EroSofia Counseling Filosofico e sessualità Claudio Viganò 2015 2 ISFIPP Saggi La collana ISFIPP saggi vuole raccogliere i più significativi contributi nei campi della filosofia, della psicologia, della psichiatria, e in particolare nella loro sottile interconnessione, in un comune territorio di indagine, quale l’uomo e gli aspetti della sua esistenza. L’ Istituto Superiore di ricerca e formazione in Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP si propone come punto di incontro tra Filosofia, Psicologia e Psichiatria. Dall’ apparente loro distinzione formale, l’intento dell’Istituto è quello di cogliere i rapporti, le connessioni e le reciproche influenze tra queste tre aree del sapere, sul presupposto di una loro sinergia e condivisione di scopi. Istituto Superiore di ricerca e formazione in Filosofia, Psicologia, Psichiatria ISFiPP Corso Fiume 16 – 10133 Torino tel. 0116606126 www.isfipp.org 3 4 Indice 1. Introduzione e progetto 6 2. Erosofia: verso una relazione di aiuto pratica e fenomenologico-esistenziale dei problemi esistenziali correlati ai disturbi sessuali 2.1 Prolegomeni a una fenomenologia della sessualità 12 2.2 Sul concetto di sessualità. Sua polisemia 21 2.3 Dalla concretezza dei dati … 25 2.4 … all’universalità filosofica dei messaggi 29 2.5 Filosofia vs sessualità? 33 2.6Il punto di vista psicoanalitico. Cenni 40 2.7Il punto di vista cognitivo-comportamentale. Cenni 44 2.8Cenni di terapia mansionale integrata sessuologica 60 2.9 Perché il counselor filosofico non è un sessuologo clinico né un consulente sessuale? 64 3. Erosofia: applicazione delle basi filosofiche al problema concreto 3.1 Davide ovvero questione di credenze e di cura di sé 68 3.2 Antonia ovvero la volontà di vivere pienamente la propria esistenza 81 3.3 Marco ovvero la paura del fallimento del proprio progetto di vita 87 3.4 Valentina ovvero il desiderio di un rinnovato progetto esistenziale 104 4. Conclusione 117 5. Bibliografia 122 5 1. Introduzione e progetto Il counseling filosofico a orientamento fenomenologico-esistenziale può essere sinteticamente definito come una relazione di aiuto che, servendosi della filosofia fenomenologico-esistenziale, supporta l’individuo nel proprio percorso di ricerca interiore e nella soluzione di problemi esistenziali. In una relazione di questo tipo il counselor aiuta il consultante ad analizzare la struttura della propria esistenza individuale e della propria visione del mondo (concetti, questi due, appartenenti alla filosofia fenomenologico-esistenziale), al fine di far fronte a problemi critici della propria vita, spesso causa di disagio interiore ed angoscia esistenziale. In un contesto di counseling, la filosofia può aiutare l’individuo a confrontarsi coi propri problemi personali, mirando a far emergere il senso e il valore di un comportamento e non tanto il suo perché. Due sono le anime del counseling filosofico (Nave, 2012) da tenere presente nella lettura di questo lavoro: la prima afferisce agli strumenti, abilità, tecniche e atteggiamenti del counseling d’impostazione umanistica (empatia, atteggiamento incondizionato, ascolto attivo, osservazione autentica, ecc). La professionalità del counselor trascende una semplice attività di somministrazione di aiuti, consigli o soluzioni preconfezionate. Il tempo che il counselor dedica al consultante assume invece la forma di una vera e propria relazione di aiuto, non tecnica ed esperta, ma semplicemente, nella sua complessità, umana ed esistenziale, che lo mette nella condizione di sviluppare nuovi processi di esplorazione, chiarificazione e comprensione del problema riportato al fine di trovare da sé la sua via di uscita e la sua autentica, personale e potenzialmente risolutiva soluzione alla difficoltà espressa. Lungi dall’assumere un atteggiamento di tecnico esperto capace di risolvere problemi specifici della sfera sessuale, il counselor filosofico lavora affinché il consultante riconosca in modo sempre più chiaro e consapevole: la natura della sua difficoltà esistenziale ed etica correlata al disturbo specificatamente sessuale; i bisogni e i valori attinenti alla sua stessa persona; le emozioni, i desideri e le credenze connesse a quella 6 situazione problematica; le risorse e le capacità personali in quanto punti di forza su cui far leva per uscire dal disagio. La seconda anima del counseling, quella filosofica, va qui considerata da un punto di vista fenomenologico-esistenziale. La parola chiave su cui fissare l’attenzione è l’espressione “visione del mondo”, intesa in modo generale come sistema di coordinate esistenziali grazie cui ciascun individuo, mediante processi di analisi, organizzazione, percezione, categorizzazione, ecc., conferisce sensi e significati agli eventi della vita e all’esistenza stessa. Il compito peculiare del counselor filosofico, che lo differenzia da altri tipi di counseling e soprattutto dalle psicoterapie, sta proprio nell’andare ad analizzare filosoficamente la visione del mondo del consultante. Ciò significa che il counselor lavora essenzialmente sulla filosofia personale della persona richiedente aiuto, cioè su quella rete di concetti, valori, credenze, giudizi, aspettative, tensioni, emozioni, modi di vivere, teorie cosmologiche, storiche, estetiche, ecc. che sono per lo più implicite e inconsapevoli al consultante e che tuttavia lo guidano nel vivere la propria esistenza in questo mondo. Il punto sta che ciascuno di noi ha una sua filosofia, ma pochi sanno l’influenza che essa esercita sulle nostre azioni e sui nostri comportamenti: essa è per lo più accolta passivamente e inconsciamente. Proprio su quest’ultimo punto, il compito del counselor filosofico è di operare al fine di rendere il consultante consapevole della sua filosofia personale: nel fare questo ho visto nella distinzione che Husserl compie tra atteggiamento in presa diretta e atteggiamento in presa riflessa uno strumento utilissimo. Ho cercato di mostrare, nei casi descritti in questo lavoro, come la riflessione questionante e quella radicale, elaborate da Husserl, possano essere efficacemente utilizzate per aiutare il consultante a rendersi consapevole e conscio delle sue opinioni, credenze, modi di vivere, pregiudizi, idee e valori morali che fino a quel momento erano per lui abitudinarie e implicite, e che ciononostante guidavano la propria vita e il suo stare al mondo, i suoi comportamenti e gli stati d’animo che provava di fronte al problema sessuale. Ho cercato pure di mostrare come non sia sufficiente rendere conscio l’abitudinario e l’implicito, ma occorra anche rendere abitudinario e consolidato il conscio che è sortito dagli incontri di counseling 7 filosofico tra il counselor e il consultante: una volta riconosciuta la sua filosofia personale, fonte di disagio esistenziale, il consultante viene aiutato a inserire nella sua visione del mondo quanto ha costruito nella relazione di aiuto con il counselor e, mediante esercizi filosofici, impara a rendere consuetudinario il suo nuovo modo di vedere il mondo, che dovrebbe risultare più consono ad affrontare il problema riportato. La filosofia individuale delle persone comuni, ma a ben vedere di noi tutti, è infatti spesso poco pensata, meditata e pensata, per quanto sia vissuta. Gli eventi della vita, e tra questi anche quelli che afferiscono alla sfera della sessualità, possono procurare contraddizioni interne alla persona, possono mettere in crisi il sistema valoriale dell’individuo, possono far sorgere turbamenti esistenziali che impediscono di vivere un’esistenza serena e rivolta alla ricerca del benessere. Certamente la filosofia non può fornire strumenti per guarire dai disturbi sessuali e psicosessuali (alcuni dei quali difficilmente vengono risolti dalla stessa medicina o psicoterapia), ma può insegnare al consultante a cambiare la propria visione del mondo, il proprio modo di stare al mondo che prima era fonte di angoscia e di malessere esistenziale. Ciò è possibile perché il counselor filosofico è consapevole che l’origine della nostra quiete interiore o del nostro disagio non risiede tanto nelle cose del mondo, quanto nella visione che ci formiamo degli stessi fatti del mondo mediante le nostre idee, pensieri, credenze, valori, e via dicendo. Solo agendo sulla visione del mondo del consultante è possibile cambiare il modo in cui egli reagisce emotivamente agli ostacoli della vita. Spendo, in questa breve introduzione, alcune parole sulla distinzione tra counseling filosofico e psicoterapia. Esistono, a mio modo di vedere, almeno tre livelli su cui operare questa distinzione. Da un punto di vista antropologico, la concezione di uomo che il counseling filosofico presuppone non è quella di una macchina che risponde a certi input (come vuole il comportamentismo) e neppure quella di un essere prigioniero del suo inconscio (come vuole invece la psicoanalisi). Per il counseling filosofico l’uomo è sostanzialmente una persona impegnata a creare se stessa, una persona che crea il significato della sua vita, una persona che incarna una dimensione di libertà soggettiva. 8 Un secondo livello di distinzione concerne il diverso atteggiamento del counselor filosofico rispetto a quello dello psicologo e dello psicoterapeuta: l’atteggiamento del primo è filosofico, ossia guidato dalla trascendenza, della ricerca continua e dalla maieutica, mentre l’atteggiamento dello psicologo è scientifico e mirante a spiegare il fenomeno considerato (il disturbo sessuale in questo caso specifico) individuandone le cause che lo hanno determinato. Lo psicoterapeuta utilizza protocolli rigorosamente riproducibili che riguardano il perché di un certo comportamento, la manifestazione di un sintomo e la realtà patologica a cui esso rimanda, oltre che le dinamiche affettive consce e inconsce che possono instaurarsi tra il terapeuta e il paziente. Si serve di modelli causalistici e usa strumenti diagnostici o test psicologici .Il counselor filosofico guarda invece il valore che un certo comportamento ha per il consultante e si sofferma sulle domande che egli pone in merito alla sua esistenza in relazione al problema manifestato. Tenta infine di elaborare con lui una visione filosofica e una filosofia personale nuova o rinnovata con cui guardare il disagio riportato. Infine, il terzo livello su cui operare tale distinzione potrebbe essere connotato come metodologico. Servendosi dell’epochè e della riduzione fenomenologica, il counselor filosofico aiuta a chiarire al consultante come il problema reso si manifesti alla sua coscienza, con quale evidenza e con quali tipicità. Mediante la riduzione eidetica e la variazione immaginativa lo supporta a cogliere l’essenza e la struttura della problematica condivisa. Grazie alla descrizione statica e all’analisi genetica il consultante impara a distinguere la situazione che sta vivendo da se stesso in quella situazione; apprende che una difficoltà a lui si dà e che nel suo darsi ha una propria modalità di manifestazione; riconosce l’origine di questo disagio e se ne appaga cognitivamente; prepara il terreno per rispondere alle domande su come poterlo superare e con quali risorse e strumenti. Diversamente, lo psicoterapeuta si preoccupa di inquadrare il sintomo in una cornice teorica di riferimento che può essere neurologica o psicologica, al fine di dedurne un’opportuna diagnosi e quindi un’efficace terapia. Il counselor filosofico si fa guidare dal vissuto del cliente e dall’esperienza da lui restituita cercando di mettere il più possibile tra parentesi le 9 diverse interpretazioni che del problema si possono fornire; lo psicoterapeuta mira a spiegare causalmente il funzionamento del problema cercando di riferirsi sempre a qualche teoria accreditata. Scopo di questo lavoro è non solo descrivere il mio progetto sperimentale presso uno studio di psicosessuologia, ma anche e principalmente: - trovare punti di possibile integrazione del counseling filosofico all’interno della pratica clinica psicosessuologica; - differenziare la pratica filosofica nella forma di counseling da un intervento di natura psicosessuologica; - confrontare le metodologie cognitivo-comportamentale e di terapia mansionale integrata sessuologica con il counseling filosofico applicato a problemi esistenziali legati alla sfera sessuale e sentimentale; - costruire una “cassetta degli attrezzi” specifica del counseling filosofico nell’ambito di una relazione di aiuto. Cosa si è fatto concretamente: - ascolto “casi” in attivo e conclusi; - condivisione e ricerca delle potenzialità delle pratiche filosofiche sui temi specifici dell’amore, del sesso e della relazione sentimentale; - presa in carico diretta di consultanti. Sperimentazione di strumenti di lavoro. Rimando al corpo centrale di questo lavoro e alla conclusione il raggiungimento di questi obiettivi. Vorrei infine ringraziare il professore Lodovico Berra che, dopo aver letto una prima bozza di questo lavoro e in seguito incoraggiatomi con importanti consigli, mi ha dato la possibilità di trasformarlo in un libro. Ringrazio anche Luca Nave che si è lasciato tormentare dalle mie incessanti domande che rivolgevo a lui su ogni singolo 10 elemento del progetto sperimentale: senza i suoi stimoli non sarei riuscito a concludere il lavoro. Grazie ancora a tutti quanti i colleghi del corso di Counseling Filosofico, che si sono con me diplomati nell’anno 2014, per avermi mensilmente spronato a percorrere una strada di ricerca illuminata soltanto dal faro del dubbio (mi mancano gli incontri di discussione con voi). Da ultimo, ma non per importanza, ringrazio Elena, una persona dall’intelligenza sottile e raffinata, la quale è stata per me un insostituibile sostegno intellettuale e morale: le letture consigliatemi, il confronto su ogni caso, le costruttive obiezioni che da lei ho ricevuto, il costante e reciproco scambio di idee mi hanno dato quella tranquillità necessaria per arrivare dove sono arrivato. Senza di lei la modesta proposta che qui presento non sarebbe stata possibile. Un grazie per sempre. 11 2. Erosofia: verso una relazione di aiuto pratica e fenomenologico-esistenziale dei problemi esistenziali correlati ai disturbi sessuali 2.1 Prolegomeni a una fenomenologia della sessualità Il tema della sessualità è fenomenologicamente importante perché rimanda all’esperienza che l’io ha dell’alter-ego e quindi al modo con cui quest’ultimo si dà e al perché, a un certo corpo nel mondo, noi attribuiamo una coscienza come la nostra, anziché considerarlo come inanimato. Il tema della sessualità è dunque fenomenologicamente importante giacché concerne il problema della posizione dell’uomo nel cosmo e della posizione dell’io rispetto agli altri: la fenomenologia non è mera descrizione di oggetti e di essenze ma, attraverso l’epochè, è anche vita etica, vita in cui l’individuo deve porsi il problema di come rapportarsi coi suoi simili e con gli altri in generale. L’epochè stessa non può essere riduttivamente pensata come un solo atto mentale che mette tra parentesi l’atteggiamento naturalistico e l’obiettivismo moderno; per vivere l’altro come altro è necessaria una pratica costante, uno sforzo su se stessi, che ci porti continuamente a metterci alla prova: è tramite l’epoché che noi abbandoniamo le nostre certezze e le nostre difese e solo così torniamo a esperire il mondo della vita, quello precategoriale, non ancora invaso da tutte le costruzioni concettuali-scientifiche delle scienze naturali. Se è vero che l’uomo conduce la sua esistenza nel mondo in compagnia di altri uomini e se è vero che la vita sessuale è un’occasione privilegiata di rapporto con l’altro, allora è anche vero che la sessualità ripropone la questione dell’intersoggettività in quanto momento saliente della struttura esistenziale di ciascuno di noi. Vediamo come questo connubio tra intersoggettività e sessualità scopra le sue origini nella fenomenologia di Husserl. 12 Il problema del rapporto tra l’io e l’altro, tra il medesimo e l’alterità, trova, nella fenomenologia di Husserl, la sua espressione nella riduzione fenomenologica: ridurre vuol dire fare in modo che le cose si presentino a noi per quello che sono, per la loro datità, e non come manifestazioni o parvenze di una realtà sottostante che sarebbe la realtà effettiva, autentica. Il modo per cui le cose si presentano secondo un essere che non è il loro vero essere, che è altro dall’essere autentico, è detto da Husserl “naturalistico”. Secondo questo modo, l’essere ci appare travisato, nascosto, proprio nel suo manifestarsi: essere e apparire non coincidono. Compito della riduzione fenomenologica è “trasformare l’apparire falso in apparire vero, cioè in fenomeno evidente nel quale è presente la cosa stessa, l’essere stesso e non un essere che è altro dall’apparire. L’essere medesimo, l’essere stesso, è perciò direttamente intuito: non è dedotto, non consegue a un discorso categoriale in quanto è, caso mai, il fondamento del discorso: perciò è precategoriale o antepredicativo” (Paci, 1961, pag. 5). La riduzione è un vero e proprio esercizio filosofico nel quale l’uomo deve mutare se stesso: egli passa dalla situazione in cui è perduto nel mondo alla situazione nella quale è il mondo che viene perduto e poi riconquistato, sempre e di nuovo, secondo l’intenzionalità della verità. Grazie alla riduzione, l’uomo riconquista un mondo, e con esso una vita e una storia, che ha un senso. L’esercizio fenomenologico della riduzione è l’esercizio del ricominciare, nel tempo, secondo la verità e quindi secondo l’intenzionalità. Solo criticando il naturalismo che, nel suo concretizzarsi nelle scienze naturali, impedisce l’identificazione dell’essere con l’apparire, della cosa in sé con il suo fenomeno, si può affrontare il problema dell’altro. Non che Husserl misconosca l’utilità delle scienze naturali o la loro positività; egli nega, però, l’idea di una verità come cosa che si dia una volta per tutte nella sua totalità, una verità perfetta, definitivamente esatta, e vi contrappone una verità che è un’idea-limite, un telos, una possibilità teleologica che, in quanto tale, resta una potenzialità che può essere approssimativamente attualizzata, ma non in maniera definitiva. Le scienze si perdono nel mondo quando pretendono di chiudere in sé la razionalità del mondo. 13 La fenomenologia mostra che il senso delle scienze naturali e positive è nella storia, per cui il mondo senza senso delle stesse scienze diventa un mondo orientato secondo una direzione, un telos. Di fronte all’impossibilità di un’evidenza totale, Husserl riconosce tuttavia la certezza di una zona illuminata, di un punto sì finito e limitato, ma di cui non possiamo dubitare, l’Ego Cogito, intesa come persona incarnata e individuata che vive nello spazio-tempo, nel qui e ora. Per quanto una persona non potrà mai ricordare tutto il suo passato e prevedere tutto il futuro, nel suo essere qui, in questo spazio, e ora, in questo tempo, essa è ciononostante il centro finito che contiene in sé un infinito potenziale che si attualizza parzialmente negli atti della sua vita: nella presenza vivente della persona s’incontrano l’esperienza finita e l’idea di una scienza universale, rigorosa, l’idea di verità. Dopo la riduzione fenomenologica, la persona si riconosce come intenzionalità, come coscienza di o su qualcosa, legata all’agire del suo corpo, condizionatamente libera e limitata. Grazie all’epochè (applicata all’indagine sull’alter-ego: messa tra parentesi di tutti quegli atti che ci rimandano a una soggettività estranea) e alla riduzione, la persona diviene consapevole di ciò che gli è proprio, di ciò che si costituisce solo in se stessa e non richiede o rimanda ad altri soggetti: il suo corpo vivo, Leib, che ha determinata peculiarità. Vediamole linearmente e sinteticamente (Sini, 2012) : - non è un mero corpo fisico (Körper); - si muove con lei e rappresenta il qui, il punto spaziale a partire dal quale può vedere il mondo; - possiede delle sensazioni interne (la persona che muove un braccio non solo lo vede muoversi dall’esterno, ma sa anche che si muove, grazie a delle sensazioni cinestetiche, senza necessariamente vederlo, mentre le braccia degli altri corpi le vede muoversi soltanto); - ogni volta che tocca il suo corpo ha una doppia sensazione: tocca e si sente toccata. 14 Insomma, la persona si scopre come unità psicofisica: un corpo fisico animato, capace di sentire. Conoscendosi come corpo proprio, la persona sente l’impossibilità di vivere l’altro come lei stessa. Si presentifica cioè la coscienza del limite come trascendenza dell’altro, l’impossibilità di identificare il suo cogito con il cogito dell’altro, il suo corpo con l’altro corpo. La fenomenologia ci rende in questo modo consapevoli che l’altro innanzitutto non ha senso se non per l’Ego Cogito; non può manifestarsi, farsi fenomeno, che in una vita intenzionale, egologica, ossia in un’esperienza. Il mondo intenzionato dalla coscienza, frutto della riduzione fenomenologica, è un mondo che ha senso, un senso teleologico; e lo ha perché la coscienza è intenzionalità, un andare oltre, un trascendersi che si rinnova sempre e di nuovo. La coscienza, che in quanto intenzionalità è conferimento di senso, sospende il mondo così come appare prima della riduzione, quello in cui le cose erano mere cose, prive di senso. Quello dell’atteggiamento naturalistico è un mondo ridotto alle pure qualità primarie degli oggetti (grandezza, peso, estensione, ecc.), privati così di tutti gli elementi soggettivi. Non che questo mondo cessi di esistere, solo che la coscienza, che intenzionalmente conferisce senso, riprende, a partire dal presente vivente, il passato per trascendersi verso un mondo mai chiuso di essenze teleologiche che sono proiettate nel futuro. “In questa ripresa presentifica il passato e presentifica l’avvenire come idea-limite, come telos: […] per essere attuale la coscienza deve, sempre e di nuovo, trarre dall’oblio del passato il ricordo presentificante, e proiettare nell’avvenire un orizzonte teleologico ora, di fatto, irreale e vissuto come idea” (Paci, 1961, pp. 12-13). La coscienza incarnata ha la sua storia nel tempo, può ricordare parte del passato dimenticato e sulla base di ciò correggere le evidenze con nuove esperienze e visioni. In poche parole: il senso del mondo è davanti a noi e non dietro a noi. Se si riduce la natura al piano dell’ordine geometrico e matematico, non solo lo scienziato arriva a considerare il mondo delle idee/numeri come un mondo chiuso e 15 in sé perfetto, in cui il reale e il razionale coincidono, ma, in più, arriva a perdere la sua intenzionalità e quindi l’esperienza esistenziale, il mondo della vita, dal quale anche tutte le costruzioni teorico-scientifiche hanno trovato l’origine. Solo questo mondo della presenza vivente è il terreno al quale la scienza deve sempre di nuovo ritornare se non vuole perdere la sua capacità di conferire senso. Ecco perché è necessario che la coscienza, l’Ego Cogito, scopra in sé il proprio Leib e il proprio Körper. L’esperienza che l’io ha della sua sfera propria, del corpo vivo, è un’esperienza primordiale che afferisce a uno strato sensibile che fonda ogni mondo culturale, ogni intersoggettività. La persona si accorge innanzitutto del suo corpo proprio senza l’intervento degli altri e questa sua esperienza diventa, quindi, la condizione di possibilità di ogni altra costituzione intersoggettiva e culturale. Si tratta di una fondazione trascendentale, non empirica, perché “mentre posso pensare senza contraddizione uno strato puramente sensibile del mondo, in cui nessun oggetto estraneo è ancora apparso, e in cui gli oggetti non hanno alcuna valenza o significato culturale, non posso al contrario pensare a un mondo culturale senza uno strato sensibile che lo fondi” (Costa, 2009, pag. 119). La sfera del proprio è la condizione di possibilità e di scaturigine non solo di un mondo obiettivo e di significati culturali, ma anche dell’alter-ego, “poiché per poter esperire un soggetto estraneo devo prima esperire un altro corpo nello spazio” (ivi, pag. 119). Questo significa che “l’altro deve costituirsi come oggetto intenzionale che, pur manifestandosi in me e attestando in me il suo essere, sia tuttavia altro dalle mie sintesi costitutive. Il suo modo di manifestarsi deve dunque essere quello di un’alterità di ordine diverso da quello delle mere cose dello spazio” (ivi, pag. 120). L’altro si dà in primo luogo a me come cosa spaziale