dice in molti modi”, ma
primariamente per le sostanze individuali). Mentre Platone partiva dalle cose singole
per giungere alle idee, le idee platoniche sono invece considerate, da Aristotele,
esistenti, ma solo perché vengono esemplificate da una sostanza individuale (un
“questo così-e-così”). Platone privilegia, da un punto di vista ontologico, le entità
universali; Aristotele quelle particolari.
Oggi vengono indicate come aristoteliche quelle concezioni realiste che ammettono
l’esistenza degli universali, ma solo se esemplificati da particolari.
Secondo Epicuro, i costituenti ultimi di ciò che esiste sono i corpi (costituiti da atomi
che si muovono nel vuoto) e lo spazio. Per il filosofo del Giardino gli universali
derivano dall’esperienza: sono il prodotto dell’abitudine, uno strumento che ci
consente di organizzare le nostre conoscenze senza dover ogni volta reperire le stesse
esperienze percettive. Non esistono per sé, come sostanze autonome, ma come
proprietà individuali che non sono per nulla immateriali, bensì costituenti dei corpi.
Anche lo stoicismo ha nutrito ostilità nei confronti delle idee platoniche. Questa
filosofia ha una concezione schiettamente materialista, per cui esiste solo ciò che è
37
materiale e corporeo: ogni singola cosa risulta costituita da una sostanza
indifferenziata e da una qualità che è essa stessa individuale e corporea (per esempio,
la giustizia non è un’idea immutabile, separata ed eterna, ma l’insieme delle qualità
che la materia assume nelle persone, nei fatti e nelle cose giuste). D’altra parte gli
stoici ammettono anche l’esistenza degli incorporei (spazio, tempo, vuoto e lekton,
che vuol dire significato): questi non hanno un essere, non esistono, non sono reali, e
tuttavia, a loro dire, sono qualcosa. Per gli stoici, le idee platoniche o gli universali
aristotelici (l’aspetto formale della realtà), non possono essere corpi. Esiste per loro
un’unica e indifferenziata materia che può avere modi diversi d’essere. E tale materia
assume varie qualità per l’azione di un logos divino immanente nel mondo che
contiene in sé le ragioni seminali delle singole cose. Al più, gli universali, possono
essere pensati come concetti mentali.
A dire di Filone di Alessandria, il logos, inteso come attività e potenza di Dio, produce
le idee (realtà intelligibili), che costituiscono il mondo intelligibile in quanto modello
di quello sensibile. Egli non fa altro che trasformare le idee platoniche in pensieri di
Dio (idea che verrà poi ripresa dal cristianesimo, con S. Agostino).
Plotino ritiene che le categorie aristoteliche non siano di alcuna utilità né per spiegare
il mondo intelligibile né per quello sensibile. Egli distingue tre ipostasi: Uno,
Intelletto e Anima; e distingue anche le idee che si trovano nell’Intelletto dalle forme
che si trovano nell’Anima. Quest’ultima introduce poi il passaggio al mondo
sensibile.
Porfirio, allievo di Plotino, si pone tre domande rispetto ai predicabili (definizione,
proprio, accidente e genere) di Aristotele: 1) sussistono di per sé o sono concetti
mentali? 2) Sono corporei o incorporei? 3) Sono separati o si trovano nelle cose
sensibili? Secondo Porfirio un predicato è un’espressione che significa un oggetto per
mezzo di un concetto.
Alessandro di Afrodisia, infine, afferma che gli universali sono per natura posteriori
alle cose particolari; inoltre esistono solo in quanto sono pensati.
38
Questa breve storia del rapporto universali/particolari, così come è stato concepito
dai filosofi dell’antichità, mostra che la questione essenziale riguarda lo statuto
ontologico degli universali: sono cose (realismo)? O sono solo parole (nominalismo)?
O ancora sono concetti (concettualismo)?
Inoltre: esistono anteriormente ai molti o nei molti o posteriormente ai molti?
Ebbene, l’alternativa tra le varie interpretazioni (realismo platonico e aristotelico,
nominalismo e concettualismo), presente già nell’antichità, perdura fino ai giorni
nostri.
Anche Eros, in funzione del filosofo cui si fa riferimento, è stato concepito in modi
diversi ma comunque attinenti alle diverse interpretazioni che nell’antichità sono state
elaborate in merito al problema degli universali.
Alcuni filosofi presocratici, come per esempio Esiodo e Parmenide, concepirono
Eros come la forza che muove le cose e le tiene unite insieme. Empedocle, in
particolare, vedeva nell’Amore la forza che tiene uniti i quattro elementi e nella
Discordia la forza che li separa: il regno di Eros è lo Sfero, in cui tutti gli elementi
sono legati in una completa armonia. Qui tutto è uniforme, armonico ed
estremamente lontano dalla separatezza che invece caratterizza la fase del Vortice.
È solo con Platone, però, che il tema dell’Eros viene problematizzato in tutta la sua
portata. Nel dialogo “Liside”, Platone non riconduce la philia, l’ami-cizia, né al
principio empedocleo secondo cui il “simile è sempre amico del suo simile”, né a
quello del filosofo detto l’Oscuro, secondo cui “il contrario è amico del contrario”.
L’amico, per Platone, non è tanto la persona che ama e neppure quella che è amata;
l’amico è invece simile al filo-sofo che, sapendo di non sapere, è un ignorante che
brama sapienza. In questo modo Platone introduce la funzione erotica della filosofia,
che sarà ben sviluppata nel dialogo “Simposio”. In questo dialogo, Platone fa dire a
Socrate che Eros è il desiderio di ciò che manca, una sorta di demone, un essere
intermedio tra gli dei e gli uomini, tra l’Abbondanza e la Povertà, che tende al Bene.
Si tratta di una bramosia che dalla bellezza di un corpo particolare conduce alla
39
bellezza di tutti i corpi, e da quest’ultima a quella dell’anima per ultimare alla bellezza
del sapere, cioè alla visione dell’idea di bellezza, alla Bellezza in sé e per sé. In tale
senso Eros è, come philia, filo-sofo, cioè amante del sapere, proprio perché privo della
sapienza che però brama.
Anche in Aristotele, sebbene prevalga nella sua filosofia una concezione di Eros come
affezione dell’uomo, cioè o come amore sessuale o come amicizia, è presente una
tensione metafisica nell’elaborazione del concetto di Eros. Il motore primo, infatti,
muove tutto senza che esso si muova così come l’oggetto del desiderio e dell’amore
muovono chi desidera e chi ama. Dio, primo motore immobile, muove dunque le
altre cose come oggetto d’amore, come termine del desiderio che le cose hanno di
raggiungere la sua perfezione.
Con Plotino l’Amore diventa una delle fasi fondamentali della strada che conduce a
Dio. Per lui l’oggetto dell’amore è il Bene e l’Uno è il Bene più alto che possa
esistere. Eros è dunque una via preparatoria alla visione dell’Uno.
Questa breve storia non solo ci mostra come la filosofia, fin dalle sue origini, fosse
interessata agli aspetti universali della realtà, ma anche come l’indagine su ciò che è
generale e universale sia stata affiancata da un vivo interesse per il tema di Eros: il
pensiero greco, padre di tutto il pensiero occidentale, ha fin dalla sua nascita una
valenza erotica nella misura in cui la filosofia è desiderio/amore del sapere. Tuttavia,
è dal dialogo “Simposio” di Platone che la filosofia ha eretto una distanza abissale tra
sé e il sesso, in quanto mero fatto che accade e che, proprio per questo, non può
essere oggetto di sapere (appartenendo alla doxa gli oggetti particolari). I filosofi sì
amano il corpo dei ragazzi o delle donne, ma non desiderano questi singoli corpi o la
loro singola bellezza in se stessi, bensì considerano le singole e particolari bellezze
solo perché esempi imperfetti dell’idea del Bello. È con Platone che prende avvio
quel processo che porterà a contrapporre il mondo celeste, l’Eros celeste, che spinge
ad amare le anime più dei corpi e che conduce alla Verità e al Bene, medium
40
contemplazione del Bello in sé, al mondo fenomenico, all’Eros terrestre, corporeo e
volgare che ama il corpo più dell’anima.
Il sesso vero e proprio, quello carnale, che si vive nella corporeità, da quel momento,
sarà screditato, diventerà oggetto di non sapere perché appartenente al mondo
sensibile in cui tutto diviene e di cui non si può avere scienza. La scissione mondo
delle idee / mondo fenomenico si è poi riverberata nello iato tra valori attinenti
all’anima e quelli inerenti al corpo: tutto ciò che è corporeo e materiale viene negato
o svalutato, rispetto alla vera realtà iperuranica e ideale.
Sulla base di queste premesse, come ha ben mostrato Foucault nella sua “Storia della
sessualità”, si sono sviluppati un insieme di logoi, ultimo, ma non per importanza,
quello della sessuo-logia contemporanea, sul sesso e sulla sessualità, che mirano a
studiarlo in quanto oggetto del sapere. Un sesso che viene classificato, pensato,
valutato, confessato e che, proprio per questo, ha trasfigurato quello che si vive,
quello carnale e sensuale che, in quanto mero fatto che avviene, non si lascia pensare.
Ed è così che torniamo alle domande di L. Nave, che hanno aperto questo paragrafo:
“come può la filosofia accostarsi al sesso senza snaturarne l’intima essenza? Come
possiamo applicare la filosofia al sesso in modo che il sapere applicato non risulti
lontano dalla realtà di cui intende parlare?” (Nave L., pag. 38, in “Platone e il viagra”,
a cura di Berra L. e Nave L., 2009).
La risposta fornita è la seguente:
“[…] solo qualora [la filosofia] smetta gli abiti metafisici e rinunci alla sua desiderosa
volontà di sapere che la induce a costruire logoi sul sesso al fine di riprendere contatto
con il mondo della vita, se da sapere-teoria-logos diventa praxis o modus vivendi, se torna
a stabilire i contatti con la viva vita, con il corpo vivo e con gli aspetti concreti e vitali
41
che caratterizzano l’esistenza dell’uomo nel mondo, di cui la sessualità ne rappresenta
una dimensione fondamentale” (ivi, 2009, pag. 38).
Ed è possibile trattare filosoficamente il sesso in assenza di una metafisica
costruzione di discorsi sul sesso solo se si recupera la sacralità del sesso, non nel
senso religioso, bensì in quello etimologico, che rinvia a qualcosa di misterioso,
enigmatico e indicibile.
“Il sacro, insomma, quale alterità ontologicamente pensata nel suo stesso rimandare
ad altro, all’ignoto, a ciò che sta oltre il sapere, oltre il quotidiano, oltre il normale, a
ciò che è assolutamente irriducibile ad altro e a cui non si può accedere attraverso un
pensiero e un linguaggio normale, bensì con un pensiero altro”(ivi, 2009, pag. 39).
E, in effetti, il sesso è sacro nella misura in cui rinvia al mistero della vita,
all’enigmaticità di quell’atto sessuale finalizzato alla riproduzione che già annuncia la
morte del singolo individuo a favore della conservazione della specie a cui
quell’individuo appartiene. Rinvia a quella volontà di vivere, a quella potenza
indicibile nella sua essenza che è stata oggetto di riflessione da parte di molti
pensatori.
Da questo punto di vista, il counselor filosofico non può fare del sesso un oggetto
del sapere, da classificare, studiare, analizzare e cogliere le cause di una sua anomalia.
Potrà però rivolgersi al consultante, che porta il suo problema sessuale, per aiutarlo a
cogliere il senso e il valore che per lui ha la sessualità, il modo in cui tale significato
s’inserisce nella sua visione del mondo e nel suo progetto di vita, il modo in cui vive
la sua sessualità. In definitiva, potrà rivolgersi ai suoi desideri, valori, pensieri,
sentimenti e credenze che stanno alla base del suo modo di essere-nel-mondo al fine
di rispondere a domande di senso in merito a tematiche sessuali.
42
2.6 Il punto di vista psicoanalitico. Cenni
Queste ultime parole del paragrafo precedente ci fanno comprendere quanto sia
differente e distante il lavoro del counselor filosofico rispetto a quello di uno
psicanalista.
La psicoanalisi di stampo freudiano vede nella sessualità una pulsione sicché un
problema sessuale, come per esempio quello di una coppia che non riesce più a fare
l’amore, concerne essenzialmente un ostacolo al deflusso della libido, rimasta legata a
figure parentali.
Di qui l’analisi, che ha l’obiettivo fondamentale di andare, attraverso particolari
tecniche (analisi dei sogni, associazioni libere, interpretazioni, transfert e
controtransfert e regressione), a investigare l’inconscio per trattare i disturbi nevrotici
che influenzano il problema sessuale.
Indubbiamente Freud e i suoi seguaci hanno cercato di dare un valore plenario alla
sessualità, dal momento che non l’hanno ridotta alla funzione riproduttiva biologica,
ma ne hanno visto un elemento concernente la creatività psicologica: sessualità come
vettore e produttore di pensiero e piacere; sessualità come creazione di strutture
mentali nuove e come possibilità di entrare in relazione con altri; sessualità come
rivitalizzazione di contenuti mentali spenti. La sessualità non viene quindi limitata
all’uso degli organi genitali e la si trova dietro i sostituti simbolici o viene sublimata
nella sete di conoscenza. Ma è soprattutto quando è rimossa, che la sessualità si
manifesta in sintomi psicopatologici. Va dato anche il merito a Freud e alla sua scuola
di avere studiato l’evoluzione della sessualità nell’essere umano, dal neonato su fino
alla persona adulta e anziana (Cociglio, 2012).
Le pulsioni sessuali, dette anche libidiche, derivano da eccitazioni somatiche che
promuovono processi psichici, ossia sono costituenti psichici determinati
geneticamente che producono uno stato di tensione psichica che provoca
nell’individuo un’attività il cui fine è di far cessare l’eccitazione stessa. Esistono
diverse fasi dello sviluppo psicosessuale umano: nello stadio orale (nascita-18° mese)
43
la libido è fusa con la funzione alimentare; durante lo stadio anale (fine del 3°anno)
essa si concentra sulla bocca e poi sull’ano; dai 4 ai 5 anni - stadio fallico - la libido
confluisce sugli organi genitali: qui essa si presenta forte, violenta e incompleta, anche
se siamo più al livello delle fantasie che di mere attività. Nello stadio fallico la libido
sessuale viene rivolta verso le figure genitoriali, per cui il bambino desidera il genitore
di sesso opposto con conseguente nascita di rivalità nei confronti del genitore del suo
stesso sesso e con conseguente senso di colpa legato all’incesto (complesso di
Edipo). Si tratta di un desiderio, quest’ultimo, che è rivolto verso il proprio genitore,
che non può essere accettato dalla coscienza sicché viene rimosso e trasferito
nell’inconscio. Prima della pubertà (che viene detta anche fase genitale), si verifica un
periodo di latenza caratterizzato dall’impossibilità di realizzare le fantasie edipiche,
dal pudore e dalla sublimazione verso il senso estetico e quello morale. Con la
pubertà l’oggetto della pulsione sessuale diventa un’altra persona esterna alla famiglia
di appartenenza: l’individuo si prepara a diventare adulto, passando dalla corrente di
tenerezza della pulsione propria della relazione col genitore (relazione madrebambino) alla forma autoerotica, prima di essere investita su un’altra persona.
Durante lo sviluppo psicosessuale, la libido fluisce da oggetto a oggetto, diminuendo
verso un oggetto della fase precedente quando viene raggiunta la fase successiva.
Cambia anche il modo di gratificazione durante questi passaggi evolutivi, che
sembrano essere determinati geneticamente, pur potendo variare da persona a
persona. È importante notare che, secondo questa teoria, il persistere (inconscio)
della libido su un oggetto dell’infanzia nel corso ulteriore della vita - la cosiddetta
fissazione - può dar luogo a manifestazioni patologiche. Così come si può verificare
una regressione verso un precedente oggetto o modo di gratificazione. Infine,
durante la vecchiaia, venendo meno il rigore delle componenti genitali, la sessualità si
arricchisce di contenuti mentali: diviene più importante la relazione che lo sfogo
sessuale (Berra, appunti anno 2014).
Secondo la psicoanalisi, è impossibile abbandonare definitivamente gli oggetti primari
della libido (seno materno, genitori, ecc.) e la sessualità dell’individuo si costituisce
44
attraverso diverse e molteplici operazioni mentali inconsce di cui la condotta sessuale
visibile ne è solo un aspetto superficiale (oltre il comportamento si hanno il piacere
sessuale, le emozioni e gli affetti connessi, le motivazioni, le fantasie occulte, ecc.) Da
un punto di vista psicopatologico, i sintomi sessuali vengono interpretati come difese
da angosce più grandi o come difese da pulsioni di morte perverse. La difficoltà della
terapia sta nella resistenza manifestata dal paziente al passaggio dei contenuti mentali
inconsci alla loro consapevolezza. Ecco perché l’analista deve riuscire a capire il
comportamento sessuale attraverso il vissuto che si è organizzato nella mente del
paziente, al di là di ciò che realmente è accaduto nella sua vita. È, insomma, la
struttura mentale attuale del paziente che dà significato agli eventi storici e traumatici
che gli sono capitati (Cociglio, 2012).
Si comprende come il counselor filosofico non faccia niente di tutto ciò e non si
occupi di disturbi sessuali, essendo più interessato a ricercare, insieme al cliente, il
valore, il senso e il significato profondo che della sessualità hal’interlocutore, in
quanto sono questi sensi, valori e significati che dirigono e caratterizzano la sua
singola esistenza. La filosofia diventa lo strumento che permette di recuperare il
senso autentico della sessualità il quale arriva, lo si creda o no, a influenzare il
comportamento sessuale stesso. Il fatto di scoprire (o riscoprire) nuovi significati e
nuove forme della sessualità, può aiutare il consultante a prendersi cura di sé, a
raggiungere l’equilibrio, cioè a comprendere l’essenza del suo problema ed essere così
pronto a un’azione adeguata e giustificabile.
Il pensiero di Freud si è evoluto, nel corso degli anni, in più direzioni e in modo
particolare verso la teoria delle relazioni oggettuali. Secondo questa concezione, le
pulsioni emergono nel contesto di una relazione e si innescano per cercare l’oggetto
piuttosto che per ridurre la tensione (Berra, appunti anno 2014). A dire di M. Klein,
la sessualità è nella sua essenza relazione e il problema sessuale, come per esempio
quello precedente di una coppia che non riesce più a fare l’amore, viene associato alla
relazione fra i due membri della coppia stessa in termini di “distanza-vicinanza” e di
45
“scambio di oggetti”. Secondo tale teoria, gli oggetti possono essere esterni (persona
in carne e ossa) e interni (fantasie e rappresentazioni mentali di un oggetto esterno o
di una sensazione corporea. Si tratta per lo più di fantasie inconsce che includono la
rappresentazione di sé e dell’oggetto collegate da un affetto). Gli oggetti interni, a
loro volta, possono essere cattivi (sorgono dal dolore della fame – seno cattivo) e
buoni (sorgono dal piacere sensoriale dell’allattamento – seno buono); possono
essere parziali (figure incomplete, sul piano morfologico, del pene, della vagina e delle
feci e, sul piano emozionale, come la fantasia della madre buona e della madre
cattiva, del partner buono e di quelli cattivo; gli oggetti parziali sono vissuti come
estensioni narcisistiche dell’Io e la separatezza dall’oggetto esterno non viene
riconosciuta). E possono essere totali (figura completa sia sul piano morfologico sia
su quello emozionale; sono vissuti come separati dal sé e dotati di esistenza
autonoma). Ebbene, secondo questa teoria, in un rapporto sessuale si scambiano
fluidi, corpi e soprattutto oggetti interni proiettati e introiettati, quali emozioni,
pensieri, sensazioni, fantasie. A differenza della psicoanalisi freudiana, si hanno qui
proiezioni di oggetti e non investimenti libidici: si cerca l’oggetto e la relazione, non
la scarica pulsionale e gli stessi scambi di fluidi (saliva, sperma, ecc.) simboleggiano
passaggi di oggetti interni. Da un punto di vista psicopatologico, dietro un disturbo
sessuale si nasconde allora un problema di relazione oggettuale e in una relazione
terapeutica, per il paziente, il legame affettivo e inconscio con il terapeuta spesso è
più importante delle sue prestazioni tecniche (Cociglio, 2012).
Quest’ultimo punto merita attenzione perché richiama la consapevolezza psicologica
del counselor filosofico. Egli deve cioè essere consapevole e attento allo scambio
oggettuale, al transfert e controtransfert, che si verifica durante i colloqui. Mentre la
consulenza filosofica si caratterizza per dare un parere tecnico e specialistico nei
confronti di un determinato problema esistenziale, senza tenere conto del rapporto
che si crea tra i due interlocutori, la relazione tra il consultante e il counselor interessa
invece notevolmente il counseling filosofico, in quanto la relazione è un fattore
centrale per lo sviluppo del discorso filosofico. E il counselor filosofico deve essere
46
consapevole delle dinamiche psicologiche del transfert e del controtransfert non
perché deve vedere in questi degli strumenti terapeutici da usare, bensì per imparare a
leggere i linguaggi del proprio corpo e quelli dell’interlocutore, le emozioni che
emergono durante il counseling. Solo così potrà gestire professionalmente la
relazione di aiuto e instaurare col cliente un rapporto di saggezza, che è ciò che più
caratterizza questa forma di aiuto. In breve, è necessario che il counselor mantenga
un purezza filosofica, senza però togliere una sua conoscenza anche di tipo
psicologico, per agire e interagire efficacemente e con maggiore consapevolezza col
consultante, evitando errori o complicazioni (Berra, appunti anno 2102).
2.7 il punto di vista cognitivo-comportamentale. Cenni
Il comportamentismo è un approccio che discende dalla psicologia sperimentale,
ossia un tentativo di costruire una psicologia e una psicoterapia basata sul modello
delle scienze naturali. La filosofia soggiacente a questo approccio è quella che
paragona l’uomo a una macchina e il suo oggetto di studio è il comportamento
osservabile dell’individuo, descrivibile mediante assunti che devono poter essere
verificati e/o falsificati. Lo scopo della psicoterapia che s’ispira a questo modello
teorico è analizzare il comportamento non appropriato e le sue possibile
modificazioni; l’intervento terapeutico viene attuato nel “qui e ora”, senza il bisogno
di agire su traumi passati risalenti all’infanzia.