esterna, come Körper; la somiglianza fisica del corpo dell’altro al mio corpo motivi una sintesi tra il mio Leib e il Leib altrui, per cui attribuisco per appaiamento e trasposizione appercettiva all’altro corpo una vita psichica simile alla mia. Tuttavia l’altro è sempre altro da me e, benché 16 ne faccia esperienza come un alter-ego, la sua coscienza non è accessibile in maniera diretta alla mia. Ebbene, questo accesso indiretto e mediato alla vita cosciente è chiamato da Husserl empatia: atto con cui l’io rappresenta l’alter-ego sulla base della propria contemporanea coscienza, atto con cui esperisce il mondo come viene esperito dall’altro, senza essere l’altro. In modo approssimativo e lineare possiamo fenomenologicamente rilevare che (Sini, 2012): - l’altro si dà a me cosa fisica (spaziale ed esterna); - l’altro subisce da me un insieme di affezioni (lo colpisco, lo urto, lo penetro, ecc.) così come io subisco da lui le stesse affezioni che posso in generale subire dagli oggetti fisici; - l’altro si dà a me come cosa animata (si muove, agisce con il suo corpo, si dirige verso, ecc.); - l’altro ha un corpo simile al mio (dotato di parti simili alle mie: gambe, braccia, ecc.) che muove in maniera analoga a come lo muovo io; - l’altro, attraverso le sue azioni e operazioni, entra in comunicazione con me, esperisce il mondo in modo simile a quello in cui lo esperisco io. È il nostro corpo proprio, il Leib, l’interfaccia che ci relaziona con le cose del mondo e soprattutto con l’altro, con altri corpi viventi, con altri Leib. “Ma, prima ancora di tutto ciò, la somiglianza animale e operativa dell’altro introduce l’istintivo accoppiamento sessuale, per cui non solo l’altro soddisfa, associandosi operativamente con me, i suoi bisogni, ma trova già in me - e io in lui l’appagamento dell’impulso sessuale mediante il quale si stabilisce una correlazione originaria, un nucleo associativo originario che pone i suoi membri l’uno in dipendenza dell’altro, o l’uno per l’altro” (Sini, 2012, pag. 96). La percezione dell’altro non avviene sul piano individuale ma sul piano preindividuale: ogni uomo può sentire l’altro e con questi empatizzare perché vive, come l’altro uomo, nello stesso mondo della vita, in un comune mondo e in un comune 17 nutrirsi del mondo. “Nel più profondo del Leib troviamo la vita percettiva e subpercettiva che congiunge il Leib al sentire preindividuale, al vivere fungente nascosto fisiologico e somatico. Ciò che unisce le monadi è alla base la loro vita fisiologica e somatica, la vita che affonda nella sessualità, nel nutrimento, nel sonno” (Paci, 1961, pag. 129). La sessualità diventa così espressione del rapporto con l’altro. L’istinto sessuale, la pulsione sessuale, non è per la fenomenologia una semplice emozione viscerale, ma rappresenta un modo dell’io di essere-nel-mondo: all’origine di ogni soggetto si trova già costitutivamente l’altro, in quanto nessun soggetto si costituisce come tale in solitudine, ma assume quelle tipicità che lo designano come soggetto mediante un’associazione originaria con l’alter-ego. L’accoppiamento sessuale non può allora essere visto come un mero accadimento naturale e l’istinto sessuale non è riducibile a una sola forza meccanica. Si tratta, invece, di qualcosa che inerisce alla sfera trascendentale e in quanto tale possiede sempre una specifica teleologia. La problematica dell’istinto sessuale e quella teleologica della verità, nella fenomenologia, si toccano, giacché la manifestazione pulsionale sessuale non è riducibile a sola casualità: l’intenzionalità dell’impulso sessuale verso altri ha un grado precedente rispetto alla costituzione, da parte dell’io, del mondo e della realtà intersoggettiva, nel senso che è in una direzione genetica che stanno i problemi del rapporto sessuale. In altre parole, la relazione di alterità originaria che consente il reciproco intrasentirsi delle persone, per cui l’altro può essere intrasentito dall’io (e viceversa), presuppone un livello in cui le persone siano implicate l’una nell’altra e in cui non si è ancora costituito il senso di io e di altro. È questo il sostrato primordiale da cui emerge poi ogni forma di intersoggettività. Quando s’incontrano le tipicità individuali (l’essere arrabbiato di Pietro, l’essere in colpa di Lucia, ecc.), entrano in gioco i modi individuali del vivere il corpo proprio, il Leib, quelli effettivamente esperiti e dai quali sempre si deve partire. Geneticamente analizzando, è il rapporto precategoriale e pre-riflessivo tra l’ego e l’alter-ego che 18 istituisce le prime generalità (innanzitutto quella del “noi due”): senza tipicità singolari non si ha né alcuna generalità né tanto meno alcun vincolo affettivo. L’altro mi è noto nel suo corpo, nei suoi movimenti cinestetici e nei suoi comportamenti, mi è cioè appresentato nel suo modo di essere soggetto: il vincolo affettivo che si costituisce è concreto e ha a che fare con unità psicofisiche concrete, sicché è nel primo accoppiamento dei due ego che il corpo esercita tutta la sua funzione mediativa. Il corpo non è semplicemente un oggetto (Körper) o un involucro che custodisce la psiche: il corpo proprio è parte essenziale della nostra esistenza e del nostro essere soggetti pensanti. Il corpo è anche corpo sessuato, ha una vita sessuale, la cui funzione non è riducibile a quella procreativa, rinviando invece alla vita relazionale. Compito della fenomenologia è ricercare le operazioni pre-categoriali concrete dalle quali sorge il senso delle costruzioni logico-teoretiche elaborate, delle tipicità generali che trovo già costituite. L’astratta tipicità dei “due sessi” è così ricostruibile dalle operazioni fondanti che istituiscono il più originario significato distintivo e accomunativo tra gli ego (Sini, 2012). I tipi comunicativi del rapporto sessuale diventano importanti giacché ciò che garantisce il legame affettivo tra le persone è il trasferirsi associativo e intenzionale del primo accoppiamento alle esperienze di comunicazione successive. È per questa ragione che Husserl parlava di “fame di sesso”, cercando di fondare l’esperienza dell’intersoggettività sul livello della vita embrionale e sul problema madre-figlio (e quindi su un livello sessuale): l’intersoggettività si costituisce per la prima volta nella storia dell’io nella relazione tra l’infante e il genitore e la nascita è il punto d’incontro tra la storia dell’io e quella degli altri e la storia culturale e biologica dell’umanità. Scrive Husserl: “L’interno della procreazione. L’impulso verso l’altro sesso. L’impulso di un individuo e il reciproco impulso nell’altro. L’impulso può trovarsi allo stadio di fame indeterminata che non porta ancora in sé il proprio oggetto come suo termine. La fame in senso abituale è più determinata quando il suo impulso è diretto in modo originario e determinato verso un alimento (e già prima che la fame 19 si sia saziata con un alimento simile, l’alimento ha il carattere riconoscibile e perfino tipico di <<alimento>> come oggetto consueto che soddisfa la fame). Nel caso della fame sessuale che si dirige in modo determinato verso la meta che l’affetta e l’attrae, la meta è l’altro. L’appetito sessuale così determinato trova la modalità del proprio compimento nella copulazione. Nell’impulso stesso è implicita la relazione all’altro come altro e al suo correlativo impulso. Sia l’uno che l’altro impulso possono presentarsi nella modalità - nella modalità modificata - dell’astensione, della ripugnanza. Nella sua modalità originaria l’impulso è un impulso <<non trattenuto>> e non modificato che si spinge già all’interno dell’altro e che ha costituito la propria intenzionalità attraverso quella correlativa dell’altro” (Husserl, “Teleologia universale”, pag.195,in “Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl”, Paci, 1961). Continua poco più avanti: “Ora il problema è se l’intenzionalità dell’impulso, anche quella diretta (sessualmente-socialmente) verso gli altri, non abbia necessariamente un grado precedente, che si pone prima del formarsi della costituzione del mondo, per quanto la costituzione del mondo possa anche non estendersi così ampiamente come per l’uomo come essere razionale. Penso qui ai problemi dei genitori e prima di tutto al problema della madre e del figlio, problemi che si presentano, del resto, anche in connessione alla problematica della copulazione” (ivi, pp. 195-197). Detto altrimenti, il sesso è fenomenologicamente importante perché concerne il problema del rapporto io-alteri, il problema dell’intersoggettività e la questione della verità/intenzionalità del vivere umano. La spinta erotica, la pulsione sessuale, non è considerata da Husserl e dalla fenomenologia un mero automatismo collegato alla funzione biologica del corpo, ma è soprattutto un’intenzionalità. In quanto intenzionalità, essa ha natura teleologica, cioè è tensione, volontà, telos per il nostro fare e per il nostro comportamento, non solo sessuale. La persona, con la sua unità psicofisica, e il legame tra le persone, che assume innanzitutto carattere sessuale, fondano la relazione oggettiva e poi i gruppi umani, nonché le varie strutture sociali. 20 Solo se intendiamo la vicenda sessuale come qualcosa che va oltre la funzione biologica e va oltre i meccanismi fisiologici del suo funzionamento, possiamo spiegare il nostro progetto esistenziale, le nostre relazioni con gli altri, i nostri atteggiamenti di conquista o di fuga, la nostra condotta e il giudizio che elaboriamo su di essa. La sessualità è perciò strettamente connessa alla vita totale dell’esistenza dell’uomo, tale per cui ridurla alla mera genitalità non consente di prendere consapevolezza di tutti gli altri sensi di cui si fa latrice. Se rimaniamo vincolati unicamente all’atteggiamento naturalistico, caratterizzato, come sappiamo, dal sussumere ogni esperienza sotto un’idea scientifica, non riusciamo a comprendere come la spinta erotica sia in grado di mettere l’uomo nella condizione di presentarsi un mondo sessuale, per cui amare, per esempio, una donna, assume il significato di “essere-oggetto-del-mio-amore” e io, se da lei sono amato, il significato di “meoggetto-per-lei” (io ho bisogno dell’altro per cogliere pienamente le strutture del mio essere, e viceversa); per cui accarezzarla non significa soltanto toccare o tastare; o, ancora, per cui guardarla non vuol dire solo vedere. Mentre la scienza naturale analizza, per esempio, la libido sessuale o le rappresentazioni psichiche della tipicità “donna desiderabile” in generale, la fenomenologia è sintetica, per cui amare quella donna (noesi) e quella donna amata (noema) sono inscindibili: l’oggetto intenzionato dall’intenzionalità “amare”, il senso oggettuale, ossia la donna amata, e la noesi stessa dell’amare, sono indissociabili. La pulsione sessuale è secondo Husserl una “fame” diretta verso una meta, una forza desiderante che collega un Leib a un altro Leib, per cui la sessualità non è, di fondo, avulsa dalla relazione con gli altri e con il mondo. I modi sessuali sono relazionati ai vari significati che nascono dal desiderio sessuale, sicché, se è vero che il reticolo di significati che caratterizzano l’esistenza di una persona nel mondo altro non è che la sua visione del mondo, allora la sessualità, in tal senso, è una visione del mondo (Galimberti, 2008). 21 2.2 Sul concetto di sessualità. Sua polisemia Che il termine “sessualità” sia polisemico è oggi riconosciuto dagli stessi scienziati del sesso: “La sessualità non è un settore staccato della persona ma parte integrante di tutto l’essere; è dunque inevitabile che, affrontando le tematiche sessuali, emergano problemi anche di altro genere.” (Fenelli e Lorenzini, pag. 78, 2011). Una dichiarazione, questa, in netta armonia con gli insegnamenti fenomenologici, sennonché affermare, poco dopo, che “si tratta di decidere di quali occuparci e quali invece trascurare. Il criterio generale è quello di affrontare solo quelle difficoltà che ostacolano il procedere della terapia sessuale” (ivi, pag. 78, 2011), non fa pienamente tesoro dello stesso insegnamento fenomenologico, se è vero che, come ha voluto Jaspers, i disturbi psichici non sono soltanto delle mere entità astratta, delle unità morbose, ma in primo luogo modi d’essere di persone in carne e ossa, di individualità, di soggetti di esperienza vissuta. Ecco perché egli contrapponeva la via del comprendere a quella dello spiegare: si comprende quando ci si traspone interiormente negli altri, ci si immedesima con essi; si spiega quando consideriamo singoli elementi del fenomeno, per esempio il disturbo sessuale, nella loro connessione e in quanto dati da trattare scientificamente (Berra, appunti anno 2013). Sempre più la sessuologia d’impronta medica si occupa del corpo inteso come Körper, al posto del corpo vivente, privandosi in questo modo e inevitabilmente della dimensione più globale dell’esistenza. Si badi bene, qui non si sta misconoscendo il contributo dei modelli scientifici per il trattamento dei disturbi sessuali, bensì si sta sottolineando che quando questi vengono assunti come verità definitive, in sé chiusi e quindi ritenuti assolutamente certi, allora l’esperienza vissuta dal paziente viene messa da parte e, con ciò, anche il paziente stesso, con la conseguenza, da parte del terapeuta, di sottovalutare tutti gli altri aspetti connessi al problema sessuale riportato e quindi di non comprendere il problema medesimo nella sua complessità. Oggi gli stessi studiosi del sesso, i cosiddetti “sessuo-logi”, riconoscono nella sessuologia clinica non una scienza autonoma, bensì un’area interdisciplinare che si 22 definisce in funzione di un oggetto, la sessualità, e non di un metodo univoco (Cociglio, 2002). E la sessualità, intesa come oggetto di questa disciplina, non viene ridotta alla funzione riproduttiva; anzi, la sua estensione semantica è identificabile con quella di funzione erotica, che comprende, tra le altre cose, il desiderio, l’eccitazione, l’orgasmo, il piacere, gli affetti, l’identità di genere, l’amore, i valori. La sessualità rinvia pertanto a un insieme di caratteri e di fenomeni che sì concernono il sesso, ma che soprattutto permeano tutta quanta l’esistenza. Proprio in virtù della sua polisemia, la sessualità richiede un’integrazione pluridimensionale, che va dalla biologia alla religione, dalla medicina alla filosofia, dalla psicologia e dalla psicoanalisi all’etologia, dalla bioenergetica alla sociologia e all’antropologia. La sessualità si confonde con la vita stessa e, in quanto tale, non può essere ridotta alla mera funzione biologica. Ne segue che il problema sessuologico è primariamente un problema umano, dell’uomo inteso nella sua totalità e unità psicofisica e noetica, sicché esso manifesta molte implicazioni (mediche, religiose, psicologiche, sociali, filosofiche, ecc.), che di fatto possono disorientare la persona che si fa portatrice del disagio sessuale. Di qui la necessità di un approccio integrato, perché la sessuologia non è una tecnica, ma un ordine di problemi posti dall’utenza (Cociglio, 2002). Non solo il concetto di sessualità è multidimensionale, anche lo stesso concetto di sesso non può essere ridotto a un unico e puro significato biologico. In primo luogo perché la stessa biologia riconosce una varietà di sessi (cromosomico, gametico, genetico, ormonale ed anatomico) e tutti questi sessi non sono suddivisioni di un’unica entità, bensì fenomeni diversi al punto tale che un individuo può essere maschile per un sesso e femminile per un altro (si pensi per esempio alla sindrome di Morris o ai transessuali). In secondo luogo perché non si parla solo di sesso biologico, ma anche per esempio di sesso psicologico (legato al vissuto dell’identità dell’individuo, per esempio il suo sentirsi uomo piuttosto che donna), di sesso sociale (legato al sesso che il tessuto sociale di appartenenza attribuisce all’individuo) o di sesso desiderato (legato alle fantasie consce e al mondo dei valori, per cui l’individuo vorrebbe essere un maschio o vorrebbe essere una femmina). Tutto ciò ci dice che 23 non esistono l’individuo maschile e quello femminile come “entità pure”, in sé e per sé perfettamente vere (quanto la fenomenologia avrebbe da dire su queste costruzioni astratte e sulle operazioni che ne hanno determinato la genesi), ma la femminilità e la mascolinità come categorie concettuali - idee limite, telos - verso le quali far tendere diverse esperienze legate alla sessualità. Definire cosa è maschile e cosa invece è femminile non è infatti per nulla semplice, perché affermare riduttivamente che il massimo comun denominatore del sesso sarebbe una differenza genica e l’attività sessuale uno scambio di geni fra due genomi diversi, non tiene conto delle seguenti obiezioni: qual è il comportamento autentico maschile o femminile? In base a cosa si può definire questa autenticità? Anche supposto esistano dei criteri per definirla, essi sono a loro volta autentici? Il cromosoma XO di che genere è ? (Cociglio, 2002). Il sesso ha indubbiamente (ivi, 2002): - un significato biologico, in quanto esiste per creare individui diversi e nuovi, oltre che per promuovere i processi evolutivi della vita in controtendenza rispetto all’entropia; - un significato bioenergetico, se lo si vuole riconoscere come energia buona e creazione, espansione e armonia; - un significato psicoanalitico, se il sesso viene visto come pulsione di vita e spinta verso l’altro o come relazione, emozione-segnale di avvenuta relazione oggettuale creativa e riparativa, ma anche distruttiva, in virtù del suo legame con l’aggressività e il conflitto; - un significato religioso, se si vuole fare del sesso non solo uno strumento per entrare in contatto con l’Essere Supremo (si pensi ad alcune religioni orientali, come l’induismo), ma anche per allontanarsene (sesso come dono e punizione divina, come preghiera o peccato); - un significato etologico, in quanto l’energia che sottende alla formazione dell’imprinting è energia sessuale e un animale “imprinted” alla nascita da un determinato oggetto normalmente reagirà verso di esso, una volta raggiunta la maturità sessuale, se non intervengono altri intensi condizionamenti; 24 - un significato antropologico, se del sesso si considera la sua forza creativa e distruttiva di strutture culturali; - e un significato sociologico, se è vero che a seconda della società considerata, i rapporti sessuali assumono diversi significati. Il sesso ha pure un significato filosofico, “anche se la filosofia contemporanea mantiene la tendenza ad evitare tale argomento o lasciarlo relegato ai margini della ricerca filosofica” (Berra, “La Filosofia”, pag. 375, in “Il manuale del consulente sessuale. Volume I”, Franco Angeli, 2002, a cura di Cociglio). Significato che potremmo generalizzare dicendo che il sesso assume, sotto questo punto di vista, la forma di una forza creativa e di essenza della vita e dell’universo. Secondo la filosofia fenomenologico-esistenziale, come abbiamo visto poco più sopra, il sesso rimanda al soggetto e al suo “essere-per-altri”: necessità di trascendenza, dunque; desiderio di un oggetto trascendente che è anche fondamentalmente compreso come soggetto, e che tuttavia può assumere la veste di repulsione, conflitto o frustrazione. Ma non è sempre stato concepito così: nell’antica Grecia, Platone aveva esplicitamente contrapposto l’amore celeste all’amore terrestre, facendo di quest’ultimo un qualcosa destinato a convivere, nei secoli posteriori, con la colpa, la non purezza, il peccato, la volgarità, ecc. Aristotele concepiva la donna come una mostruosità naturale resa inevitabile dalla conservazione della specie. Nel medioevo, Tommaso D’Aquino sosteneva che l’atto sessuale è immorale o quando non ha come fine la procreazione o quando è in conflitto con la ragione, come nei casi di adulterio o di incesto. Anche Kant vedeva il sesso come principio di degradazione della natura umana e come mero strumento utile a soddisfare il proprio piacere, le proprie inclinazioni e i propri desideri, attraverso l’altro. Egli riteneva che l’uomo moralmente ispirato debba svincolarsi dalle inclinazioni istintuali. Si potrebbe dire che con Schopenhauer muta il modo di vedere la sessualità: egli infatti sosteneva che l’attrazione sessuale risponde alla Volontà di vita, al “genio della specie”, che favorisce la propagazione della specie consentendo all’uomo di tendere all’immortalità. Per lui l’uomo è in essenza istinto sessuale fatto corpo e l’atto sessuale è la più forte affermazione della vita che l’essere 25 umano può esprimere. Senonché la sua filosofia, che mira a un ideale di saggezza e di santità imperturbabili e raggiungibili mediante l’abolizione di ogni volontà di vita, lo conduce a vedere nella sessualità una vergogna universale. Lo stesso Kierkegaard ha eletto uno stile di vita etico contro quello estetico incarnato dal Don Giovanni di Mozart. Non si direbbe neppure il falso se si affermasse che il sesso è complessità: ha significato relazionale e di spinta trascendentale, di unione e fusione, ma anche di separatezza, solitudine, incompletezza e limitatezza. Una derivazione etimologica di sesso, guarda a caso, afferisce al verbo “secare”, che vuol dire tagliare, separare (il maschio dalla femmina). Il sesso è anche conflittualità, perché i due amanti non possono essere sempre in armonia su tutto. Il sesso è pure creatività e desiderio: una seconda derivazione etimologica della parola sesso afferisce a feto, la cui radice “fytos” vuol dire fabbricare e creare. Il sesso rinvia, di nuovo, all’identità di genere: un terzo significato etimologico di sesso è proprio quello di identità (εξις). Il sesso è pure motore verso la conoscenza, è evoluzione della mente e della vita. Armonia vs conflitto; fusione vs separatezza; desiderio vs repulsione; conoscenza vs chiusura; amore vs odio; creatività vs distruttività; evoluzione vs entropia; creazione vs distruzione; relazione vs solitudine. Ecco cos’è il sesso: una ridda di opposti e di elementi complementari. Già solo da questa semplice rassegna emerge come il concetto di sesso contenga diversi elementi che possono entrare in contrasto tra loro o essere tra loro complementari. Ecco perché il sesso è complessità: non è semplice somma delle parti, ma qualcosa che va altre tale sommatoria. Un qualcosa che non si può definire univocamente. L’attività sessuale umana non solo è altamente difficile da definire, ma rivela al contempo un senso pratico che è bene evidenziare nella sua complessità. L’atto sessuale ha in primo luogo una funzione pratica evidente che, oltre a essere fonte di gioia, consente la conservazione della specie: la procreazione. È vero che le tecniche di fecondazione artificiale stanno lentamente e inesorabilmente soppiantando il coito 26 come principale strumento riproduttivo, tuttavia esso rimane, allo stato attuale, l’atto sessuale principale con cui l’essere umano vive stati emotivi che rimandano allo scorrere della vita, alla possibilità di generare la vita, nonché al rivivere l’evento che ha dato origine alla propria vita. Per converso, l’atto sessuale può anche generare dolore e portare alla distruzione della vita: basti pensare alle perversioni e ai disturbi parafilici, agli abusi e alle violenze, ai plagi e alle manipolazioni. Secondo il punto di vista psicoanalitico, in questi casi la pulsione di vita si asservisce a quella di morte, per cui l’attrazione e il piacere sessuale in realtà nascondono odio, angoscia e dolore. In secondo luogo il rapporto sessuale favorisce la crescita psicoaffettiva, diventando strumento di dialogo in cui dare e ricevere sentimenti, affetti, emozioni e pensieri. Aiuta altresì le persone a percepire meglio e diversamente il proprio corpo, grazie alle cinestesi legate al rapporto sessuale stesso; tuttavia l’attività sessuale può generare sensi di colpa, può portare a distruggere le cose buone costruite nella vita, può indurre timore e dolore, può ferire il corpo. In terzo luogo, molti sono stati gli artisti, i religiosi e gli scienziati che hanno visto nella sessualità e una fonte d’ispirazione e un impulso alla creatività. L’atto sessuale manifesta pertanto quest’altra funzione pratica: fornire l’energia e il coraggio per creare cose nuove, per superare le barriere che impediscono la genialità e l’estro. Così come non va sottovalutato che l’attività sessuale rinforza i legami ed è artefice di amore, soddisfa i bisogni di protezione e di appartenenza e possiede funzione aggregante donando piacere intenso. Ciononostante l’atto sessuale è connesso alla mercificazione degradante, per cui le persone (soprattutto donne e bambini) perdono dignità e diventano meri oggetti di violenza, umiliazione e soprusi. Infine, si può notare come l’atto sessuale sia anche modalità di gioco e divertimento, anche se nella nostra società e nella nostra cultura occidentale la funzione erotica viene vista o come una realtà molto seria o come un qualcosa di svilito che degenera nella pornografia, come se l’uomo potesse rinunciare alla voglia di giocare, divertirsi e cercare piacere. Inoltre, il gioco sessuale e l’aspetto ludico della sessualità spesso si trasformano in giochi di morte, di dolore e di sofferenza immane. 