Gli interventi di modificazione del comportamento inappropriato si rifanno
essenzialmente a tre leggi, le quali stanno alla base degli apprendimenti che
determinano il comportamento (Cociglio, 2002):
a) modello di apprendimento del condizionamento classico (pavloviano): se si
associa uno stimolo neutro (per esempio un suono) a uno stimolo
incondizionato (per esempio del cibo), il quale per sua natura è in grado di
elicitare una risposta psicofisiologica incondizionata (aumento della
salivazione), allora, dopo un certo numero di associazioni, lo stimolo neutro
47
diventa anch’esso in grado di elicitare l’originaria risposta incondizionata,
trasformandosi così in uno stimolo condizionato che suscita a questo punto
una risposta condizionata. Il legame stimolo condizionato - risposta
condizionata è temporaneo nel senso che la risposta condizionata (aumento
della salivazione all’ascolto del suono) può estinguersi (o differenziarsi) o
anche generalizzarsi. Si estingue se il condizionamento non viene
sistematicamente ripetuto (lo stimolo condizionato torna a essere stimolo
neutro); si generalizza quando stimoli più o meno simili allo stimolo
condizionato sono in grado di elicitare ugualmente la risposta condizionata.
b) Modello di apprendimento del condizionamento operante (skinneriano): un
comportamento casuale (per esempio, pigiare una leva), se seguito da un
rinforzo (per esempio, l’apertura della porta dove vi è del cibo), sarà ripetuto
con maggiore frequenza. Se invece è seguito da una punizione (piccola e non
intensa scarica elettrica), sarà ripetuto meno frequentemente. I rinforzi
possono essere positivi o negativi: i primi rinviano a tutte quelle situazioni
che comportano l’aggiunta di qualcosa (piacere, contatto sessuale,
approvazione sociale, beni tangibili, ecc.) a un certo stato. Quelli negativi
sono caratterizzati dal togliere un elemento di disturbo o di sofferenza. Una
punizione consiste invece o nel sottrarre un rinforzo positivo e/o
nell’aggiungere uno stimolo avversivo.
c) Il terzo e ultimo modello di apprendimento è quello del modellamento: gli
individui tendono a ripetere i comportamenti, attuati da persone per loro
significative (modelli), che sono seguiti da un rinforzo. Il soggetto osserva
cioè i comportamenti che il modello attua e il rinforzo che il modello riceve.
Se anche lui riceve un rinforzo dallo stesso comportamento, allora
apprenderà il comportamento.
Ebbene, l’attività sessuale è una delle maggiori fonti di piacere e quindi tende a essere
ripetuta. Ne segue che, alla luce di questa teoria, i diversi problemi sessuali debbono
essere ricercati in un deficit di apprendimento. Normalmente la genesi dei disturbi
48
sessuali è per lo più dovuta a un processo di condizionamento classico, per poi
mantenersi per mezzo di un processo di condizionamento operante. Per esempio, il
vaginismo (disfunzione sessuale femminile che rende impossibile la penetrazione) ha
questa logica di funzionamento: si crea un condizionamento classico, in base a eventi
della vita soggettiva della persona (esperiti direttamente o per sentito dire), per cui il
tentativo di penetrazione o il solo pensiero della stessa determina uno spasmo
involontario dell’ostio vaginale. Anatomicamente i genitali della donna vaginismica
sono normali e tuttavia l’accesso vaginale è fondamentalmente serrato. Questo
comportamento, dovuto allo spasmo involontario dei muscoli che circondano la
vagina, si mantiene per il rinforzo negativo conseguente alla rinuncia della
penetrazione: si evita la penetrazione e questa rinuncia consente alla persona di
sottrarsi a una situazione di ansia (rinforzo negativo), sicché questo comportamento
di rinuncia si manterrà anche in futuro. Una donna può soffrire di vaginismo
permanente se la disfunzione è presente fin dall’inizio dell’attività sessuale; il
vaginismo è invece acquisito se il disturbo si è sviluppato dopo un periodo di
funzionamento normale. Inoltre, il vaginismo può essere situazionale se si verifica
solo con un certo tipo di stimolazione, con certi partner e in determinate situazioni,
oppure generalizzato se si verifica indipendentemente dalla situazione, dai partner o
dal tipo di stimolazione (devo queste informazioni alla psicosessuologa clinica,
titolare dello studio di sessuologia presso cui ho svolto il mio progetto).
Mi sono soffermato su questo punto per due motivi: in primo luogo ci permette di
capire come un counselor filosofico, di fronte a comportamenti inadeguati del tipo di
cui sopra, non ha titoli, poteri e riconoscimenti giuridici per operare verso una
soluzione del problema. Egli lavora con situazioni non patologiche, non si occupa di
stimoli e di cause del disturbo e non s’interessa della soluzione del sintomo.
Tuttavia, e di qui il secondo motivo, le donne che soffrono di vaginismo, giusto per
proseguire con l’esempio di prima, non necessariamente hanno una vita sessuale
assente (spesso raggiungono l’orgasmo con la stimolazione clitoridea e non
49
raramente si procurano piacere mediante giochi erotici purché escludano qualsiasi
penetrazione vaginale). Il punto nodale è che la coppia, per lo più ignara o non
consapevole della natura del problema, tenta ripetutamente il coito e ciò crea alla
donna non solo un dolore fisico, ma soprattutto un effetto psicologico ed esistenziale
disastroso: spavento, fobie, umiliazioni, paura del provare, provocazione di dolore,
senso di inadeguatezza, frustrazione, angoscia, timore di perdere il compagno,
fallimento del progetto di vita, idea del fallimento dello stesso, sensi di colpa, ecc.
Questo giustifica il motivo per cui il comportamentismo, preso in sé con la sua
filosofia meramente meccanicistica, per quanto sia efficace nel risolvere
meccanicamente alcune patologie sessuali, necessiti di essere integrato da un’altra
forma di terapia, che spesso risulta essere quella cognitiva. E ciò mi permette sia di
richiamare il cognitivismo e le terapie cognitivo-comportamentali sia, in modo ancora
più importante, il counseling filosofico in quanto, come vedremo, la filosofia a cui
s’ispira il cognitivismo e alcune tecniche utilizzate da questa terapia trovano la loro
origine in quei filosofi dell’antichità che sono i maestri dell’attuale counselor
filosofico. Ciò, in definitiva, mi permette di affermare come sia possibile gettare un
ponte tra la terapia cognitivo-comportamentale (Cognitve-Behaviour-Therapy: CBT)
e il counseling filosofico e quindi come sia auspicabile un lavoro sinergico tra un
sessuologo che si rifà a tale terapia e il counselor filosofico a orientamento
fenomenologico-esistenziale, pur mantenendo in essere le differenze specifiche e
sostanziali.
Procediamo per passi. Primo: il cognitivismo; secondo: la CBT; terzo: il fondamento
filosofico della CBT; quarto: il counseling filosofico come relazione di aiuto
complementare e sinergica alla CBT in seno a problematiche esistenziali connesse a
disfunzioni sessuali.
Il cognitivismo, al contrario del comportamentismo, non si occupa esclusivamente
dei comportamenti visibili del’individuo ma ha come oggetto di studio i processi
mentali, le cognizioni e le emozioni. Questo approccio presuppone un soggetto
50
attivo, in grado di elaborare i dati (spesso si utilizza la metafora del
software/hardware) e generatore di conoscenze personali e di significato. Al pari di
uno scienziato che studia un fenomeno naturale, secondo il cognitivismo la persona
comune costruisce modelli di sé e del mondo per formulare ipotesi che possono
essere messe alla prova (verificate o falsificate) tramite i comportamenti. Il pregiudizio che sta a monte di tale approccio è che si presume di poter stabilire
oggettivamente quali siano i comportamenti più adattivi nelle varie situazioni
esistenziali e quali siano i processi cognitivi più idonei. Esisterebbero cioè modalità
più corrette (razionali) e altre meno corrette (soggettive) di costruire le proprie
esperienze. Lo scopo è di mettere il paziente nella condizione di confrontare le due
modalità di costruire le proprie esperienze e, conseguentemente, di valutarne il
successo o l’insuccesso nel raggiungimento dei propri obiettivi. Le stesse emozioni,
che sono comunque determinate biologicamente e che sono portatrici di
informazioni essenziali per i bisogni, l’adattamento e la sopravvivenza dell’individuo,
vengono intese come attività cognitive autonome (Cociglio, 2002) .
Il punto di vista cognitivo considera la sessualità, oltre che un programma biologico
che favorisce e mantiene i legami di coppia, come un modo particolare di fare
esperienza che coinvolge la persona nella sua interezza. Da sola però non è in grado
di dare un significato alla vita di coppia e di mantenere una relazione interpersonale
duratura; la sessualità si attiva insieme al sistema di attaccamento, accudimento o di
agonismo. Essa viene compromessa quando, lungi dal soddisfare il bisogno sessuale,
viene invece usata come pretesto o modo per agire il bisogno di accudire o di essere
accuditi, di vincere o di essere sconfitti, di dare o ricevere fiducia e affetti. Per
esempio, se domina il sistema agonistico, la sessualità induce, nel soggetto più debole,
ansia e depressione: emergono qui disturbi in tutte le fasi (desiderio, eccitazione,
orgasmo e piacere) della risposta sessuale. Se invece si attiva eccessivamente il
sistema di attaccamento o di accudimento si possono verificare disturbi del desiderio
(Cociglio, 2012).
51
Le CBT, come indica il loro stesso nome, sono tecniche che pongono l’accento sugli
aspetti cognitivi (memoria, pensiero, aspettative, percezione, ecc.) che influenzano il
comportamento. Vengono usati strumenti diversi: dalla desensibilizzazione tipica del
comportamentismo, al problemsolving; dalla ristrutturazione cognitiva al dialogo
socratico. L’idea di fondo che caratterizza queste terapie è che ogni apprendimento si
attua sempre attraverso una mediazione cognitiva e una reciproca influenza tra
emozioni, comportamento e cognizioni. Si può perciò modificare il comportamento
inadeguato ed eliminare il disturbo emerso modificando i pensieri disfunzionali, i
processi cognitivi (cioè i meccanismi di pensiero) e le strutture cognitive (ovvero le
credenze).
Albert Ellis, psicologo statunitense studioso per tutta la sua vita di filosofia, è stato
l’ideatore della terapia razionale-emotiva (RET), il cui assunto fondamentale suona
così: il nostro modo di reagire emotivamente agli eventi e il nostro comportamento
non sono automaticamente determinati dagli eventi esterni, ma dalla visione che
abbiamo di queste stesse situazioni, ossia da come percepiamo, interpretiamo e
valutiamo ciò che ci accade. Per dirla con Epitteto: ciò che turba gli uomini non sono
le cose, ma le opinioni che essi danno alle cose. Pare che Ellis si sia proprio ispirato
alla massima dell’antico filosofo greco per formulare il suo modello (ABC), il quale,
pur enfatizzando i processi cognitivi nel determinare i nostri stati d’animo e le nostre
reazioni, riconosce una stretta interrelazione tra pensieri, emozioni e comportamenti.
Detto in modo lineare, il processo che porta a reazioni disfunzionali, secondo Ellis, si
basa su tre punti (Ellis, 1993):
A: evento attivante, ossia la situazione esterna o interna (fantasie e ricordi) in cui
la persona può trovarsi coinvolta (per esempio, essere abbandonati dal proprio
compagno perché si soffre di vaginismo);
B: base mentale o sistema di convinzioni. Concerne il modo in cui interpretiamo
A, cioè l’insieme di convinzioni, pensieri, considerazioni e commenti interiori che
compaiono nell’individuo riguardo all’evento considerato. Queste convinzioni
possono essere irrazionali, illogiche, inadeguate e irragionevoli (per esempio, non
52
troverò più un uomo come lui ed è insopportabile vivere senza la sua compagnia)
oppure razionali, realistiche, logiche (per esempio, è triste se mi dovesse lasciare,
ma posso rifarmi una vita anche senza di lui). Le prime conducono la persona ad
avere stati emotivi negativi, spesso intensi o prolungati, mentre le seconde a
emozioni e a comportamenti adeguati;
C: conseguenze emotive e comportamentali, vale a dire gli stati emotivi e le
reazioni comportamentali che erroneamente si crede siano causate da A.
“Ellis, come gli stoici, ritiene che possiamo cambiare le nostre emozioni cambiando i
nostri pensieri o le nostre opinioni riguardo agli eventi” (Evans, pag. 18, 2014). Il
modello che Ellis ha elaborato per porre rimedio alle reazioni disfunzionali consiste:
D: nel mettere in discussione le credenze irrazionali;
E: nel prendere atto degli effetti della messa in discussione sia sulle emozioni sia
sul comportamento e sia sulle convinzioni.
“Analogamente, Aaron Beck mi disse di essere stato ispirato dalla Repubblica di
Platone […] Questi due pionieri, Ellis e Beck, hanno preso i concetti e le tecniche
dell’antica filosofia greca e li hanno collocati al centro della psicoterapia occidentale”
(ivi, pp. 18-19, 2014).
Secondo A. Beck (Beck, 2008), i soggetti sono influenzati da tre livelli interconnessi
di pensieri: i pensieri automatici, intesi come idee superficiali (per esempio, mia
moglie non mi ama); le assunzioni di base, ossia credenze intermedie che stanno a
fondamento dei primi e aiutano a organizzare le percezioni (per esempio, se mia
moglie non mi desidera vuol dire che non mi ama); gli schemi, ossia le convinzioni
incondizionate (per esempio, sarò sempre solo). La tecnica di esame delle false
credenze e delle convinzioni inconsce viene chiamata da A. Beck “metodo
socratico”, in quanto si ispira al dialogo socratico. La CBT insegna al paziente l’arte
d’interrogare se stesso: egli s’impegna in un dialogo con lo psicoterapeuta, il quale
53
cerca di aiutarlo a scoprire le sue credenze irrazionali, i suoi pensieri automatici, le sue
assunzioni di base e i suoi schemi. Lo psicoterapeuta aiuta il paziente a vedere come
tutti questi elementi cognitivi formino le sue emozioni e lo supporta nel metterli in
discussione, per verificare se hanno un senso.
Secondo il grande maestro di Platone, la filosofia ha il compito di aiutare la gente
comune a trovare risposte alle proprie preoccupazioni. Gente, questa, che passa la
maggior parte della vita come dei dormienti, intrappolati nelle proprie faccende
quotidiane, assorbendo i valori e le convinzioni della famiglia e della società di
appartenenza, senza mai sottoporli a indagine, senza chiedersi cosa stanno facendo e
perché lo fanno. Per Socrate, se l’individuo fa sue le convinzioni sbagliate, alla fine se
ne ammala e la sua anima necessita di essere curata. Fortunatamente, secondo
Socrate, l’individuo ha in sé le risorse per esaminare le sue convinzioni, per scegliere
di cambiarle, e quindi di guarire. Questo atteggiamento irriflesso della gente comune,
di tutti noi totalmente presi dalle faccende quotidiane, a mio modo di vedere, è
paragonabile a quello che Husserl chiamava l’atteggiamento in presa diretta o praticonaturale e al quale contrapponeva l’atteggiamento in presa riflessa (questionante e
radicale).
Ma qual è l’atteggiamento pratico-naturale?
È quello diretto al mondo, caratterizzato dalle abituali e provvisorie certezze e dalle
normali attività operative (lavorare, fare la spesa, appendere quadri, darsi da fare, fare
questo o quello, dirigersi, interessarsi, ecc.) È quello che Husserl chiama
atteggiamento in “presa diretta”: l’atteggiamento operativo dell’azione per cui la cosa
è presa di mira come meta diretta dell’azione.
Il consultante che porta il problema è, come ciascuno di noi, fondamentalmente
immerso nell’atteggiamento pratico-naturale.
Riflettere significa sospendere tutto ciò per conseguire una visione autentica e non
illusoria delle cose. Significa chiedersi quale sia il fondamento delle opinioni che
guidano la nostra azione e il nostro agire. Vuol dire sospendere l’impulso pratico che
da quelle opinioni deriva e quindi tutte le teorie, tutti i principi e tutte le nostre
54
conoscenze, per riportarci al presente vissuto così come lo viviamo. Quando
riflettiamo sulle datità fenomeniche operiamo la cosiddetta epoché: mettiamo tra
parentesi la validità di tutte le nostre abitudinarie opinioni e delle nostre teorie, non
perché vogliamo ignorare la loro esistenza o perché vogliamo confutarle, bensì
perché non ne vogliamo proprio fare uso. Quando sospendiamo l’atteggiamento
pratico-naturale ci riportiamo riflessivamente a esso per indagarlo e per porre in
evidenza le sue caratteristiche essenziali. Il che significa gettare un primo sguardo a
quelle conoscenze implicite dalle quali sono tratte le indicazioni di valore che guidano
le nostre azioni.
Husserl contrappose formalmente all’atteggiamento in “presa diretta” l’atteggiamento
in “presa riflessa”, per cui io sospendo l’azione per fermarmi a considerare. Questo
atteggiamento in “presa riflessa” viene chiamato anche atteggiamento questionante.
Mentre la riflessione naturale si ferma a considerare come una cosa è o non è, senza
però che il soggetto abbandoni definitivamente l’atteggiamento in “presa diretta” e
pratico-naturale dell’operare e del riflettere comuni e delle opinioni sedimentate (che
nella vita quotidiana non sono mai disgiunti), la riflessione questionante ci porta a
chiederci il modo dell’avere queste opinioni (come ho queste opinioni che
accompagnano il mio problema? Come mi sono date e come sorgono? Sola da qui
può poi sorgere la domanda: come posso superarle?)
La riflessione questionante esamina in che modo noi viviamo il mondo, il nostro
problema connesso alla nostra esistenza quotidiana e mondana, e in che modo esso
mi viene incontro e che cosa di esso propriamente si manifesta.
La riflessione questionante è poi integrata dalla riflessione radicale, grazie alla quale
dirigo il mio sguardo verso tutte quelle mie attività intenzionali con le quali mi sono
costantemente riferito al mondo. Nel caso del counseling, per quanto non sia per
nulla facile raggiungere questo tipo di riflessione, consiste nel mettere il consultante
nella condizione di riflettere radicalmente sul suo problema, ossia:
55
-
farsì che non sia solo praticamente interessato al suo problema e quindi
toglierlo dall’atteggiamento della “presa diretta”;
-
farsì che non sia unicamente interessato al suo problema solo per darne
un giudizio di valore, ossia distoglierlo dalla riflessione naturale;
-
farsì che non sia solo interessato ai caratteri generali per i quali nel
mondo della vita può emergere un problema come il suo, cioè distoglierlo
dalla riflessione questionante;
-
farsì, invece e soprattutto, che nella sua percezione del problema emerga
il suo valore intenzionale, ossia il suo dirigersi verso il mondo, il senso
profondo e il valore che dà alle sue azioni durante la sua esistenza.
Grazie alla riflessione radicale, il problema viene indagato nei suoi modi d’essere
internamente agli atti intenzionali, a tutte quelle modalità cogitative che
caratterizzano il modo con cui quel soggetto si relazione alla sua vita e al mondo che
sta abitando. Mediante la riflessione, il consultante si è riferito indietro al problema
che già aveva sperimentato, ma per rifare in modo nuovo tale esperienza, ovvero in
modo filosofico: egli ha raggiunto il massimo livello di astrazione e di distanziamento
dal problema e questo processo di oggettivazione ha reso possibile la scissione della
componente emotiva dalla difficoltà presentata, creando il terreno per formulare
giudizi e concetti più critici.
La fenomenologia può dunque aiutarci a prendere le distanze dall’atteggiamento
pratico-naturale e può condurci verso una riflessione filosofica che ci porti a
prendere consapevolezza dei valori e delle intenzioni più profonde che caratterizzano
la nostra esistenza in questo mondo. Insomma, questa è la cura filosofica: pare
esserci un legame indissolubile tra la propria visione del mondo, la propria filosofia
personale, la propria salute psicofisica, e ciò vale non solo per Socrate e i filosofi
antichi e per il counseling fenomenologico-esistenziale, ma anche per Beck ed Ellis.
Secondo A. Beck, la terapia cognitiva consiste in un processo di apprendimento
grazie a cui una persona acquista l’abilità di parlare a se stessa in modo costruttivo, in
56
modo tale da riuscire a controllare il proprio comportamento. Per dirla con Socrate:
conosci te stesso.
È la cosiddetta “ristrutturazione cognitiva”: la causa del problema non va cercata
negli istinti repressi e nella libido (come invece vuole la psicoanalisi) ma neppure in
un malfunzionamento dei neuroni che può essere risolto solo per via farmacologica
(come vuole la psichiatria che fa proprio il punto di vista biologico). La causa del
disturbo va cercata nelle convinzioni del paziente, nelle sue abitudini di pensiero,
nelle sue false e tossiche credenze che lo hanno avvelenato e hanno contaminato le
sue emozioni e i suoi comportamenti. La ristrutturazione cognitiva mira a farsì che il
paziente impari a riconoscerle, ad analizzarle e quindi a controllarle e a sostituirle con
altre più razionali; e fa ciò con tecniche di interrogazione e di auto-interrogazione che
evocano il metodo socratico.
A questo punto dovrebbe essere evidente il legame con il counseling filosofico. Se
attraverso la CBT il paziente impara a portare a coscienza le proprie credenze
irrazionali e/o acquisite dall’ambiente di appartenenza, mediante il counseling
filosofico la persona impara a sospendere la sua vita abitudinaria, impara a rendere
conscio l’implicito, l’abitudinario, la sua non sempre consapevole visione del mondo,
causa di malessere; prende coscienza dei valori, spesso inconsapevoli, che guidano le
sue azioni. Se grazie alla CBT il paziente cambia le sue convinzioni e con ciò migliora
la sua salute emotiva e fisica, con il counseling filosofico diventa consapevole che
opinioni differenti portano a stati emotivi differenti. Impara a rendere abituale il
conscio, la sua nuova visione del mondo; impara a distanziarsi dalla situazione
problematica. Grazie all’epoché, al dubbio e alla riduzione, il soggetto impara a portare
le sue credenze automatiche alla coscienza. Qui le pone sotto torchio, riflette su di
esse, ne testa i fondamenti e la razionalità. Grazie all’aiuto maieutico del counselor,
impara a vedere nuove intuizioni filosofiche e, attraverso puri esercizi pratici, le ripete
finché non diventino le sue nuove abitudini. Con la differenza, adesso, che non sono
più portatrici di disagio, bensì di maggior benessere.