27 In definitiva, definire la sessualità, rispondere alla domanda socratica di cosa essa sia, coglierne la sua essenza, si presenta come un lavoro arduo, forse mai definitivamente compiuto e, se si vuole stare in sintonia con l’insegnamento fenomenologico, si presenta come un esercizio che dobbiamo sempre ricominciare, perché la lotta della ragione contro la stanchezza deve essere sempre rinnovata: movimento perenne e tensione infinita verso il telos, verso l’idea limite. 2.3 Dalla concretezza dei dati … “La filosofia contemporanea mantiene la tendenza ad evitare tale argomento o a lasciarlo relegato ai margini della ricerca filosofica. Abbiamo da augurarci che in futuro i filosofi dedichino maggiore spazio alla sessualità quale innegabile ed indiscutibile aspetto essenziale della vita umana” (Berra, “La Filosofia”, pag. 375, in “Il manuale del consulente sessuale. Volume I”, Franco Angeli, 2002, a cura di Cociglio). Facendo mio questo auspicio, desidero qui entrare più nel vivo nel mio progetto sperimentale, per poi ritornare, a fine di questo capitolo, a trattare questioni più teoriche e inerenti anche il rapporto tra il counseling filosofico e altre forme di relazione di aiuto. L’idea di approfondire il percorso tematico “Erosofia: counseling filosofico e sessualità” è nata dalla possibilità, collaborando con una psicosessuologa, di avere a disposizione una concretezza di dati su cui iniziare un lavoro più prettamente filosofico. Per un counselor filosofico in formazione permanente, quale sono io, penso sia stato e sia tutt’ora molto interessante collaborare professionalmente con un esperto di problematiche sessuali, se non altro per il fatto che capita sovente che i pazienti di una sessuologa, nel riportare le loro specifiche questioni (eiaculazione precoce, vaginismo, calo del desiderio, ecc.), manifestino anche tematiche di natura più propriamente filosofica, che spaziano da questioni di natura etica e morale, ad argomenti relativi il senso dell’amore, del vivere in coppia, dell’omofobia e dell’identità di genere, giusto per citarne alcuni. 28 Da un punto di vista fenomenologico (“ritornare alle cose concrete”), ritengo sia essenziale prestare una genuina attenzione alla concretezza dei dati che il cliente porta durante un percorso di counseling filosofico. La prima cosa da mettere in atto è dunque un ascolto attivo che tenda, sebbene non possa mai giungere a una netta identificazione con gli stati emotivi e mentali del cliente, a cogliere quanto egli riporta di se stesso, della sua vita, dei suoi vissuti, dei suoi scopi, dei significati della propria esistenza, e via così; e tutto ciò in un modo che sia il più possibile scevro da pregiudizi e/o precomprensioni che possano distorcere la relazione di aiuto. Si tratta, in sostanza, di attuare quell’epoché di husserliana memoria (sospensione del giudizio: non giudicare, considerare con occhio avalutativo la narrazione riportata), al fine di instaurare un rapporto empatico con il consultante. Armato di questo strumento, ho cominciato il mio progetto di lavoro ascoltando quanto la professionista sessuologa mi riportava in merito ai suoi pazienti e le narrazioni che costoro le rivolgevano. In questa situazione ho tentato di empatizzare direttamente con la professionista, sebbene l’immaginazione mi portasse immediatamente in uno scenario in cui io ero il counselor e la sessuologa uno dei pazienti che interpretava. Di seguito la sintesi di alcune narrazioni. Davide, per esempio, raccontò di una esperienza accaduta nella sua famiglia: suo fratello, dopo avere ricevuto, in uno scambio erotico di messaggi telefonici con una persona anonima, una foto di un pene, si masturbò e da lì l’avvio di un problematico cammino che lo portò inizialmente a riconoscersi come omosessuale e poi a effettuare la conseguente scelta di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale (coming out). Davide raccontò quei momenti difficili, vissuti da lui e a da tutti i suoi familiari in maniera molto tragica e conflittuale. Espresse la sua paura di essere egli stesso omosessuale, come il fratello e l’obbligo, da parte dei genitori, di farsì che anch’egli si rivolgesse a un professionista per accertare o smentire questa sua ipotetica condizione. Poi, una volta convintosi di non esserlo, l’affiorare di un sentimento di profondo odio e avversione verso gli omosessuali in generale, perché a 29 suo dire persone che praticano il sesso contro natura e che distruggono le famiglie. A causa di ciò, Davide si rivolse alla sessuologa professionista per farsi aiutare a non vivere, con tali sentimenti di disprezzo, eventuali rapporti sociali con persone omosessuali (fratello, colleghi di lavoro, amici di amici, semplici conoscenti, ecc.) Elisa, invece, raccontò della sua difficoltà a sperimentarsi nel sesso orale, pratica per lei fonte di disagio e di problemi relazionali con il partner. Ella decise pertanto di rivolgersi alla professionista psicosessuologa per ricevere un aiuto a capire questo suo disagio e i motivi della sua resistenza. Marco riportò all’esperta la sua crisi esistenziale: da una parte sentiva di volere ancora molto bene a sua moglie e di amare la sua famiglia, ma dall’altra avvertiva una forte attrazione e si sentiva innamorato di un'altra donna. Come conciliare queste due tendenze contraddittorie? Ercole si presentò nello studio di sessuologia perché diceva di soffrire di disturbi legati alla sfera del desiderio: per quanto fosse stato felice della sua vita matrimoniale, non riusciva più a desiderare sessualmente sua moglie. Ciò lo mise di fronte a domande che concernevano il senso della sua vita coniugale, il valore della famiglia e della fedeltà alla persona con cui si è sposato. Questi pochi esempi hanno un denominatore comune: chi si rivolge, in questo caso, a una sessuologa, lo fa per riportare non solo una problematica sessuale, ma anche, e strettamente connesso a questa, un malessere esistenziale. Non si sta qui affermando che tutte le questioni sessuali necessariamente abbiano uno sviluppo filosofico, ma che questo può esserci. Una cosa è l’intervento clinico di un esperto di sessuologia in merito a patologie gravi e compromettenti (o in merito a situazioni che richiedono un’analisi della struttura di personalità della persona), altra è l’aiuto che un counselor filosofico può donare al consultante rendendolo, così, un soggetto capace di autocostituirsi attraverso un complesso lavoro su se stessi, un esercizio filosofico che potremmo chiamare “cura di sé”. 30 Ma cosa c’è o si può trovare di filosofico nell’ascolto di un racconto e di un problema sessuale? O meglio, ancor più fondamentale, cosa di filosofico inerisce all’ascoltare? Quando si ascolta il discorso reso dalla persona richiedente aiuto, accade una sorta di processo linguistico ruotante, in ultima analisi, intorno a due (tre) poli: da una parte la parola (dell’interlocutore), la materialità grezza dei vocaboli che usa, delle sue espressioni originarie; dall’altra il counselor che, primariamente e asintoticamente alla neutralità, riceve il detto dell’interlocutore, e poi cerca di meditare l’intreccio delle sue parole non già per operare una vera e propria riformulazione (che succede solo in un secondo momento), bensì per ascoltare di quali messaggi e annunci tale discorso si fa latore (datità del problema). Da una parte il cliente il cui detto riguarda un annuncio da dare, un messaggio da riferire; dall’altra il counselor che, ancor prima di riformulare, ode, presta attenzione, rivolge lo sguardo e tutto il suo corpo, al messaggio che inevitabilmente precede la sua parola e il suo domandare. Dire e udire, parlare e ascoltare, dare e ricevere: è questa la dialettica filosofica che a mio avviso sostanzia l’atto dell’ascoltare e che precede ogni attività di aiuto. L’ascolto presuppone un dire, e si dice qualcosa se c’è qualcosa da dire e qualcuno che ascolta quanto si dice. L’ascolto si apre allora al messaggio che precede la parola del counselor: senza un messaggio contenuto nel detto (e nel non detto) del cliente, non si ha nemmeno la possibilità di analizzare, ossia di comprendere e chiarificare, il senso e il voler dire dell’annuncio che il cliente vuole manifestare. In una frase: un dire concernente un annuncio da dare e un udire il messaggio che precede la propria parola (D’Alessandro, 1991). Quando si ascolta la problematica riportata dal consultante, appare quindi già in opera la funzione della filosofia: l’ascolto pone il counselor nella condizione di ricevere un messaggio e una domanda che deve essere poi analizzata, compresa e riformulata all’interno della visione del mondo e del progetto esistenziale dell’interlocutore. Che il problema sia il vaginismo o il calo del desiderio o l’eiaculazione precoce, l’intervento filosofico ha comunque il compito precipuo di evidenziare e svelare i valori e i significati che caratterizzano e dirigono l’esistenza del 31 singolo cliente. La funzione filosofica è quella di supportare il consultante nel recuperare il senso profondo della sua sessualità, che per forza di cose influenza anche il suo comportamento sessuale, i suoi rapporti interpersonali, il rapporto che egli ha col suo corpo e con se stesso. Riscoprire nuovi significati della sessualità può essere d’ausilio per affrontare i problemi sessuali e sentimentali. 2.4. . . All’universalità filosofica dei messaggi Le parole di Davide, quelle di Elisa e di Marco, ma anche quelle di Ercole e di molte altre persone, nella loro materialità significante, si fanno portatrici di un messaggio da comprendere e capire nel suo senso e nei suoi significati. Solo da questo punto di partenza il counselor filosofico può intendere il senso delle problematiche raccontate nelle dinamiche esistenziali della passione, del desiderio e della relazione con gli altri. Non si tratta di spiegare la causa del problema sessuale (compito che spetta ad altri professionisti), facendo del sesso un oggetto di sapere, bensì di rivolgersi al soggetto che vive il sesso, indagando i suoi pensieri, la sua vita, le sue emozioni, desideri, valori e credenze, per contestualizzare la sua visione del mondo. Ebbene, di quali annunci quelle parole e altre ancora di tanti altri clienti si fanno messaggere? A quali significati rinviano? Quali domande (filosofiche) presuppongono? I casi, di cui ho potuto ascoltare gli interventi da parte della sessuologa professionista, nascondono questioni di uno spessore filosofico non indifferente: Cosa è normale? La questione sulla normalità È normale cambiare tanti partner? È non normale che io non voglia sperimentarmi nel sesso orale? È normale che la passione svanisca dopo pochi mesi? Sono malato se per eccitarmi devo essere calpestato? È normale che mia moglie non si masturbi e non voglia farlo? È normale non provare alcun piacere durante i rapporti sessuali col 32 mio partner? È normale trovare attraente un uomo, anche se non sono omosessuale? È normale che mi ecciti a vedere mio marito in atti sessuali con altre donne? Ecco una ridda di domande che presuppongono tutte la questione filosofica fondamentale su cosa sia la normalità. La riflessione filosofica sulla normalità (su ciò che è normale fare e su ciò che non lo è), implica profonde questioni morali che possono, in caso di contrasti di valori, generare malessere esistenziale (si pensi, per esempio, agli atti masturbatori vissuti con sensi di colpa perché non indirizzati alla procreazione.) Il disagio esistenziale può dunque nascere da convinzioni incoerenti che debbono essere messe in discussione. Cosa è giusto fare? Come comportarsi? La questione morale È giusto tradire mia moglie? Se tradisco ho un senso di colpa, ma se non lo faccio non mi sento bene: come decidere e in base a cosa? Non riesco più condividere e restare fedele ai miei valori in ambito relazionale e sentimentale: come posso essere aiutato? Perché io e mio marito non ci capiamo più? Sono cambiati i nostri valori? Perché dovrei rispettare certe regole e certi codici a scapito del piacere fisico e carnale che potrei provare? Si può essere contemporaneamente innamorati di più persone? Anche la questione morale - cosa è giusto fare e perché - fa da ombrello a un insieme di domande specifiche che una sessuologa si sente spesso rivolgere dai suoi pazienti. Si possono, in effetti, osservare i disturbi sessuali come conseguenze di problemi all’interno della coppia: un tradimento può essere correlato a sintomi d’impotenza o di anorgasmia; la decisione di sposarsi può essere connessa a un vissuto di limitazione della propria libertà; una separazione brusca e vissuta in malo modo può compromettere la vita sessuale della persona. Che cosa c’entra la filosofia con tutto ciò? Non è da escludere che un chiarimento concettuale e valoriale di certe condizioni possa produrre una risoluzione di alcune difficoltà legate alla vita sessuale. 33 Qual è il senso di ciò che accade? La questione esistenziale Perché proprio a me doveva capitare il vaginismo? Che cosa significa amare? Esiste l’amore senza sesso o viceversa? Esiste l’amore? Si può sopportare tutta la vita il proprio partner? Che senso ha essere fedeli? Perché non dovrei tradire mio marito? Da quando ho questo problema di eiaculazione precoce, non riesco più a trovare tranquillità nei rapporti con le donne e non riesco più ad avere una relazione degna di questo nome: mi sento umiliato, incapace e non ce la faccio più. Posso guarire? Non riusciamo ad avere dei figli a causa della sua infertilità: che senso ha stare ancora insieme? Abbiamo due stupendi bambini ma non ci amiamo più: perché non dovremmo separarci? Di nuovo: molteplici sono le domande di senso che i pazienti sollevano quando si rivolgono a una sessuologa. Questa lineare rassegna di domande, che concretamente i pazienti rivolgono alla sessuologa professionista, mostra come loro stesse rinviino a questioni di valore universale e generale. Se si pensa a come la filosofia, fin dalla sua nascita con i presocratici, abbia cercato di cogliere l’unità nella molteplicità, le essenze delle apparenze fenomeniche, il generale al di là del particolare, allora è possibile pensare a un legame tra filosofia e sessualità. 2.5 Filosofia vs Sessualità? “Il sesso, quello vivo, carnale, sensuale, si lascia pensare? […] Può essere oggetto di sapere? […] Cosa c’è da riflettere filosoficamente sulla sessualità? […] La filosofia, in quanto amore del sapere, può occuparsi di qualcosa che sapere non è? […] Quale sophia potrebbe eventualmente accompagnare a riflettere il sesso in sé e per sé che non si pensa ma si fa, cercando di evitare che esso possa risultare alcunché di astratto 34 o reificato a semplice oggetto e quindi strumentalizzato nella sua intima essenza? […] In quale maniera possiamo applicare la sophia al sesso in modo che il sapere stesso non risulti astratto e lontano dalla realtà di cui intende parlare?” (Nave, pag. 37-39, in “Platone e il Viagra”, a cura di Berra L. e Nave L., 2009). Nel rispondere a queste domande, L. Nave ammonisce il lettore a non cadere nell’errore, nel tentativo di applicare il pensiero filosofico alla sessualità, di fare della filosofia un solo pensiero lontano dalla realtà del sesso e, simmetricamente, di fare del sesso una realtà lontana dal pensiero. Nel momento in cui si medita, spiega, confessa e categorizza il sesso, esso diviene sì oggetto di sapere, ma perde il suo statuto di puro evento che avviene: diviene oggetto reificato da studiare e conoscere. Il sesso, in sé e per sé, è un mero fatto che accade nell’incontro intimo tra due o più persone. Eletto a oggetto di studio, diviene altro da se stesso, si trasforma in qualcosa di pubblico che può essere studiato, spiegato, confessato e classificato. Ma in questo modo può essere sentito e compreso nella sua totalità? Prima di analizzare come L. Nave abbia affrontato le suddette questioni, e quindi mostrato l’esistenza di una filosofia pratica in questo campo, è forse utile vedere sinteticamente come, nella sua storia di pensiero occidentale, la filosofia si sia spesso domandata in merito al rapporto tra le singole cose che ci sono e che accadono e il pensiero generale che su di esse si può elaborare. In particolare, vale la pena, a mio avviso, soffermarsi sulla nascita e sulla trattazione del problema universali/particolari, da parte dei filosofi antichi (Bonino G., 2008). Il punto di partenza, da cui presentare questa breve storia è senza dubbio la seguente domanda socratica: Che cos’ è (Eros)? 35 È noto come Socrate abbia dato un’importanza fondamentale alla domanda “che cos’è’?”, poiché inaugura una riflessione che mira a cogliere l’essenza delle cose, la loro definizione, in contrapposizione agli esempi particolari, che si limitano a esporre casi singoli. A dire di Platone, Socrate non si accontentava di spiegare un certo concetto ricorrendo a uno o più esempi, voleva invece trovare una definizione che definisse la natura comune ai vari casi riportati. Si tratta di una definizione linguistica, per lo più rivolta a virtù morali (che cos’è il coraggio? E la santità? ecc.) Platone compie uno spostamento dal piano linguistico a quello ontologico: egli ricerca la natura comune a più cose particolari non più sul piano linguistico, bensì su quello reale. La natura generale, che viene colta nella definizione, indica, per il filosofo greco, un’entità distinta e separata dalle cose singole, che chiama idea. Da una parte i singoli oggetti e i singoli individui che appartengono al mondo sensibile, che mutano continuamente e che possono anche contraddirsi; dall’altra l’iperuranio, inteso come realtà meta-fisica sede delle essenze generali. Il rapporto tra le idee e le cose sensibili, che ne costituiscono un’esemplificazione, è quello di partecipazione e d’imitazione: le cose particolari partecipano delle idee e le imitano in quanto loro modello perfetto. Le idee, secondo Platone, possiedono una realtà oggettiva, indipendente dalla mente umana e dalle cose sensibili e particolari del mondo fenomenico. Mentre le cose singole del mondo sensibile sono materiali, le idee universali del mondo intelligibile sono incorporee. Le idee sono per lui gli oggetti immutabili, perfetti e coerenti, propri della conoscenza scientifica, che per sua natura è infallibile. Gli oggetti sensibili sono invece di dominio dell’opinione. Gli oggetti sensibili sono colti dai sensi, le idee universali dall’intelletto attraverso un meccanismo di reminiscenza. Oggi si chiamano platonistiche quelle concezioni realiste secondo cui le idee universali esistono anche in mancanza di particolari che le esemplificano: gli universali sono concepiti come dei “super particolari”, con cui le cose singole sarebbero in relazione. Insomma, la “cosa in sé” sarebbe una X tra le altre, 36 caratterizzata da una perfezione e un’immutabilità di cui sono prive le cose particolari. Se per Platone le idee trascendono il mondo sensibile, secondo Aristotele, invece, gli universali (universale è ciò che per sua natura si può predicare di più cose particolari) sono immanenti nelle cose sensibili. Tuttavia, per l’allievo di Platone, gli universali non sono solo proprietà che si possono predicare di cose particolari, ma anche categorie - generi sommi - realmente esistenti cui le espressioni linguistiche predicative si riferiscono. Ciò che primariamente esiste, secondo Aristotele, sono le sostanze individuali (questo così-e-così); tutte le altre categorie (qualità, quantità, relazione, ecc.) esistono solo perché subordinate all’esistenza delle sostanze prime a cui ineriscono. Per lui non si può parlare d’idee che sussistono indipendentemente e separatamente dalle sostanze stesse (“l’essere si dice in molti modi”, ma primariamente per le sostanze individuali). Mentre Platone partiva dalle cose singole per giungere alle idee, le idee platoniche sono invece considerate, da Aristotele, esistenti, ma solo perché vengono esemplificate da una sostanza individuale (un “questo così-e-così”). Platone privilegia, da un punto di vista ontologico, le entità universali; Aristotele quelle particolari. Oggi vengono indicate come aristoteliche quelle concezioni realiste che ammettono l’esistenza degli universali, ma solo se esemplificati da particolari. Secondo Epicuro, i costituenti ultimi di ciò che esiste sono i corpi (costituiti da atomi che si muovono nel vuoto) e lo spazio. Per il filosofo del Giardino gli universali derivano dall’esperienza: sono il prodotto dell’abitudine, uno strumento che ci consente di organizzare le nostre conoscenze senza dover ogni volta reperire le stesse esperienze percettive. Non esistono per sé, come sostanze autonome, ma come proprietà individuali che non sono per nulla immateriali, bensì costituenti dei corpi. Anche lo stoicismo ha nutrito ostilità nei confronti delle idee platoniche. Questa filosofia ha una concezione schiettamente materialista, per cui esiste solo ciò che è 37 materiale e corporeo: ogni singola cosa risulta costituita da una sostanza indifferenziata e da una qualità che è essa stessa individuale e corporea (per esempio, la giustizia non è un’idea immutabile, separata ed eterna, ma l’insieme delle qualità che la materia assume nelle persone, nei fatti e nelle cose giuste). D’altra parte gli stoici ammettono anche l’esistenza degli incorporei (spazio, tempo, vuoto e lekton, che vuol dire significato): questi non hanno un essere, non esistono, non sono reali, e tuttavia, a loro dire, sono qualcosa. Per gli stoici, le idee platoniche o gli universali aristotelici (l’aspetto formale della realtà), non possono essere corpi. Esiste per loro un’unica e indifferenziata materia che può avere modi diversi d’essere. E tale materia assume varie qualità per l’azione di un logos divino immanente nel mondo che contiene in sé le ragioni seminali delle singole cose. Al più, gli universali, possono essere pensati come concetti mentali. A dire di Filone di Alessandria, il logos, inteso come attività e potenza di Dio, produce le idee (realtà intelligibili), che costituiscono il mondo intelligibile in quanto modello di quello sensibile. Egli non fa altro che trasformare le idee platoniche in pensieri di Dio (idea che verrà poi ripresa dal cristianesimo, con S. Agostino). Plotino ritiene che le categorie aristoteliche non siano di alcuna utilità né per spiegare il mondo intelligibile né per quello sensibile. Egli distingue tre ipostasi: Uno, Intelletto e Anima; e distingue anche le idee che si trovano nell’Intelletto dalle forme che si trovano nell’Anima. Quest’ultima introduce poi il passaggio al mondo sensibile. Porfirio, allievo di Plotino, si pone tre domande rispetto ai predicabili (definizione, proprio, accidente e genere) di Aristotele: 1) sussistono di per sé o sono concetti mentali? 2) Sono corporei o incorporei? 3) Sono separati o si trovano nelle cose sensibili? Secondo Porfirio un predicato è un’espressione che significa un oggetto per mezzo di un concetto. Alessandro di Afrodisia, infine, afferma che gli universali sono per natura posteriori alle cose particolari; inoltre esistono solo in quanto sono pensati. 38 Questa breve storia del rapporto universali/particolari, così come è stato concepito dai filosofi dell’antichità, mostra che la questione essenziale riguarda lo statuto ontologico degli universali: sono cose (realismo)? O sono solo parole (nominalismo)? O ancora sono concetti (concettualismo)? Inoltre: esistono anteriormente ai molti o nei molti o posteriormente ai molti? Ebbene, l’alternativa tra le varie interpretazioni (realismo platonico e aristotelico, nominalismo e concettualismo), presente già nell’antichità, perdura fino ai giorni nostri. Anche Eros, in funzione del filosofo cui si fa riferimento, è stato concepito in modi diversi ma comunque attinenti alle diverse interpretazioni che nell’antichità sono state elaborate in merito al problema degli universali. Alcuni filosofi presocratici, come per esempio Esiodo e Parmenide, concepirono Eros come la forza che muove le cose e le tiene unite insieme. Empedocle, in particolare, vedeva nell’Amore la forza che tiene uniti i quattro elementi e nella Discordia la forza che li separa: il regno di Eros è lo Sfero, in cui tutti gli elementi sono legati in una completa armonia. Qui tutto è uniforme, armonico ed estremamente lontano dalla separatezza che invece caratterizza la fase del Vortice. È solo con Platone, però, che il tema dell’Eros viene problematizzato in tutta la sua portata. Nel dialogo “Liside”, Platone non riconduce la philia, l’ami-cizia, né al principio empedocleo secondo cui il “simile è sempre amico del suo simile”, né a quello del filosofo detto l’Oscuro, secondo cui “il contrario è amico del contrario”. L’amico, per Platone, non è tanto la persona che ama e neppure quella che è amata; l’amico è invece simile al filo-sofo che, sapendo di non sapere, è un ignorante che brama sapienza. In questo modo Platone introduce la funzione erotica della filosofia, che sarà ben sviluppata nel dialogo “Simposio”. In questo dialogo, Platone fa dire a Socrate che Eros è il desiderio di ciò che manca, una sorta di demone, un essere intermedio tra gli dei e gli uomini, tra l’Abbondanza e la Povertà, che tende al Bene. Si tratta di una bramosia che dalla bellezza di un corpo particolare conduce alla 39 bellezza di tutti i corpi, e da quest’ultima a quella dell’anima per ultimare alla bellezza del sapere, cioè alla visione dell’idea di bellezza, alla Bellezza in sé e per sé. In tale senso Eros è, come philia, filo-sofo, cioè amante del sapere, proprio perché privo della sapienza che però brama. Anche in Aristotele, sebbene prevalga nella sua filosofia una concezione di Eros come affezione dell’uomo, cioè o come amore sessuale o come amicizia, è presente una tensione metafisica nell’elaborazione del concetto di Eros. Il motore primo, infatti, muove tutto senza che esso si muova così come l’oggetto del desiderio e dell’amore muovono chi desidera e chi ama. Dio, primo motore immobile, muove dunque le altre cose come oggetto d’amore, come termine del desiderio che le cose hanno di raggiungere la sua perfezione. Con Plotino l’Amore diventa una delle fasi fondamentali della strada che conduce a Dio. Per lui l’oggetto dell’amore è il Bene e l’Uno è il Bene più alto che possa esistere. Eros è dunque una via preparatoria alla visione dell’Uno. Questa breve storia non solo ci mostra come la filosofia, fin dalle sue origini, fosse interessata agli aspetti universali della realtà, ma anche come l’indagine su ciò che è generale e universale sia stata affiancata da un vivo interesse per il tema di Eros: il pensiero greco, padre di tutto il pensiero occidentale, ha fin dalla sua nascita una valenza erotica nella misura in cui la filosofia è desiderio/amore del sapere. Tuttavia, è dal dialogo “Simposio” di Platone che la filosofia ha eretto una distanza abissale tra sé e il sesso, in quanto mero fatto che accade e che, proprio per questo, non può essere oggetto di sapere (appartenendo alla doxa gli oggetti particolari). I filosofi sì amano il corpo dei ragazzi o delle donne, ma non desiderano questi singoli corpi o la loro singola bellezza in se stessi, bensì considerano le singole e particolari bellezze solo perché esempi imperfetti dell’idea del Bello. È con Platone che prende avvio quel processo che porterà a contrapporre il mondo celeste, l’Eros celeste, che spinge ad amare le anime più dei corpi e che conduce alla Verità e al Bene, medium 40 contemplazione del Bello in sé, al mondo fenomenico, all’Eros terrestre, corporeo e volgare che ama il corpo più dell’anima. Il sesso vero e proprio, quello carnale, che si vive nella corporeità, da quel momento, sarà screditato, diventerà oggetto di non sapere perché appartenente al mondo sensibile in cui tutto diviene e di cui non si può avere scienza. La scissione mondo delle idee / mondo fenomenico si è poi riverberata nello iato tra valori attinenti all’anima e quelli inerenti al corpo: tutto ciò che è corporeo e materiale viene negato o svalutato, rispetto alla vera realtà iperuranica e ideale. Sulla base di queste premesse, come ha ben mostrato Foucault nella sua “Storia della sessualità”, si sono sviluppati un insieme di logoi, ultimo, ma non per importanza, quello della sessuo-logia contemporanea, sul sesso e sulla sessualità, che mirano a studiarlo in quanto oggetto del sapere. Un sesso che viene classificato, pensato, valutato, confessato e che, proprio per questo, ha trasfigurato quello che si vive, quello carnale e sensuale che, in quanto mero fatto che avviene, non si lascia pensare. Ed è così che torniamo alle domande di L. Nave, che hanno aperto questo paragrafo: “come può la filosofia accostarsi al sesso senza snaturarne l’intima essenza? Come possiamo applicare la filosofia al sesso in modo che il sapere applicato non risulti lontano dalla realtà di cui intende parlare?” (Nave L., pag. 38, in “Platone e il viagra”, a cura di Berra L. e Nave L., 2009). La risposta fornita è la seguente: “[…] solo qualora [la filosofia] smetta gli abiti metafisici e rinunci alla sua desiderosa volontà di sapere che la induce a costruire logoi sul sesso al fine di riprendere contatto con il mondo della vita, se da sapere-teoria-logos diventa praxis o modus vivendi, se torna a stabilire i contatti con la viva vita, con il corpo vivo e con gli aspetti concreti e vitali 41 che caratterizzano l’esistenza dell’uomo nel mondo, di cui la sessualità ne rappresenta una dimensione fondamentale” (ivi, 2009, pag. 38). Ed è possibile trattare filosoficamente il sesso in assenza di una metafisica costruzione di discorsi sul sesso solo se si recupera la sacralità del sesso, non nel senso religioso, bensì in quello etimologico, che rinvia a qualcosa di misterioso, enigmatico e indicibile. “Il sacro, insomma, quale alterità ontologicamente pensata nel suo stesso rimandare ad altro, all’ignoto, a ciò che sta oltre il sapere, oltre il quotidiano, oltre il normale, a ciò che è assolutamente irriducibile ad altro e a cui non si può accedere attraverso un pensiero e un linguaggio normale, bensì con un pensiero altro”(ivi, 2009, pag. 39). E, in effetti, il sesso è sacro nella misura in cui rinvia al mistero della vita, all’enigmaticità di quell’atto sessuale finalizzato alla riproduzione che già annuncia la morte del singolo individuo a favore della conservazione della specie a cui quell’individuo appartiene. Rinvia a quella volontà di vivere, a quella potenza indicibile nella sua essenza che è stata oggetto di riflessione da parte di molti pensatori. Da questo punto di vista, il counselor filosofico non può fare del sesso un oggetto del sapere, da classificare, studiare, analizzare e cogliere le cause di una sua anomalia. Potrà però rivolgersi al consultante, che porta il suo problema sessuale, per aiutarlo a cogliere il senso e il valore che per lui ha la sessualità, il modo in cui tale significato s’inserisce nella sua visione del mondo e nel suo progetto di vita, il modo in cui vive la sua sessualità. In definitiva, potrà rivolgersi ai suoi desideri, valori, pensieri, sentimenti e credenze che stanno alla base del suo modo di essere-nel-mondo al fine di rispondere a domande di senso in merito a tematiche sessuali. 42 2.6 Il punto di vista psicoanalitico. Cenni Queste ultime parole del paragrafo precedente ci fanno comprendere quanto sia differente e distante il lavoro del counselor filosofico rispetto a quello di uno psicanalista. La psicoanalisi di stampo freudiano vede nella sessualità una pulsione sicché un problema sessuale, come per esempio quello di una coppia che non riesce più a fare l’amore, concerne essenzialmente un ostacolo al deflusso della libido, rimasta legata a figure parentali. Di qui l’analisi, che ha l’obiettivo fondamentale di andare, attraverso particolari tecniche (analisi dei sogni, associazioni libere, interpretazioni, transfert e controtransfert e regressione), a investigare l’inconscio per trattare i disturbi nevrotici che influenzano il problema sessuale. Indubbiamente Freud e i suoi seguaci hanno cercato di dare un valore plenario alla sessualità, dal momento che non l’hanno ridotta alla funzione riproduttiva biologica, ma ne hanno visto un elemento concernente la creatività psicologica: sessualità come vettore e produttore di pensiero e piacere; sessualità come creazione di strutture mentali nuove e come possibilità di entrare in relazione con altri; sessualità come rivitalizzazione di contenuti mentali spenti. La sessualità non viene quindi limitata all’uso degli organi genitali e la si trova dietro i sostituti simbolici o viene sublimata nella sete di conoscenza. Ma è soprattutto quando è rimossa, che la sessualità si manifesta in sintomi psicopatologici. Va dato anche il merito a Freud e alla sua scuola di avere studiato l’evoluzione della sessualità nell’essere umano, dal neonato su fino alla persona adulta e anziana (Cociglio, 2012). Le pulsioni sessuali, dette anche libidiche, derivano da eccitazioni somatiche che promuovono processi psichici, ossia sono costituenti psichici determinati geneticamente che producono uno stato di tensione psichica che provoca nell’individuo un’attività il cui fine è di far cessare l’eccitazione stessa. Esistono diverse fasi dello sviluppo psicosessuale umano: nello stadio orale (nascita-18° mese) 43 la libido è fusa con la funzione alimentare; durante lo stadio anale (fine del 3°anno) essa si concentra sulla bocca e poi sull’ano; dai 4 ai 5 anni - stadio fallico - la libido confluisce sugli organi genitali: qui essa si presenta forte, violenta e incompleta, anche se siamo più al livello delle fantasie che di mere attività. Nello stadio fallico la libido sessuale viene rivolta verso le figure genitoriali, per cui il bambino desidera il genitore di sesso opposto con conseguente nascita di rivalità nei confronti del genitore del suo stesso sesso e con conseguente senso di colpa legato all’incesto (complesso di Edipo). Si tratta di un desiderio, quest’ultimo, che è rivolto verso il proprio genitore, che non può essere accettato dalla coscienza sicché viene rimosso e trasferito nell’inconscio. Prima della pubertà (che viene detta anche fase genitale), si verifica un periodo di latenza caratterizzato dall’impossibilità di realizzare le fantasie edipiche, dal pudore e dalla sublimazione verso il senso estetico e quello morale. Con la pubertà l’oggetto della pulsione sessuale diventa un’altra persona esterna alla famiglia di appartenenza: l’individuo si prepara a diventare adulto, passando dalla corrente di tenerezza della pulsione propria della relazione col genitore (relazione madrebambino) alla forma autoerotica, prima di essere investita su un’altra persona. Durante lo sviluppo psicosessuale, la libido fluisce da oggetto a oggetto, diminuendo verso un oggetto della fase precedente quando viene raggiunta la fase successiva. Cambia anche il modo di gratificazione durante questi passaggi evolutivi, che sembrano essere determinati geneticamente, pur potendo variare da persona a persona. È importante notare che, secondo questa teoria, il persistere (inconscio) della libido su un oggetto dell’infanzia nel corso ulteriore della vita - la cosiddetta fissazione - può dar luogo a manifestazioni patologiche. Così come si può verificare una regressione verso un precedente oggetto o modo di gratificazione. Infine, durante la vecchiaia, venendo meno il rigore delle componenti genitali, la sessualità si arricchisce di contenuti mentali: diviene più importante la relazione che lo sfogo sessuale (Berra, appunti anno 2014). Secondo la psicoanalisi, è impossibile abbandonare definitivamente gli oggetti primari della libido (seno materno, genitori, ecc.) e la sessualità dell’individuo si costituisce 44 attraverso diverse e molteplici operazioni mentali inconsce di cui la condotta sessuale visibile ne è solo un aspetto superficiale (oltre il comportamento si hanno il piacere sessuale, le emozioni e gli affetti connessi, le motivazioni, le fantasie occulte, ecc.) Da un punto di vista psicopatologico, i sintomi sessuali vengono interpretati come difese da angosce più grandi o come difese da pulsioni di morte perverse. La difficoltà della terapia sta nella resistenza manifestata dal paziente al passaggio dei contenuti mentali inconsci alla loro consapevolezza. Ecco perché l’analista deve riuscire a capire il comportamento sessuale attraverso il vissuto che si è organizzato nella mente del paziente, al di là di ciò che realmente è accaduto nella sua vita. È, insomma, la struttura mentale attuale del paziente che dà significato agli eventi storici e traumatici che gli sono capitati (Cociglio, 2012). Si comprende come il counselor filosofico non faccia niente di tutto ciò e non si occupi di disturbi sessuali, essendo più interessato a ricercare, insieme al cliente, il valore, il senso e il significato profondo che della sessualità hal’interlocutore, in quanto sono questi sensi, valori e significati che dirigono e caratterizzano la sua singola esistenza. La filosofia diventa lo strumento che permette di recuperare il senso autentico della sessualità il quale arriva, lo si creda o no, a influenzare il comportamento sessuale stesso. Il fatto di scoprire (o riscoprire) nuovi significati e nuove forme della sessualità, può aiutare il consultante a prendersi cura di sé, a raggiungere l’equilibrio, cioè a comprendere l’essenza del suo problema ed essere così pronto a un’azione adeguata e giustificabile. Il pensiero di Freud si è evoluto, nel corso degli anni, in più direzioni e in modo particolare verso la teoria delle relazioni oggettuali. Secondo questa concezione, le pulsioni emergono nel contesto di una relazione e si innescano per cercare l’oggetto piuttosto che per ridurre la tensione (Berra, appunti anno 2014). A dire di M. Klein, la sessualità è nella sua essenza relazione e il problema sessuale, come per esempio quello precedente di una coppia che non riesce più a fare l’amore, viene associato alla relazione fra i due membri della coppia stessa in termini di “distanza-vicinanza” e di 45 “scambio di oggetti”. Secondo tale teoria, gli oggetti possono essere esterni (persona in carne e ossa) e interni (fantasie e rappresentazioni mentali di un oggetto esterno o di una sensazione corporea. Si tratta per lo più di fantasie inconsce che includono la rappresentazione di sé e dell’oggetto collegate da un affetto). Gli oggetti interni, a loro volta, possono essere cattivi (sorgono dal dolore della fame – seno cattivo) e buoni (sorgono dal piacere sensoriale dell’allattamento – seno buono); possono essere parziali (figure incomplete, sul piano morfologico, del pene, della vagina e delle feci e, sul piano emozionale, come la fantasia della madre buona e della madre cattiva, del partner buono e di quelli cattivo; gli oggetti parziali sono vissuti come estensioni narcisistiche dell’Io e la separatezza dall’oggetto esterno non viene riconosciuta). E possono essere totali (figura completa sia sul piano morfologico sia su quello emozionale; sono vissuti come separati dal sé e dotati di esistenza autonoma). Ebbene, secondo questa teoria, in un rapporto sessuale si scambiano fluidi, corpi e soprattutto oggetti interni proiettati e introiettati, quali emozioni, pensieri, sensazioni, fantasie. A differenza della psicoanalisi freudiana, si hanno qui proiezioni di oggetti e non investimenti libidici: si cerca l’oggetto e la relazione, non la scarica pulsionale e gli stessi scambi di fluidi (saliva, sperma, ecc.) simboleggiano passaggi di oggetti interni. Da un punto di vista psicopatologico, dietro un disturbo sessuale si nasconde allora un problema di relazione oggettuale e in una relazione terapeutica, per il paziente, il legame affettivo e inconscio con il terapeuta spesso è più importante delle sue prestazioni tecniche (Cociglio, 2012). Quest’ultimo punto merita attenzione perché richiama la consapevolezza psicologica del counselor filosofico. Egli deve cioè essere consapevole e attento allo scambio oggettuale, al transfert e controtransfert, che si verifica durante i colloqui. Mentre la consulenza filosofica si caratterizza per dare un parere tecnico e specialistico nei confronti di un determinato problema esistenziale, senza tenere conto del rapporto che si crea tra i due interlocutori, la relazione tra il consultante e il counselor interessa invece notevolmente il counseling filosofico, in quanto la relazione è un fattore centrale per lo sviluppo del discorso filosofico. E il counselor filosofico deve essere 46 consapevole delle dinamiche psicologiche del transfert e del controtransfert non perché deve vedere in questi degli strumenti terapeutici da usare, bensì per imparare a leggere i linguaggi del proprio corpo e quelli dell’interlocutore, le emozioni che emergono durante il counseling. Solo così potrà gestire professionalmente la relazione di aiuto e instaurare col cliente un rapporto di saggezza, che è ciò che più caratterizza questa forma di aiuto. In breve, è necessario che il counselor mantenga un purezza filosofica, senza però togliere una sua conoscenza anche di tipo psicologico, per agire e interagire efficacemente e con maggiore consapevolezza col consultante, evitando errori o complicazioni (Berra, appunti anno 2102). 2.7 il punto di vista cognitivo-comportamentale. Cenni Il comportamentismo è un approccio che discende dalla psicologia sperimentale, ossia un tentativo di costruire una psicologia e una psicoterapia basata sul modello delle scienze naturali. La filosofia soggiacente a questo approccio è quella che paragona l’uomo a una macchina e il suo oggetto di studio è il comportamento osservabile dell’individuo, descrivibile mediante assunti che devono poter essere verificati e/o falsificati. Lo scopo della psicoterapia che s’ispira a questo modello teorico è analizzare il comportamento non appropriato e le sue possibile modificazioni; l’intervento terapeutico viene attuato nel “qui e ora”, senza il bisogno di agire su traumi passati risalenti all’infanzia. Gli interventi di modificazione del comportamento inappropriato si rifanno essenzialmente a tre leggi, le quali stanno alla base degli apprendimenti che determinano il comportamento (Cociglio, 2002): a) modello di apprendimento del condizionamento classico (pavloviano): se si associa uno stimolo neutro (per esempio un suono) a uno stimolo incondizionato (per esempio del cibo), il quale per sua natura è in grado di elicitare una risposta psicofisiologica incondizionata (aumento della salivazione), allora, dopo un certo numero di associazioni, lo stimolo neutro 47 diventa anch’esso in grado di elicitare l’originaria risposta incondizionata, trasformandosi così in uno stimolo condizionato che suscita a questo punto una risposta condizionata. Il legame stimolo condizionato - risposta condizionata è temporaneo nel senso che la risposta condizionata (aumento della salivazione all’ascolto del suono) può estinguersi (o differenziarsi) o anche generalizzarsi. Si estingue se il condizionamento non viene sistematicamente ripetuto (lo stimolo condizionato torna a essere stimolo neutro); si generalizza quando stimoli più o meno simili allo stimolo condizionato sono in grado di elicitare ugualmente la risposta condizionata. b) Modello di apprendimento del condizionamento operante (skinneriano): un comportamento casuale (per esempio, pigiare una leva), se seguito da un rinforzo (per esempio, l’apertura della porta dove vi è del cibo), sarà ripetuto con maggiore frequenza. Se invece è seguito da una punizione (piccola e non intensa scarica elettrica), sarà ripetuto meno frequentemente. I rinforzi possono essere positivi o negativi: i primi rinviano a tutte quelle situazioni che comportano l’aggiunta di qualcosa (piacere, contatto sessuale, approvazione sociale, beni tangibili, ecc.) a un certo stato. Quelli negativi sono caratterizzati dal togliere un elemento di disturbo o di sofferenza. Una punizione consiste invece o nel sottrarre un rinforzo positivo e/o nell’aggiungere uno stimolo avversivo. c) Il terzo e ultimo modello di apprendimento è quello del modellamento: gli individui tendono a ripetere i comportamenti, attuati da persone per loro significative (modelli), che sono seguiti da un rinforzo. Il soggetto osserva cioè i comportamenti che il modello attua e il rinforzo che il modello riceve. Se anche lui riceve un rinforzo dallo stesso comportamento, allora apprenderà il comportamento. Ebbene, l’attività sessuale è una delle maggiori fonti di piacere e quindi tende a essere ripetuta. Ne segue che, alla luce di questa teoria, i diversi problemi sessuali debbono essere ricercati in un deficit di apprendimento. Normalmente la genesi dei disturbi 48 sessuali è per lo più dovuta a un processo di condizionamento classico, per poi mantenersi per mezzo di un processo di condizionamento operante. Per esempio, il vaginismo (disfunzione sessuale femminile che rende impossibile la penetrazione) ha questa logica di funzionamento: si crea un condizionamento classico, in base a eventi della vita soggettiva della persona (esperiti direttamente o per sentito dire), per cui il tentativo di penetrazione o il solo pensiero della stessa determina uno spasmo involontario dell’ostio vaginale. Anatomicamente i genitali della donna vaginismica sono normali e tuttavia l’accesso vaginale è fondamentalmente serrato. Questo comportamento, dovuto allo spasmo involontario dei muscoli che circondano la vagina, si mantiene per il rinforzo negativo conseguente alla rinuncia della penetrazione: si evita la penetrazione e questa rinuncia consente alla persona di sottrarsi a una situazione di ansia (rinforzo negativo), sicché questo comportamento di rinuncia si manterrà anche in futuro. Una donna può soffrire di vaginismo permanente se la disfunzione è presente fin dall’inizio dell’attività sessuale; il vaginismo è invece acquisito se il disturbo si è sviluppato dopo un periodo di funzionamento normale. Inoltre, il vaginismo può essere situazionale se si verifica solo con un certo tipo di stimolazione, con certi partner e in determinate situazioni, oppure generalizzato se si verifica indipendentemente dalla situazione, dai partner o dal tipo di stimolazione (devo queste informazioni alla psicosessuologa clinica, titolare dello studio di sessuologia presso cui ho svolto il mio progetto). Mi sono soffermato su questo punto per due motivi: in primo luogo ci permette di capire come un counselor filosofico, di fronte a comportamenti inadeguati del tipo di cui sopra, non ha titoli, poteri e riconoscimenti giuridici per operare verso una soluzione del problema. Egli lavora con situazioni non patologiche, non si occupa di stimoli e di cause del disturbo e non s’interessa della soluzione del sintomo. Tuttavia, e di qui il secondo motivo, le donne che soffrono di vaginismo, giusto per proseguire con l’esempio di prima, non necessariamente hanno una vita sessuale assente (spesso raggiungono l’orgasmo con la stimolazione clitoridea e non 49 raramente si procurano piacere mediante giochi erotici purché escludano qualsiasi penetrazione vaginale). Il punto nodale è che la coppia, per lo più ignara o non consapevole della natura del problema, tenta ripetutamente il coito e ciò crea alla donna non solo un dolore fisico, ma soprattutto un effetto psicologico ed esistenziale disastroso: spavento, fobie, umiliazioni, paura del provare, provocazione di dolore, senso di inadeguatezza, frustrazione, angoscia, timore di perdere il compagno, fallimento del progetto di vita, idea del fallimento dello stesso, sensi di colpa, ecc. Questo giustifica il motivo per cui il comportamentismo, preso in sé con la sua filosofia meramente meccanicistica, per quanto sia efficace nel risolvere meccanicamente alcune patologie sessuali, necessiti di essere integrato da un’altra forma di terapia, che spesso risulta essere quella cognitiva. E ciò mi permette sia di richiamare il cognitivismo e le terapie cognitivo-comportamentali sia, in modo ancora più importante, il counseling filosofico in quanto, come vedremo, la filosofia a cui s’ispira il cognitivismo e alcune tecniche utilizzate da questa terapia trovano la loro origine in quei filosofi dell’antichità che sono i maestri dell’attuale counselor filosofico. Ciò, in definitiva, mi permette di affermare come sia possibile gettare un ponte tra la terapia cognitivo-comportamentale (Cognitve-Behaviour-Therapy: CBT) e il counseling filosofico e quindi come sia auspicabile un lavoro sinergico tra un sessuologo che si rifà a tale terapia e il counselor filosofico a orientamento fenomenologico-esistenziale, pur mantenendo in essere le differenze specifiche e sostanziali. Procediamo per passi. Primo: il cognitivismo; secondo: la CBT; terzo: il fondamento filosofico della CBT; quarto: il counseling filosofico come relazione di aiuto complementare e sinergica alla CBT in seno a problematiche esistenziali connesse a disfunzioni sessuali. Il cognitivismo, al contrario del comportamentismo, non si occupa esclusivamente dei comportamenti visibili del’individuo ma ha come oggetto di studio i processi mentali, le cognizioni e le emozioni. Questo approccio presuppone un soggetto 50 attivo, in grado di elaborare i dati (spesso si utilizza la metafora del software/hardware) e generatore di conoscenze personali e di significato. Al pari di uno scienziato che studia un fenomeno naturale, secondo il cognitivismo la persona comune costruisce modelli di sé e del mondo per formulare ipotesi che possono essere messe alla prova (verificate o falsificate) tramite i comportamenti. Il pregiudizio che sta a monte di tale approccio è che si presume di poter stabilire oggettivamente quali siano i comportamenti più adattivi nelle varie situazioni esistenziali e quali siano i processi cognitivi più idonei. Esisterebbero cioè modalità più corrette (razionali) e altre meno corrette (soggettive) di costruire le proprie esperienze. Lo scopo è di mettere il paziente nella condizione di confrontare le due modalità di costruire le proprie esperienze e, conseguentemente, di valutarne il successo o l’insuccesso nel raggiungimento dei propri obiettivi. Le stesse emozioni, che sono comunque determinate biologicamente e che sono portatrici di informazioni essenziali per i bisogni, l’adattamento e la sopravvivenza dell’individuo, vengono intese come attività cognitive autonome (Cociglio, 2002) . Il punto di vista cognitivo considera la sessualità, oltre che un programma biologico che favorisce e mantiene i legami di coppia, come un modo particolare di fare esperienza che coinvolge la persona nella sua interezza. Da sola però non è in grado di dare un significato alla vita di coppia e di mantenere una relazione interpersonale duratura; la sessualità si attiva insieme al sistema di attaccamento, accudimento o di agonismo. Essa viene compromessa quando, lungi dal soddisfare il bisogno sessuale, viene invece usata come pretesto o modo per agire il bisogno di accudire o di essere accuditi, di vincere o di essere sconfitti, di dare o ricevere fiducia e affetti. Per esempio, se domina il sistema agonistico, la sessualità induce, nel soggetto più debole, ansia e depressione: emergono qui disturbi in tutte le fasi (desiderio, eccitazione, orgasmo e piacere) della risposta sessuale. Se invece si attiva eccessivamente il sistema di attaccamento o di accudimento si possono verificare disturbi del desiderio (Cociglio, 2012). 