57
P. Hadot (Hadot, 2008) ha mostrato come la filosofia sia nata in quanto pratica, cioè
allenamento, insieme di esercizi che ci permettono di rafforzare la nostra nuova e più
funzionale visione del mondo. In quanto pratica, la cura filosofica richiede impegno,
energie, costanza e coraggio: solo così impariamo a cambiare le nostre abitudini
automatiche, i nostri pensieri e convincimenti sbagliati. Ma richiede soprattutto
umiltà, perché nessuno di noi è incline a riconoscere come sbagliato il proprio modo
di vedere il mondo.
“Nondimeno, è inevitabile che, traducendo la filosofia antica in un corso di CBT
della durata di sedici settimane, i terapeuti cognitivi abbiano dovuto mutilarla e
restringerne il campo. Il risultato è una forma piuttosto atomizzata e strumentale di
autoaiuto, che si concentra sullo stile di pensiero individuale, ignorando i fattori etici,
culturali e politici” (Evans, pag. 26, 2014). Con queste parole Evans ci dice
indirettamente che il counseling filosofico, se vuole rifarsi alle sue origini, deve
mettere il consultante nella condizione di relazionare la sua dimensione psicologica
con quella etica, politica e cosmica. È questa la differenza specifica rispetto alla CBT:
l’aiuto elargito non può prescindere dal fatto che la persona richiedente aiuto creda o
no in Dio, dal significato che ella dà alla propria esistenza, dal posto e dal ruolo che
ella ricopre e gioca nella società, nel mondo e nell’universo. Si tratta di una relazione
di aiuto più complessa, di sicuro più ambiziosa, che comunque non va d’accordo con
quelle forme di aiuto che vanno tanto di moda adesso, basate su pochi precetti e
poche massime ritenute in grado di risolvere i vari problemi esistenziali. E non va
d’accordo perché la società di oggi ha educato gli uomini a ottenere tutto e subito: un
problema di erezione che non abbia cause organiche, per esempio, deve essere risolto
con una pillola, ma guai mettere in atto un impegno riflessivo sul significato che la
sessualità ha per il portatore di quel problema, sui suoi valori e sul senso del proprio
esistere. Ecco perché il lavoro del filosofo pratico è appena iniziato, e non è certo
facile.
I punti cardine su cui si basa la CBT sono essenzialmente tre (Evans, 2014):
58
1) gli individui sono in grado di conoscere se stessi e possono usare la loro
intelligenza per esaminare le loro credenze, i loro valori e le lo convinzioni
implicite;
2) usando la ragione, gli individui possono cambiare se stessi cambiando le loro
convinzioni. Siccome le emozioni sono connesse alle convinzioni, la
variazione di quest’ultime determina un modificazione delle prime;
3) mediante opportuni esercizi e un costante allenamento, gli individui sono in
grado di creare e mantenere nuove abitudini di pensiero, sentimento ed
emozione.
Questi tre punti, già esplicitati e formulati da Socrate, insegnano alcune abilità
cognitive, determinate capacità di pensiero, ossia come guidare la nostra mente.
Tuttavia non ci dicono dove indirizzarla: qui intervengono considerazioni morali ed
etiche che possono essere messe a fuoco non tanto dalla CBT, quanto dal counseling
filosofico. È in una relazione di aiuto di tipo filosofico che la persona prende
consapevolezza del suo progetto esistenziale, della sua visione del mondo, magari per
abbandonarli o riformularli; è in una relazione di questo tipo che il consultante si
mette nella condizione di vivere un’esistenza “spiritualmente” migliore, cercando e
facendo propria una sua nuova filosofia, un proprio stile di vita. È qui, in sostanza,
che impara a prendersi cura di sé e della propria esistenza.
Chiudo
questo
paragrafo
portando
un
esempio
di
modello
cognitivo-
comportamentale della sessualità con lo scopo, ancora una volta, di mostrare come il
lavoro del counselor filosofico si differenzi da quello dello psicosessuologo in quanto
non usa né fa riferimento a modelli psicologici, non si serve di test, ma si faccia
guidare dall’esperienza vissuta dal consultante.
Secondo l’ottica cognitivo-comportamentale, “il comportamento emesso da un
soggetto viene considerato come la risposta a uno stimolo, che può essere interno
(cognitivo, cioè ideativo, o propriocettivo, derivante dall’autopercezione dei propri
59
processi fisiologici) o esterno o comportamentale (proveniente dall’ambiente e/o dal
proprio o dall’altrui comportamento). Tale risposta è costituita da tre componenti:
quella cognitiva, legata all’attivazione elettrocorticale (cioè della corteccia cerebrale);
quella emozionale, derivante dall’attivazione del sistema limbico e di quello
neurovegetativo (ortosimpatico e parasimpatico); e quella comportamentale,
conseguente all’attivazione motoria dei muscoli scheletrici. Essa dipende, nella sua
qualità e quantità, dall’interazione di queste tre componenti che, a loro volta, sono
innescate e regolate da meccanismi costituzionali (la dotazione biologica innata) e da
processi appresi (le aspettative, basate sull’identità di sé e sui sistemi di convinzioni e
di valori); il tutto è inserito in complessi circuiti di feedback, o retroazione, per cui ogni
elemento della catena viene modificato dal funzionamento degli altri e, nel contempo,
lo modifica” (Dettore D., “Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale”,
pag. 133, Dambra, 2001).
Ebbene, l’indagine del terapeuta, il cosiddetto assessment, deve dunque contemplare
questi ambiti in quanto, secondo il modello presentato, “lo sviluppo della sessualità e
di un comportamento affettivo adeguato è costituito dall’integrazione di abilità
complesse nei quattro diversi ambiti” (ivi, pag. 135, 2001):
-
ambito biologico. Concerne il sesso cromosomico (cromosoma X o Y) e
quello neuroendocrino. Il terapeuta, se non è medico, deve inviare il
paziente a uno specialista per esami organici che testino il livello di
ormoni o di estrogeni che possono causare disturbi sessuali; deve
compiere un’indagine a livello farmacologico perché alcuni farmaci
possono alterare il desiderio e il funzionamento sessuale. In breve, un
accurato controllo medico permette di escludere o confermare cause
organiche a monte del disturbo sessuale;
-
ambito emozionale. Afferisce alle risposte emozionali di tratto, cioè
innate e confacenti i tratti di personalità, che costituiscono il fondamento
delle risposte emozionali apprese. Qui il terapeuta può somministrare dei
questionari, come per esempio l’EPQ (Eysenck Personality Questionnaire),
60
che permettono di individuare le caratteristiche personologiche (soggetto
introverso/estroverso, ansioso/emotivo, ecc.) molto utili per la
pianificazione dell’intervento terapeutico. La somministrazione di
questionari non esclude, da parte del terapeuta, la possibilità di
domandare direttamente al paziente se prova disagio o sentimenti
spiacevoli di fronte a pensieri, percezioni e visioni di cose connesse alla
sessualità. Tuttavia “tali rilevazioni andrebbero confermate e arricchite da
misurazioni obiettive, oggi tecnicamente possibili” (ivi, 2001, pag. 143).
L’attivazione fisiologica (arousal), cioè il processo con cui l’organismo si
attiva per fronteggiare le situazioni problematiche, caratterizzata da
mutamenti biochimici, risposte muscolari e attivazioni motorie, viene
percepita dal paziente come ansia o altre emozioni. Una misurazione
obiettiva di tali reazioni consente di identificare meglio le paure sessuali
del paziente. Inoltre, una mancanza di abilità di autoregolazione e di
autocontrollo o condizionamenti negativi della vita passata (traumi,
fallimenti, ecc.) possono indurre iper-reattività delle risposte di
attivazione. Così come si può verificare un’ipo-reattività delle risposte di
attivazione in seguito all’assenza della risposta di attivazione sessuale
indotta dal partner o in seguito a risposte concorrenti inibitorie apprese
per condizionamenti precedenti.
-
ambito cognitivo. Questo ambito comprende lo schema di sé (l’immagine
che il soggetto si attribuisce sia da un punto vista fisico sia da un punto di
vista intellettuale e morale); l’immagine del partner; il sistema di
convinzioni e di valori; il sistema di conoscenze e di abilità (il suo grado
di
conoscenza
della
fisiologia
dell’apparato
riproduttivo,
del
concepimento, della gravidanza, ecc., ma anche il suo grado di
automonitoraggio, di autovalutazione, di autoefficacia e autorinforzo, la
capacità di scelta, il problemsolving, ecc.); le attribuzioni di significato;
l’identità di genere; l’identità di ruolo; il concetto di sessualità; il concetto
di piacere. È questo l’ambito di intervento delle tecniche della CBT,
61
poiché “il modo in cui il soggetto interpreta, nell’ambito cognitivo, i
propri pensieri, le proprie reazioni emozionali e i propri conseguenti
comportamenti induce ulteriori pensieri, emozioni e comportamenti,
adattivi o disadattivi, in un circolo che si autosostenta. Tali interpretazioni
dipendono dagli schemi di sé e interpersonali e dai sistemi di valori e di
convinzioni che il soggetto ha elaborato nel corso della sua esistenza (ivi,
pag.143, 2001);
-
ambito
comportamentale.
Si
distinguono
qui
le
componenti
prevalentemente innate da quelle prevalentemente apprese. Un rapporto
sessuale richiede complesse abilità, che sono di natura comportamentale e
biologica, ma anche di natura emozionale e cognitiva: abilità sociali
(capacità di attivare, gestire e mantenere una buona conversazione; abilità
di lettura dei segnali verbali e non; ecc.); abilità sessuali (repertori
comportamentali connessi a una conduzione corretta e soddisfacente di
un rapporto sessuale); abilità di autoregolazione (gestione dell’ansia;
capacità di regolare la propria attivazione eccessiva; ecc.) Spesso un
problema sessuale ha a che fare con la povertà dei repertori sessuali e
sociali o con la povertà di abilità comportamentali e di contrattazione.
Anche per quest’ambito, al fine di indagare e valutare il vissuto corporeo,
il piacere, la masturbazione, ecc., si può somministrare al paziente un
questionario, come per esempio il SESAMO (Sexuality Evaluation Schedule
Assesment Monitoring).
Come emerge anche da questo modello, tutto ciò che riguarda la sessualità ha
implicazioni etiche, morali e valoriali che possono essere affrontate filosoficamente
con un counselor, senza che questi faccia diagnosi, somministri test o cerchi le cause
di un’anomalia del rapporto sessuale (compiti, questi, che spettano al sessuologo
clinico). Una persona che si rivolge a un sessuologo può trovarsi ad affrontare scelte
etiche forti (che possono essere sia la causa che la conseguenza del problema
sessuale). Il counselor filosofico si rivolge allora alla persona, che porta il suo
62
problema legato alla sfera sessuale, per aiutarla a cogliere il senso e il valore che per
lei ha la sessualità, il modo in cui tale significato s’inserisce nella sua visione del
mondo e nel suo progetto esistenziale, il modo in cui vive la sessualità. Egli si rivolge
ai desideri, valori, pensieri, sentimenti e credenze che stanno alla base del modo di
stare al mondo della persona che ha richiesto aiuto, al fine di rispondere a domande
di senso in merito a tematiche sessuali. Lo scopo dell’incontro di counseling è di
aiutare la persona ad andare oltre la sua normale dimensione di pensiero, facendole
acquisire una posizione che le consenta di osservare privilegiatamente le questioni
che riporta: si tratta di trascendere la sua ristretta visione del mondo, causa di
sofferenze e di disagio esistenziale, per raggiungere un rinnovato equilibrio nella
propria vita.
2.8 Cenni di terapia mansionale integrata sessuologica
L’approccio integrato nelle terapie sessuali si caratterizza per il progressivo
abbandono della fedeltà ai principali orientamenti esistenti (psicodinamico,
comportamentista, ecc.) e per una conseguente apertura verso i contributi di altri
orientamenti teorici. Dopo gli anni ’50 del secolo scorso, “la psicoterapia
comportamentale si apre alle teorie psicodinamiche e sistemiche, ma soprattutto alle
terapie umanistiche che sottolineano l’importanza dell’approccio centrato sul cliente
e dell’atteggiamento empatico che trasforma radicalmente anche le vecchie posizioni
asettiche della psicoanalisi tradizionale” (C. Simonelli e A. Fabrizi, “Le disfunzioni
sessuali e l’approccio integrato”, pag.19, in “L’approccio integrato in sessuologia
clinica”, a cura di C. Simonelli, FrancoAngeli, 2010).
I motivi che hanno spinto e incoraggiato un approccio integrato al trattamento dei
disturbi sessuali sono essenzialmente due: l’emergere di centinaia di tipi di forme di
intervento terapeutico e l’impossibilità di dimostrare empiricamente la maggior
efficacia di una terapia rispetto a un’altra.
Del resto, “quando si parla di disfunzionalità sessuale, infatti, occorre tener sempre
presenti come possibili fattori eziologici aspetti biologici, chimici, fisici, psicologici e
63
culturali, non solo nelle loro peculiarità, ma nelle loro interazioni reciproche […] Per
esempio, un uomo che soffre di disfunzione erettile a causa di un grave problema
vascolare, vivrà certamente anche sentimenti di inadeguatezza, di depressione, di
frustrazione della sua identità sessuale maschile, inoltre sarà coinvolta la sua partner e
quindi la relazione di coppia” (ivi,pag. 20, 2010).
Di qui, appunto, l’idea d’integrare approcci teorici e strumenti clinici disparati:
“farmaci,
consulenza
sessuale,
interventi
psicoterapeutici
ad
orientamento
psicodinamico, cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale, mansioni, tecniche
di rilassamento, in modo da individuare piani di intervento efficaci che si adattino alle
esigenze della persona piuttosto che ai principi di un determinato modello. Con
questo non si intende certo sostenere il caos o l’adeguamento passivo, incondizionato
e collusivo alle richieste del paziente; il presupposto che guida tale modalità di
intervento è l’adozione da parte del terapeuta di una propria teoria di valori, come
punto di riferimento per le scelte terapeutiche e come criterio di confronto dialettico
con le convinzioni del paziente, tuttavia tale teoria non può coincidere, in maniera
rigida e riduttiva, con i principi di una sola teoria scientifica o di una scuola di
pensiero” (ivi,pag. 21, 2010).
Parole sagge, queste ultime, che presuppongono, da parte delle autrici, non solo la
polisemia del concetto di sessualità, ma anche e soprattutto una concezione non
riduttiva dell’essere umano. Tant’è che le stesse studiose affermano che “una visione
psicosomatica e somatopsichica contestualizzata sembra essere l’unica possibilità di
comprensione autentica di una manifestazione [quella sintomatologica] così
complessa” (ivi, pag. 20, 2010). Per farla breve, la sessuologia clinica non può
prescindere dal rapporto sinergico esistente tra il sistema corpo e il sistema mente,
dall’individuo in carne e ossa e dal suo essere membro di una coppia, così come non
può prescindere dal contesto socio-culturale di appartenenza dello stesso.
Che esistano interazioni complesse tra mente e corpo, che la mente stessa non può
essere pensata in quanto disincarnata e che l’unità psicofisica sia sempre situata in un
64
mondo, sono tutti quanti concetti che la fenomenologia di Husserl e dei suoi
collaboratori ha messo in evidenza già a partire dai primi anni del secolo scorso. La
stessa fenomenologia, insieme alle correnti filosofiche che sono sorte dal suo ventre,
come per esempio l’esistenzialismo e la neurofenomenologia, hanno evidenziato
come l’essere umano è si corpo, è certo psiche ma anche e in modo specifico un
essere intenzionale, che conferisce senso, che cerca significati, che manifesta valori. Il
counseling filosofico, come abbiamo detto nell’introduzione di questo lavoro,
presuppone un’antropologia filosofica precisa secondo la quale, accanto alla
dimensione ontologica del corpo e a quella della psiche, occorre porre anche la
dimensione noetica, che rinvia alla libertà di volontà dell’uomo, alla sua volontà di
significare e di attribuire un senso all’esistenza. Se tutto ciò è vero, ossia se è vero che
la tendenza attuale della sessuologia clinica è quella di integrare più approcci proprio
perché si è presa consapevolezza che l’essere umano non può essere semplicemente
ridotto a un suo particolare aspetto e se è vero che, proprio per quest’ultima
considerazione, tra i vari aspetti che caratterizzano l’uomo compare in modo esplicito
anche quello noetico, allora da queste premesse ne segue che l’approccio integrato in
sessuologia non può non considerare gli aspetti più prettamente esistenziali del
paziente. E chi, più del counselor filosofico, può trattare questi aspetti in un’ipotetica
equipe di lavoro che comprenderebbe il medico, lo psicologo e il consulente sessuale,
come operatori principali del trattamento delle tematiche sessuali? Se di terapia
integrata si parla, allora l’aspetto noetico non può essere escluso e il trattamento della
disfunzione sessuale non può aprioristicamente scartare l’apporto del counselor
filosofico, il quale non interviene per curare una patologia esistenziale correlata a
disturbi sessuali, bensì per aiutare la persona a prendersi cura di se stessa e della sua
visione del mondo, che la disfunzionalità sessuale ha messo in dubbio.
In effetti, che esista una differenza sostanziale - benché non tale da escludere una
collaborazione reciproca - tra terapia mansionale integrata (TMI) e il counseling
filosofico, emerge già da queste parole: la TMI “è una terapia strategica. Ha quindi
uno scopo preciso che viene perseguito elaborando un’adeguata strategia. Lo scopo
65
non è solo la scomparsa del sintomo ma anche il mantenimento del risultato
raggiunto […] La TMI ha una struttura precisa e caratteristica […] La TMI è una
terapia sostanzialmente di coppia. I primi colloqui sono utilizzati per la ricostruzione
del problema e la sua ridefinizione in termini adeguati alla terapia, per la
formulazione del contratto o l’invio ad altro specialista. Ogni seduta inizierà con
l’analisi delle mansioni svolte e terminerà con la prescrizione delle mansioni
successive […] Le TMI sono terapie esplicitamente direttive” (Fenelli A e Lorenzini
R., pp. 19-20, 2011).
Al contrario, il counseling filosofico non è un intervento che mira alla scomparsa del
sintomo, ma una relazione interpersonale in cui il counselor cerca di aiutare il cliente
a rispondere (o a risolvere) a un problema esistenziale; non utilizza i primi colloqui
per ricostruire il problema, ma per identificare il problema all’interno della personale
visione del mondo e del progetto esistenziale. Il counseling filosofico non è direttivo,
cercando invece un rapporto di saggezza con il consultante e centrando la relazione
sul cliente stesso. Infine, mentre un disturbo sessuale “è una manifestazione cognitiva
(di pensieri e di emozioni) e comportamentale (sia individuale che relazionale) che è
considerata sgradevole dal soggetto stesso e che tende ad automantenersi” (ivi, 2011,
pag. 62), un problema esistenziale è in ultima analisi una domanda di senso che il
cliente si pone in merito al suo esistere in questo mondo; domanda che il problema
sessuale può avere innescato o accentuato o anche, e per converso, domanda che ha
indotto la disfunzione sessuale.
2.9 Perché il counselor filosofico non è un sessuologo clinico né un
consulente sessuale?
In questo ultimo paragrafo del presente capitolo intendo indicare brevemente i
motivi per cui il counselor filosofico non è un sessuologo clinico né un consulente
sessuale e, ciononostante, far intravedere ancora una volta come la figura del
counselor filosofico possa essere molto utile, in un’equipe di lavoro integrata, per
66
aiutare la persona che manifesta disturbi sessuali a far chiarezza sui suoi valori, sulla
sua etica, sul senso della sessualità e sul significato che egli attribuisce al sesso.
Una prima considerazione da tenere presente per rispondere alla suddetta domanda
riguarda la differenza tra consulente sessuale e un sessuologo clinico. Mentre il
sessuologo clinico è un medico o uno psicologo o uno psicoterapeuta che ha seguito
una scuola di specializzazione in sessuologia clinica, il consulente sessuale può essere,
oltre che un medico o uno psicologo o uno psicoterapeuta, anche un infermiere, un
ostetrico, un fisioterapista, un assistente sociale o un counselor, che abbia seguito un
corso, più breve del primo, in consulenza sessuale. Inoltre, mentre il sessuologo
clinico può intervenire sul disturbo del paziente con una terapia, il consulente
sessuale offre invece una consulenza di primo livello, ossia analizza la domanda
portata dal paziente, indaga l’esistenza di eventuali e precedenti interventi, elabora
una progettazione diagnostica in collaborazione con altri specialisti e ristruttura la
domanda in termini adeguati a una possibile e successiva terapia. Il consulente
sessuale svolge anche il delicato compito di inviare ad altri specialisti (ginecologo,
andrologo, psichiatra, neurologo, endocrinologo, infettologo, dermatologo e
psicoterapeuta) il paziente qualora dovesse ravvisare, mediante la sua consulenza di
primo livello, l’esistenza di disturbi più specifici oltre alla presenza della
sintomatologia sessuale (Simonelli, 2010).
A valle di questa distinzione, si comprende immediatamente come il counselor
filosofico (che non sia anche psicoterapeuta o medico o psicologo con
specializzazione in sessuologia) non è un sessuologo clinico, dal momento che non
può curare disturbi organici e psichici dei pazienti. La professione del counselor
filosofico si differenzia anche da quella del consulente sessuale, in quanto
quest’ultima è una consulenza tecnica che richiede una specifica preparazione di base
in
consulenza
sessuale
(psicosomatica,
sessuologia,
counseling,
sviluppo
psicosessuale, contraccezione, maternità, menopausa, identità di genere, anamnesi,
ecc.), mentre il counselor filosofico, che può comunque accrescere privatamente la
67
sua conoscenza sui temi sessuali, non offre una consulenza expertise in merito a
disturbi sessuali.
Indubbiamente esiste un’area sovrapponibile di lavoro tra il consulente sessuale e il
counselor filosofico, dal momento che entrambi hanno ricevuto una formazione sulle
tecniche e sui principi del counseling in generale. Entrambi, cioè, esplorano (e
aiutano la persona in difficoltà a esplorare) i sentimenti, le paure, le emozioni in
generale e le credenze relative alla sessualità; entrambi possono discutere le attese del
soggetto rispetto alla sessualità; tutti e due i professionisti cercano di identificare le
risorse individuali o del partner da mettere in gioco per fronteggiare il problema; sia il
counselor filosofico sia il consulente sessuale cercano di promuovere una
comunicazione aperta nella coppia e vedono nella chiarificazione del problema una
prima soluzione del problema stesso. Entrambi, infine, accompagnano la persona a
riscoprire e a ripensare le varie forme in cui la sessualità può esprimersi.