51 Le CBT, come indica il loro stesso nome, sono tecniche che pongono l’accento sugli aspetti cognitivi (memoria, pensiero, aspettative, percezione, ecc.) che influenzano il comportamento. Vengono usati strumenti diversi: dalla desensibilizzazione tipica del comportamentismo, al problemsolving; dalla ristrutturazione cognitiva al dialogo socratico. L’idea di fondo che caratterizza queste terapie è che ogni apprendimento si attua sempre attraverso una mediazione cognitiva e una reciproca influenza tra emozioni, comportamento e cognizioni. Si può perciò modificare il comportamento inadeguato ed eliminare il disturbo emerso modificando i pensieri disfunzionali, i processi cognitivi (cioè i meccanismi di pensiero) e le strutture cognitive (ovvero le credenze). Albert Ellis, psicologo statunitense studioso per tutta la sua vita di filosofia, è stato l’ideatore della terapia razionale-emotiva (RET), il cui assunto fondamentale suona così: il nostro modo di reagire emotivamente agli eventi e il nostro comportamento non sono automaticamente determinati dagli eventi esterni, ma dalla visione che abbiamo di queste stesse situazioni, ossia da come percepiamo, interpretiamo e valutiamo ciò che ci accade. Per dirla con Epitteto: ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma le opinioni che essi danno alle cose. Pare che Ellis si sia proprio ispirato alla massima dell’antico filosofo greco per formulare il suo modello (ABC), il quale, pur enfatizzando i processi cognitivi nel determinare i nostri stati d’animo e le nostre reazioni, riconosce una stretta interrelazione tra pensieri, emozioni e comportamenti. Detto in modo lineare, il processo che porta a reazioni disfunzionali, secondo Ellis, si basa su tre punti (Ellis, 1993): A: evento attivante, ossia la situazione esterna o interna (fantasie e ricordi) in cui la persona può trovarsi coinvolta (per esempio, essere abbandonati dal proprio compagno perché si soffre di vaginismo); B: base mentale o sistema di convinzioni. Concerne il modo in cui interpretiamo A, cioè l’insieme di convinzioni, pensieri, considerazioni e commenti interiori che compaiono nell’individuo riguardo all’evento considerato. Queste convinzioni possono essere irrazionali, illogiche, inadeguate e irragionevoli (per esempio, non 52 troverò più un uomo come lui ed è insopportabile vivere senza la sua compagnia) oppure razionali, realistiche, logiche (per esempio, è triste se mi dovesse lasciare, ma posso rifarmi una vita anche senza di lui). Le prime conducono la persona ad avere stati emotivi negativi, spesso intensi o prolungati, mentre le seconde a emozioni e a comportamenti adeguati; C: conseguenze emotive e comportamentali, vale a dire gli stati emotivi e le reazioni comportamentali che erroneamente si crede siano causate da A. “Ellis, come gli stoici, ritiene che possiamo cambiare le nostre emozioni cambiando i nostri pensieri o le nostre opinioni riguardo agli eventi” (Evans, pag. 18, 2014). Il modello che Ellis ha elaborato per porre rimedio alle reazioni disfunzionali consiste: D: nel mettere in discussione le credenze irrazionali; E: nel prendere atto degli effetti della messa in discussione sia sulle emozioni sia sul comportamento e sia sulle convinzioni. “Analogamente, Aaron Beck mi disse di essere stato ispirato dalla Repubblica di Platone […] Questi due pionieri, Ellis e Beck, hanno preso i concetti e le tecniche dell’antica filosofia greca e li hanno collocati al centro della psicoterapia occidentale” (ivi, pp. 18-19, 2014). Secondo A. Beck (Beck, 2008), i soggetti sono influenzati da tre livelli interconnessi di pensieri: i pensieri automatici, intesi come idee superficiali (per esempio, mia moglie non mi ama); le assunzioni di base, ossia credenze intermedie che stanno a fondamento dei primi e aiutano a organizzare le percezioni (per esempio, se mia moglie non mi desidera vuol dire che non mi ama); gli schemi, ossia le convinzioni incondizionate (per esempio, sarò sempre solo). La tecnica di esame delle false credenze e delle convinzioni inconsce viene chiamata da A. Beck “metodo socratico”, in quanto si ispira al dialogo socratico. La CBT insegna al paziente l’arte d’interrogare se stesso: egli s’impegna in un dialogo con lo psicoterapeuta, il quale 53 cerca di aiutarlo a scoprire le sue credenze irrazionali, i suoi pensieri automatici, le sue assunzioni di base e i suoi schemi. Lo psicoterapeuta aiuta il paziente a vedere come tutti questi elementi cognitivi formino le sue emozioni e lo supporta nel metterli in discussione, per verificare se hanno un senso. Secondo il grande maestro di Platone, la filosofia ha il compito di aiutare la gente comune a trovare risposte alle proprie preoccupazioni. Gente, questa, che passa la maggior parte della vita come dei dormienti, intrappolati nelle proprie faccende quotidiane, assorbendo i valori e le convinzioni della famiglia e della società di appartenenza, senza mai sottoporli a indagine, senza chiedersi cosa stanno facendo e perché lo fanno. Per Socrate, se l’individuo fa sue le convinzioni sbagliate, alla fine se ne ammala e la sua anima necessita di essere curata. Fortunatamente, secondo Socrate, l’individuo ha in sé le risorse per esaminare le sue convinzioni, per scegliere di cambiarle, e quindi di guarire. Questo atteggiamento irriflesso della gente comune, di tutti noi totalmente presi dalle faccende quotidiane, a mio modo di vedere, è paragonabile a quello che Husserl chiamava l’atteggiamento in presa diretta o praticonaturale e al quale contrapponeva l’atteggiamento in presa riflessa (questionante e radicale). Ma qual è l’atteggiamento pratico-naturale? È quello diretto al mondo, caratterizzato dalle abituali e provvisorie certezze e dalle normali attività operative (lavorare, fare la spesa, appendere quadri, darsi da fare, fare questo o quello, dirigersi, interessarsi, ecc.) È quello che Husserl chiama atteggiamento in “presa diretta”: l’atteggiamento operativo dell’azione per cui la cosa è presa di mira come meta diretta dell’azione. Il consultante che porta il problema è, come ciascuno di noi, fondamentalmente immerso nell’atteggiamento pratico-naturale. Riflettere significa sospendere tutto ciò per conseguire una visione autentica e non illusoria delle cose. Significa chiedersi quale sia il fondamento delle opinioni che guidano la nostra azione e il nostro agire. Vuol dire sospendere l’impulso pratico che da quelle opinioni deriva e quindi tutte le teorie, tutti i principi e tutte le nostre 54 conoscenze, per riportarci al presente vissuto così come lo viviamo. Quando riflettiamo sulle datità fenomeniche operiamo la cosiddetta epoché: mettiamo tra parentesi la validità di tutte le nostre abitudinarie opinioni e delle nostre teorie, non perché vogliamo ignorare la loro esistenza o perché vogliamo confutarle, bensì perché non ne vogliamo proprio fare uso. Quando sospendiamo l’atteggiamento pratico-naturale ci riportiamo riflessivamente a esso per indagarlo e per porre in evidenza le sue caratteristiche essenziali. Il che significa gettare un primo sguardo a quelle conoscenze implicite dalle quali sono tratte le indicazioni di valore che guidano le nostre azioni. Husserl contrappose formalmente all’atteggiamento in “presa diretta” l’atteggiamento in “presa riflessa”, per cui io sospendo l’azione per fermarmi a considerare. Questo atteggiamento in “presa riflessa” viene chiamato anche atteggiamento questionante. Mentre la riflessione naturale si ferma a considerare come una cosa è o non è, senza però che il soggetto abbandoni definitivamente l’atteggiamento in “presa diretta” e pratico-naturale dell’operare e del riflettere comuni e delle opinioni sedimentate (che nella vita quotidiana non sono mai disgiunti), la riflessione questionante ci porta a chiederci il modo dell’avere queste opinioni (come ho queste opinioni che accompagnano il mio problema? Come mi sono date e come sorgono? Sola da qui può poi sorgere la domanda: come posso superarle?) La riflessione questionante esamina in che modo noi viviamo il mondo, il nostro problema connesso alla nostra esistenza quotidiana e mondana, e in che modo esso mi viene incontro e che cosa di esso propriamente si manifesta. La riflessione questionante è poi integrata dalla riflessione radicale, grazie alla quale dirigo il mio sguardo verso tutte quelle mie attività intenzionali con le quali mi sono costantemente riferito al mondo. Nel caso del counseling, per quanto non sia per nulla facile raggiungere questo tipo di riflessione, consiste nel mettere il consultante nella condizione di riflettere radicalmente sul suo problema, ossia: 55 - farsì che non sia solo praticamente interessato al suo problema e quindi toglierlo dall’atteggiamento della “presa diretta”; - farsì che non sia unicamente interessato al suo problema solo per darne un giudizio di valore, ossia distoglierlo dalla riflessione naturale; - farsì che non sia solo interessato ai caratteri generali per i quali nel mondo della vita può emergere un problema come il suo, cioè distoglierlo dalla riflessione questionante; - farsì, invece e soprattutto, che nella sua percezione del problema emerga il suo valore intenzionale, ossia il suo dirigersi verso il mondo, il senso profondo e il valore che dà alle sue azioni durante la sua esistenza. Grazie alla riflessione radicale, il problema viene indagato nei suoi modi d’essere internamente agli atti intenzionali, a tutte quelle modalità cogitative che caratterizzano il modo con cui quel soggetto si relazione alla sua vita e al mondo che sta abitando. Mediante la riflessione, il consultante si è riferito indietro al problema che già aveva sperimentato, ma per rifare in modo nuovo tale esperienza, ovvero in modo filosofico: egli ha raggiunto il massimo livello di astrazione e di distanziamento dal problema e questo processo di oggettivazione ha reso possibile la scissione della componente emotiva dalla difficoltà presentata, creando il terreno per formulare giudizi e concetti più critici. La fenomenologia può dunque aiutarci a prendere le distanze dall’atteggiamento pratico-naturale e può condurci verso una riflessione filosofica che ci porti a prendere consapevolezza dei valori e delle intenzioni più profonde che caratterizzano la nostra esistenza in questo mondo. Insomma, questa è la cura filosofica: pare esserci un legame indissolubile tra la propria visione del mondo, la propria filosofia personale, la propria salute psicofisica, e ciò vale non solo per Socrate e i filosofi antichi e per il counseling fenomenologico-esistenziale, ma anche per Beck ed Ellis. Secondo A. Beck, la terapia cognitiva consiste in un processo di apprendimento grazie a cui una persona acquista l’abilità di parlare a se stessa in modo costruttivo, in 56 modo tale da riuscire a controllare il proprio comportamento. Per dirla con Socrate: conosci te stesso. È la cosiddetta “ristrutturazione cognitiva”: la causa del problema non va cercata negli istinti repressi e nella libido (come invece vuole la psicoanalisi) ma neppure in un malfunzionamento dei neuroni che può essere risolto solo per via farmacologica (come vuole la psichiatria che fa proprio il punto di vista biologico). La causa del disturbo va cercata nelle convinzioni del paziente, nelle sue abitudini di pensiero, nelle sue false e tossiche credenze che lo hanno avvelenato e hanno contaminato le sue emozioni e i suoi comportamenti. La ristrutturazione cognitiva mira a farsì che il paziente impari a riconoscerle, ad analizzarle e quindi a controllarle e a sostituirle con altre più razionali; e fa ciò con tecniche di interrogazione e di auto-interrogazione che evocano il metodo socratico. A questo punto dovrebbe essere evidente il legame con il counseling filosofico. Se attraverso la CBT il paziente impara a portare a coscienza le proprie credenze irrazionali e/o acquisite dall’ambiente di appartenenza, mediante il counseling filosofico la persona impara a sospendere la sua vita abitudinaria, impara a rendere conscio l’implicito, l’abitudinario, la sua non sempre consapevole visione del mondo, causa di malessere; prende coscienza dei valori, spesso inconsapevoli, che guidano le sue azioni. Se grazie alla CBT il paziente cambia le sue convinzioni e con ciò migliora la sua salute emotiva e fisica, con il counseling filosofico diventa consapevole che opinioni differenti portano a stati emotivi differenti. Impara a rendere abituale il conscio, la sua nuova visione del mondo; impara a distanziarsi dalla situazione problematica. Grazie all’epoché, al dubbio e alla riduzione, il soggetto impara a portare le sue credenze automatiche alla coscienza. Qui le pone sotto torchio, riflette su di esse, ne testa i fondamenti e la razionalità. Grazie all’aiuto maieutico del counselor, impara a vedere nuove intuizioni filosofiche e, attraverso puri esercizi pratici, le ripete finché non diventino le sue nuove abitudini. Con la differenza, adesso, che non sono più portatrici di disagio, bensì di maggior benessere. 57 P. Hadot (Hadot, 2008) ha mostrato come la filosofia sia nata in quanto pratica, cioè allenamento, insieme di esercizi che ci permettono di rafforzare la nostra nuova e più funzionale visione del mondo. In quanto pratica, la cura filosofica richiede impegno, energie, costanza e coraggio: solo così impariamo a cambiare le nostre abitudini automatiche, i nostri pensieri e convincimenti sbagliati. Ma richiede soprattutto umiltà, perché nessuno di noi è incline a riconoscere come sbagliato il proprio modo di vedere il mondo. “Nondimeno, è inevitabile che, traducendo la filosofia antica in un corso di CBT della durata di sedici settimane, i terapeuti cognitivi abbiano dovuto mutilarla e restringerne il campo. Il risultato è una forma piuttosto atomizzata e strumentale di autoaiuto, che si concentra sullo stile di pensiero individuale, ignorando i fattori etici, culturali e politici” (Evans, pag. 26, 2014). Con queste parole Evans ci dice indirettamente che il counseling filosofico, se vuole rifarsi alle sue origini, deve mettere il consultante nella condizione di relazionare la sua dimensione psicologica con quella etica, politica e cosmica. È questa la differenza specifica rispetto alla CBT: l’aiuto elargito non può prescindere dal fatto che la persona richiedente aiuto creda o no in Dio, dal significato che ella dà alla propria esistenza, dal posto e dal ruolo che ella ricopre e gioca nella società, nel mondo e nell’universo. Si tratta di una relazione di aiuto più complessa, di sicuro più ambiziosa, che comunque non va d’accordo con quelle forme di aiuto che vanno tanto di moda adesso, basate su pochi precetti e poche massime ritenute in grado di risolvere i vari problemi esistenziali. E non va d’accordo perché la società di oggi ha educato gli uomini a ottenere tutto e subito: un problema di erezione che non abbia cause organiche, per esempio, deve essere risolto con una pillola, ma guai mettere in atto un impegno riflessivo sul significato che la sessualità ha per il portatore di quel problema, sui suoi valori e sul senso del proprio esistere. Ecco perché il lavoro del filosofo pratico è appena iniziato, e non è certo facile. I punti cardine su cui si basa la CBT sono essenzialmente tre (Evans, 2014): 58 1) gli individui sono in grado di conoscere se stessi e possono usare la loro intelligenza per esaminare le loro credenze, i loro valori e le lo convinzioni implicite; 2) usando la ragione, gli individui possono cambiare se stessi cambiando le loro convinzioni. Siccome le emozioni sono connesse alle convinzioni, la variazione di quest’ultime determina un modificazione delle prime; 3) mediante opportuni esercizi e un costante allenamento, gli individui sono in grado di creare e mantenere nuove abitudini di pensiero, sentimento ed emozione. Questi tre punti, già esplicitati e formulati da Socrate, insegnano alcune abilità cognitive, determinate capacità di pensiero, ossia come guidare la nostra mente. Tuttavia non ci dicono dove indirizzarla: qui intervengono considerazioni morali ed etiche che possono essere messe a fuoco non tanto dalla CBT, quanto dal counseling filosofico. È in una relazione di aiuto di tipo filosofico che la persona prende consapevolezza del suo progetto esistenziale, della sua visione del mondo, magari per abbandonarli o riformularli; è in una relazione di questo tipo che il consultante si mette nella condizione di vivere un’esistenza “spiritualmente” migliore, cercando e facendo propria una sua nuova filosofia, un proprio stile di vita. È qui, in sostanza, che impara a prendersi cura di sé e della propria esistenza. Chiudo questo paragrafo portando un esempio di modello cognitivo- comportamentale della sessualità con lo scopo, ancora una volta, di mostrare come il lavoro del counselor filosofico si differenzi da quello dello psicosessuologo in quanto non usa né fa riferimento a modelli psicologici, non si serve di test, ma si faccia guidare dall’esperienza vissuta dal consultante. Secondo l’ottica cognitivo-comportamentale, “il comportamento emesso da un soggetto viene considerato come la risposta a uno stimolo, che può essere interno (cognitivo, cioè ideativo, o propriocettivo, derivante dall’autopercezione dei propri 59 processi fisiologici) o esterno o comportamentale (proveniente dall’ambiente e/o dal proprio o dall’altrui comportamento). Tale risposta è costituita da tre componenti: quella cognitiva, legata all’attivazione elettrocorticale (cioè della corteccia cerebrale); quella emozionale, derivante dall’attivazione del sistema limbico e di quello neurovegetativo (ortosimpatico e parasimpatico); e quella comportamentale, conseguente all’attivazione motoria dei muscoli scheletrici. Essa dipende, nella sua qualità e quantità, dall’interazione di queste tre componenti che, a loro volta, sono innescate e regolate da meccanismi costituzionali (la dotazione biologica innata) e da processi appresi (le aspettative, basate sull’identità di sé e sui sistemi di convinzioni e di valori); il tutto è inserito in complessi circuiti di feedback, o retroazione, per cui ogni elemento della catena viene modificato dal funzionamento degli altri e, nel contempo, lo modifica” (Dettore D., “Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale”, pag. 133, Dambra, 2001). Ebbene, l’indagine del terapeuta, il cosiddetto assessment, deve dunque contemplare questi ambiti in quanto, secondo il modello presentato, “lo sviluppo della sessualità e di un comportamento affettivo adeguato è costituito dall’integrazione di abilità complesse nei quattro diversi ambiti” (ivi, pag. 135, 2001): - ambito biologico. Concerne il sesso cromosomico (cromosoma X o Y) e quello neuroendocrino. Il terapeuta, se non è medico, deve inviare il paziente a uno specialista per esami organici che testino il livello di ormoni o di estrogeni che possono causare disturbi sessuali; deve compiere un’indagine a livello farmacologico perché alcuni farmaci possono alterare il desiderio e il funzionamento sessuale. In breve, un accurato controllo medico permette di escludere o confermare cause organiche a monte del disturbo sessuale; - ambito emozionale. Afferisce alle risposte emozionali di tratto, cioè innate e confacenti i tratti di personalità, che costituiscono il fondamento delle risposte emozionali apprese. Qui il terapeuta può somministrare dei questionari, come per esempio l’EPQ (Eysenck Personality Questionnaire), 60 che permettono di individuare le caratteristiche personologiche (soggetto introverso/estroverso, ansioso/emotivo, ecc.) molto utili per la pianificazione dell’intervento terapeutico. La somministrazione di questionari non esclude, da parte del terapeuta, la possibilità di domandare direttamente al paziente se prova disagio o sentimenti spiacevoli di fronte a pensieri, percezioni e visioni di cose connesse alla sessualità. Tuttavia “tali rilevazioni andrebbero confermate e arricchite da misurazioni obiettive, oggi tecnicamente possibili” (ivi, 2001, pag. 143). L’attivazione fisiologica (arousal), cioè il processo con cui l’organismo si attiva per fronteggiare le situazioni problematiche, caratterizzata da mutamenti biochimici, risposte muscolari e attivazioni motorie, viene percepita dal paziente come ansia o altre emozioni. Una misurazione obiettiva di tali reazioni consente di identificare meglio le paure sessuali del paziente. Inoltre, una mancanza di abilità di autoregolazione e di autocontrollo o condizionamenti negativi della vita passata (traumi, fallimenti, ecc.) possono indurre iper-reattività delle risposte di attivazione. Così come si può verificare un’ipo-reattività delle risposte di attivazione in seguito all’assenza della risposta di attivazione sessuale indotta dal partner o in seguito a risposte concorrenti inibitorie apprese per condizionamenti precedenti. - ambito cognitivo. Questo ambito comprende lo schema di sé (l’immagine che il soggetto si attribuisce sia da un punto vista fisico sia da un punto di vista intellettuale e morale); l’immagine del partner; il sistema di convinzioni e di valori; il sistema di conoscenze e di abilità (il suo grado di conoscenza della fisiologia dell’apparato riproduttivo, del concepimento, della gravidanza, ecc., ma