Ma mentre il consulente sessuale, nel fare tutto quanto sopra riportato, sussume
un’accezione scientifica del termine “significato” (di sesso o sessuale), il counselor
filosofico ne sussume una filosofica. Mi spiego: in termini molto generali e concisi la
scienza vede nel termine “significato” essenzialmente il concetto di “funzione, di
espressione (nel senso di “che cosa esprime?” e di interpretazione” (Cociglio, pag.
123, 2002), cioè di relazioni che intercorrono fra il fenomeno studiato - il sesso - e
altri fenomeni (gli organi, la mente, la cultura, la società, ecc.) Allo scienziato non
interessa ricercare il senso ultimo e l’essenza del sesso.
Va subito precisato che nemmeno al counselor filosofico interessa una metafisica di
questo tipo ma,differentemente dal consulente sessuale, quando egli cerca di
identificare il problema riportato dal consultante, si preoccupa più di ogni altra cosa
del valore che tale problema ha per lui. Il termine “significato” rinvia filosoficamente
ai concetti di valore, di importanza, di utilità e quindi al vissuto soggettivo del
consultante in quanto vissuto unico, irripetibile e individuale che deve essere
compreso con atteggiamento squisitamente empatico. Al counselor filosofico desta
68
interesse il modo in cui il problema sessuale-esistenziale riportato dal consultante si
inserisce nella sua visione del mondo, il modo in cui esso si rapporta ai valori
principali della sua vita, ai suoi punti di riferimento, ai suoi scopi esistenziali e al suo
progetto esistenziale, a quel reticolo di significati che determinano la sua esistenza.
Infatti, ogni essere umano ha una sua visione del mondo, una filosofia personale, un
modo proprio e unico d’intendere l’esistenza e quindi una particolare scala di valori.
Il compito del counselor filosofico, mediante attrezzi e strumenti meramente
filosofici, è quello di esplicitare questi elementi della visione del mondo del
consultante cercando di applicarli al problema riportato, proponendo altre visioni del
mondo da intendere però come spunti di riflessione per guidare e accompagnare il
cliente stesso nel proprio percorso di ricerca. L’aiuto del counselor filosofico consiste
nell’identificare i punti significativi da trattare ed elaborare filosoficamente: solo così
può avvenire quel processo di distanziamento e di oggettivazione che permette la
scissione dalla componente emotiva del problema, la possibilità di elaborare giudizi e
concetti più critici e che è propedeutica alla reintegrazione del problema trattato nella
visione del mondo e nel progetto esistenziale da cui era stato estratto (Berra, appunti
anno 2012).
Per concludere, il valore aggiunto di questa relazione di aiuto sta nel fatto che,
filosofando col consultante sul problema della normalità sessuale o sugli aspetti
relativi al rapporto di coppia o su questioni relative a problemi di fertilità o di
tradimento, giusto per fare alcuni esempi, questa stessa relazione di aiuto può chiarire
maggiormente i significati e i valori delle persone che si sono cimentate con quei
problemi e tale chiarificazione può contribuire a una risoluzione delle difficoltà
sessuali-esistenziali manifestate.
69
3. Erosofia: applicazione delle basi filosofiche al
problema concreto
3.1 Davide ovvero questione di credenze e di cura di sé
Le basi teoriche esposte nei precedenti capitoli rappresentano il contesto entro cui ho
lavorato al fine di maturare e approfondire un approccio personalizzato al counseling
filosofico, cercando di coniugare l’universalità del sapere filosofico con la concretezza
della pratica professionale.
Munito di questi strumenti mi sono così presentato presso lo studio di
psicosessuologia. Il progetto di lavoro sottoscritto con la titolare dello studio
prevedeva quattro obiettivi (come ho già presentato nell’introduzione) che qui
riporto:
-
trovare punti di possibile integrazione del counseling filosofico all’interno
della pratica clinica psicosessuologica;
-
differenziare la pratica filosofica nella forma di counseling da un intervento di
natura psicosessuologica;
-
confrontare le metodologie cognitivo-comportamentale e di terapia
mansionale integrata sessuologica con il counseling filosofico applicato a
problemi esistenziali legati alla sfera sessuale e sentimentale;
-
costruire una “cassetta degli attrezzi” specifica del counseling filosofico
nell’ambito di una relazione di aiuto.
Come è emerso dalle analisi precedenti, un possibile e teorico spazio di
collaborazione tra il counselor filosofico e lo psicosessuologo esiste. In questa parte
intendo mostrare come concretamente si è attuata la collaborazione e come una
sinergia tra queste due professioni è stata molto utile per i pazienti/consultanti, al
punto tale da mettere me e la psicosessuologa nella condizione di portare avanti la
70
collaborazione al di là delle ore previste nel progetto sperimentale e di pensare a delle
linee guida di lavoro comune.
Vediamo allora il lavoro concreto che si è costruito.
Una prima parte è stata dedicata a presentare alla psicosessuologa la figura del
counselor filosofico e il suo specifico modo di lavoro. Subito dopo si è passati alla
descrizioni di alcuni casi che la professionista stava seguendo per raggiungere questi
sottobiettivi: promuovere, in me, un ascolto attivo; individuare un’eventuale
domanda di senso ed esistenziale riportata dal paziente quando questi esponeva il suo
problema sessuale; condividere alcune strategie filosofiche per rispondere a quella
domanda.
Una terza fase è stata invece caratterizzata dall’invio, da parte della psicosessuologa,
di pazienti, in quanto portatori di problemi eminentemente esistenziali, a me
counselor filosofico in formazione permanente. Emotivamente parlando è stata
questa la parte più bella, ma anche più intensa e difficile. Ho avuto modo di seguire
direttamente alcuni consultanti.
Nell’ ultima fase del progetto, ho avuto modo di formalizzare con la professionista i
possibili punti d’incontro tra counseling filosofico e terapia psicosessuologica. Come
detto poco più sopra, la collaborazione non si è fermata e ad oggi, non solo vengo
chiamato in causa dalla professionista qualora ella evidenzi il bisogno di parlare con
me di alcuni casi che si caratterizzano peculiarmente per problematiche esistenziali,
valoriali e filosofiche, ma anche come possibile specialista a cui inviare i consultanti.
Detto ciò, passo a descrivere innanzitutto alcune situazioni su cui io e la
psicosessuologa ci siamo confrontati e abbiamo collaborato sinergicamente.
Davide, un uomo di 36 anni, raccontò alla psicosessuologa, durante il primo
colloquio, un episodio accaduto a su fratello minore: nel 2005 arrivò un sms al
cellulare di suo fratello da parte di una persona che suo fratello stesso credeva essere
una donna. Iniziò così una corrispondenza tramite messaggi che lo eccitò molto e lo
portò a masturbarsi, sebbene a un certo punto della relazione telefonica, non solo
71
cominciò a sospettare che l’interlocutore fosse un uomo, ma addirittura gli arrivò un
sms con una fotografia di un pene. Da quel momento il fratello si accorse
palesemente della sua omosessualità e cominciò drammaticamente a comunicare il
suo orientamento sessuale a tutti i suoi famigliari. I genitori di Davide non seppero
affrontare in modo maturo quella situazione. Sospettarono che anche Davide potesse
essere omosessuale e lo costrinsero a rivolgersi a uno specialista per accertare la sua
identità sessuale. Si rivolse quindi a uno psicologo il quale lo rassicurò del fatto di
essere eterosessuale. Dopo il percorso fatto con lo psicologo stette bene per diversi
anni, anche se cominciò a nutrire embrionalmente alcuni sentimenti di astio nei
confronti delle persone omosessuali, sentimenti ai quali non diede troppo retta. Fino
quando, nel 2012, un evento particolare gli rievocò la situazione vissuta tragicamente
dal fratello e dai familiari portandolo in uno stato di ansia. Di qui la scelta di
contattare la sessuologa.
Dopo alcuni incontri, durante i quali la professionista poté constatare che Davide era
felicemente fidanzato e che progettava di andare a vivere con la sua attuale
compagna, emerse il problema in questi termini: egli riportò di nutrire un forte odio
nei confronti dei gay, perché rovinano le famiglie e fanno soffrire i genitori.
L’obiettivo che si era posto in seduta fu di non nutrire più astio verso i gay e di
raggiungere un suo interno ed equilibrato benessere: insomma far fine a quello stato
di paura e ansia che lo accompagnava ogni qual volta pensava all’omosessualità o si
trovava vicino a una persona omosessuale.
Il confronto tra me e la psicosessuologa, di fronte all’analisi di tale problema, ha
sortito questa condivisione: abbandonare ogni nostro possibile pregiudizio rispetto a
quanto raccontato dal consultante, accettando il suo problema così come lui lo ha
riportato (concretezza del dato e nessun rifiuto aprioristico di quanto detto);
esclusione di qualsiasi dietrologia e sospensione di ogni nostra interpretazione
rispetto alla sua identità sessuale.
Accanto al lavoro compiuto dalla psicosessuologa, ho chiesto alla stessa
professionista se riuscisse nel contempo a delineare la visione del mondo di Davide,
72
attraverso un esercizio di racconto autobiografico. Ne emerse un’educazione molto
rigida da parte del padre; di essere molto credente e di avere avuto un’educazione
fortemente cattolica da parte della madre. Uscì anche il suo desiderio di tornare a
vivere nella sua terra di origine e di stare pensando a un trasferimento di lavoro.
A seguito dell’intervento psicologico ci fu un significativo calo di ansia e delle
ossessioni circa l’omosessualità. Rimaneva a questo punto l’altro obiettivo, non
disgiunto alla diminuzione di malessere: lavorare intorno alle idee negative e all’odio
per gli omosessuali. Domandai alla professionista se poteva chiedere a Davide di
eseguire, con calma e a casa appena ne avesse avuto tempo, il seguente esercizio
filosofico:
-
scrivere due/tre episodi di un sentimento di odio, disagio, timore e di
avversità che egli ha realmente vissuto quando si è trovato in situazioni sociali
con persone omosessuali (escludendo quelle vissute con suo fratello);
-
capire in quale modo quel o quei sentimenti lo hanno colpito e lo hanno fatto
stare male;
-
capire per cosa soffre quando si trova in quelle situazioni e in che modo gli
viene da esprimere i suoi sentimenti;
-
dare una sua definizione personale di quel sentimento;
-
riflettere su quali credenze ci sono alla base di quel sentimento e sulla loro
verità o correttezza.
L’esercizio compiuto da Davide suggerì a me alla sessuologa alcune domande di
natura generale. L’omosessualità è naturale o è contro natura? I sentimenti sono
innati e immodificabili? Quanto c’entra la cultura e l’ambiente sociale di appartenenza
nel provare quello che si prova? Al termine “omosessuale” corrisponde una realtà
oggettiva? Le distinzioni di sesso esistono in natura e nel mondo vegetale e animale?
Maschio e uomo, femmina e donna sono la stessa cosa?
73
Queste e altre domande sono state considerate come l’implicito non pensato di
Davide, su cui poter operare con un lavoro filosofico, non per indurlo a cambiare
idea o per rinforzare quella che già manifestava, ma per fargli prendere coscienza dei
suoi pensieri, delle sue credenze e del senso che per lui ha la sessualità. Tutto ciò per
aiutarlo ad autocostituirsi come soggetto responsabile di quello che sente e prova
attraverso un lavoro su se stesso.
Io, counselor filosofico in formazione permanente, e la psicosessuologa, ci siamo
allora confrontati su questi temi, ciascuno per le proprie competenze e conoscenze, e
insieme abbiamo condiviso di indagare l’idea che Davide ha di “contro-natura”,
dominante nella sua visione del mondo. Le idee filosofiche che si sono pensate di
spendere nei successivi colloqui con Davide sono state prese in prestito da Vera
Tripodi (si voglia considerare “Filosofia della sessualità”, di Vera Tripodi, come testo
di riferimento per la pratica filosofica applicato a questo caso).
Dopo avere riflettuto sulla metafisica dei generi, Tripodi, nel suo saggio, affronta il
problema del rapporto tra biologia e genere e afferma che, in base agli esempi che la
natura offre di ermafroditismo e di cambio di sesso, «non è naturale che un
organismo vivente debba essere necessariamente femmina o maschio e che non
possa essere anche entrambi. Il sesso tra gli animali è allora esclusivamente
funzionale alla conservazione e alla sopravvivenza della propria specie? Sesso e
riproduzione sono necessariamente associati nel mondo animale? […] Ebbene, non
sembra che sia sempre così» ( Tripodi,pag. 51, 2001).
E prosegue riportando degli esempi di come il sesso regoli la vita comunitaria
animale in modo più complesso rispetto alla mera riproduzione e conservazione della
specie. Nel mondo animale, la masturbazione, gli atti d’amore omosessuali e altre
pratiche paiono coinvolgere comportamenti più complessi della pura riproduzione,
quali il corteggiamento, la capacità di costruire rapporti relazionali o prendersi cura
della prole. Per la filosofa, “il fatto che l’omosessualità sia presente anche tra le specie
74
animali rende confutabile l’argomento secondo cui tale orientamento sessuale sia
innaturale o contro-natura” (ivi, pag. 52, 2001).
Tripodi si fa indubbiamente portavoce di una posizione nominalista in merito al
problema della metafisica dei generi: alla domanda se i termini “uomo” e “donna”
catturino una categoria naturale o invece siano solo costruzioni linguistiche che gli
esseri umani stabiliscono in riferimento al loro comportamento sessuale, la studiosa
sostiene la tesi del genere come costruzione socio-linguistica. Al contrario, secondo
l’approccio realista, si differenzia linguisticamente il genere donna da quello di uomo
solo perché questa differenza esiste, di fatto, nella realtà.
Quali sono invece le idee di Davide intorno al concetto di “contro-natura”? A questo
consultante è stato chiesto, mediante un homework, di scrivere alcune sue
considerazioni e credenze in merito al tema “essere contro-natura”.
Non è assolutamente compito del counselor filosofico indurre nella persona
richiedente aiuto un’idea che non sia la sua e ogni riferimento che mette in atto a testi
filosofici, per quanto portatori di idee contrarie a quelle del consultante, ha la sola
funzione di metterlo in una posizione di riflessione e di indagine rispetto a un
particolare tema. È invece compito del counselor filosofico mostrare alcune fallacie
logiche a cui la persona bisognosa può incorrere, al fine di evitare che possa trarre
delle conclusioni, da delle premesse, che invece da queste non seguono.
Davide non stava bene con se stesso e riportava un malessere generalizzato sia
perché ha subito un episodio che l’ha messo in dubbio in merito alla sua identità
sessuale sia perché non riesce a tollerare persone non eterosessuali. Anzi, il solo
pensare che la persona che ha di fronte possa essere omosessuale, gli suscita
sentimenti di fastidio, schifo, odio e avversione. Pur avendo un fratello gay.
Peter Raabe, counselor filosofico, ha accostato il counseling filosofico alla R.E.T.
(terapia razionale emotiva), poiché entrambe le pratiche si fondano sull’assunto
75
secondo cui, cambiando ciò che pensiamo, possiamo cambiare ciò che sentiamo
(Epitteto insegnava che non sono le cose a turbarci, ma quello che pensiamo di esse,
come abbiamo già potuto constatare). Davide sentiva malessere, rabbia, odio, schifo
e fastidio, oltre che paura, e pensava che gli omosessuali potessero mettere a rischio
la prosecuzione della specie umana (ciò emerse dall’esercizio assegnatogli).
La filosofia, fin dalla sua nascita, ha insegnato agli uomini e alle donne a lavorare sulla
fondatezza e sulla legittimità di ciò che si pensa, non tanto chiedendosi perché si
pensi quello che si pensa, ma cosa si sta pensando mentre lo si fa. No le cause
psicologiche o sociali del nostro pensiero, sì invece il contenuto di quello che si sta
pensando, aprendo la possibilità di pensare a qualcosa di diverso se il primo pensiero
non sia fondato.
Davide, nel compiere i compiti assegnati, intuì che, tra le varie cause per cui lui si
sentiva male di fronte a certi eventi, c’erano anche pensieri legati alla sua tradizione
religiosa. Tuttavia, non cercò mai di mettere in dubbio se le premesse da cui
partivano i suoi ragionamenti fossero vere, come lui avrebbe potuto pensare.
Insomma, il problema stava nel metterlo nella condizione di trascendere le eventuali
cause psicologiche o sociali che lo avevano portato, fino a questo momento, a
pensare in un certo modo, per dargli la possibilità di un altro pensiero.
Il lavoro successivo che si è pensato di fare con Davide, dunque, è stato quello, una
volta riconosciute alcune fallacie logiche, di aiutarlo a ragionare sui suoi stessi
ragionamenti.
Davide argomentava che l’omosessualità sia contro-natura, così:
-
essere contro-natura significa violare le leggi della natura. Siccome è una legge
naturale, al fine della procreazione, quella per cui ci debbono essere atti
sessuali con persone di sesso diverso, allora gli atteggiamenti omosessuali
sono contro-natura;
76
-
se si riconoscessero agli omosessuali i diritti che rivendicano, allora i figli
adottati da queste coppie avrebbero problemi esistenziali in merito alla loro
identità sessuale. Inoltre, se tutte le coppie omosessuali adottassero dei
bambini e, questi, vedendo che sia normale che due esseri umani dello stesso
sesso stiano insieme, allora potrebbero diventare essi stessi omosessuali. Se
così fosse, la specie umana, alla fine, sarebbe a rischio.
Per ciascuno di questi ragionamenti, si potrebbe controbattere una serie di obiezioni
(siamo così sicuri che in natura il sesso si faccia solo tra esseri eterosessuali? Se anche
ci fossero delle coppie omosessuali, davvero la specie umana sarebbe a rischio? Come
possiamo verificare che i bimbi adottati da coppie omosessuali vivranno dei problemi
esistenziali? Ecc.)
Non è monotono ripetere che il counselor filosofico, nel ragionare dialetticamente
col consultante, non vuole assolutamente convincerlo di un’idea diversa da quella da
cui si è partiti (anzi, potrebbe essere che il counselor sia della stessa idea del
consultante). È invece suo compito aiutarlo a vedere se i suoi ragionamenti stiano in
piedi, e fino a che punto, oltre che aiutarlo a diventare responsabile fino in fondo di
quello che dice e di quello che agisce.
Non ci è dato sapere se i pensieri e le credenze di Davide siano state la causa diretta
dei suoi problemi e dei suoi sentimenti o se, viceversa, siano stati i suoi sentimenti
che l’hanno portato a pensare in quel modo. È però evidente che tra quelle credenze
e quegli stati d’animo esiste una correlazione, tra l’altro riportata da Davide stesso,
sulla quale il counselor può lavorare.
E vi può operare con un mero lavoro di cura di sé. Foucault è stato un filosofo che
ha sempre rifiutato ogni rigida distinzione tra teoria e storia. Egli scrive, in merito al
compito della filosofia (Foucault, “L’uso dei piaceri”, pag. 14, 2009):
“Ma che cos’è dunque la filosofia, oggi - voglio dire l’attività filosofica - se non è
lavoro critico del pensiero su stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si
77
sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in
modo diverso? Vi è sempre un che di derisorio nel discorso filosofico quando
pretende, dall’esterno, di dettar leggi agli altri, dir loro dov’è la verità e come trovarla,
o quando trae motivo di vanto dall’istruir loro il processo con ingenua positività; ma
è suo pieno diritto esplorare ciò che, nel suo stesso pensiero, può essere mutato
dall’esercizio di un sapere che le è estraneo. La prova - che va intesa come prova
modificatrice di sé nel gioco della verità e non come appropriazione semplificatrice di
altri a scopi di comunicazione - è il corpo vivo della filosofia, se questa è ancor oggi
ciò che era un tempo, vale a dire un’ascesi, un esercizio di sé, nel pensiero”.
Poche parole, ma, a mio modo di vedere, gravide di ricchissime indicazioni e
categorie per la pratica filosofica:
-
in primo luogo il counselor filosofico aiuta il consultante a lavorare
criticamente sul suo stesso pensiero;
-
nel fare questo, non legittima il sapere che il consultante già sa, ma lo stimola
a pensare in modo diverso;
-
inducendolo a pensare in modo diverso, il counselor filosofico non elargisce
al consultante verità preconfezionate né detta leggi;
-
al contrario, mette le vesti di un esploratore per poi donargliele affinché
possa anch’egli esplorare un sapere estraneo al suo pensiero;
-
la forma con la quale questa esplorazione avviene è quella dell’esercizio (di
pensiero);
-
questo esercizio è la prova che modifica se stessi nel gioco della verità, ossia
mette il consultante nella condizione di trascendere la sua abituale visione
della realtà, un andare oltre la sua ristretta visione, causa di sofferenze e di
disagio esistenziale.
Ma perché questo filoso-fare dovrebbe aiutare il cliente?
Nella stessa opera, a pagina 214, Foucault scrive:
78
«Ciò che la filosofia è in grado d’insegnare, infatti, è di diventare “più forti di se
stessi” e, raggiunto quel traguardo, prevalere sugli altri. La filosofia è, in se stessa,
principio di comando in quanto essa, ed essa sola, è capace di dirigere il pensiero […]
È dunque evidente che la filosofia è un bene necessario alla saggezza del giovane;
non già, tuttavia, per instradarlo verso un’altra forma di vita, bensì per permettergli di
esercitare la padronanza di sé e la vittoria sugli altri nell’impervio gioco delle prove da
affrontare e dell’onore da difendere».
La Filosofia insegna a prendersi cura di se stessi, del proprio pensiero e della propria
anima. Platone, tanto nell’ “Alcibiade” quando nel “Simposio”, fece spiegare a
Socrate che gli uomini, prima ancora di occuparsi della città, guidarla e governarla,
dovrebbero primariamente prendersi cura di se stessi e della loro anima.
Con Platone, la cura di sé diventa il centro dell’arte dell’esistenza (si confronti “La
cura di sé - Storia della sessualità 3 - M. Foucault, pp. 47 e seguenti, 2009). Si tratta di
una forma di atteggiamento che impregna concretamente i modi di vivere.
In primo luogo, la cura di sé è un modo di coltivare la propria anima con l’aiuto della
ragione (si pensi, per mera comparazione, alle terapie cognitive di Ellis e di Beck).
Quando l’uomo ha cura della propria anima, arriva a fabbricarsi da solo la propria
felicità. Non che sia un lavoro da poco; anzi, occorre l’impegno di tutte le proprie
forze per farsi da sé, per trasformarsi e per essere migliori. Richiede dedizione e
impegno lungo tutta l’esistenza, perché tratta l’oggetto più importante per ciascun
uomo: se stessi e l’imparare a vivere. È tramite la ragione che l’uomo può fare libero
uso di sé. Infatti, la ragione, tra le varie facoltà degli esseri umani, è l’unica che può
servirsi di se stessa oltre che delle altre facoltà (pensa se stessa e le altre). L’occuparsi
di se stessi è una regola necessaria a tutti gli uomini che vogliano perfezionare il
proprio spirito con l’ausilio della ragione.
In secondo luogo, la cura di sé richiede un tempo (si pensi agli esercizi spirituali di
Hadot). I filosofi antichi impararono a fissare, durante la giornata, dei momenti, in
79
particolare la mattina e la sera, in cui raccogliersi in se stessi, esaminando ciò che si
deve fare o ripensando ciò che si è fatto. Impararono anche a sospendere ogni tanto
la propria attività abituale per stare soli con se stessi, meditando sul proprio passato,
rivisitando quanto fatto della propria vita fino a quel momento e ritrovando i principi
grazie cui si possa condurre una vita semplicemente razionale. Per loro, dedicarsi a se
stessi, non vuol dire solo prendersi cura del proprio corpo con trattamenti specifici e
con esercizi fisici, ma anche e soprattutto meditare, leggere, ripensare le verità note,
riattivare i principi generali e le argomentazioni razionali che convincono a non
arrabbiarsi né contro gli altri né contro gli eventi. Non necessariamente questo
esercizio di cura di sé è una pratica che si compie in solitudine; spesso, i filosofi
antichi la consideravano come un’intensificazione dei rapporti sociali e consigliavano
di farla in gruppo, con amici o conoscenti, o aiutati da un consulente privato, il quale
però non deve necessariamente essere un tecnico, purché sia di buona riputazione e
noto per la sua franchezza.
In terzo luogo, la cura di sé è una pratica strettamente connessa con la medicina,
giacché tanto l’una quanto l’altra hanno in comune, come concetto centrale, quello di
pathos. Sia nell’uno sia nell’altro caso, il pathos rinvia a uno stato di passività, che per
gli antichi greci si trattava, per l’anima, di un movimento capace di offuscarla suo
malgrado, mentre per il corpo, di un’affezione che altera l’equilibrio dei suoi umori.
Tale concetto si applica tanto alla malattia fisica quanto alla passione dell’anima. La
filosofia diviene l’ambito attraverso il quale si cerca il perfezionamento e la cura
dell’anima, così come la medicina diviene l’ambito in cui curare il corpo e cercare il
suo benessere. Formarsi e curarsi, filosofia e medicina: l’uomo che si reca dal
filosofo, lo fa per curarsi la propria anima (medicando le proprie ferite, arrestando il
flusso dei propri umori al fine di avere una mente tranquilla), così come quello che si
reca dal medico, lo fa per la cura del proprio corpo. La filosofia diviene, in definitiva,
la medicina dell’anima, che aiuta a guarire dai grandi perturbamenti dello spirito, a
curare le passioni, che si ribellano alla ragione, e gli errori, che invece nascono da un
errato giudizio.
80
In quarto luogo, la cura di sé mira anche alla conoscenza di se stessi. E ciò attraverso,
innanzitutto, degli esercizi di astinenza. Sono prove finalizzate a far progredire
nell’acquisizione di una virtù e misurare il punto cui si è arrivati. Non si devono
pensare come a una mera rinuncia, ma a delle prove che rendono capaci gli individui
di fare a meno del superfluo, stabilendo su loro stessi padronanza di sé, temperanza e
sovranità che non dipende dalla presenza delle cose a cui si rinuncia. Lo scopo è
l’indifferenza alle cose indifferenti: misurare la propria indipendenza rispetto a tutto
ciò che non è dispensabile e sostanziale.
Anche l’esame di coscienza mira alla conoscenza di se stessi. Mentre l’esercizio del
mattino serve a prendere in considerazione i compiti e gli obblighi della giornata per
esservi prontamente preparati, quello della sera è fatto per interrogarsi in merito alle
attività compiute, scoprendo i principi che le hanno sostenute, testando la loro
correttezza coi propri precetti e al limite correggerne l’applicazione in futuro. Tutto
ciò non per colpevolizzarsi, bensì per memorizzare e avere immediatamente
disponibili allo spirito sia gli scopi legittimi sia le regole di comportamento che
permettono di raggiungerli, mediante la scelta di adeguati mezzi. Il riconoscimento
dell’errore serve pertanto a rafforzare il bagaglio razionale che consente di agire
saggiamente.
Infine, la conoscenza di sé passa anche attraverso un lavoro del pensiero su se stesso,
che non si configura solo con una prova che misuri ciò di cui si è capaci; che non si
limiti a valutare un errore rispetto alla regola di condotta; ma che, soprattutto, vada a
esaminare, verificare e scegliere le proprie rappresentazioni, al fine di averne
controllo. È una disposizione, questa del pensiero su se stesso, costante che l’uomo
deve prendere nei confronti di se stesso. Consiste nel divenire guardiano di se stessi e
delle proprie rappresentazioni: provarle, distinguerle tra quelle che dipendono da noi
e quello che invece non dipendono, non accettarle di primo acchito ma fermarle per
vedere cosa sono e da dove derivano.
In quinto e ultimo luogo, la cura di sé consta in un insieme di pratiche che hanno
come obiettivo comune il ritorno a se stessi. Questo significa che, nelle varie attività
81
che si compiono durante la giornata, lo scopo principale da perseguire è da ricercarsi
in se stessi, nel rapporto con sé. Occorre spostare lo sguardo dagli affanni quotidiani,
dalla vita degli altri, ecc. a se stessi, in quanto soggetti responsabili delle proprie
parole e delle proprie azioni. La conversione a sé è una sorta di traiettoria grazie alla
quale si finisce per raggiungersi, si diventa padroni di sé, si dipende solo da se stessi,
al fine di godere pienamente di se stessi. Grazie a questa conversione ci si allontana
dalle preoccupazioni esterne, dalle angosce del futuro, dai problemi che non
dipendono da noi e, proprio in virtù di questo distanziamento, ci si può rivolgere al
proprio passato, per ripensarlo e ripercorrerlo senza esserne turbati. E così facendo si
potrà godere di sé, si proverà un piacere che si trae solo da se stessi, che nasce da noi
e in noi perché liberi da tutte quelle preoccupazioni che non dipendono da noi stessi.
Ebbene, per ritornare al nostro caso, a questo punto degli incontri e a nostro parere
(mio e dalla collega), Davide era nella condizione di poter lavorare su stesso
prendendosi cura del suo pensiero e della sua anima. Già nei successivi incontri si è
potuto notare come il consultante avesse manifestato un modo di affrontare il
problema assai più fluido, positivo e dinamicamente mutevole rispetto alla rigidità e
alla staticità della sua posizione iniziale.
Davide ha continuato a frequentare ancora per diversi mesi la psicosessuologa,
intanto ha acquistato casa e si è trasferito con la sua compagna.
Riferisco qui di seguito e linearmente alcuni possibili punti d’incontro tra il
counseling filosofico e la terapia psicosessuale così come sono sortiti durante la
collaborazione su questo caso:
-
è possibile gettare un ponte tra l’indagine cognitiva (attraverso la freccia
discendente) degli schemi di pensiero e la visione del mondo del consultante;
-
il counseling filosofico pare funzionare bene laddove c’è da indagare le
credenze implicite che spesso sono fonte di malessere e di sofferenza;
82
-
il counseling filosofico pare appropriato quando si prospetta il bisogno di
andare a indagare e sondare il sistema dei valori del cliente;
-
in questo caso il counseling filosofico è funzionato perché non è stato usato
per trattare una disfunzione sessuale o un problema di psicopatologia;
-
il counseling filosofico pare funzionare laddove il problema sessuale solleva o
è sollevato da domande di natura etica.
Questi punti saranno ripresi nella conclusione del presente lavoro per delineare delle
possibili linee guida di lavoro sinergico tra counselor filosofico e sessuologa clinica.
3.2 Antonia ovvero la volontà di vivere pienamente la propria
esistenza
In questo paragrafo riporto un altro caso in cui io, pur non avendo visto direttamente
la consultante, ho comunque lavorato assiduamente con la psicosessuologa al fine di
aiutare la persona richiedente aiuto. Questo caso è interessante perché mostra non
solo i limiti e le potenzialità del counseling filosofico, ma soprattutto perché
evidenzia come una stretta sinergia tra un intervento psicosessuale e il counseling
filosofico possa portare a risultati importanti.
Antonia si è rivolta alla psicosessuologa perché sofferente di vaginismo, angosciata
per aver avuto una vita difficile e perché paurosa dell’altro sesso.
Già dal primo contatto si è potuto notare come emergessero sia elementi che
richiedevano interventi più di natura tecnica e terapeutica sia elementi che invece
inerivano maggiormente a una relazione di counseling filosofico: da un parte il
vaginismo, l’incompletezza dei rapporti sessuali, il parziale successo della prima
terapia di desensibilizzazione alla penetrazione vaginale mediante l’utilizzo dei coni, il
ciclo irregolare, paura dell’altro sesso e le difficoltà a interagire con le altre persone
per il forte senso di vergogna. Dall’altra parte questioni più legate a temi esistenziali:
83
vita non facile, educazione rigida, fatti tristi, morte dei genitori e desiderio di
ricominciare a vivere senza sentirsi necessariamente una donna diversa dalle altre.
Il lavoro compiuto con Antonia si è sviluppato lungo due direttrici: una più tecnica,
che ha visto la psicosessuologa operare sul problema del vaginismo e sulla sua cura e
un’altra più relazionale, lungo la quale la psicosessuologa si è confrontata con me
praticamente prima e dopo ogni colloquio. Riporto solo quest’ultima direttrice, in
quanto più interessante per il counseling filosofico.
Durante i primi incontri è sostanzialmente emersa la storia di vita di Antonia: ella
raccontò dei lutti famigliari che l’hanno fatto soffrire tantissimo negli ultimi anni (nel
2001 perse la sorella a causa di una grave malattia; nel 2004 la madre e nel 2011 il
padre); descrisse il padre come un padre - padrone che giunse addirittura ad alzarle le
mani ben tre volte dopo la morte della moglie. Riportò l’educazione severa che
ricevette, per lei riassumibile e comprensibile in una frase che i genitori le
continuavano ripetere: “il primo ragazzo che trovi te lo devi sposare!”. Raccontò di
avere avuto il primo tentativo di rapporto sessuale a 30 anni quando, avendo deciso
di andare a vivere sola, incontrò un uomo sposato: qui si accorse di avere problemi
con il coito e di non volere farsi penetrare. Il fatto di avere avuto pochissime
esperienze sessuali e con scarso successo l’ha fatta sentire non normale e diversa dalle
altre donne. Svelò sensi di colpa verso il sentimento di liberazione che avvertì subito
dopo la morte del padre: da una parte una forte sofferenza, ma dall’altra un sentirsi
libera e non più succube delle manipolazioni paterne. Manifestò di avere paura sia
della solitudine (ormai aveva perso tutti i parenti, se si esclude un lontano fratello) sia
delle relazioni amicali e sessuali.
Dopo tre/quattro incontri emerse chiaramente come Antonia fosse giunta a un
momento della propria vita in cui avvertiva il bisogno di raccontare la propria storia
esistenziale, fare un po’ d’ordine dentro di sé per capirsi maggiormente, comprendere
il suo presente attuale e intravedere il suo futuro. Emergeva il desiderio di capire
come è diventata quello che è diventata, chi deve ringraziare e chi invece dimenticare.
84
Tuttavia esisteva in lei un conflitto, un blocco emotivo che non le permetteva di
scorgere
le
potenzialità
della
sua
persona.
Mediante
un
esercizio
di
disegno/mappatura del problema e di racconto di sé, meditato e condiviso tra me e la
sessuologa clinica, Antonia riportò in modo conciso ma chiaro cosa la stesse facendo
soffrire: la morte dei genitori e soprattutto quella del padre, pur vissuta quest’ultima
con senso di colpa, le ha aperto la possibilità di ricominciare a vivere, di rifarsi
un’esistenza; tuttavia questo desiderio contrastava col suo sentirsi una donna diversa
dalle altre, inadeguata da un punto di vista sessuale e relazionale. Ecco le sue parole:
“Vorrei capire la mia indole, se sono uno spirito libero e quindi destinata a vivere relazioni
superficiali, oppure una donna capace di instaurare una relazione seria e profonda con un uomo”.
Durante una relazione di counseling filosofico è molto importante mettere il
consultante nella condizione di esprimere chiaramente il suo problema con una frase
breve, in modo da far emergere le questioni sostanziali separandole da quelle
puramente accidentali. Così come è importante mettere il cliente nella condizione di
distinguere la situazione che si trova a vivere in se stesso da lui in questa situazione: la
capacità di distinguere questi due aspetti nonché le difficoltà che emergono nel
compierla è fondamentale per costruire una buona mappa del problema e per far
riflettere il consultante su cosa prova di fronte a ogni singolo elemento che
caratterizza sostanzialmente la sua difficoltà. Una descrizione del problema che lasci
cadere i dettagli secondari, la sua enucleazione in una breve frase e la valutazione di
ogni elemento del problema dal punto di vista del soggetto, sono tutti quanti fattori
determinanti per poter iniziare una relazione di aiuto filosofica. Inoltre, descrivendo il
problema possono emergere elementi nuovi su cui inizialmente non si aveva prestato
molto attenzione (Risatti, appunti anno 2013).
In termini fenomenologici, si è cercato di mettere la consultante nella condizione di
esprimere chiaramente il suo problema - che cosa si dà ed entro quali limiti - e il
modo in cui viene dato, le emozioni che accompagnano ogni elemento del problema,
le sensazioni che sono emerse durante la procedura di esposizione del problema, le
85
categorie e le tipicità che sono state messe in primo piano. Come noto, la
fenomenologia applicata alla relazione di aiuto ci ha insegnato a distinguere gli
elementi che concernono una situazione da quelli che riguardano il vissuto della
persona richiedente aiuto rispetto a quella stessa situazione.
Ebbene, tale lavoro ha permesso ad Antonia di chiarirsi la natura del suo problema e
cosa prova di fronte allo stesso. Ha cioè compreso che il suo problema ha
innanzitutto una struttura conflittuale: per un verso il desiderio e la volontà di
ricominciare a vivere e per l’altro il timore di non essere in grado di farlo in quanto si
sente diversa dalle altre donne. Ha imparato a dirsi la sua paura del sesso; ha
riconosciuto le emozioni e i sentimenti che bloccano ogni sua azione propositiva al
fine di risolvere il problema: imbarazzo, vergogna, tristezza e chiusura in se stessa.
Ha esplicitato il suo desiderio di conoscere meglio se stessa e di analizzare a fondo il
rapporto “relazioni sentimentali / solitudine”, rispetto alla sua vita concreta. Si è
infine posta degli obiettivi: imparare ad accettarsi e ad amarsi; tentare di rispondere
alla seguente domanda: sono un’anima libera o sono solo bloccata e quindi potrei
essere diversa da quello che sono stata fino adesso?
In effetti Antonia viveva la sua situazione esistenziale in modo tale da darsi poche
possibilità di sperimentare altri comportamenti, pensieri ed emozioni. Per esempio,
raccontava che quando andava, sola, a vedere e a sentire dei film (una sua passione
sfrenata) si sentiva come se fosse giudicata dagli altri spettatori (“poverina è sola”; “non
ha neanche un compagno o un amico”; “poverina è una donna sola e non ha nessuno, ecc.”).
Quando invece si trovava a casa sua, non avvertiva sentimenti di solitudine e
riportava di sentirsi libera. Ciò che la faceva soffrire era il possibile giudizio che le
altre persone avrebbero potuto formulare sul suo conto.
Ormai il problema era chiaro; si trattava allora di aiutare Antonia a lavorare su se
stessa, sulle sue credenze, sui pensieri che le venivano in mente quando si sentiva sola
e diversa, sui suoi agiti e sulle sue emozioni. A questo punto la psicosessuologa mi
86
disse che era giunto il momento di operare una ristrutturazione cognitiva riguardo
allo schema “povera donna” che Antonia aveva di se stessa. Citò Ellis con la sua
tecnica ABC e Beck con la sua tecnica della freccia discendente (la quale consiste nel
partire dal pensiero automatico negativo che fa soffrire Antonia - sono una povera
donna e diversa dalle altre - per arrivare allo schema profondo soggiacente e quindi
farla riflettere su cosa comporta questo pensiero sulla sua persona e sulla sua vita e
che cosa implica per lei, se esso fosse vero). Io ho suggerito di considerare quest’altro
modo di lavorare, molto simile a quello presentato dalla collega: partire dal conflitto
di cui ormai Antonia era cosciente; elencare le emozioni provate a causa di questo
conflitto; soffermarsi sulle risposte comportamentali derivanti da tale conflitto e da
tali emozioni; chiederle, a questo punto, se poteva sperimentare altri comportamenti
più favorevoli per uscire dal conflitto e quindi di trovare altre modalità di risposta.
Da parte mia ho inoltre notato come si potesse lavorare in termini fenomenologici
mediante una descrizione genetica del suo problema: una volta appurato che il
problema esiste in lei e una volta evidenziato il modo cognitivo, emotivo e
comportamentale di darsi questo stesso problema, si sarebbe potuto adottare e
indurre un atteggiamento in presa riflessa che portasse Antonia:
-
a superare la semplice constatazione che un problema esiste nel suo
atteggiamento pratico naturale che caratterizza la sua vita quotidiana;
-
a interessarsi del suo problema non solo per darne un giudizio di valore
(“sono una povera donna”, “sono diversa dalle altre”, “sarò sempre sola”
ecc.);
-
a interessarsi del suo problema in quanto avente delle tipicità generali: il tema
della libertà, della diversità e della solitudine sono temi su cui si sarebbe
potuto iniziare un lavoro filosofico di indagine e di ricerca;
-
a dirsi come nella sua percezione del problema si annidino certi valori
intenzionali, determinati significati e sensi circa il suo esistere nel mondo, che
sono impliciti e che potrebbero essere la causa della sua sofferenza, del suo
87
sentirsi sola, del suo imbarazzo e della sua inadeguatezza. L’emersione di tali
valori, significati e sensi, avrebbe aiutato Antonia a prendersi cura di sé: a
coltivare la propria anima e la propria mente con l’utilizzo della ragione; a
prendersi tempo per se stessa e per una sua maggiore conoscenza di sé; a
diventare guardiana delle sue rappresentazioni false e portatrici di sofferenza
e di dolore; a ritornare a se stessa per godere di sé.
Mediante questa riflessione radicale e fenomenologica, Antonia avrebbe sperimentato
il modo di costituirsi del suo problema, ma in una maniera diversa da quella provata
fino a prima di questa riflessione: avrebbe cioè rifatto in modo nuovo tale esperienza,
in un modo filosofico e di ricerca verso un visione di se stessa e del suo mondo più
autentica e più consapevole. Avrebbe imparato a distanziarsi ai massimi livelli di
astrazione rispetto alla problematica riportata e avrebbe con ciò creato le condizioni
per trovare in se stessa le risorse per formulare giudizi e concetti più critici riguardo
al suo sentirsi sola e diversa dalle altre donne, oltre che avrebbe imparato a scindere
la difficoltà riportata dalla componente emotiva che l’accompagnava.
Naturalmente la psicosessuologa non poteva iniziare un lavoro di ricerca e di
saggezza di questo tipo, perché non ha una formazione filosofica e fenomenologica.
Ciononostante abbiamo potuto notare come certe tecniche e determinati approcci,
per quanto superficialmente siano diametralmente opposti, possano essere tuttavia
avvicinati e possano essere utilizzati sinergicamente e in modo costruttivo per il
benessere di Antonia. Abbiamo convenuto di procedere con tecniche cognitive (ABC
e ristrutturazione), che come sappiamo affondano le loro radici nelle filosofie di
Epitteto e di Socrate, riservandoci però di lasciare spazio all’indagine filosofica che
Antonia poteva cominciare su se stessa e sulla sua esistenza. E di fatto alcune
domande di natura filosofica Antonia ha cominciato a porsele proprio partendo dalla
sua presa di coscienza rispetto alla sua paura di intessere relazioni serie o di non
essere in grado di averle e circa la sua paura di lasciarsi andare verso un’esistenza più
piena e più autentica.
88
Antonia ha continuato a vedere la collega per parecchi mesi. L’ultimo aggiornamento
che ho avuto è che Antonia non soffre più di vaginismo; che vive in modo diverso la
sua solitudine: essere sola non ha più il significato di essere “poverina”, bensì quello
di essere libera e si sentirsi libera di progettare. L’avere affrontato il timore di una
relazione e la paura del confronto con un uomo; l’aver preso di mira, al fine di
risolverlo, il senso di inadeguatezza riguardo la sua inesperienza a livello di pratiche
sessuali e di esperienze sentimentali durature e l’aver consapevolizzato il fatto di
avere avuto tappe e tempi per lei non normali in merito al sesso e agli uomini; tutto
ciò ha indotto Antonia a sentire il piacere di incontrare una persona con cui costruire
qualcosa: non si sente più spaventata e nemmeno vittima di quell’ansia di trovare
assolutamente qualcuno, si sente invece bene con se stessa e dice di avere imparato a
volersi bene.
3.3 Marco ovvero la paura del fallimento del proprio progetto di
vita
La parola “morale” ha diversi significati: può rinviare a un insieme di valori e di
regole d’azione che vengono proposti agli individui tramite istituti vari (famiglia,
impresa, stato, chiesa, ecc.). In tal caso si parla di codice morale per indicare un
insieme prescrittivo di regole e di valori che possono essere esplicitamente formulati
oppure trasmessi informalmente da individui a individui. La parola in questione,
però, può anche indicare il comportamento reale degli individui in rapporto al codice
morale: in che modo essi si assoggettano a una regola di comportamento?
Completamente o in parte? In quale modo essi obbediscono a un divieto o a una
prescrizione? In quale modo vi si oppongono, se lo fanno? Come rispettano o
misconoscono un insieme di valori?