anche il suo grado di automonitoraggio, di autovalutazione, di autoefficacia e autorinforzo, la capacità di scelta, il problemsolving, ecc.); le attribuzioni di significato; l’identità di genere; l’identità di ruolo; il concetto di sessualità; il concetto di piacere. È questo l’ambito di intervento delle tecniche della CBT, 61 poiché “il modo in cui il soggetto interpreta, nell’ambito cognitivo, i propri pensieri, le proprie reazioni emozionali e i propri conseguenti comportamenti induce ulteriori pensieri, emozioni e comportamenti, adattivi o disadattivi, in un circolo che si autosostenta. Tali interpretazioni dipendono dagli schemi di sé e interpersonali e dai sistemi di valori e di convinzioni che il soggetto ha elaborato nel corso della sua esistenza (ivi, pag.143, 2001); - ambito comportamentale. Si distinguono qui le componenti prevalentemente innate da quelle prevalentemente apprese. Un rapporto sessuale richiede complesse abilità, che sono di natura comportamentale e biologica, ma anche di natura emozionale e cognitiva: abilità sociali (capacità di attivare, gestire e mantenere una buona conversazione; abilità di lettura dei segnali verbali e non; ecc.); abilità sessuali (repertori comportamentali connessi a una conduzione corretta e soddisfacente di un rapporto sessuale); abilità di autoregolazione (gestione dell’ansia; capacità di regolare la propria attivazione eccessiva; ecc.) Spesso un problema sessuale ha a che fare con la povertà dei repertori sessuali e sociali o con la povertà di abilità comportamentali e di contrattazione. Anche per quest’ambito, al fine di indagare e valutare il vissuto corporeo, il piacere, la masturbazione, ecc., si può somministrare al paziente un questionario, come per esempio il SESAMO (Sexuality Evaluation Schedule Assesment Monitoring). Come emerge anche da questo modello, tutto ciò che riguarda la sessualità ha implicazioni etiche, morali e valoriali che possono essere affrontate filosoficamente con un counselor, senza che questi faccia diagnosi, somministri test o cerchi le cause di un’anomalia del rapporto sessuale (compiti, questi, che spettano al sessuologo clinico). Una persona che si rivolge a un sessuologo può trovarsi ad affrontare scelte etiche forti (che possono essere sia la causa che la conseguenza del problema sessuale). Il counselor filosofico si rivolge allora alla persona, che porta il suo 62 problema legato alla sfera sessuale, per aiutarla a cogliere il senso e il valore che per lei ha la sessualità, il modo in cui tale significato s’inserisce nella sua visione del mondo e nel suo progetto esistenziale, il modo in cui vive la sessualità. Egli si rivolge ai desideri, valori, pensieri, sentimenti e credenze che stanno alla base del modo di stare al mondo della persona che ha richiesto aiuto, al fine di rispondere a domande di senso in merito a tematiche sessuali. Lo scopo dell’incontro di counseling è di aiutare la persona ad andare oltre la sua normale dimensione di pensiero, facendole acquisire una posizione che le consenta di osservare privilegiatamente le questioni che riporta: si tratta di trascendere la sua ristretta visione del mondo, causa di sofferenze e di disagio esistenziale, per raggiungere un rinnovato equilibrio nella propria vita. 2.8 Cenni di terapia mansionale integrata sessuologica L’approccio integrato nelle terapie sessuali si caratterizza per il progressivo abbandono della fedeltà ai principali orientamenti esistenti (psicodinamico, comportamentista, ecc.) e per una conseguente apertura verso i contributi di altri orientamenti teorici. Dopo gli anni ’50 del secolo scorso, “la psicoterapia comportamentale si apre alle teorie psicodinamiche e sistemiche, ma soprattutto alle terapie umanistiche che sottolineano l’importanza dell’approccio centrato sul cliente e dell’atteggiamento empatico che trasforma radicalmente anche le vecchie posizioni asettiche della psicoanalisi tradizionale” (C. Simonelli e A. Fabrizi, “Le disfunzioni sessuali e l’approccio integrato”, pag.19, in “L’approccio integrato in sessuologia clinica”, a cura di C. Simonelli, FrancoAngeli, 2010). I motivi che hanno spinto e incoraggiato un approccio integrato al trattamento dei disturbi sessuali sono essenzialmente due: l’emergere di centinaia di tipi di forme di intervento terapeutico e l’impossibilità di dimostrare empiricamente la maggior efficacia di una terapia rispetto a un’altra. Del resto, “quando si parla di disfunzionalità sessuale, infatti, occorre tener sempre presenti come possibili fattori eziologici aspetti biologici, chimici, fisici, psicologici e 63 culturali, non solo nelle loro peculiarità, ma nelle loro interazioni reciproche […] Per esempio, un uomo che soffre di disfunzione erettile a causa di un grave problema vascolare, vivrà certamente anche sentimenti di inadeguatezza, di depressione, di frustrazione della sua identità sessuale maschile, inoltre sarà coinvolta la sua partner e quindi la relazione di coppia” (ivi,pag. 20, 2010). Di qui, appunto, l’idea d’integrare approcci teorici e strumenti clinici disparati: “farmaci, consulenza sessuale, interventi psicoterapeutici ad orientamento psicodinamico, cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale, mansioni, tecniche di rilassamento, in modo da individuare piani di intervento efficaci che si adattino alle esigenze della persona piuttosto che ai principi di un determinato modello. Con questo non si intende certo sostenere il caos o l’adeguamento passivo, incondizionato e collusivo alle richieste del paziente; il presupposto che guida tale modalità di intervento è l’adozione da parte del terapeuta di una propria teoria di valori, come punto di riferimento per le scelte terapeutiche e come criterio di confronto dialettico con le convinzioni del paziente, tuttavia tale teoria non può coincidere, in maniera rigida e riduttiva, con i principi di una sola teoria scientifica o di una scuola di pensiero” (ivi,pag. 21, 2010). Parole sagge, queste ultime, che presuppongono, da parte delle autrici, non solo la polisemia del concetto di sessualità, ma anche e soprattutto una concezione non riduttiva dell’essere umano. Tant’è che le stesse studiose affermano che “una visione psicosomatica e somatopsichica contestualizzata sembra essere l’unica possibilità di comprensione autentica di una manifestazione [quella sintomatologica] così complessa” (ivi, pag. 20, 2010). Per farla breve, la sessuologia clinica non può prescindere dal rapporto sinergico esistente tra il sistema corpo e il sistema mente, dall’individuo in carne e ossa e dal suo essere membro di una coppia, così come non può prescindere dal contesto socio-culturale di appartenenza dello stesso. Che esistano interazioni complesse tra mente e corpo, che la mente stessa non può essere pensata in quanto disincarnata e che l’unità psicofisica sia sempre situata in un 64 mondo, sono tutti quanti concetti che la fenomenologia di Husserl e dei suoi collaboratori ha messo in evidenza già a partire dai primi anni del secolo scorso. La stessa fenomenologia, insieme alle correnti filosofiche che sono sorte dal suo ventre, come per esempio l’esistenzialismo e la neurofenomenologia, hanno evidenziato come l’essere umano è si corpo, è certo psiche ma anche e in modo specifico un essere intenzionale, che conferisce senso, che cerca significati, che manifesta valori. Il counseling filosofico, come abbiamo detto nell’introduzione di questo lavoro, presuppone un’antropologia filosofica precisa secondo la quale, accanto alla dimensione ontologica del corpo e a quella della psiche, occorre porre anche la dimensione noetica, che rinvia alla libertà di volontà dell’uomo, alla sua volontà di significare e di attribuire un senso all’esistenza. Se tutto ciò è vero, ossia se è vero che la tendenza attuale della sessuologia clinica è quella di integrare più approcci proprio perché si è presa consapevolezza che l’essere umano non può essere semplicemente ridotto a un suo particolare aspetto e se è vero che, proprio per quest’ultima considerazione, tra i vari aspetti che caratterizzano l’uomo compare in modo esplicito anche quello noetico, allora da queste premesse ne segue che l’approccio integrato in sessuologia non può non considerare gli aspetti più prettamente esistenziali del paziente. E chi, più del counselor filosofico, può trattare questi aspetti in un’ipotetica equipe di lavoro che comprenderebbe il medico, lo psicologo e il consulente sessuale, come operatori principali del trattamento delle tematiche sessuali? Se di terapia integrata si parla, allora l’aspetto noetico non può essere escluso e il trattamento della disfunzione sessuale non può aprioristicamente scartare l’apporto del counselor filosofico, il quale non interviene per curare una patologia esistenziale correlata a disturbi sessuali, bensì per aiutare la persona a prendersi cura di se stessa e della sua visione del mondo, che la disfunzionalità sessuale ha messo in dubbio. In effetti, che esista una differenza sostanziale - benché non tale da escludere una collaborazione reciproca - tra terapia mansionale integrata (TMI) e il counseling filosofico, emerge già da queste parole: la TMI “è una terapia strategica. Ha quindi uno scopo preciso che viene perseguito elaborando un’adeguata strategia. Lo scopo 65 non è solo la scomparsa del sintomo ma anche il mantenimento del risultato raggiunto […] La TMI ha una struttura precisa e caratteristica […] La TMI è una terapia sostanzialmente di coppia. I primi colloqui sono utilizzati per la ricostruzione del problema e la sua ridefinizione in termini adeguati alla terapia, per la formulazione del contratto o l’invio ad altro specialista. Ogni seduta inizierà con l’analisi delle mansioni svolte e terminerà con la prescrizione delle mansioni successive […] Le TMI sono terapie esplicitamente direttive” (Fenelli A e Lorenzini R., pp. 19-20, 2011). Al contrario, il counseling filosofico non è un intervento che mira alla scomparsa del sintomo, ma una relazione interpersonale in cui il counselor cerca di aiutare il cliente a rispondere (o a risolvere) a un problema esistenziale; non utilizza i primi colloqui per ricostruire il problema, ma per identificare il problema all’interno della personale visione del mondo e del progetto esistenziale. Il counseling filosofico non è direttivo, cercando invece un rapporto di saggezza con il consultante e centrando la relazione sul cliente stesso. Infine, mentre un disturbo sessuale “è una manifestazione cognitiva (di pensieri e di emozioni) e comportamentale (sia individuale che relazionale) che è considerata sgradevole dal soggetto stesso e che tende ad automantenersi” (ivi, 2011, pag. 62), un problema esistenziale è in ultima analisi una domanda di senso che il cliente si pone in merito al suo esistere in questo mondo; domanda che il problema sessuale può avere innescato o accentuato o anche, e per converso, domanda che ha indotto la disfunzione sessuale. 2.9 Perché il counselor filosofico non è un sessuologo clinico né un consulente sessuale? In questo ultimo paragrafo del presente capitolo intendo indicare brevemente i motivi per cui il counselor filosofico non è un sessuologo clinico né un consulente sessuale e, ciononostante, far intravedere ancora una volta come la figura del counselor filosofico possa essere molto utile, in un’equipe di lavoro integrata, per 66 aiutare la persona che manifesta disturbi sessuali a far chiarezza sui suoi valori, sulla sua etica, sul senso della sessualità e sul significato che egli attribuisce al sesso. Una prima considerazione da tenere presente per rispondere alla suddetta domanda riguarda la differenza tra consulente sessuale e un sessuologo clinico. Mentre il sessuologo clinico è un medico o uno psicologo o uno psicoterapeuta che ha seguito una scuola di specializzazione in sessuologia clinica, il consulente sessuale può essere, oltre che un medico o uno psicologo o uno psicoterapeuta, anche un infermiere, un ostetrico, un fisioterapista, un assistente sociale o un counselor, che abbia seguito un corso, più breve del primo, in consulenza sessuale. Inoltre, mentre il sessuologo clinico può intervenire sul disturbo del paziente con una terapia, il consulente sessuale offre invece una consulenza di primo livello, ossia analizza la domanda portata dal paziente, indaga l’esistenza di eventuali e precedenti interventi, elabora una progettazione diagnostica in collaborazione con altri specialisti e ristruttura la domanda in termini adeguati a una possibile e successiva terapia. Il consulente sessuale svolge anche il delicato compito di inviare ad altri specialisti (ginecologo, andrologo, psichiatra, neurologo, endocrinologo, infettologo, dermatologo e psicoterapeuta) il paziente qualora dovesse ravvisare, mediante la sua consulenza di primo livello, l’esistenza di disturbi più specifici oltre alla presenza della sintomatologia sessuale (Simonelli, 2010). A valle di questa distinzione, si comprende immediatamente come il counselor filosofico (che non sia anche psicoterapeuta o medico o psicologo con specializzazione in sessuologia) non è un sessuologo clinico, dal momento che non può curare disturbi organici e psichici dei pazienti. La professione del counselor filosofico si differenzia anche da quella del consulente sessuale, in quanto quest’ultima è una consulenza tecnica che richiede una specifica preparazione di base in consulenza sessuale (psicosomatica, sessuologia, counseling, sviluppo psicosessuale, contraccezione, maternità, menopausa, identità di genere, anamnesi, ecc.), mentre il counselor filosofico, che può comunque accrescere privatamente la 67 sua conoscenza sui temi sessuali, non offre una consulenza expertise in merito a disturbi sessuali. Indubbiamente esiste un’area sovrapponibile di lavoro tra il consulente sessuale e il counselor filosofico, dal momento che entrambi hanno ricevuto una formazione sulle tecniche e sui principi del counseling in generale. Entrambi, cioè, esplorano (e aiutano la persona in difficoltà a esplorare) i sentimenti, le paure, le emozioni in generale e le credenze relative alla sessualità; entrambi possono discutere le attese del soggetto rispetto alla sessualità; tutti e due i professionisti cercano di identificare le risorse individuali o del partner da mettere in gioco per fronteggiare il problema; sia il counselor filosofico sia il consulente sessuale cercano di promuovere una comunicazione aperta nella coppia e vedono nella chiarificazione del problema una prima soluzione del problema stesso. Entrambi, infine, accompagnano la persona a riscoprire e a ripensare le varie forme in cui la sessualità può esprimersi. Ma mentre il consulente sessuale, nel fare tutto quanto sopra riportato, sussume un’accezione scientifica del termine “significato” (di sesso o sessuale), il counselor filosofico ne sussume una filosofica. Mi spiego: in termini molto generali e concisi la scienza vede nel termine “significato” essenzialmente il concetto di “funzione, di espressione (nel senso di “che cosa esprime?” e di interpretazione” (Cociglio, pag. 123, 2002), cioè di relazioni che intercorrono fra il fenomeno studiato - il sesso - e altri fenomeni (gli organi, la mente, la cultura, la società, ecc.) Allo scienziato non interessa ricercare il senso ultimo e l’essenza del sesso. Va subito precisato che nemmeno al counselor filosofico interessa una metafisica di questo tipo ma,differentemente dal consulente sessuale, quando egli cerca di identificare il problema riportato dal consultante, si preoccupa più di ogni altra cosa del valore che tale problema ha per lui. Il termine “significato” rinvia filosoficamente ai concetti di valore, di importanza, di utilità e quindi al vissuto soggettivo del consultante in quanto vissuto unico, irripetibile e individuale che deve essere compreso con atteggiamento squisitamente empatico. Al counselor filosofico desta 68 interesse il modo in cui il problema sessuale-esistenziale riportato dal consultante si inserisce nella sua visione del mondo, il modo in cui esso si rapporta ai valori principali della sua vita, ai suoi punti di riferimento, ai suoi scopi esistenziali e al suo progetto esistenziale, a quel reticolo di significati che determinano la sua esistenza. Infatti, ogni essere umano ha una sua visione del mondo, una filosofia personale, un modo proprio e unico d’intendere l’esistenza e quindi una particolare scala di valori. Il compito del counselor filosofico, mediante attrezzi e strumenti meramente filosofici, è quello di esplicitare questi elementi della visione del mondo del consultante cercando di applicarli al problema riportato, proponendo altre visioni del mondo da intendere però come spunti di riflessione per guidare e accompagnare il cliente stesso nel proprio percorso di ricerca. L’aiuto del counselor filosofico consiste nell’identificare i punti significativi da trattare ed elaborare filosoficamente: solo così può avvenire quel processo di distanziamento e di oggettivazione che permette la scissione dalla componente emotiva del problema, la possibilità di elaborare giudizi e concetti più critici e che è propedeutica alla reintegrazione del problema trattato nella visione del mondo e nel progetto esistenziale da cui era stato estratto (Berra, appunti anno 2012). Per concludere, il valore aggiunto di questa relazione di aiuto sta nel fatto che, filosofando col consultante sul problema della normalità sessuale o sugli aspetti relativi al rapporto di coppia o su questioni relative a problemi di fertilità o di tradimento, giusto per fare alcuni esempi, questa stessa relazione di aiuto può chiarire maggiormente i significati e i valori delle persone che si sono cimentate con quei problemi e tale chiarificazione può contribuire a una risoluzione delle difficoltà sessuali-esistenziali manifestate. 69 3. Erosofia: applicazione delle basi filosofiche al problema concreto 3.1 Davide ovvero questione di credenze e di cura di sé Le basi teoriche esposte nei precedenti capitoli rappresentano il contesto entro cui ho lavorato al fine di maturare e approfondire un approccio personalizzato al counseling filosofico, cercando di coniugare l’universalità del sapere filosofico con la concretezza della pratica professionale. Munito di questi strumenti mi sono così presentato presso lo studio di psicosessuologia. Il progetto di lavoro sottoscritto con la titolare dello studio prevedeva quattro obiettivi (come ho già presentato nell’introduzione) che qui riporto: - trovare punti di possibile integrazione del counseling filosofico all’interno della pratica clinica psicosessuologica; - differenziare la pratica filosofica nella forma di counseling da un intervento di natura psicosessuologica; - confrontare le metodologie cognitivo-comportamentale e di terapia mansionale integrata sessuologica con il counseling filosofico applicato a problemi esistenziali legati alla sfera sessuale e sentimentale; - costruire una “cassetta degli attrezzi” specifica del counseling filosofico nell’ambito di una relazione di aiuto. Come è emerso dalle analisi precedenti, un possibile e teorico spazio di collaborazione tra il counselor filosofico e lo psicosessuologo esiste. In questa parte intendo mostrare come concretamente si è attuata la collaborazione e come una sinergia tra queste due professioni è stata molto utile per i pazienti/consultanti, al punto tale da mettere me e la psicosessuologa nella condizione di portare avanti la 70 collaborazione al di là delle ore previste nel progetto sperimentale e di pensare a delle linee guida di lavoro comune. Vediamo allora il lavoro concreto che si è costruito. Una prima parte è stata dedicata a presentare alla psicosessuologa la figura del counselor filosofico e il suo specifico modo di lavoro. Subito dopo si è passati alla descrizioni di alcuni casi che la professionista stava seguendo per raggiungere questi sottobiettivi: promuovere, in me, un ascolto attivo; individuare un’eventuale domanda di senso ed esistenziale riportata dal paziente quando questi esponeva il suo problema sessuale; condividere alcune strategie filosofiche per rispondere a quella domanda. Una terza fase è stata invece caratterizzata dall’invio, da parte della psicosessuologa, di pazienti, in quanto portatori di problemi eminentemente esistenziali, a me counselor filosofico in formazione permanente. Emotivamente parlando è stata questa la parte più bella, ma anche più intensa e difficile. Ho avuto modo di seguire direttamente alcuni consultanti. Nell’ ultima fase del progetto, ho avuto modo di formalizzare con la professionista i possibili punti d’incontro tra counseling filosofico e terapia psicosessuologica. Come detto poco più sopra, la collaborazione non si è fermata e ad oggi, non solo vengo chiamato in causa dalla professionista qualora ella evidenzi il bisogno di parlare con me di alcuni casi che si caratterizzano peculiarmente per problematiche esistenziali, valoriali e filosofiche, ma anche come possibile specialista a cui inviare i consultanti. Detto ciò, passo a descrivere innanzitutto alcune situazioni su cui io e la psicosessuologa ci siamo confrontati e abbiamo collaborato sinergicamente. Davide, un uomo di 36 anni, raccontò alla psicosessuologa, durante il primo colloquio, un episodio accaduto a su fratello minore: nel 2005 arrivò un sms al cellulare di suo fratello da parte di una persona che suo fratello stesso credeva essere una donna. Iniziò così una corrispondenza tramite messaggi che lo eccitò molto e lo portò a masturbarsi, sebbene a un certo punto della relazione telefonica, non solo 71 cominciò a sospettare che l’interlocutore fosse un uomo, ma addirittura gli arrivò un sms con una fotografia di un pene. Da quel momento il fratello si accorse palesemente della sua omosessualità e cominciò drammaticamente a comunicare il suo orientamento sessuale a tutti i suoi famigliari. I genitori di Davide non seppero affrontare in modo maturo quella situazione. Sospettarono che anche Davide potesse essere omosessuale e lo costrinsero a rivolgersi a uno specialista per accertare la sua identità sessuale. Si rivolse quindi a uno psicologo il quale lo rassicurò del fatto di essere eterosessuale. Dopo il percorso fatto con lo psicologo stette bene per diversi anni, anche se cominciò a nutrire embrionalmente alcuni sentimenti di astio nei confronti delle persone omosessuali, sentimenti ai quali non diede troppo retta. Fino quando, nel 2012, un evento particolare gli rievocò la situazione vissuta tragicamente dal fratello e dai familiari portandolo in uno stato di ansia. Di qui la scelta di contattare la sessuologa. Dopo alcuni incontri, durante i quali la professionista poté constatare che Davide era felicemente fidanzato e che progettava di andare a vivere con la sua attuale compagna, emerse il problema in questi termini: egli riportò di nutrire un forte odio nei confronti dei gay, perché rovinano le famiglie e fanno soffrire i genitori. L’obiettivo che si era posto in seduta fu di non nutrire più astio verso i gay e di raggiungere un suo interno ed equilibrato benessere: insomma far fine a quello stato di paura e ansia che lo accompagnava ogni qual volta pensava all’omosessualità o si trovava vicino a una persona omosessuale. Il confronto tra me e la psicosessuologa, di fronte all’analisi di tale problema, ha sortito questa condivisione: abbandonare ogni nostro possibile pregiudizio rispetto a quanto raccontato dal consultante, accettando il suo problema così come lui lo ha riportato (concretezza del dato e nessun rifiuto aprioristico di quanto detto); esclusione di qualsiasi dietrologia e sospensione di ogni nostra interpretazione rispetto alla sua identità sessuale. Accanto al lavoro compiuto dalla psicosessuologa, ho chiesto alla stessa professionista se riuscisse nel contempo a delineare la visione del mondo di Davide, 72 attraverso un esercizio di racconto autobiografico. Ne emerse un’educazione molto rigida da parte del padre; di essere molto credente e di avere avuto un’educazione fortemente cattolica da parte della madre. Uscì anche il suo desiderio di tornare a vivere nella sua terra di origine e di stare pensando a un trasferimento di lavoro. A seguito dell’intervento psicologico ci fu un significativo calo di ansia e delle ossessioni circa l’omosessualità. Rimaneva a questo punto l’altro obiettivo, non disgiunto alla diminuzione di malessere: lavorare intorno alle idee negative e all’odio per gli omosessuali. Domandai