Se nella prima accezione la morale verte sullo studio dei codici morali, sulla loro
origine e trasformazione, nonché sul loro passaggio tra generazioni e individui, nella
seconda accezione, invece, la morale dovrebbe determinare come le persone si
89
comportino in relazione a un sistema prescrittivo (si parla qui anche di moralità dei
comportamenti).
A pagina 31 di “L’uso dei piaceri – Storia della sessualità 2”, M. Foucault scrive:
«Ma non è tutto. Una cosa è, infatti, una regola di condotta; altro la condotta che si
può commisurare a questa regola. Ma altro ancora il modo in cui un individuo deve
“condursi” - vale a dire il modo in cui si deve costituire, deve costituire se stesso,
come soggetto morale che agisce in relazione agli elementi prescrittivi che formano il
codice. Dato un codice di azioni, e per un determinato tipo di azioni (che si possono
definire in base al loro grado di conformità o di divergenza rispetto a quel codice), vi
sono diversi modi di <<comportarsi>> moralmente, diversi modi, per l’individuo
che agisce, di operare non semplicemente come agente, ma come soggetto morale di
quell’azione. Sia dato un codice di prescrizioni sessuali che ingiungano ai due sposi
una fedeltà coniugale rigida e simmetrica, unitamente a una costante volontà
procreatrice; anche in ambito così rigoroso, vi saranno molti modi di praticare questa
austerità, molti modi di essere fedeli».
Secondo il filosofo francese, i modi con cui un soggetto diventa soggetto morale, e
non semplice agente, poggiano su questi punti:
Determinazione della sostanza etica
Risponde alle domande:
in quale modo l’individuo deve costituire questa o quell’altra parte di sé come materia
principale della sua condotta morale? Su quali elementi l’individuo poggia la sua
condotta morale?
Per esempio, si può far poggiare la pratica della fedeltà coniugale sul rispetto dei
divieti e degli obblighi negli atti che si compiono; oppure nella padronanza dei
desideri e nella lotta contro le tentazioni; ma anche sull’intensità, continuità e
90
reciprocità dei sentimenti che si prova per il coniuge; o ancora nella qualità del
rapporto che lega i due sposi.
Modo di assoggettamento
Risponde alla domanda:
in quale modo l’individuo stabilisce il proprio rapporto nei confronti di quella regola
e si riconosce legato all’obbligo di metterla in opera?
Per esempio, si può praticare la fedeltà coniugale assoggettandosi al principio che la
impone, perché ci si riconosce come appartenenti al gruppo sociale che l’accetta;
oppure perché ci si considera eredi di una tradizione spirituale della cui
sopravvivenza ci si crede responsabili; o ancora perché ci si vuole proporre come un
modello da seguire; ma anche perché si vuole dare alla propria vita un indirizzo che
risponda ai criteri di bellezza, nobiltà o perfezione.
Elaborazione del lavoro etico
Risponde alla domanda:
in che modo l’individuo lavora su se stesso per rendere il proprio comportamento
conforme a una regola data e per cercare di trasformare se stesso in un soggetto
morale della propria condotta?
Per esempio, si può praticare l’austerità sessuale mediante un lavoro di
apprendimento, memoria e assimilazione di un insieme di precetti e attraverso un
controllo regolare del comportamento per vedere quanto si applicano quelle regole;
oppure nella forma di una rinuncia dei piaceri; o ancora nella forma di un conflitto in
cui le peripezie possono avere un valore e un senso; infine attraverso una
decifrazione del gioco del desiderio.
Teleologia del soggetto morale
Risponde alle domande:
91
un’azione diventa morale attraverso l’inserimento in quale campo di condotta e che
posto ne occupa? L’azione considerata è elemento di quale condotta? Quale tappa
segna nella sua durata e continuità? L’azione considerata, mediante il suo
compimento, mira alla costituzione di quale condotta?
Un’azione morale, infatti, porta l’individuo non solo a delle azioni sempre conformi a
certi valori e a certe regole, ma anche a un certo modo di essere, caratteristico del
soggetto morale.
Per esempio, la fedeltà coniugale può rientrare nel campo di una condotta morale che
mira a una padronanza di sé sempre più completa; oppure in una che vanta un
distacco nei confronti del mondo; o ancora può tendere a una perfetta pace
dell’animo o, di nuovo, a una purificazione che assicura la salvezza al di là della
morte.
Alla luce di tutto ciò, si è appreso che ogni azione morale implica almeno tre fattori:
-
un rapporto con il codice cui si riferisce (regole di condotta);
-
un rapporto con il reale in cui si compie (comportamento agito nei confronti
del precetto), cioè con gli atti conformi o meno alla regola (condotta rispetto
alle regole);
-
un rapporto con se stessi (come ci si conduce).
Quest’ultimo, il modo in cui l’individuo si conduce, non è semplicemente coscienza
di sé, ma soprattutto costituzione di sé come soggetto morale. In tale costituzione di
sé, l’individuo definisce la propria posizione rispetto alla regola cui ubbidisce, si
prefigge un certo modo di essere che vale come compimento morale di sé. Insomma,
si tratta di un agire su se stessi grazie cui l’individuo comincia a conoscersi, a
controllarsi, a mettersi alla prova, perfezionandosi e trasformandosi.
92
I modi di soggettivazione sono i modi in cui l’individuo è chiamato a costituirsi come
soggetto morale: sono i modelli considerati per rapportarsi con il proprio sé, per la
riflessione su di sé, per la propria conoscenza, interpretazione e trasformazione.
Marco, in compagnia di sua moglie, si affidò alla psicosessuologa per via di un
problema di eiaculazione precoce, ma anche e soprattutto perché, pur sentendo di
volerle bene, si rendeva conto di essere nello stesso tempo innamorato di un’altra
persona. Di qui anche la sua denuncia di calo di desiderio sessuale nei confronti della
moglie. E il reciproco calo di desiderio da parte di sua moglie nei confronti di lui.
Proveniente da una famiglia benestante, in possesso di un titolo di laurea importante
e sposato con un donna colta, Marco ha due figli cui desidera il massimo bene
possibile. Dopo un percorso di coppia durato circa 10 incontri, la psicosessuologa mi
ha contattato per presentarmi il caso e per evidenziare la necessità di far
intraprendere, ai due clienti, un percorso individuale. La situazione di confusione e lo
stallo decisionale di Marco era infatti da ostacolo al proseguimento della terapia di
coppia. Durante i colloqui con la psicosessuologa era emerso che l’eiaculazione
precoce e il calo del desiderio erano fenomeni secondari rispetto a una situazione di
crisi di coppia sorta a seguito della confessione da parte di Marco stesso nei confronti
della moglie dell’esistenza di un’altra donna. Da quel momento Marco ha deciso, sulla
base di un ventaglio di scelte che le sono state offerte dalla professionista, di
proseguire il suo percorso individuale con me, counselor filosofico in formazione
permanente.
Durante il primo colloquio, Marco mi ha espresso chiaramente la sua domanda:
“voglio essere aiutato a decidere cosa fare della mia vita: cosa giusto fare / cosa posso fare? Lasciare
mia moglie e mettere in difficoltà la mia famiglia o rinunciare all’amore che provo per quest’altra
donna? Nel primo caso è giusto comportarmi così? E nel secondo perché dovrei rinunciare a coltivare
una nuova relazione con un donna che mi rende felice? Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a
scegliere […]”
93
Marco è stato innanzitutto allertato da me che la scelta sarebbe stata solo sua, ma
che, nello stesso tempo, avrebbe potuto trovare in me, come counselor filosofico, un
aiuto per trovare in se stesso i valori e le risorse al fine di operare una scelta che fosse
per lui la più idonea, in base alla sua visione del mondo (implicita o esplicita, già
costituita o da costituire), alle sue credenze, ai suoi scopi esistenziali, ai suoi punti di
riferimento, al suo singolare e irripetibile modo di affrontare le difficoltà che la vita le
ha riservato.
Tuttavia, per quello che ho potuto capire, Marco necessitava, prima ancora di andare
a lavorare sulle scelte, di essere compreso nel suo dilemma e nella sua sofferenza.
Non solo ha trascorso buona parte dell’incontro a piangere, ma ha pure riferito:
“Sollecito di continuo i miei figli a trovare in se stessi la forza per far fronte alle difficoltà e di sentire
dentro di sé quello che vogliono fare veramente nella vita, e poi sono io il primo a non capire quello
che sento e ciò che voglio. Insomma, non mi conosco eppure consiglio ai miei figli d’imparare a
conoscersi per affrontare le difficoltà”.
Per usare una metafora che ho potuto apprendere dal professor Ezio Risatti, si
trattava, dal mio modesto punto di vista, di rimuovere quel masso che non
permetteva alla sorgente di sgorgare: non avrei potuto aiutare Marco a compiere delle
scelte che lo facessero diventare un soggetto moralmente responsabile,
indipendentemente dalla scelta compiuta, se prima non avessi aiutato Marco a
togliere quel tappo che gli impediva di andare a vedere in se stesso le risorse di cui si
faceva portatrice. Risorse, queste, che l’avrebbero aiutato a compiere la sua scelta.
Marco si sentiva confuso: il corpo sembrava dirgli di andare dalla persona che amava;
la ragione di non buttare via anni d’investimento sulla sua famiglia e sulla sua vita; gli
amici e i famigliari gli consigliavano le cose più disparate. Non amava più sua moglie,
ma non poteva lasciarla nella disperazione. E tutto questo era presente in Marco
senza che si rendesse conto fino in fondo da dove venissero tutti quei messaggi,
quelle emozioni e rappresentazioni e quei pensieri che tanto lo facevano soffrire.
94
Mettere ordine in questo caos di pensieri, percezioni, emozioni, rappresentazioni e
sentimenti, mi sembrava essere la prima cosa da fare. Ciò è stato fatto, durante il
secondo incontro, chiedendo al consultante di esercitarsi a casa a incolonnare, su un
foglio bianco, cosa il suo corpo, la sua sensibilità, la sua intelligenza, l’ambiente ecc.,
gli dicevano quando si trovava in una situazione di stato d’animo conflittuale e in una
situazione di tendenza all’azione ancora poco ponderata (per esempio, quando
pensava di lasciare tutta la sua famiglia per trasferirsi dalla nuova amante; o quando
invece avrebbe voluto dimenticarla per dedicarsi solo ed esclusivamente alla sua
famiglia).
È noto come la nostra epoca sia caratterizzata da un analfabetismo di ritorno in
merito alle nostre emozioni, ai nostri desideri e ai rapporti che questi instaurano con
le nostre credenze e i nostri pensieri. Sapere identificare le emozioni e i sentimenti,
imparare a regolarli, gestirli, esprimerli correttamente e valutarli, non solo è
preventivo rispetto a certi disturbi d’ansia, ma può portare il soggetto a togliere quel
masso che ostruisce alla sorgente dei suoi valori e delle sue risorse di zampillare
fluidamente. E in effetti Marco era esistenzialmente angosciato: quello che avvertiva
corporalmente confliggeva con quanto la sua mente gli portava a pensare e da questo
conflitto non sapeva uscire, si sentiva paralizzato.
Come ha ben delineato M. Torre (Torre, 1982), l’angoscia è il principale sentimento
rivelatore di situazioni determinanti per l’esistenza e lo strumento concettuale alla
base dell’esistenza umana. Le cause possono essere:
-
insufficienza esistenziale (incapacità di cogliere gli aspetti positivi degli
avvenimenti nel mondo e di stabilire rapporti intersoggettivi validi;
inadeguatezza dell’interazione tra affettività e pensiero nella valutazione della
situazione;esitazione nel vivere la situazione reale e di fronte alle scelte
fondamentali; insufficiente resistenza di fronte alle frustrazioni);
-
confronto con la morte;
95
-
assenza di valori e significati;
-
isolamento.
L’angoscia è anche strettamente legata al progetto esistenziale, inteso come globale
anticipazione delle possibilità di ciò che l’uomo vuol fare di se stesso nel mondo. In
connessione al progetto esistenziale, le cause dell’angoscia possono essere così
elencate:
-
assenza di progetto esistenziale;
-
nullificazione del progetto esistenziale;
-
previsione della nullificazione del progetto esistenziale;
-
oggettivazione nel rapporto Io-Alter;
-
situazioni di scelta o conflitto irrisolte.
Senza fare di questo insegnamento un modello rigido da seguire (è noto nella
letteratura come il counselor filosofico non si allinei incondizionatamente a un
metodo o a una tecnica ma cerchi di farsi guidare dall’esperienza e dai vissuti riportati
dal consultante), è però da rilevare come Marco fosse esistenzialmente angosciato per
la sua incapacità di vivere autenticamente la scelta importante che doveva effettuare e
come fosse inadeguato a gestire il rapporto mente-corpo. Nonché è da rilevare la sua
paura connessa al fallimento del suo progetto di vita. Ma vediamo tutto ciò con le sue
stesse parole.
Al colloquio successivo, Marco riportò per iscritto quanto segue quando parlava della
persona che sentiva di amare in quel momento e quando aveva una tendenza
all’azione del tipo “voglio vederla, voglio stare con lei, ecc.”:
Corpo
“Vorrei poter continuare serenamente ad adempiere i miei impegni con i nostri figli e con mia moglie,
ma non l’amore, non il sesso. Quello adesso va solo con questa donna che sto frequentando”.
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“Quando la bacio, il mio corpo sente una bellissima brezza che entra. Non caldo pesante. Aria
fresca leggera che entra. Mi sento rilassato e rigenerato. Mi sento felice nel mio intimo profondo”.
Sensibilità
“Che entusiasmo e splendore. Da quanto non avvertivo queste sensazioni! Io voglio star bene coi miei
sensi, cosa che non riesco più a fare e a trovare con mia moglie”.
“Quando sono con lei non mi proibisco niente. Tutto è concesso. Sento benessere, senso di libertà: non
nella mente, ma nel corpo”.
Intelligenza
“ io voglio vivere con lei, mi sono innamorato una seconda volta nella mia vita. E’ un momento di
attesa questo. Ma che male che mi fa!”
“Io sto cercando di capire cosa posso fare e evitare casini o situazioni tragiche!”
“Ma come posso accettare che il mio matrimonio finisca? E i miei due figli? Come posso educarli se
non c’è accanto a me loro madre?”.
Realtà profonda (valori della persona, sua coscienza)
“mi sento una bussola impazzita; una nave che continua a cambiare rotta. È giusto lasciare mia
moglie per il fatto che fisicamente non la desidero più? Dopo tutto ci rispettiamo e ci aiutiamo. Nel
profondo della mia anima credo dovrei restare, rinunciando anche al sesso e al desiderio di avere
un’altra donna”
“Non credo che supererò mai questo problema. È un problema senza soluzione”
97
Quando invece rifletteva su se stesso in merito ad azioni che riguardavano sua moglie
(fare l’amore con lei, rinnamorarsi, lasciarla ecc.), Marco riportò quanto segue:
Corpo
“Faccio l’amore per bisogno biologico. Ma non provo emozioni come invece mi accade con l’altra
donna. E poi adesso c’è pure questo problema di eiaculazione precoce. Non avrei mai pensato che
nella mia vita potesse accadermi una cosa del genere”.
“Chiusura dello stomaco. Brivido di freddo. Difficoltà a deglutire”.
Sensibilità
“Disgusto, noia. Tristezza. Sento i miei sensi spenti, anestetizzati”
“Con mia moglie i sensi si sono spenti: non la sopporto più. Quanto vorrei darle un calcio nel sedere
a volte, con le sue insistenze e le varie seccature”
Intelligenza
“Il non poter andare con la mia nuova amante mi fa sentire male. Ma come posso lasciare i miei
figli? E se poi mia moglie si vuole vendicare in qualche maniera?”.
“Non è giusto continuare la relazione con mia moglie se questa non è sostenuto dal mio desiderio”.
Realtà profonda
“Sono credente e sento la mia morale a terra, distrutta”
98
“Come posso lasciare mia moglie? E se poi da sola non ce la fa? Inoltre: non riesco ad accettare di
aver sposato una donna con cui non voglio dividere la mia vita”.
Questi brevi stralci dei periodi formulati dal consultante a seguito dell’esercizio
datogli, testimoniano quanto Marco fosse confuso su come operare la sua scelta.
Tuttavia l’esercizio l’ha portato a concettualizzare in questo modo il suo problema:
non esiste solo il corpo e questo, spesso, confligge con le altre parti di noi. Marco si
rendeva conto di ciò, dopo i primi colloqui in modo più chiaro di prima; sentiva
anche il bisogno di indagare più in profondità le altre parti di sé e il senso del suo
vivere. In ogni caso, di una cosa era consapevole, nonostante la sua confusione e le
sue contraddizioni: che tutte quelle parti di lui erano appunto parti e che avrebbero
costituito un’immagine finale in funzione del modo in cui le avrebbe combinate. La
sua scelta dipendeva anche da questo. Tuttavia, egli manifestava il bisogno di
indagare anche razionalmente il rapporto tra amore e desiderio, da una parte, e tra
amore e idealizzazione, dall’altra. Il primo perché non avvertiva più desiderio sessuale
nei confronti di suo moglie, donna con la quale ha avuto due figli; il secondo perché
la sua amante attualmente abita lontano da lui e l’ha frequentata veramente poco (per
quanto intensamente), sebbene la conosca dagli anni del suo primo lavoro e abbia
avuto dei contatti telefonici di tanto in tanto.
Sentendolo parlare e leggere quanto ha scritto in base a degli esercizi datogli, mi sono
venuti in mente due capitoli del testo “Le cose dell’amore”, di Umberto Galimberti
(si voglia considerare questo testo come riferimento e strumento per la pratica
filosofica), che appunto s’intitolano “Amore e desiderio - le avventure del desiderio e
il richiamo della casa” e “Amore e idealizzazione - la forza dell’idealizzazione e
l’insano realismo”. Ho dunque pensato di utilizzarli come testi stimolo da cui iniziare
un lavoro filosofico in merito a quei rapporti. Contemporaneamente a ciò, aiutavo
Marco a scoprire in se stesso le risorse e i valori a lui più intimi che l’avrebbe aiutato
a compiere la sua scelta, attraverso semplici esercizi da svolgere a casa. L’obiettivo
concordato fu quello di farsì che Marco si costituisse come un soggetto morale
99
responsabile della sua scelta, indipendentemente da quella che avrebbe optato. Solo
così egli avrebbe potuto raggiungere una situazione in cui poter dire di sentirsi bene,
nonostante i dolori e i sacrifici che ogni scelta voluta poteva comportare.
In “Amore e desiderio - le avventure del desiderio e il richiamo della casa”,
Galimberti sostiene che la parola “amore” sottende tensioni di forze che minano le
nostre vicende emozionali: da una parte il desiderio e dall’altra il richiamo della casa;
per un verso il bisogno di trascendenza e per l’altro il terrore di perdere protezione.
Se l’amore vive di novità, di mistero e di pericolo, ha però come suoi nemici il tempo,
la quotidianità e la familiarità. Anche se non è il tempo in sé a degradare l’amore,
bensì noi a fare di tutto per degradarlo. Infatti, l’amore senza desiderio garantisce
sicurezza, tenerezza e intimità, ma non prevede l’avventura e il rischio che
alimentano la passione. Se l’amore vuole costruzione e stabilità, il desiderio invece
non sa cosa vuole, è un movimento verso un punto di perdita, è un gioco senza
regole, perché nel gioco del desiderio le regole non rispondono a un calcolo. Il
desiderio agogna avventura: l’uomo è per sua natura sempre proteso oltre di sé, in
una dimensione di trascendenza di ciò che ci è dato semplicemente.
Ma come si può conciliare il bisogno di sicurezza e il desiderio di avventura? La
risposta di Galimberti è la seguente:
«… per avventurarsi bisogna partire da un luogo che mi dia il senso del “da dove
vengo”, “a cosa appartengo” e magari un giorno “dove desidero tornare”[…] Oltre
l’avventura noi cerchiamo la continuità e l’identità per ancorarci […] Per questo
diciamo che non sono la quotidianità, la familiarità, l’abitudine a estinguere nella casa
la passione amorosa, ma siamo noi a usare la quotidianità, la familiarità e l’abitudine
per estinguere nella casa la passione amorosa, allo scopo di difendere il nostro nido
dal rischio destabilizzante dell’avventura, che potrebbe sottrarci la sicurezza e
l’accoglienza di cui, al pari dell’avventura, abbiamo un assoluto bisogno» (Galimberti,
pp. 68-69, 2004).
100
E per rispondere alla domanda di prima:
«Una strada ci sarebbe, ed è quella di accorgersi e di accettare il cambiamento
continuo a cui ogni abitante della casa va soggetto nel corso della sua vita giorno
dopo giorno. Un cambiamento che riconfigura la quotidianità, sbilancia la familiarità,
infrange le abitudini, rende insolito e nuovo il tempo […] Non è che la prevedibilità,
la conoscibilità, la quotidianità, l’abitudine sono i prodotti della nostra disattenzione
all’altro, o addirittura strumenti che noi usiamo per spegnere la curiosità e la
passione, che sono gli ingredienti del desiderio, allo scopo di garantire la sicurezza?»
(ivi).
Questi erano i brani che avrei portato al prossimo colloquio con il consultante,
appunto per iniziare con lui a ragionare filosoficamente sul rapporto desiderio e
amore e, poi, se avesse voluto, su quello di amore e idealizzazione. Lo scopo era di
portare Marco a riflettere sul senso profondo della sua sessualità, in quanto parte non
avulsa dai suoi valori, dalle sue credenze, dai principi e dai suoi progetti esistenziali.
Dei due brani vagliati, Marco scelse di cominciare con quello che investiga il rapporto
desiderio/amore. Durante il colloquio successivo, dopo aver ascoltato quanto il
consultante aveva da riportarmi in merito all’evoluzione dei rapporti con sua moglie e
intorno al suo percorso personale, proposi allo stesso di leggere con me quel testo
stimolo, di farmi domande se ne avvertiva il bisogno e di ritornare a rileggerlo a casa
con calma, cercando di riflettere su come Galimberti propone una via di uscita al
dilemma desiderio/amore. Il compito assegnatole è stato precisamente:
“Confrontarsi col testo stimolo per vedere, dall’esterno rispetto alla situazione che
sto vivendo, se può dare indicazioni da poter calare nel mio contesto. Posso imparare
qualcosa di nuovo?”
101
All’incontro successivo, Marco si presentò con due fogli in cui riassumeva l’esercizio
datogli.
Lessi con molta attenzione quanto da lui scritto e ammisi a me stesso che di lavoro
su di sé Marco ne stava facendo tanto e bene. Alcuni temi, però, pensai di affrontare
con lui; temi, questi, che ho notato essere presenti nel suo scritto e che ritenevo
importante esplorare. Li riassumo sinteticamente, sarebbe stato poi lui stesso a
sceglierli:
“1) Marco non si sentiva dis-onesto o in colpa o sporco o altro ancora di questa sorta
per aver tradito sua moglie. Egli riportava come il tradimento sia normale è fin
troppo evidente nella società di oggi. Ma questa normalità come lo fa sentire? Gli
chiesi se voleva approfondire questa direttrice;
2) Marco riconosceva l’impossibilità di seguire una terza via: o sua moglie o l’amante.
Tutte due insieme lo avrebbero distrutto e non avrebbe nemmeno voluto
considerarlo con sua moglie. Sua moglie avrebbe potuto anche aspettare la sua
decisione, ma egli non poteva non considerare l'ipotesi che avrebbe potuto anche lei
fare delle scelte durante questa attesa, per quanto non aveva alcun intenzione di
lasciare il marito .Non volevo spingere Marco a una scelta affrettata, ma autentica e
soprattutto sua; ciononostante, volevo metterlo di fronte al fatto che altre persone
dipendevano da lui e che potevano soffrire almeno quanto lui stesso.
3) riguardo al tema dell'avventura suggerito dal testo stimolo, ho condiviso con
Marco che questa può esserci in casa per uno o entrambi i partner, ma non può far
rinascere il desiderio e la passione se non è con-divisa e co-sentita;
4) il problema riportato da Marco era il venuto meno desiderio nei confronti della
moglie. Proposi di lavorare con me su un chiarimento concettuale e filosofico
intorno al concetto di desiderio, nella speranza o nella non speranza che potesse
rinascere con sua moglie.
Nell’incontro successivo il consultante, rispetto a tutti questi temi su cui si sarebbe
potuto lavorare, espresse il desiderio di soffermarsi sul problema delle vie da seguire
102
e quindi sulla questione della scelta. Egli ribadì la sua convinzione che una preferenza
avrebbe dovuta averla. Io le dissi che accanto alle due possibilità, da un punto di vista
logico non si poteva escludere anche la scelta di non scegliere e le feci presente come
il filosofo Kierkegaard si fosse molto soffermato sul rapporto tra vita estetica e vita
etica. Convenimmo di ragionare sui valori e sulle mete che avrebbe conseguito in
funzione di quello che avrebbe optato.
Gli suggerii il seguente esercizio: pensare alla sua vita con suo moglie e la sua attuale
famiglia; disegnare un cerchio al centro del quale avrebbe scritto le mete che avrebbe
raggiunto con la sua famiglia, quelle da lui ritenute più importanti (quindi rispondere
alla domanda: quali mete e scopi io raggiungo se continuo a stare con la mia
famiglia?) Man mano che le mete diventavano meno importanti, gli dissi di scriverle
sempre più lontano dal centro. Siccome le mete potrebbero essere molteplici e alcune
di queste potrebbero essere positive mentre altre negative (cioè non raggiungibili in
questo contesto), gli dissi anche di ragionare in merito alle sue motivazioni che lo
spingevano a raggiungere una meta, se questa era considerata positiva, o a escluderla
se la meta fosse stata considerata negativa. In quest’ultimo caso gli disse di scriverle al
di fuori del cerchio. Alla fine gli dissi di rispondere a queste domande: riguardandoti
tutto quello che hai scritto, cosa ho capito di meglio o di nuovo rispetto alla mia
famiglia? Quali mete e realtà mi danno maggior piacere e gioia? Quali mete
dipendono da me? Come posso coltivarle e raggiungerle?
In modo analogo, gli dissi di pensare la sua vita con l’ amante e una nuova ipotetica
famiglia con lei; di disegnare un cerchio al centro del quale avrebbe scritto le mete
che avrebbe raggiunto in questa situazione e di mettere al centro quello più
importanti, per allontanarsi da esso via via che le mete diventavano meno rilevanti
fino a disegnare fuori dal cerchio le mete negative, ossia quelle che non avrebbe
raggiunto se avesse fatto la scelta di stare con lei. Come per il primo cerchio, gli dissi
di rispondere alle seguenti domande: riguardandoti tutto quello che hai scritto, cosa
ho capito di meglio o di nuovo rispetto a questa situazione? Quali mete e realtà mi
danno maggior piacere e gioia? Quali mete dipendono da me? Come posso coltivarle
e raggiungerle?
103
Per concludere il compito gli dissi infine di confrontare i due cerchi e le risposte date
alle domande inerenti i due cerchi e di riportarmele al successivo incontro.
Dopo due settimane circa da quest’ultimo incontro, Marco mi informò che sarebbe
andato via per un viaggio di lavoro e che ci saremmo visti dopo due settimana circa.
E così andò. Al suo ritorno non mi riportò il compito assegnatogli e mi comunicò
che non aveva più intenzione di proseguire il percorso di counseling filosofico per
alcune ragioni che mi avrebbe scritto tramite mail e che di seguito riporto:
“…
Claudio il percorso fatto con te mi ha fatto molto bene.
Non sono venuto da te per arrivare dove sono arrivato. Va bene lo
stesso.
La mia scelta e' in linea con me stesso.
Quella che sapevo di essere e quel pezzettino che non sapevo di essere.
Ci sta.
La mia scelta e' in linea con me stesso.
E' quello a cui volevo arrivare.
Ne sono felice, anche se sofferente.
…
Ho fatto pace con me stesso, almeno questa e' la sensazione che ho.
Fa tutto ancora un gran male, ma non mi aspettavo altrimenti.
So che posso sorridere sempre.
E questa e' una gran forza.
…”
Prima di congedarsi, si mostrò tuttavia interessato al metodo da me utilizzato. Avevo
dentro la mia borsa di lavoro una copia del libro “Platone è meglio del Prozac” di
Marinoff; pensai quindi di prestarlo a lui e di farmelo restituire quando ne avrebbe
avuto voglia. Dopo alcune settimane mi arrivò la sua seguente mail:
104
“…
sto leggendo il tuo libro …
Dopo una prima lettura bramosa delle cose che pensavo mi interessassero,
lo sto leggendo tutto, pagina dopo pagina, scoprendo delle cose di me
e di come affrontarmi.
Oggi, dopo una buona lettura serale di tante pagine (molto sano ogni
tanto invece che lavorare sempre) mi sembra di avere una lucida
visione di me e della mia vita. Del senso. Dei mezzi che ho.
Domani si offuscherà, non ne dubito,ma so che oggi ho fatto un
altro passo avanti.
Mi fa bene camminare da solo ora, dopo un primo aiuto tuo.
Mi hai aiutato a mettere le basi per una strada da percorrere.
La sto percorrendo.
E ne sono molto felice e orgoglioso.
Un grande saluto,
Marco”
Dopo alcuni mesi Marco mi ricontattò per restituirmi il libro. Da quel giorno non ho
più avuto sue notizie.
Questo caso mostra come un counselor filosofico possa essere di aiuto fondamentale
in uno studio di psicosessuologia, quando il sessuologo clinico si trova di fronte a
problemi della coppia che richiedono anche un intervento con un singolo membro
per chiarire il mondo valoriale ed etico di quest’ultimo. Con Marco, infatti, il lavoro si
è concentrato sulla possibilità di mettere lo stesso consultante nella condizione di
chiarire a se stesso e di meglio rendersi consapevole dei valori, delle mete e degli
scopi che accompagnano la sua esistenza. Tal relazione di chiarificazione e di
consapevolizzazione ha portato Marco dove l’ha portato, ma in un modo più
autentico e più responsabile, indipendentemente dall’etica e dai principi morali che
Marco ha deciso di far suoi.
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3.4 Valentina ovvero il desiderio di un rinnovato progetto
esistenziale
Valentina è una donna di 55 anni, separata da circa 30 anni, ha tre figlie sposate, due
nipotine, un nipotino e un figlio. Tutti quanti i figli li ha avuti con il suo ex marito.
Prima della separazione possedeva un negozio che gestiva con l’allora suo marito e
che riuscirono aprire grazie a una somma di denaro risparmiata. A causa del
comportamento del suo ex compagno, a suo dire spendaccione e poco impegnato a
portare avanti l’attività commerciale, i due dovettero chiudere l’azienda. Da allora
Valentina ha cambiato diversi lavori e da circa 13 anni è impiegata come ausiliaria
socio assistenziale presso una Residenza Sanitaria Assistenziale per persone anziane
parzialmente autosufficienti o non autosufficienti.
Per motivi professionali ho potuto conoscere Valentina la quale, avendo saputo che
mi occupo anche di counseling filosofico, espresse la sua volontà di raccontarmi il
suo malessere. Di qui è iniziato un breve percorso ma intenso che ha portato la
consultante a realizzare scelte fondamentali per la sua esistenza. I primi colloqui
hanno visto me in una posizione di ascolto del messaggio che Valentina voleva
esprimere e condividere. Cominciò raccontando la sua vita, le sue storie d’amore con
altri uomini incontrati dopo la separazione e il suo bisogno di frequentare soprattutto
persone più giovani di lei, in quanto, così disse,“mi sento uno spirito libero, che non vuole
attaccarsi a nessuno e che non vuole dipendere da altri”. Nel raccontare ciò non avvertii in
me emozioni di gioia o di felicità, colsi invece una certa amarezza che tuttavia non
riuscivo a presentificarmi completamente. Cominciai a domandarmi cosa volesse
comunicarmi e in quale modo; mi vennero in mente alcune ipotesi. Lasciai però da
parte queste mie sensazioni e illazioni riservandomi di rivederle e al limite pensarle in
altri momenti, estranei ai colloqui con Valentina. Come la fenomenologia ci ha
insegnato, dobbiamo, in quanto professionisti di una relazione di aiuto, operare su di
noi la cosiddetta epochè, pur consapevoli che una sospensione delle nostre credenze e
dei nostri pregiudizi da un punto di vista teorico e pratico non è possibile raggiungere
in modo totale e perfetto. K. Jaspers scrisse che:
106
«Dobbiamo lasciare da parte tutte le teorie che sono giunte fino a noi, tutte le
costruzioni psicologiche, tutte le pure interpretazioni e i giudizi, e dobbiamo
interessarci solo a ciò che possiamo comprendere, distinguere e descrivere nella sua
vera esistenza […] E questa impostazione fenomenologica è uno sforzo continuo, è
una proprietà che si deve acquisire superando sempre nuovi pregiudizi» (Jaspers, pag.
59, 1982).
A suo dire, la fenomenologia ha il compito precipuo di rendere presenti ed evidenti
gli stati d’animo e i vissuti che le persone realmente vivono in modo tale che
possiamo osservarli nei loro rapporti, nonché distinguerli e delimitarli.
«Dato che non possiamo mai percepire direttamente gli stati psichici degli altri come
il loro stato fisico, si tratterà sempre e soltanto di un’attualizzazione, di una
partecipazione affettiva (Einfühlung), di una comprensione» (ivi).
Questo significa che dobbiamo cercare di presentarci in modo vivo ciò che avviene
veramente nella mente del consultante per comprendere quanto ha veramente
vissuto, con quali emozioni e quali sentimenti, al di là delle nostre pregiudizievoli idee
o interpretazioni.
Valentina continuò il suo racconto dicendo che stare sola, nel senso di non
intrattenere legami sentimentali seri e continui con un uomo, la faceva stare bene e la
faceva sentire viva, “mettendomi sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e di non noioso”.
Durante il primo incontro le chiesi allora il motivo per cui decise di venire da me per
parlare di se stessa ed ella ripose letteralmente così:
“In questi ultimi mesi non sto bene. Mi sveglio alla mattina con un senso di nausea: è come se mi
venisse da vomitare ma poi non riesco e tossisco fortemente; non ho voglia di vedere nessuno e solo
l’idea di andare in giro in cerca di avventure mi fa stare male. Non mi riconosco più!”.
Le chiesi se si fosse rivolta a un medico e lei mi rispose affermativamente e che
tuttavia le consigliò solo di prendere un po’di ferie perché da un punto di vista
organico non risultavano problemi evidenti. Le disse che era stanca e che aveva
107
bisogno di risposare .Il professionista aveva escluso psicopatologie come disturbi di
ansia o dell’umore. A tal proposito, per scrupolo chiesi un consulto alla
psicosessuologa, che mi rassicurò in tal senso affermando che, sulla base del mio
racconto, non intravedeva un quadro di depressione clinica rilevante. Mi consigliò a
ogni modo di confrontarmi con lei al riguardo e anche successivamente per eventuali
invii.
Di fronte a un malessere esistenziale, lo spiegare non sempre funziona. Come ci ha
insegnato W. Dilthey (Dilthey, 1973), spiegare un fenomeno significa ricondurlo alla
causa materiale che lo ha determinato. Per esempio, se si hanno conati di vomito e si
hanno vissuti di tristezza e di senso di solitudine, occorre ricondurre questo stato
mentale a un fattore extrapsichico, che ne so a un cibo avariato o a un trauma subito.
In questo senso, la spiegazione avviene sempre dall’esterno, in quanto collega un
fatto extrapsichico, mediante una relazione causale, con uno stato mentale. La
comprensione è invece altra cosa dalla spiegazione: essa è una conoscenza che viene
dall’interno. Da un punto di vista fenomenologico, comprendere geneticamente un
problema vuol dire portare alla luce i fattori impliciti e sostanziali che ne hanno
permesso la costruzione. In una frase: rendere conscio l’abituale e i pensieri impliciti
per poi, ma solo in un secondo momento, rendere abituale il conscio, i pensieri
razionali che meglio ci fanno stare. I vissuti esistenziali del consultante, inoltre, si
offrono alla nostra comprensione mediante l’empatia. Questa partecipazione affettiva
ai vissuti dell’altra persona si caratterizza in senso fenomenologico solo se implica
una messa tra parentesi di ogni nostra ipotesi preliminare, di ogni nostra precomprensione e ogni nostro pre-giudizio. Il compito del counselor filosofico è
pertanto quello di creare le condizioni che permettano al vissuto del consultante di
manifestarsi per quello che è; e il counselor filosofico può raggiungere ciò
sforzandosi di sgomberare dalla propria mente ogni sua teoria pregiudiziale e ogni
preoccupazione interpretativa.
108
Forte di questi strumenti, continuai ad ascoltare attivamente il racconto di Valentina,
la quale arrivò a confidare quanto segue:
“Sai qual è il punto,? È che non ce la faccio più con questo lavoro. Ne ho le scatole piene: le colleghe
straparlano e ti fanno la doppia faccia; quando ci sono problemi sono tutte carine con te mentre
quando occorre affrontare le difficoltà mettendoci la faccia, voltano le spalle o fingono di non avere
alcuna difficoltà. Voglio fare altro … se potessi aprire un’attività tutta mia”
A questo punto del colloquio provai a riformulare a Valentina quanto aveva
raccontato con queste parole:
“Mi sembra di aver capito, ma correggimi se sbaglio, che la tua vita sentimentale e
relazionale improntata sul senso della libertà non è tanto un problema per te; tuttavia,
da qualche tempo a questa parte, la tua visione e i tuoi vissuti riguardo alla sessualità e
agli uomini sono cambiati. Il tuo modo attuale di vivere la sessualità e le relazioni è
come se ti stesse indicando un malessere che però riguarda qualcos’altro: questo tuo
stato d’animo ha in qualche modo a che fare con il lavoro e con il rapporto con le
colleghe”.
Ella confermò quanto le riformulai e integrò il mio riassunto dicendo che al mattino,
appena si sveglia, il solo pensiero di andare a lavorare l’agitava e le faceva chiudere lo
stomaco. Disse pure che questo malessere l’accompagnava anche durante la giornata
e che riusciva a distaccarsi e a sollevarsi solo nel tardo pomeriggio, quando ormai
giunta a casa e tutta presa dalle faccende domestiche, la mente si liberava. Alla sera
tuttavia si sentiva esausta e non avvertiva più la voglia di socializzare con alcuna
persona.
Congedai Valentina da questo primo colloquio presentandole e condividendo un
compito che avrebbe potuto fare a casa e che mi avrebbe riportato all’incontro
successivo, se ne avesse voluto. Le chiesi semplicemente di mettere per iscritto in una
lista i pensieri che le venivano in mente quando si concentrava sul lavoro in generale
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o su alcuni specifici episodi lavorativi e per ogni pensiero di rispondere alla seguente
domanda: come mi sento e quali emozioni avverto?
L’incontro successivo partì da dove lasciammo il primo. Valentina portò un foglio di
carta sul quale scrisse alcuni pensieri e, a fianco di questi, come si sentiva:
“1. Questo lavoro non mi piace più e non mi dà più quello che sentivo all’inizio. Emozioni e
sentimenti: disgusto, stanchezza, rabbia verso il lavoro;
2. Le colleghe sono false. Quando S. mi si rivolge con quella bella faccia innocente e poi scopro che
me ne ha dette dietro di tutti i colori mi viene voglia di cantargliele quattro. Emozioni e sentimenti:
rabbia nei loro confronti, senso di vendetta, voglia di prenderle in faccia e dire loro quello che penso
veramente del loro comportamento;
3. Con questo lavoro non vedo un futuro. Emozioni e sentimenti: paura, preoccupazione.
4. Ho sentito dire che dalle mie parti vendono un attività. Potrei ritirarla e lavorarci con le mie
figlie. Emozioni e sentimenti: gioia, preoccupazione, timore, mi sento come per rinascere ma se poi
non ce la faccio e fallisce tutto?”
Presi spunto dall’esercizio per mettere Valentina nella condizione di dire meglio a se
stessa come si sentiva di fronte a tali pensieri. Le chiesi nello specifico come il suo
corpo reagiva di fronte a essi e quali comportamenti metteva in atto quando la sua
mente era assorbita da quelle ruminazioni. La consultante rispose che da diverso
tempo aveva perso l’appetito, che aveva aumentato il consumo di sigarette e che la
notte faticava ad addormentarsi. Disse anche che non riusciva a fingere con le
colleghe, nel senso che non poteva far finta di niente di fronte alla loro falsità.
Questo però la faceva sentire nervosa e arrabbiata tutto il giorno. Riportò altresì la
sua preoccupazione in merito al suo desiderio di cambiare vita, di pensare di fare
altro e di aver perso un poco la bussola. Nello specifico confidò di non riconoscersi
più, di aver perso se stessa e di non capire più chi fosse.
110
Da una parte ragionai con Valentina circa il suo sentirsi male quando spendeva le sue
energie in quei pensieri e le chiesi se poteva pensare ad altri comportamenti e azioni
da mettere in atto per dare sollievo alle sue preoccupazioni. Lei rispose che non ci
aveva mai pensato perché le venivano così, naturalmente, e che non riusciva
facilmente a scacciarle e ad allontanarli. Ciò mi permise di farle fare, durante il
secondo colloquio, l’esercizio di Epitteto sulla differenza tra ciò che dipende da noi e
ciò che invece non è in nostro potere cambiare. Come è noto, Epitteto affermò che
non sono tanto i fatti che alimentano le nostre preoccupazioni, quanto i pensieri che
rivolgiamo ai fatti. Imparò a riconoscere che certe relazioni con le colleghe sono
statiche e poco modificabili, ma che avrebbe potuto dare un peso diverso a quei
legami; si disse che poteva decidere se cambiare lavoro o se continuare a lavorare in
quello o ancora se tenersi quest’ultimo con un’altra modalità, magari part-time e
intanto informarsi su quell’attività che era in vendita. Riconobbe che queste cose
dipendevano da lei, come anche il suo modo di reagire ai comportamenti delle
colleghe che per lei non era corretti, sebbene continuasse ad affermare che non era
giusto lasciare cadere nel vuoto i loro sgarbi; si disse pure che non era in suo potere
la possibilità di cambiare il gruppo di lavoro e le relazioni in essere in esso, per
quanto le sarebbe piaciuto molto poterlo fare.
Dall’altra parte cercai di distanziare Valentina dalle sue emozioni per lei fonte di
malessere facendole delle domande maieutiche intorno agli ultimi pensieri che riportò
prima dell’esercizio di Epitteto:
Che cosa puoi pensare di fisso di te stessa e che non è assolutamente modificabile?
Cosa puoi pensare di te stessa che è cambiato negli ultimi cinque anni?
Cosa pensi cambierà di te nei prossimi cinque anni?
Quando vale la pena domandarsi “chi sono”?
Ebbene, di fronte a queste domande (ispirate a me dalla filosofia di Eraclito e di
Socrate), Valentina mi interruppe proprio con l’ultima dicendomi che il punto era
111
proprio questo: “non so capire cosa desidero veramente fare di me stessa e cosa voglio veramente
dalla mia vita”.
Congedai la consultante dal secondo colloquio invitandola a prendersi del tempo per
sé, durante la giornata o alla sera, per soffermarsi su quelle questioni e capire da se
stessa dove voleva andare. Le chiesi di riflettere, prima di coricarsi, sulle sue diverse
azioni compiute durante la giornata, di lavoro e non, e di chiedersi se l’hanno fatta
sentire bene; se sono congruenti ai suoi desideri più profondi; se conosce tali desideri
e nel caso negativo di provare a pensare alle difficoltà che incontra quando cerca di
rendersene consapevole.
Durante il terzo incontro, avvenuto dopo quindici giorni dal secondo, vidi Valentina
meno preoccupata e fin dalle prime battute mi informò che andò dal suo
commercialista per capire alcune cose riguardanti gli atti di vendita e che prese
informazioni dalla sua banca in merito ad alcune finanziarie per sostenere attività
commerciali. Dentro di me mi domandai se non fosse troppo prematuro da parte sua
agire in quel modo, ma sospesi i miei giudizi e mi feci guidare dalle sue esperienze e
narrazioni. Mi disse la sua preoccupazione e il suo timore nell’avventurarsi verso un
nuovo lavoro. Si fermò a riflettere con me se non fosse meglio il caso di ridurre il
lavoro attuale senza abbandonarlo completamente perché comunque una fonte di
reddito certa l’aveva con esso. Annuii e restituii che questa soluzione poteva essere
una cosa saggia. Tuttavia riportava ancora che al mattino, appena sveglia, le veniva da
vomitare e che si sentiva angosciata. Da una parte si sentiva entusiasta per la
possibilità concreta di iniziare una nuova attività, dall’altra il suo stesso corpo le
diceva che qualcosa l’affannava.