alla professionista se poteva chiedere a Davide di eseguire, con calma e a casa appena ne avesse avuto tempo, il seguente esercizio filosofico: - scrivere due/tre episodi di un sentimento di odio, disagio, timore e di avversità che egli ha realmente vissuto quando si è trovato in situazioni sociali con persone omosessuali (escludendo quelle vissute con suo fratello); - capire in quale modo quel o quei sentimenti lo hanno colpito e lo hanno fatto stare male; - capire per cosa soffre quando si trova in quelle situazioni e in che modo gli viene da esprimere i suoi sentimenti; - dare una sua definizione personale di quel sentimento; - riflettere su quali credenze ci sono alla base di quel sentimento e sulla loro verità o correttezza. L’esercizio compiuto da Davide suggerì a me alla sessuologa alcune domande di natura generale. L’omosessualità è naturale o è contro natura? I sentimenti sono innati e immodificabili? Quanto c’entra la cultura e l’ambiente sociale di appartenenza nel provare quello che si prova? Al termine “omosessuale” corrisponde una realtà oggettiva? Le distinzioni di sesso esistono in natura e nel mondo vegetale e animale? Maschio e uomo, femmina e donna sono la stessa cosa? 73 Queste e altre domande sono state considerate come l’implicito non pensato di Davide, su cui poter operare con un lavoro filosofico, non per indurlo a cambiare idea o per rinforzare quella che già manifestava, ma per fargli prendere coscienza dei suoi pensieri, delle sue credenze e del senso che per lui ha la sessualità. Tutto ciò per aiutarlo ad autocostituirsi come soggetto responsabile di quello che sente e prova attraverso un lavoro su se stesso. Io, counselor filosofico in formazione permanente, e la psicosessuologa, ci siamo allora confrontati su questi temi, ciascuno per le proprie competenze e conoscenze, e insieme abbiamo condiviso di indagare l’idea che Davide ha di “contro-natura”, dominante nella sua visione del mondo. Le idee filosofiche che si sono pensate di spendere nei successivi colloqui con Davide sono state prese in prestito da Vera Tripodi (si voglia considerare “Filosofia della sessualità”, di Vera Tripodi, come testo di riferimento per la pratica filosofica applicato a questo caso). Dopo avere riflettuto sulla metafisica dei generi, Tripodi, nel suo saggio, affronta il problema del rapporto tra biologia e genere e afferma che, in base agli esempi che la natura offre di ermafroditismo e di cambio di sesso, «non è naturale che un organismo vivente debba essere necessariamente femmina o maschio e che non possa essere anche entrambi. Il sesso tra gli animali è allora esclusivamente funzionale alla conservazione e alla sopravvivenza della propria specie? Sesso e riproduzione sono necessariamente associati nel mondo animale? […] Ebbene, non sembra che sia sempre così» ( Tripodi,pag. 51, 2001). E prosegue riportando degli esempi di come il sesso regoli la vita comunitaria animale in modo più complesso rispetto alla mera riproduzione e conservazione della specie. Nel mondo animale, la masturbazione, gli atti d’amore omosessuali e altre pratiche paiono coinvolgere comportamenti più complessi della pura riproduzione, quali il corteggiamento, la capacità di costruire rapporti relazionali o prendersi cura della prole. Per la filosofa, “il fatto che l’omosessualità sia presente anche tra le specie 74 animali rende confutabile l’argomento secondo cui tale orientamento sessuale sia innaturale o contro-natura” (ivi, pag. 52, 2001). Tripodi si fa indubbiamente portavoce di una posizione nominalista in merito al problema della metafisica dei generi: alla domanda se i termini “uomo” e “donna” catturino una categoria naturale o invece siano solo costruzioni linguistiche che gli esseri umani stabiliscono in riferimento al loro comportamento sessuale, la studiosa sostiene la tesi del genere come costruzione socio-linguistica. Al contrario, secondo l’approccio realista, si differenzia linguisticamente il genere donna da quello di uomo solo perché questa differenza esiste, di fatto, nella realtà. Quali sono invece le idee di Davide intorno al concetto di “contro-natura”? A questo consultante è stato chiesto, mediante un homework, di scrivere alcune sue considerazioni e credenze in merito al tema “essere contro-natura”. Non è assolutamente compito del counselor filosofico indurre nella persona richiedente aiuto un’idea che non sia la sua e ogni riferimento che mette in atto a testi filosofici, per quanto portatori di idee contrarie a quelle del consultante, ha la sola funzione di metterlo in una posizione di riflessione e di indagine rispetto a un particolare tema. È invece compito del counselor filosofico mostrare alcune fallacie logiche a cui la persona bisognosa può incorrere, al fine di evitare che possa trarre delle conclusioni, da delle premesse, che invece da queste non seguono. Davide non stava bene con se stesso e riportava un malessere generalizzato sia perché ha subito un episodio che l’ha messo in dubbio in merito alla sua identità sessuale sia perché non riesce a tollerare persone non eterosessuali. Anzi, il solo pensare che la persona che ha di fronte possa essere omosessuale, gli suscita sentimenti di fastidio, schifo, odio e avversione. Pur avendo un fratello gay. Peter Raabe, counselor filosofico, ha accostato il counseling filosofico alla R.E.T. (terapia razionale emotiva), poiché entrambe le pratiche si fondano sull’assunto 75 secondo cui, cambiando ciò che pensiamo, possiamo cambiare ciò che sentiamo (Epitteto insegnava che non sono le cose a turbarci, ma quello che pensiamo di esse, come abbiamo già potuto constatare). Davide sentiva malessere, rabbia, odio, schifo e fastidio, oltre che paura, e pensava che gli omosessuali potessero mettere a rischio la prosecuzione della specie umana (ciò emerse dall’esercizio assegnatogli). La filosofia, fin dalla sua nascita, ha insegnato agli uomini e alle donne a lavorare sulla fondatezza e sulla legittimità di ciò che si pensa, non tanto chiedendosi perché si pensi quello che si pensa, ma cosa si sta pensando mentre lo si fa. No le cause psicologiche o sociali del nostro pensiero, sì invece il contenuto di quello che si sta pensando, aprendo la possibilità di pensare a qualcosa di diverso se il primo pensiero non sia fondato. Davide, nel compiere i compiti assegnati, intuì che, tra le varie cause per cui lui si sentiva male di fronte a certi eventi, c’erano anche pensieri legati alla sua tradizione religiosa. Tuttavia, non cercò mai di mettere in dubbio se le premesse da cui partivano i suoi ragionamenti fossero vere, come lui avrebbe potuto pensare. Insomma, il problema stava nel metterlo nella condizione di trascendere le eventuali cause psicologiche o sociali che lo avevano portato, fino a questo momento, a pensare in un certo modo, per dargli la possibilità di un altro pensiero. Il lavoro successivo che si è pensato di fare con Davide, dunque, è stato quello, una volta riconosciute alcune fallacie logiche, di aiutarlo a ragionare sui suoi stessi ragionamenti. Davide argomentava che l’omosessualità sia contro-natura, così: - essere contro-natura significa violare le leggi della natura. Siccome è una legge naturale, al fine della procreazione, quella per cui ci debbono essere atti sessuali con persone di sesso diverso, allora gli atteggiamenti omosessuali sono contro-natura; 76 - se si riconoscessero agli omosessuali i diritti che rivendicano, allora i figli adottati da queste coppie avrebbero problemi esistenziali in merito alla loro identità sessuale. Inoltre, se tutte le coppie omosessuali adottassero dei bambini e, questi, vedendo che sia normale che due esseri umani dello stesso sesso stiano insieme, allora potrebbero diventare essi stessi omosessuali. Se così fosse, la specie umana, alla fine, sarebbe a rischio. Per ciascuno di questi ragionamenti, si potrebbe controbattere una serie di obiezioni (siamo così sicuri che in natura il sesso si faccia solo tra esseri eterosessuali? Se anche ci fossero delle coppie omosessuali, davvero la specie umana sarebbe a rischio? Come possiamo verificare che i bimbi adottati da coppie omosessuali vivranno dei problemi esistenziali? Ecc.) Non è monotono ripetere che il counselor filosofico, nel ragionare dialetticamente col consultante, non vuole assolutamente convincerlo di un’idea diversa da quella da cui si è partiti (anzi, potrebbe essere che il counselor sia della stessa idea del consultante). È invece suo compito aiutarlo a vedere se i suoi ragionamenti stiano in piedi, e fino a che punto, oltre che aiutarlo a diventare responsabile fino in fondo di quello che dice e di quello che agisce. Non ci è dato sapere se i pensieri e le credenze di Davide siano state la causa diretta dei suoi problemi e dei suoi sentimenti o se, viceversa, siano stati i suoi sentimenti che l’hanno portato a pensare in quel modo. È però evidente che tra quelle credenze e quegli stati d’animo esiste una correlazione, tra l’altro riportata da Davide stesso, sulla quale il counselor può lavorare. E vi può operare con un mero lavoro di cura di sé. Foucault è stato un filosofo che ha sempre rifiutato ogni rigida distinzione tra teoria e storia. Egli scrive, in merito al compito della filosofia (Foucault, “L’uso dei piaceri”, pag. 14, 2009): “Ma che cos’è dunque la filosofia, oggi - voglio dire l’attività filosofica - se non è lavoro critico del pensiero su stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si 77 sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso? Vi è sempre un che di derisorio nel discorso filosofico quando pretende, dall’esterno, di dettar leggi agli altri, dir loro dov’è la verità e come trovarla, o quando trae motivo di vanto dall’istruir loro il processo con ingenua positività; ma è suo pieno diritto esplorare ciò che, nel suo stesso pensiero, può essere mutato dall’esercizio di un sapere che le è estraneo. La prova - che va intesa come prova modificatrice di sé nel gioco della verità e non come appropriazione semplificatrice di altri a scopi di comunicazione - è il corpo vivo della filosofia, se questa è ancor oggi ciò che era un tempo, vale a dire un’ascesi, un esercizio di sé, nel pensiero”. Poche parole, ma, a mio modo di vedere, gravide di ricchissime indicazioni e categorie per la pratica filosofica: - in primo luogo il counselor filosofico aiuta il consultante a lavorare criticamente sul suo stesso pensiero; - nel fare questo, non legittima il sapere che il consultante già sa, ma lo stimola a pensare in modo diverso; - inducendolo a pensare in modo diverso, il counselor filosofico non elargisce al consultante verità preconfezionate né detta leggi; - al contrario, mette le vesti di un esploratore per poi donargliele affinché possa anch’egli esplorare un sapere estraneo al suo pensiero; - la forma con la quale questa esplorazione avviene è quella dell’esercizio (di pensiero); - questo esercizio è la prova che modifica se stessi nel gioco della verità, ossia mette il consultante nella condizione di trascendere la sua abituale visione della realtà, un andare oltre la sua ristretta visione, causa di sofferenze e di disagio esistenziale. Ma perché questo filoso-fare dovrebbe aiutare il cliente? Nella stessa opera, a pagina 214, Foucault scrive: 78 «Ciò che la filosofia è in grado d’insegnare, infatti, è di diventare “più forti di se stessi” e, raggiunto quel traguardo, prevalere sugli altri. La filosofia è, in se stessa, principio di comando in quanto essa, ed essa sola, è capace di dirigere il pensiero […] È dunque evidente che la filosofia è un bene necessario alla saggezza del giovane; non già, tuttavia, per instradarlo verso un’altra forma di vita, bensì per permettergli di esercitare la padronanza di sé e la vittoria sugli altri nell’impervio gioco delle prove da affrontare e dell’onore da difendere». La Filosofia insegna a prendersi cura di se stessi, del proprio pensiero e della propria anima. Platone, tanto nell’ “Alcibiade” quando nel “Simposio”, fece spiegare a Socrate che gli uomini, prima ancora di occuparsi della città, guidarla e governarla, dovrebbero primariamente prendersi cura di se stessi e della loro anima. Con Platone, la cura di sé diventa il centro dell’arte dell’esistenza (si confronti “La cura di sé - Storia della sessualità 3 - M. Foucault, pp. 47 e seguenti, 2009). Si tratta di una forma di atteggiamento che impregna concretamente i modi di vivere. In primo luogo, la cura di sé è un modo di coltivare la propria anima con l’aiuto della ragione (si pensi, per mera comparazione, alle terapie cognitive di Ellis e di Beck). Quando l’uomo ha cura della propria anima, arriva a fabbricarsi da solo la propria felicità. Non che sia un lavoro da poco; anzi, occorre l’impegno di tutte le proprie forze per farsi da sé, per trasformarsi e per essere migliori. Richiede dedizione e impegno lungo tutta l’esistenza, perché tratta l’oggetto più importante per ciascun uomo: se stessi e l’imparare a vivere. È tramite la ragione che l’uomo può fare libero uso di sé. Infatti, la ragione, tra le varie facoltà degli esseri umani, è l’unica che può servirsi di se stessa oltre che delle altre facoltà (pensa se stessa e le altre). L’occuparsi di se stessi è una regola necessaria a tutti gli uomini che vogliano perfezionare il proprio spirito con l’ausilio della ragione. In secondo luogo, la cura di sé richiede un tempo (si pensi agli esercizi spirituali di Hadot). I filosofi antichi impararono a fissare, durante la giornata, dei momenti, in 79 particolare la mattina e la sera, in cui raccogliersi in se stessi, esaminando ciò che si deve fare o ripensando ciò che si è fatto. Impararono anche a sospendere ogni tanto la propria attività abituale per stare soli con se stessi, meditando sul proprio passato, rivisitando quanto fatto della propria vita fino a quel momento e ritrovando i principi grazie cui si possa condurre una vita semplicemente razionale. Per loro, dedicarsi a se stessi, non vuol dire solo prendersi cura del proprio corpo con trattamenti specifici e con esercizi fisici, ma anche e soprattutto meditare, leggere, ripensare le verità note, riattivare i principi generali e le argomentazioni razionali che convincono a non arrabbiarsi né contro gli altri né contro gli eventi. Non necessariamente questo esercizio di cura di sé è una pratica che si compie in solitudine; spesso, i filosofi antichi la consideravano come un’intensificazione dei rapporti sociali e consigliavano di farla in gruppo, con amici o conoscenti, o aiutati da un consulente privato, il quale però non deve necessariamente essere un tecnico, purché sia di buona riputazione e noto per la sua franchezza. In terzo luogo, la cura di sé è una pratica strettamente connessa con la medicina, giacché tanto l’una quanto l’altra hanno in comune, come concetto centrale, quello di pathos. Sia nell’uno sia nell’altro caso, il pathos rinvia a uno stato di passività, che per gli antichi greci si trattava, per l’anima, di un movimento capace di offuscarla suo malgrado, mentre per il corpo, di un’affezione che altera l’equilibrio dei suoi umori. Tale concetto si applica tanto alla malattia fisica quanto alla passione dell’anima. La filosofia diviene l’ambito attraverso il quale si cerca il perfezionamento e la cura dell’anima, così come la medicina diviene l’ambito in cui curare il corpo e cercare il suo benessere. Formarsi e curarsi, filosofia e medicina: l’uomo che si reca dal filosofo, lo fa per curarsi la propria anima (medicando le proprie ferite, arrestando il flusso dei propri umori al fine di avere una mente tranquilla), così come quello che si reca dal medico, lo fa per la cura del proprio corpo. La filosofia diviene, in definitiva, la medicina dell’anima, che aiuta a guarire dai grandi perturbamenti dello spirito, a curare le passioni, che si ribellano alla ragione, e gli errori, che invece nascono da un errato giudizio. 80 In quarto luogo, la cura di sé mira anche alla conoscenza di se stessi. E ciò attraverso, innanzitutto, degli esercizi di astinenza. Sono prove finalizzate a far progredire nell’acquisizione di una virtù e misurare il punto cui si è arrivati. Non si devono pensare come a una mera rinuncia, ma a delle prove che rendono capaci gli individui di fare a meno del superfluo, stabilendo su loro stessi padronanza di sé, temperanza e sovranità che non dipende dalla presenza delle cose a cui si rinuncia. Lo scopo è l’indifferenza alle cose indifferenti: misurare la propria indipendenza rispetto a tutto ciò che non è dispensabile e sostanziale. Anche l’esame di coscienza mira alla conoscenza di se stessi. Mentre l’esercizio del mattino serve a prendere in considerazione i compiti e gli obblighi della giornata per esservi prontamente preparati, quello della sera è fatto per interrogarsi in merito alle attività compiute, scoprendo i principi che le hanno sostenute, testando la loro correttezza coi propri precetti e al limite correggerne l’applicazione in futuro. Tutto ciò non per colpevolizzarsi, bensì per memorizzare e avere immediatamente disponibili allo spirito sia gli scopi legittimi sia le regole di comportamento che permettono di raggiungerli, mediante la scelta di adeguati mezzi. Il riconoscimento dell’errore serve pertanto a rafforzare il bagaglio razionale che consente di agire saggiamente. Infine, la conoscenza di sé passa anche attraverso un lavoro del pensiero su se stesso, che non si configura solo con una prova che misuri ciò di cui si è capaci; che non si limiti a valutare un errore rispetto alla regola di condotta; ma che, soprattutto, vada a esaminare, verificare e scegliere le proprie rappresentazioni, al fine di averne controllo. È una disposizione, questa del pensiero su se stesso, costante che l’uomo deve prendere nei confronti di se stesso. Consiste nel divenire guardiano di se stessi e delle proprie rappresentazioni: provarle, distinguerle tra quelle che dipendono da noi e quello che invece non dipendono, non accettarle di primo acchito ma fermarle per vedere cosa sono e da dove derivano. In quinto e ultimo luogo, la cura di sé consta in un insieme di pratiche che hanno come obiettivo comune il ritorno a se stessi. Questo significa che, nelle varie attività 81 che si compiono durante la giornata, lo scopo principale da perseguire è da ricercarsi in se stessi, nel rapporto con sé. Occorre spostare lo sguardo dagli affanni quotidiani, dalla vita degli altri, ecc. a se stessi, in quanto soggetti responsabili delle proprie parole e delle proprie azioni. La conversione a sé è una sorta di traiettoria grazie alla quale si finisce per raggiungersi, si diventa padroni di sé, si dipende solo da se stessi, al fine di godere pienamente di se stessi. Grazie a questa conversione ci si allontana dalle preoccupazioni esterne, dalle angosce del futuro, dai problemi che non dipendono da noi e, proprio in virtù di questo distanziamento, ci si può rivolgere al proprio passato, per ripensarlo e ripercorrerlo senza esserne turbati. E così facendo si potrà godere di sé, si proverà un piacere che si trae solo da se stessi, che nasce da noi e in noi perché liberi da tutte quelle preoccupazioni che non dipendono da noi stessi. Ebbene, per ritornare al nostro caso, a questo punto degli incontri e a nostro parere (mio e dalla collega), Davide era nella condizione di poter lavorare su stesso prendendosi cura del suo pensiero e della sua anima. Già nei successivi incontri si è potuto notare come il consultante avesse manifestato un modo di affrontare il problema assai più fluido, positivo e dinamicamente mutevole rispetto alla rigidità e alla staticità della sua posizione iniziale. Davide ha continuato a frequentare ancora per diversi mesi la psicosessuologa, intanto ha acquistato casa e si è trasferito con la sua compagna. Riferisco qui di seguito e linearmente alcuni possibili punti d’incontro tra il counseling filosofico e la terapia psicosessuale così come sono sortiti durante la collaborazione su questo caso: - è possibile gettare un ponte tra l’indagine cognitiva (attraverso la freccia discendente) degli schemi di pensiero e la visione del mondo del consultante; - il counseling filosofico pare funzionare bene laddove c’è da indagare le credenze implicite che spesso sono fonte di malessere e di sofferenza; 82 - il counseling filosofico pare appropriato quando si prospetta il bisogno di andare a indagare e sondare il sistema dei valori del cliente; - in questo caso il counseling filosofico è funzionato perché non è stato usato per trattare una disfunzione sessuale o un problema di psicopatologia; - il counseling filosofico pare funzionare laddove il problema sessuale solleva o è sollevato da domande di natura etica. Questi punti saranno ripresi nella conclusione del presente lavoro per delineare delle possibili linee guida di lavoro sinergico tra counselor filosofico e sessuologa clinica. 3.2 Antonia ovvero la volontà di vivere pienamente la propria esistenza In questo paragrafo riporto un altro caso in cui io, pur non avendo visto direttamente la consultante, ho comunque lavorato assiduamente con la psicosessuologa al fine di aiutare la persona richiedente aiuto. Questo caso è interessante perché mostra non solo i limiti e le potenzialità del counseling filosofico, ma soprattutto perché evidenzia come una stretta sinergia tra un intervento psicosessuale e il counseling filosofico possa portare a risultati importanti. Antonia si è rivolta alla psicosessuologa perché sofferente di vaginismo, angosciata per aver avuto una vita difficile e perché paurosa dell’altro sesso. Già dal primo contatto si è potuto notare come emergessero sia elementi che richiedevano interventi più di natura tecnica e terapeutica sia elementi che invece inerivano maggiormente a una relazione di counseling filosofico: da un parte il vaginismo, l’incompletezza dei rapporti sessuali, il parziale successo della prima terapia di desensibilizzazione alla penetrazione vaginale mediante l’utilizzo dei coni, il ciclo irregolare, paura dell’altro sesso e le difficoltà a interagire con le altre persone per il forte senso di vergogna. Dall’altra parte questioni più legate a temi esistenziali: 83 vita non facile, educazione rigida, fatti tristi, morte dei genitori e desiderio di ricominciare a vivere senza sentirsi necessariamente una donna diversa dalle altre. Il lavoro compiuto con Antonia si è sviluppato lungo due direttrici: una più tecnica, che ha visto la psicosessuologa operare sul problema del vaginismo e sulla sua cura e un’altra più relazionale, lungo la quale la psicosessuologa si è confrontata con me praticamente prima e dopo ogni colloquio. Riporto solo quest’ultima direttrice, in quanto più interessante per il counseling filosofico. Durante i primi incontri è sostanzialmente emersa la storia di vita di Antonia: ella raccontò dei lutti famigliari che l’hanno fatto soffrire tantissimo negli ultimi anni (nel 2001 perse la sorella a causa di una grave malattia; nel 2004 la madre e nel 2011 il padre); descrisse il padre come un padre - padrone che giunse addirittura ad alzarle le mani ben tre volte dopo la morte della moglie. Riportò l’educazione severa che ricevette, per lei riassumibile e comprensibile in una frase che i genitori le continuavano ripetere: “il primo ragazzo che trovi te lo devi sposare!”. Raccontò di avere avuto il primo tentativo di rapporto sessuale a 30 anni quando, avendo deciso di andare a vivere sola, incontrò un uomo sposato: qui si accorse di avere problemi con il coito e di non volere farsi penetrare. Il fatto di avere avuto pochissime esperienze sessuali e con scarso successo l’ha fatta sentire non normale e diversa dalle altre donne. Svelò sensi di colpa verso il sentimento di liberazione che avvertì subito dopo la morte del padre: da una parte una forte sofferenza, ma dall’altra un sentirsi libera e non più succube delle manipolazioni paterne. Manifestò di avere paura sia della solitudine (ormai aveva perso tutti i parenti, se si esclude un lontano fratello) sia delle relazioni amicali e sessuali. Dopo tre/quattro incontri emerse chiaramente come Antonia fosse giunta a un momento della propria vita in cui avvertiva il bisogno di raccontare la propria storia esistenziale, fare un po’ d’ordine dentro di sé per capirsi maggiormente, comprendere il suo presente attuale e intravedere il suo futuro. Emergeva il desiderio di capire come è diventata quello che è diventata, chi deve ringraziare e chi invece dimenticare. 