Negli ultimi anni il suo corpo era cambiato: intuii, per quanto Valentina non lo
dichiarò esplicitamente, che la sua età fertile era da qualche tempo non remoto
terminata. Mi informai poco dopo il colloquio dalla psicosessuologa in merito alle
conseguenze psicologiche derivanti dalla menopausa e afferrai che, essendo questo
un momento critico, può talvolta essere accompagnato da un calo del desiderio
112
sessuale e da depressione. Ne dovetti prendere atto e dirmi che di fronte a ciò una
relazione di counseling filosofico ben poco avrebbe potuto fare. Tuttavia Valentina,
durante il colloquio, riportava spesso la parola “angoscia” e concetti a essa correlati
(“mi sento angosciata”, “non so cosa fare ma è come se dentro di me sentissi una specie di terremoto e
di movimento che mi dice che devo fare qualcosa. Ma che cosa? Aprire un una mia attività?”).
Questo suo riportare mi incoraggiò a proseguire nei suoi confronti con un aiuto di
tipo filosofico, senza però escludere la possibilità di indicare a Valentina altri
professionisti.
Heidegger in “Essere e Tempo” e più in generale la filosofia esistenzialista hanno
evidenziato come la struttura fondamentale dell’esistenza umana è formata
dall’essere-nel-mondo e dalla trascendenza. Ogni uomo viene al mondo in una
situazione ben determinata che non può che influire la sua stessa vita e condizionare
la sua esistenza; ma quantunque ognuno venga al mondo in queste condizioni,
appartiene all’essenza della vita umana la possibilità di poter liberamente progettare e
costruire la propria vita. Il punto è che questa libera possibilità è fonte di angoscia.
Questo sentimento è collegato alla possibilità che il progetto fallisca, ma anche
all’assenza di progetto o alla scelta originaria del progetto o ancora al fatto che il
progetto è fallito.
Secondo un’ottica prettamente filosofica, l’angoscia è dunque legata al concetto di
possibilità. Secondo M. Torre, quando scompare il possibile allora compare
l’angoscia. Quando l’uomo guarda dentro se stesso e scorge le sue innumerevoli
possibilità o impossibilità, è come se venisse colto da un senso di vertigine, che non
va confuso con ansia o attacchi di panico. Abbiamo qui ha che fare con il puro
sentimento della possibilità, non con disturbi d’ansia. Come ha teorizzato Heidegger,
la paura è sempre di fronte a qualcosa o per qualcosa, ossia ha sempre un oggetto del
mondo che minaccia la persona, la quale reagisce appunto con questa situazione
emotiva. L’angoscia ha invece il potere di dare all’uomo la possibilità di condurre una
vita autentica, di abbandonare l’esistenza della mera chiacchiera per svelare a lui se
stesso. Nell’angoscia ci si sente spaesati o, per dirla con le parole di Valentina, “non
113
capisco veramente cosa voglio”. Altro punto fondamentale messo in luce dalla filosofia
esistenzialista, è che l’angoscia, così come la nausea o la paura, sono sentimenti
rivelatori in quanto, lungi dal chiudere l’esistenza nel presente continuo, la aprono
invece al proprio essere autentico. L’angoscia è cioè uno stato psicologico normale,
in essa non vi sono cause psicopatologiche e il suo intervento richiede un lavoro
filosofico.
Sull’angoscia avrei quindi potuto lavorare, e così feci. Chiusi il terzo incontro
incoraggiando Valentina a pensare, a casa e da sola, i motivi per cui, a suo tempo,
aveva scelto il suo lavoro attuale e quelli per cui, allo stato presente, la inducevano a
pensare di cambiarlo. La salutai dicendole che ne avremmo parlato al successivo
colloquio.
Il quarto colloquio vide Valentina protagonista attiva sul confronto tra i motivi che le
dicevano di tenersi il lavoro attuale e quelli che invece l’avrebbero portato ad
allontanarsene. Tra i primi, uno dei più significativi fu questo: siccome Valentina
ebbe una madre che soffrì di disturbi psichiatrici e alla quale dovette stare molto
vicino nei momenti più difficili, la possibilità di lavorare con persone anziane
parzialmente autosufficienti e che soffrono spesso di quei disturbi, in qualche modo
la faceva sentire bene e le dava significato, riportandola alla cura che diede a sua
madre.
Ecco le sue parole: “se faccio un lavoro che mi permette di guadagnare appena 900 -1000 euro
al mese e l’ho tenuto per più di 10 anni, un motivo ci sarà. Io sto bene nella’aiutare le persone, mi
sento utile e importante, anche se a volte mi dico che sono stanca di farlo.” Eppure “mi arrabbio
tantissimo quando le colleghe non fanno il loro. La coordinatrice, per esempio, che dovrebbe essere la
persona più impegnata a garantire benessere agli utenti, in realtà se ne frega. Fa il minimo
indispensabile, quando lo fa! E delega tutto a noi operatrici. Ma chi si crede di essere!! Noi
lavoriamo con persone, mica con cose”.
Tra i secondi Valentina espresse la sua fatica e stanchezza a sostenere i rapporti con
le colleghe e con i superiori: “se fosse solo per gli anziani, questo sarebbe un lavoro stupendo.
114
In realtà, anche loro a volte mi danno un po’ fastidio, ma è sopportabile. Ma quanto sporco ci gira
intorno, quanta falsità e ipocrisia! Io devo fare qualcos’altro, aprire un’attività tutta mia mi
permetterebbe di stare a contatto con la gente, ma non so se mi darebbe le stesse soddisfazioni che
provo quando faccio l’igiene a quell’utente o quando faccio le movimentazioni. Tuttavia potrei
aprirla con i mie figli, che anche loro sono stanchi del proprio lavoro e così prendermi cura di loro e
della nipotina”.
L’angoscia (Berra, appunti anno 2014) è uno stato d’animo che getta in un nuovo
mondo o in un nuovo modo di percepire se stessi e il mondo. Essa ha più a che fare
con un’elevazione spirituale che con una reazione primitiva. Attraverso l’angoscia
l’uomo si dà la possibilità di vedere e percepire il mondo circostante in maniera
diversa da come lo si era visto fino a prima di questo vertiginoso e turbolento stato
psichico.
Chiesi a Valentina se, al di là della scelta che avrebbe potuto compiere e delle
diversità tipiche dei due lavori che considerava, vedeva in se stessa o di se stessa
qualcosa di costante, un sorta di stella polare, un punto di riferimento e un valore
irrinunciabile. Dopo averci pensato qualche minuto, ella rispose: “la mia passione per
darmi agli altri, per aiutarli e curarli”.
Il concetto di cura divenne la chiave di volta su cui lavorare filosoficamente.
Nel quinto colloquio chiesi direttamente a Valentina che cos’è per lei la cura e quale
valore riveste nella e per la sua vita. Narrò di nuovo il periodo in cu si prese cura
della madre malata; di quando dovette far fronte all’alcolismo e all’indifferenza del
padre circa i problemi di sua moglie. Aggiunse che per lei l’accudire gli altri era ed è
una sorta di vocazione. Non solo da più di 10 anni a questa parte opera con un
lavoro di cura; non solo ha passato gran parte della sua vita a prendersi cura dei
genitori; non solo vorrebbe aprire un attività per aiutare i figli e prendersi cura delle
nipotine, una delle quale soffre di alcuni disturbi fin dalla nascita. Oltre tutto ciò
confidò pure che da diversi anni lavora come volontaria presso un’associazione di
volontari. Quante belle cose occupavano Valentina e quanti bei propositi e buoni
115
valori alimentavano il suo agire. E tuttavia qualcosa non tornava: da un lato sembrava
vivere secondo i suoi ideali e valori; dall’altro il suo corpo manifestava stanchezza,
angoscia e ormai rifiuto rispetto a tutta questa cura che dedicava alle altre persone.
Ritornando agli esercizi che le diedi alla fine del secondo colloquio, le chiesi
direttamente, con tono dolce e molto empatico: “a fronte di questo impegno ed
energie che dedichi per gli altri, esiste qualcuno che si prende cura di te? Inoltre,
quando ha senso per te domandarti quando è giusto e opportuno dare amore e
considerazione non tanto agli altri, ma a te stessa?”
Con occhi leggermente commossi e voce un po’ soffocata, Valentina rispose: “non sai
quanta fatica ho fatto alla sera per ritagliarmi dei momenti per me. Il tuo esercizio di prendere del
tempo per me stessa, di pensare a quanto ho fatto durante il giorno e se questo mi ha fatto stare
bene, mi ha messo in crisi. Non sono capace! Non ho mai dato attenzione a me stessa e adesso mi
trovo distrutta.”
Valentina avvertiva e sentiva sulla propria pelle questa contraddizione: tanto spazio,
tempo ed energia aveva dedicato agli altri, quanto poca cura aveva invece riserbato a
se stessa. Le diverse circostanze della vita l’avevano portata ad agire, a fin di bene,
verso l’esterno, ma mai dedicò un attimo alla sua vita, al suo spirito e alla sua crescita
interiore. Formulai a lei, con parole molto delicate e con tono più che mai empatico,
quest’ultimo concetto e lei vi si trovò pienamente. Ragionai filosoficamente
(cercando i fondamenti, i valori esistenziali e gli scopi impliciti) con lei su come, fino
a quel momento della sua vita, fosse stata prigioniera di un aspetto dominante del suo
pensiero (occuparsi degli altri), quasi come fosse condannata a vedere solo questa
immagine della realtà, e mai altri elementi, i quali rimanevano nello sfondo e nascosti
dal pensiero dominante. Come se la sua visione del mondo e il suo progetto
esistenziale fossero stati monocromatici: aiutare gli altri, e basta! Indubbiamente il
mio intervento produsse un effetto choc e accentuò una realtà che il suo corpo già le
indicava; tuttavia questo effetto ha avuto, durante il percorso di counseling e in
questo colloquio, una connotazione di consapevolezza riflessiva, per quanto
116
dolorosa, che non aveva prima. Il poter portare alla luce questa contraddizione,
poterla riconoscere e condividere con me, ha consentito a Valentina di scoprire una
prima sensazione di sollievo, e subito dopo una specie di autoconsapevolezza: il
terreno per potere coltivare un’attenzione a se stessa era ormai pronto; si trattava di
rendere operativo questo tema del condurre se stessa verso il proprio benessere. Le
chiesi allora a quale attività avrebbe potuto rinunciare nella ridda di tutte quelle
caratterizzate dalla dedizione snervante alle altre persone, e cosa avrebbe potuto fare
per il suo bene, per il suo spirito e il suo corpo. Elencò una lista di tutti questi
comportamenti; le chiesi di metterli in ordine di importanza e di assegnare a ciascun
elemento della lista un valore numerico, da 0 a 9. Risultò che poteva rinunciare senza
troppi sensi di colpa al volontariato. Non riuscì invece a dirmi come avrebbe potuto
impiegare il tempo avanzato dal venire meno di quell’impegno. Accennò che avrebbe
potuto leggere dei romanzi, ma non mi sembrava molto certa di ciò. Chiusi l’incontro
dicendole di pensarci a casa e di riparlarne la volta successiva.
Durante il sesto e ultimo incontro, avvenuto circa dopo due settimane, Valentina mi
aggiornò che aveva ricevuto il finanziamento per condurre l’attività commerciale, di
aver contattato il venditore e di non volere rinunciare al suo impiego attuale, perché
le dava sicurezza economica. Ipotizzò che se il nuovo lavoro le avesse dato rendite
certe, avrebbe lasciato il vecchio impiego. Narrò anche che alla sera aveva cominciato
a leggere dei libri, ma non mi specificò quali. Raccontò che spesso vi ci si
addormentava sopra, ma che, prima di crollare, si sentiva bene nel compiere questa
attività. Verbalizzò con consapevolezza la sua condizione esistenziale, emersa in
modo esplicito durante l’incontro precedente, e che l’aver riconosciuto la situazione
che si trovava a vivere non le aveva permesso di focalizzare su di sé l’attenzione.
Disse che già questo lavoro la faceva sentire meglio e che l’entusiasmo di andare a
svolgere una nuova attività l’aveva condotta a non dare tanto peso ai suoi pessimi
rapporti con le colleghe. Valutò l’importanza di prestare più attenzione ai segnali che
il suo corpo le inviava e al fatto che una vita che non sia spesa a fare quello che più
piace e che rechi maggior felicità non è meritevole di essere pienamente vissuta.
117
Manifestò le difficoltà che incontrava a riconoscere quello che più desiderava e più le
interessava, ma confermò che il blocco iniziale era stato tolto e che si trattava adesso
di dedicarsi maggiormente a se stessa. Mi ringraziò e ci salutammo.
118
Conclusione
La modesta proposta che in questo lavoro ho avanzato prende sul serio la possibilità
di applicare il counseling filosofico ai problemi esistenziali ed etici correlati ai disturbi
sessuali.
Nel corpo centrale di questo lavoro mi sono proposto di mostrare come la sessualità
prospetti il problema fenomenologico dell’intersoggettività, ovvero il problema
dell’uomo esistente nel mondo con altri uomini. L’istinto sessuale e la pulsione
sessuale sono un modo primordiale del soggetto di essere-nel-mondo con altri
soggetti: è questo l’insegnamento fondamentale della fenomenologia in seno al tema
della sessualità. La spinta erotica non è considerata dalla fenomenologia un mero
meccanismo collegato alla funzione biologica del corpo, ma è soprattutto
un’intenzionalità che ha natura teleologica, cioè è tensione, volontà, telos per il nostro
fare e per il nostro comportamento, non solo sessuale. Ho cercato di evidenziare
come per la fenomenologia la pulsione sessuale sia una “fame” diretta verso una
meta, una forza desiderante che collega un corpo vivo a un altro corpo vivo: la
sessualità è dunque un elemento centrale della relazione che l’io ha con gli altri
uomini che vivono nel suo stesso mondo. Se è vero che i diversi modi sessuali di
ciascuno di noi sono sempre relazionati ai vari significati che nascono dal desiderio
sessuale e se è vero che il reticolo di significati che caratterizzano l’esistenza di una
persona nel mondo altro non è che la sua visione del mondo, allora la sessualità, in tal
senso, è un elemento fondamentale della visione del mondo. Ne segue che lavorare
sul tema della sessualità con il consultante vuol dire in definitiva lavorare sulla sua
visione del mondo.
Preso atto che sempre più la sessuologia d’impronta medica si occupa del corpo
inteso come Körper, al posto del corpo vivente, privandosi in questo modo e
inevitabilmente della dimensione più globale dell’esistenza, ho evidenziato come, in
virtù della polisemia del concetto di sessualità, si possa gettare un ponte tra il
trattamento sessuologico dei disturbi sessuali e l’aiuto filosofico che si può donare
119
alla persona che, vivendo
questi disturbi, si trova ad affrontare problematiche
esistenziali ed etiche da essi non avulse.
Facendo miei gli insegnamenti e le considerazioni di L. Nave sul rapporto filosofia e
sessualità, a tal proposito ho messo in luce come il counselor filosofico non può fare
del sesso un oggetto del sapere, da classificare, studiare, analizzare e cogliere le cause
di una sua anomalia. Potrà però rivolgersi al consultante, che porta il suo problema
sessuale, per aiutarlo a cogliere il senso e il valore che per lui ha la sessualità, il modo
in cui tale significato s’inserisce nella sua visione del mondo e nel suo progetto di
vita, il modo in cui vive la sua sessualità. Di qui la distinzione e il confronto operato
da me tra il counseling filosofico e la psicoanalisi da una parte, e lo stesso counseling
filosofico e le terapie cognitivo-comportamentali e mansionali integrate dall’altra. Ho
perciò chiuso questa parte teorica del presente lavoro discriminando la
professionalità del counselor filosofico da quella del consulente sessuale e del
terapeuta clinico.
Ed è così che mi sono presentato durante la mia attività del progetto EroSofia presso
lo studio della psicosessuologa, con il suddetto bagaglio di nozioni teoriche e di
strumenti filosofici. L’idea, fin dall’inizio, è stata non solo di distinguere il lavoro
filosofico di cura di disagi esistenziali avvertiti da persone aventi disfunzioni sessuali
da quello terapeutico per questo tipo di problemi, ma più di tutto quello di creare una
profonda collaborazione con i professionisti di questo campo. Una prima fase del
progetto mi ha visto ascoltare attivamente i casi che la psicosessuologa mi descriveva:
gli obiettivi che mi sono proposto di raggiungere sono stati quelli di esercitare
praticamente l’ascolto attivo e di delineare alcune tematiche di fondo di natura
filosofica che accompagnavano le sofferenze di chi si fa portatore di disturbi sessuali.
Sono emersi questi argomenti da tutti i racconti ascoltati:
-
la questione sulla normalità;
-
la questione morale;
-
la questione esistenziale.
120
Temi, questi, che hanno fatto da sfondo filosofico per un lavoro di cura con la
persona richiedente aiuto.
Nella seconda fase ho condiviso, discusso e proposto interventi di natura filosofica ai
casi ascoltati nei quali le persone manifestavano disagi esistenziali. Pur non avendo
seguito di persona tali situazioni, grazie al continuo e costante confronto con la
collega, abbiamo potuto testare la validità di alcuni strumenti filosofici nel trattare le
difficoltà etiche ed esistenziali emerse. Ciò ha non solo preparato il terreno su cui
avrei potuto lavorare da solo e in autonomia, ma ha pure mostrato come il
counseling filosofico, sebbene distinto dalla terapia sessuale e dalla consulenza
sessuale, sia una relazione di auto molto efficace in questo campo. I casi condivisi
(che in questo lavoro ho ridotto a due a titolo esemplificativo), le riflessioni elaborate
e il lavoro su di essi svolto, testimoniano:
-
come sia possibile e plausibile un confronto costruttivo tra le tecniche della
terapia cognitiva (freccia discendente, schemi di pensiero, pensieri automatici,
idee intermedie, dialogo socratico, RET, ecc.) e gli strumenti propri del
counseling filosofico (visione del mondo, progetto esistenziale, atteggiamento
in presa riflessa, esercizi, fondamenti e riferimenti filosofici, ecc.);
-
come il counseling filosofico ben s’innesti nel trattamento dei disturbi sessuali
laddove ci siano da indagare le credenze implicite del consultante che spesso
sono per lui fonte di sofferenza;
-
come il counseling filosofico pare essere veramente appropriato in questo
campo d’intervento allorché si prospetti il bisogno di andare a indagare e
sondare il sistema di valori etici del cliente;
-
come il counseling filosofico funzioni purché non vada a invadere il terreno
patologico delle disfunzioni sessuale e dei problemi psicopatologici;
-
come il counseling filosofico dia un valore aggiunto laddove il problema
sessuale sollevi o sia sollevato da domande di natura etica.
121
Nella terza fase del progetto ho preso in carico direttamente diversi consultanti,
alcuni dei quali inviati dalla collega, mentre altri presentatesi a me di loro spontanea
volontà. In questo lavoro ho descritto due situazioni in particolare, mettendo
l’accento sia sugli elementi teorici del counseling filosofico sia sugli strumenti pratici
adoperati. Si tratta di due casi ben riusciti, a mio modo di vedere, di relazione di aiuto
filosofica. Nella fase finale del progetto ho condiviso con la psicosessuologa delle
linee guida comuni di intervento e di collaborazione:
-
invio reciproco di clienti al bisogno concreto;
-
collaborazione e reciproca supervisione per tutte quelle situazioni in cui ai
problemi sessuali e psicologici si accompagnano disagi esistenziali, e
viceversa;
-
condivisione dello stesso studio di lavoro, assettato tanto per interventi di
natura psicoterapeutica e psicosessuale quanto per colloqui di counseling
filosofico;
-
programmazione e progettazione condivisa di attività di divulgazione di
pratiche filosofiche (comunità di ricerca, dialoghi socratici, ecc.) e di eventi
aperti al pubblico in merito ad argomenti confacenti la sessualità e l’aiuto
filosofico, oltre che terapeutico.
Chiudo il presente elaborato spendendo due parole sulla metodologia da me
utilizzata per costruire una cassetta di strumenti filosofici da usare in un intervento di
counseling. Di ogni opera letta, studiata ed elaborata criticamente, mi sono fatto
guidare dalle seguenti domande:
-
quale filosofia ispira tale opera?
-
Questa filosofia, quali strumenti operativi di auto-aiuto mi può suggerire per
affrontare i disagi esistenziali e le problematiche etiche?
122
-
Queste tecniche di auto-aiuto suggeritemi da quella filosofia, sono applicabili
solo nella mia vita concreta o si possono estendere anche alla vita di altre
persone?
-
Se sì, come si possono calare questi strumenti in una relazione concreta di
aiuto filosofico?
-
La filosofia suggerita dall’opera letta può diventare uno stile di vita a cui
rifarsi?
-
Quali bisogni posso soddisfare con quella filosofia? Quali obiettivi raggiungo
adottando quegli strumenti nel counseling filosofico? E quali scopi raggiunge
il consultante se facesse propri questi attrezzi e quelle filosofie?
Nell’affrontare tali domande, non mi sono mai dimenticato che le risposte che di
volta in volta andavo elaborando non avrebbero mai potuto fornirmi una cassetta di
attrezzi funzionali per risolvere profondi disturbi della personalità, di cui i sintomi
sessuali sarebbero solo degli epifenomeni, né tantomeno patologie sessuali, che
invece richiedono l’intervento di professionisti del settore. Molto più umilmente, ho
cercato di mettere da parte quel desiderio di onnipotenza e di egocentrismo che
spesso accompagna gli operatori della relazione di aiuto, dicendomi che se nella mia
cassetta metto un martello, un cacciavite e una pinza, allora non posso utilizzare
questi strumenti per segare, piallare del legno o per limare del ferro, bensì
rispettivamente per battere dei chiodi, girare delle viti e per estrarre dei chiodi.
Consapevole di avere prodotto degli strumenti prettamente funzionali al trattamento
di problematiche esistenziali ed etiche, pur non sottovalutando l’apporto di attrezzi
sussidiari in parte derivabili da altre teorie e metodologie (problemsolving, RET,
ecc.), mi accingo con molta passione a fare di questo progetto una vera e propria
professione.
123
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