84 Tuttavia esisteva in lei un conflitto, un blocco emotivo che non le permetteva di scorgere le potenzialità della sua persona. Mediante un esercizio di disegno/mappatura del problema e di racconto di sé, meditato e condiviso tra me e la sessuologa clinica, Antonia riportò in modo conciso ma chiaro cosa la stesse facendo soffrire: la morte dei genitori e soprattutto quella del padre, pur vissuta quest’ultima con senso di colpa, le ha aperto la possibilità di ricominciare a vivere, di rifarsi un’esistenza; tuttavia questo desiderio contrastava col suo sentirsi una donna diversa dalle altre, inadeguata da un punto di vista sessuale e relazionale. Ecco le sue parole: “Vorrei capire la mia indole, se sono uno spirito libero e quindi destinata a vivere relazioni superficiali, oppure una donna capace di instaurare una relazione seria e profonda con un uomo”. Durante una relazione di counseling filosofico è molto importante mettere il consultante nella condizione di esprimere chiaramente il suo problema con una frase breve, in modo da far emergere le questioni sostanziali separandole da quelle puramente accidentali. Così come è importante mettere il cliente nella condizione di distinguere la situazione che si trova a vivere in se stesso da lui in questa situazione: la capacità di distinguere questi due aspetti nonché le difficoltà che emergono nel compierla è fondamentale per costruire una buona mappa del problema e per far riflettere il consultante su cosa prova di fronte a ogni singolo elemento che caratterizza sostanzialmente la sua difficoltà. Una descrizione del problema che lasci cadere i dettagli secondari, la sua enucleazione in una breve frase e la valutazione di ogni elemento del problema dal punto di vista del soggetto, sono tutti quanti fattori determinanti per poter iniziare una relazione di aiuto filosofica. Inoltre, descrivendo il problema possono emergere elementi nuovi su cui inizialmente non si aveva prestato molto attenzione (Risatti, appunti anno 2013). In termini fenomenologici, si è cercato di mettere la consultante nella condizione di esprimere chiaramente il suo problema - che cosa si dà ed entro quali limiti - e il modo in cui viene dato, le emozioni che accompagnano ogni elemento del problema, le sensazioni che sono emerse durante la procedura di esposizione del problema, le 85 categorie e le tipicità che sono state messe in primo piano. Come noto, la fenomenologia applicata alla relazione di aiuto ci ha insegnato a distinguere gli elementi che concernono una situazione da quelli che riguardano il vissuto della persona richiedente aiuto rispetto a quella stessa situazione. Ebbene, tale lavoro ha permesso ad Antonia di chiarirsi la natura del suo problema e cosa prova di fronte allo stesso. Ha cioè compreso che il suo problema ha innanzitutto una struttura conflittuale: per un verso il desiderio e la volontà di ricominciare a vivere e per l’altro il timore di non essere in grado di farlo in quanto si sente diversa dalle altre donne. Ha imparato a dirsi la sua paura del sesso; ha riconosciuto le emozioni e i sentimenti che bloccano ogni sua azione propositiva al fine di risolvere il problema: imbarazzo, vergogna, tristezza e chiusura in se stessa. Ha esplicitato il suo desiderio di conoscere meglio se stessa e di analizzare a fondo il rapporto “relazioni sentimentali / solitudine”, rispetto alla sua vita concreta. Si è infine posta degli obiettivi: imparare ad accettarsi e ad amarsi; tentare di rispondere alla seguente domanda: sono un’anima libera o sono solo bloccata e quindi potrei essere diversa da quello che sono stata fino adesso? In effetti Antonia viveva la sua situazione esistenziale in modo tale da darsi poche possibilità di sperimentare altri comportamenti, pensieri ed emozioni. Per esempio, raccontava che quando andava, sola, a vedere e a sentire dei film (una sua passione sfrenata) si sentiva come se fosse giudicata dagli altri spettatori (“poverina è sola”; “non ha neanche un compagno o un amico”; “poverina è una donna sola e non ha nessuno, ecc.”). Quando invece si trovava a casa sua, non avvertiva sentimenti di solitudine e riportava di sentirsi libera. Ciò che la faceva soffrire era il possibile giudizio che le altre persone avrebbero potuto formulare sul suo conto. Ormai il problema era chiaro; si trattava allora di aiutare Antonia a lavorare su se stessa, sulle sue credenze, sui pensieri che le venivano in mente quando si sentiva sola e diversa, sui suoi agiti e sulle sue emozioni. A questo punto la psicosessuologa mi 86 disse che era giunto il momento di operare una ristrutturazione cognitiva riguardo allo schema “povera donna” che Antonia aveva di se stessa. Citò Ellis con la sua tecnica ABC e Beck con la sua tecnica della freccia discendente (la quale consiste nel partire dal pensiero automatico negativo che fa soffrire Antonia - sono una povera donna e diversa dalle altre - per arrivare allo schema profondo soggiacente e quindi farla riflettere su cosa comporta questo pensiero sulla sua persona e sulla sua vita e che cosa implica per lei, se esso fosse vero). Io ho suggerito di considerare quest’altro modo di lavorare, molto simile a quello presentato dalla collega: partire dal conflitto di cui ormai Antonia era cosciente; elencare le emozioni provate a causa di questo conflitto; soffermarsi sulle risposte comportamentali derivanti da tale conflitto e da tali emozioni; chiederle, a questo punto, se poteva sperimentare altri comportamenti più favorevoli per uscire dal conflitto e quindi di trovare altre modalità di risposta. Da parte mia ho inoltre notato come si potesse lavorare in termini fenomenologici mediante una descrizione genetica del suo problema: una volta appurato che il problema esiste in lei e una volta evidenziato il modo cognitivo, emotivo e comportamentale di darsi questo stesso problema, si sarebbe potuto adottare e indurre un atteggiamento in presa riflessa che portasse Antonia: - a superare la semplice constatazione che un problema esiste nel suo atteggiamento pratico naturale che caratterizza la sua vita quotidiana; - a interessarsi del suo problema non solo per darne un giudizio di valore (“sono una povera donna”, “sono diversa dalle altre”, “sarò sempre sola” ecc.); - a interessarsi del suo problema in quanto avente delle tipicità generali: il tema della libertà, della diversità e della solitudine sono temi su cui si sarebbe potuto iniziare un lavoro filosofico di indagine e di ricerca; - a dirsi come nella sua percezione del problema si annidino certi valori intenzionali, determinati significati e sensi circa il suo esistere nel mondo, che sono impliciti e che potrebbero essere la causa della sua sofferenza, del suo 87 sentirsi sola, del suo imbarazzo e della sua inadeguatezza. L’emersione di tali valori, significati e sensi, avrebbe aiutato Antonia a prendersi cura di sé: a coltivare la propria anima e la propria mente con l’utilizzo della ragione; a prendersi tempo per se stessa e per una sua maggiore conoscenza di sé; a diventare guardiana delle sue rappresentazioni false e portatrici di sofferenza e di dolore; a ritornare a se stessa per godere di sé. Mediante questa riflessione radicale e fenomenologica, Antonia avrebbe sperimentato il modo di costituirsi del suo problema, ma in una maniera diversa da quella provata fino a prima di questa riflessione: avrebbe cioè rifatto in modo nuovo tale esperienza, in un modo filosofico e di ricerca verso un visione di se stessa e del suo mondo più autentica e più consapevole. Avrebbe imparato a distanziarsi ai massimi livelli di astrazione rispetto alla problematica riportata e avrebbe con ciò creato le condizioni per trovare in se stessa le risorse per formulare giudizi e concetti più critici riguardo al suo sentirsi sola e diversa dalle altre donne, oltre che avrebbe imparato a scindere la difficoltà riportata dalla componente emotiva che l’accompagnava. Naturalmente la psicosessuologa non poteva iniziare un lavoro di ricerca e di saggezza di questo tipo, perché non ha una formazione filosofica e fenomenologica. Ciononostante abbiamo potuto notare come certe tecniche e determinati approcci, per quanto superficialmente siano diametralmente opposti, possano essere tuttavia avvicinati e possano essere utilizzati sinergicamente e in modo costruttivo per il benessere di Antonia. Abbiamo convenuto di procedere con tecniche cognitive (ABC e ristrutturazione), che come sappiamo affondano le loro radici nelle filosofie di Epitteto e di Socrate, riservandoci però di lasciare spazio all’indagine filosofica che Antonia poteva cominciare su se stessa e sulla sua esistenza. E di fatto alcune domande di natura filosofica Antonia ha cominciato a porsele proprio partendo dalla sua presa di coscienza rispetto alla sua paura di intessere relazioni serie o di non essere in grado di averle e circa la sua paura di lasciarsi andare verso un’esistenza più piena e più autentica. 88 Antonia ha continuato a vedere la collega per parecchi mesi. L’ultimo aggiornamento che ho avuto è che Antonia non soffre più di vaginismo; che vive in modo diverso la sua solitudine: essere sola non ha più il significato di essere “poverina”, bensì quello di essere libera e si sentirsi libera di progettare. L’avere affrontato il timore di una relazione e la paura del confronto con un uomo; l’aver preso di mira, al fine di risolverlo, il senso di inadeguatezza riguardo la sua inesperienza a livello di pratiche sessuali e di esperienze sentimentali durature e l’aver consapevolizzato il fatto di avere avuto tappe e tempi per lei non normali in merito al sesso e agli uomini; tutto ciò ha indotto Antonia a sentire il piacere di incontrare una persona con cui costruire qualcosa: non si sente più spaventata e nemmeno vittima di quell’ansia di trovare assolutamente qualcuno, si sente invece bene con se stessa e dice di avere imparato a volersi bene. 3.3 Marco ovvero la paura del fallimento del proprio progetto di vita La parola “morale” ha diversi significati: può rinviare a un insieme di valori e di regole d’azione che vengono proposti agli individui tramite istituti vari (famiglia, impresa, stato, chiesa, ecc.). In tal caso si parla di codice morale per indicare un insieme prescrittivo di regole e di valori che possono essere esplicitamente formulati oppure trasmessi informalmente da individui a individui. La parola in questione, però, può anche indicare il comportamento reale degli individui in rapporto al codice morale: in che modo essi si assoggettano a una regola di comportamento? Completamente o in parte? In quale modo essi obbediscono a un divieto o a una prescrizione? In quale modo vi si oppongono, se lo fanno? Come rispettano o misconoscono un insieme di valori? Se nella prima accezione la morale verte sullo studio dei codici morali, sulla loro origine e trasformazione, nonché sul loro passaggio tra generazioni e individui, nella seconda accezione, invece, la morale dovrebbe determinare come le persone si 89 comportino in relazione a un sistema prescrittivo (si parla qui anche di moralità dei comportamenti). A pagina 31 di “L’uso dei piaceri – Storia della sessualità 2”, M. Foucault scrive: «Ma non è tutto. Una cosa è, infatti, una regola di condotta; altro la condotta che si può commisurare a questa regola. Ma altro ancora il modo in cui un individuo deve “condursi” - vale a dire il modo in cui si deve costituire, deve costituire se stesso, come soggetto morale che agisce in relazione agli elementi prescrittivi che formano il codice. Dato un codice di azioni, e per un determinato tipo di azioni (che si possono definire in base al loro grado di conformità o di divergenza rispetto a quel codice), vi sono diversi modi di <<comportarsi>> moralmente, diversi modi, per l’individuo che agisce, di operare non semplicemente come agente, ma come soggetto morale di quell’azione. Sia dato un codice di prescrizioni sessuali che ingiungano ai due sposi una fedeltà coniugale rigida e simmetrica, unitamente a una costante volontà procreatrice; anche in ambito così rigoroso, vi saranno molti modi di praticare questa austerità, molti modi di essere fedeli». Secondo il filosofo francese, i modi con cui un soggetto diventa soggetto morale, e non semplice agente, poggiano su questi punti: Determinazione della sostanza etica Risponde alle domande: in quale modo l’individuo deve costituire questa o quell’altra parte di sé come materia principale della sua condotta morale? Su quali elementi l’individuo poggia la sua condotta morale? Per esempio, si può far poggiare la pratica della fedeltà coniugale sul rispetto dei divieti e degli obblighi negli atti che si compiono; oppure nella padronanza dei desideri e nella lotta contro le tentazioni; ma anche sull’intensità, continuità e 90 reciprocità dei sentimenti che si prova per il coniuge; o ancora nella qualità del rapporto che lega i due sposi. Modo di assoggettamento Risponde alla domanda: in quale modo l’individuo stabilisce il proprio rapporto nei confronti di quella regola e si riconosce legato all’obbligo di metterla in opera? Per esempio, si può praticare la fedeltà coniugale assoggettandosi al principio che la impone, perché ci si riconosce come appartenenti al gruppo sociale che l’accetta; oppure perché ci si considera eredi di una tradizione spirituale della cui sopravvivenza ci si crede responsabili; o ancora perché ci si vuole proporre come un modello da seguire; ma anche perché si vuole dare alla propria vita un indirizzo che risponda ai criteri di bellezza, nobiltà o perfezione. Elaborazione del lavoro etico Risponde alla domanda: in che modo l’individuo lavora su se stesso per rendere il proprio comportamento conforme a una regola data e per cercare di trasformare se stesso in un soggetto morale della propria condotta? Per esempio, si può praticare l’austerità sessuale mediante un lavoro di apprendimento, memoria e assimilazione di un insieme di precetti e attraverso un controllo regolare del comportamento per vedere quanto si applicano quelle regole; oppure nella forma di una rinuncia dei piaceri; o ancora nella forma di un conflitto in cui le peripezie possono avere un valore e un senso; infine attraverso una decifrazione del gioco del desiderio. Teleologia del soggetto morale Risponde alle domande: 91 un’azione diventa morale attraverso l’inserimento in quale campo di condotta e che posto ne occupa? L’azione considerata è elemento di quale condotta? Quale tappa segna nella sua durata e continuità? L’azione considerata, mediante il suo compimento, mira alla costituzione di quale condotta? Un’azione morale, infatti, porta l’individuo non solo a delle azioni sempre conformi a certi valori e a certe regole, ma anche a un certo modo di essere, caratteristico del soggetto morale. Per esempio, la fedeltà coniugale può rientrare nel campo di una condotta morale che mira a una padronanza di sé sempre più completa; oppure in una che vanta un distacco nei confronti del mondo; o ancora può tendere a una perfetta pace dell’animo o, di nuovo, a una purificazione che assicura la salvezza al di là della morte. Alla luce di tutto ciò, si è appreso che ogni azione morale implica almeno tre fattori: - un rapporto con il codice cui si riferisce (regole di condotta); - un rapporto con il reale in cui si compie (comportamento agito nei confronti del precetto), cioè con gli atti conformi o meno alla regola (condotta rispetto alle regole); - un rapporto con se stessi (come ci si conduce). Quest’ultimo, il modo in cui l’individuo si conduce, non è semplicemente coscienza di sé, ma soprattutto costituzione di sé come soggetto morale. In tale costituzione di sé, l’individuo definisce la propria posizione rispetto alla regola cui ubbidisce, si prefigge un certo modo di essere che vale come compimento morale di sé. Insomma, si tratta di un agire su se stessi grazie cui l’individuo comincia a conoscersi, a controllarsi, a mettersi alla prova, perfezionandosi e trasformandosi. 92 I modi di soggettivazione sono i modi in cui l’individuo è chiamato a costituirsi come soggetto morale: sono i modelli considerati per rapportarsi con il proprio sé, per la riflessione su di sé, per la propria conoscenza, interpretazione e trasformazione. Marco, in compagnia di sua moglie, si affidò alla psicosessuologa per via di un problema di eiaculazione precoce, ma anche e soprattutto perché, pur sentendo di volerle bene, si rendeva conto di essere nello stesso tempo innamorato di un’altra persona. Di qui anche la sua denuncia di calo di desiderio sessuale nei confronti della moglie. E il reciproco calo di desiderio da parte di sua moglie nei confronti di lui. Proveniente da una famiglia benestante, in possesso di un titolo di laurea importante e sposato con un donna colta, Marco ha due figli cui desidera il massimo bene possibile. Dopo un percorso di coppia durato circa 10 incontri, la psicosessuologa mi ha contattato per presentarmi il caso e per evidenziare la necessità di far intraprendere, ai due clienti, un percorso individuale. La situazione di confusione e lo stallo decisionale di Marco era infatti da ostacolo al proseguimento della terapia di coppia. Durante i colloqui con la psicosessuologa era emerso che l’eiaculazione precoce e il calo del desiderio erano fenomeni secondari rispetto a una situazione di crisi di coppia sorta a seguito della confessione da parte di Marco stesso nei confronti della moglie dell’esistenza di un’altra donna. Da quel momento Marco ha deciso, sulla base di un ventaglio di scelte che le sono state offerte dalla professionista, di proseguire il suo percorso individuale con me, counselor filosofico in formazione permanente. Durante il primo colloquio, Marco mi ha espresso chiaramente la sua domanda: “voglio essere aiutato a decidere cosa fare della mia vita: cosa giusto fare / cosa posso fare? Lasciare mia moglie e mettere in difficoltà la mia famiglia o rinunciare all’amore che provo per quest’altra donna? Nel primo caso è giusto comportarmi così? E nel secondo perché dovrei rinunciare a coltivare una nuova relazione con un donna che mi rende felice? Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a scegliere […]” 93 Marco è stato innanzitutto allertato da me che la scelta sarebbe stata solo sua, ma che, nello stesso tempo, avrebbe potuto trovare in me, come counselor filosofico, un aiuto per trovare in se stesso i valori e le risorse al fine di operare una scelta che fosse per lui la più idonea, in base alla sua visione del mondo (implicita o esplicita, già costituita o da costituire), alle sue credenze, ai suoi scopi esistenziali, ai suoi punti di riferimento, al suo singolare e irripetibile modo di affrontare le difficoltà che la vita le ha riservato. Tuttavia, per quello che ho potuto capire, Marco necessitava, prima ancora di andare a lavorare sulle scelte, di essere compreso nel suo dilemma e nella sua sofferenza. Non solo ha trascorso buona parte dell’incontro a piangere, ma ha pure riferito: “Sollecito di continuo i miei figli a trovare in se stessi la forza per far fronte alle difficoltà e di sentire dentro di sé quello che vogliono fare veramente nella vita, e poi sono io il primo a non capire quello che sento e ciò che voglio. Insomma, non mi conosco eppure consiglio ai miei figli d’imparare a conoscersi per affrontare le difficoltà”. Per usare una metafora che ho potuto apprendere dal professor Ezio Risatti, si trattava, dal mio modesto punto di vista, di rimuovere quel masso che non permetteva alla sorgente di sgorgare: non avrei potuto aiutare Marco a compiere delle scelte che lo facessero diventare un soggetto moralmente responsabile, indipendentemente dalla scelta compiuta, se prima non avessi aiutato Marco a togliere quel tappo che gli impediva di andare a vedere in se stesso le risorse di cui si faceva portatrice. Risorse, queste, che l’avrebbero aiutato a compiere la sua scelta. Marco si sentiva confuso: il corpo sembrava dirgli di andare dalla persona che amava; la ragione di non buttare via anni d’investimento sulla sua famiglia e sulla sua vita; gli amici e i famigliari gli consigliavano le cose più disparate. Non amava più sua moglie, ma non poteva lasciarla nella disperazione. E tutto questo era presente in Marco senza che si rendesse conto fino in fondo da dove venissero tutti quei messaggi, quelle emozioni e rappresentazioni e quei pensieri che tanto lo facevano soffrire. 94 Mettere ordine in questo caos di pensieri, percezioni, emozioni, rappresentazioni e sentimenti, mi sembrava essere la prima cosa da fare. Ciò è stato fatto, durante il secondo incontro, chiedendo al consultante di esercitarsi a casa a incolonnare, su un foglio bianco, cosa il suo corpo, la sua sensibilità, la sua intelligenza, l’ambiente ecc., gli dicevano quando si trovava in una situazione di stato d’animo conflittuale e in una situazione di tendenza all’azione ancora poco ponderata (per esempio, quando pensava di lasciare tutta la sua famiglia per trasferirsi dalla nuova amante; o quando invece avrebbe voluto dimenticarla per dedicarsi solo ed esclusivamente alla sua famiglia). È noto come la nostra epoca sia caratterizzata da un analfabetismo di ritorno in merito alle nostre emozioni, ai nostri desideri e ai rapporti che questi instaurano con le nostre credenze e i nostri pensieri. Sapere identificare le emozioni e i sentimenti, imparare a regolarli, gestirli, esprimerli correttamente e valutarli, non solo è preventivo rispetto a certi disturbi d’ansia, ma può portare il soggetto a togliere quel masso che ostruisce alla sorgente dei suoi valori e delle sue risorse di zampillare fluidamente. E in effetti Marco era esistenzialmente angosciato: quello che avvertiva corporalmente confliggeva con quanto la sua mente gli portava a pensare e da questo conflitto non sapeva uscire, si sentiva paralizzato. Come ha ben delineato M. Torre (Torre, 1982), l’angoscia è il principale sentimento rivelatore di situazioni determinanti per l’esistenza e lo strumento concettuale alla base dell’esistenza umana. Le cause possono essere: - insufficienza esistenziale (incapacità di cogliere gli aspetti positivi degli avvenimenti nel mondo e di stabilire rapporti intersoggettivi validi; inadeguatezza dell’interazione tra affettività e pensiero nella valutazione della situazione;esitazione nel vivere la situazione reale e di fronte alle scelte fondamentali; insufficiente resistenza di fronte alle frustrazioni); - confronto con la morte; 95 - assenza di valori e significati; - isolamento. L’angoscia è anche strettamente legata al progetto esistenziale, inteso come globale anticipazione delle possibilità di ciò che l’uomo vuol fare di se stesso nel mondo. In connessione al progetto esistenziale, le cause dell’angoscia possono essere così elencate: - assenza di progetto esistenziale; - nullificazione del progetto esistenziale; - previsione della nullificazione del progetto esistenziale; - oggettivazione nel rapporto Io-Alter; - situazioni di scelta o conflitto irrisolte. Senza fare di questo insegnamento un modello rigido da seguire (è noto nella letteratura come il counselor filosofico non si allinei incondizionatamente a un metodo o a una tecnica ma cerchi di farsi guidare dall’esperienza e dai vissuti riportati dal consultante), è però da rilevare come Marco fosse esistenzialmente angosciato per la sua incapacità di vivere autenticamente la scelta importante che doveva effettuare e come fosse inadeguato a gestire il rapporto mente-corpo. Nonché è da rilevare la sua paura connessa al fallimento del suo progetto di vita. Ma vediamo tutto ciò con le sue stesse parole. Al colloquio successivo, Marco riportò per iscritto quanto segue quando parlava della persona che sentiva di amare in quel momento e quando aveva una tendenza all’azione del tipo “voglio vederla, voglio stare con lei, ecc.”: Corpo “Vorrei poter continuare serenamente ad adempiere i miei impegni con i nostri figli e con mia moglie, ma non l’amore, non il sesso. Quello adesso va solo con questa donna che sto frequentando”. 96 “Quando la bacio, il mio corpo sente una bellissima brezza che entra. Non caldo pesante. Aria fresca leggera che entra. Mi sento rilassato e rigenerato. Mi sento felice nel mio intimo profondo”. Sensibilità “Che entusiasmo e splendore. Da quanto non avvertivo queste sensazioni! Io voglio star bene coi miei sensi, cosa che non riesco più a fare e a trovare con mia moglie”. “Quando sono con lei non mi proibisco niente. Tutto è concesso. Sento benessere, senso di libertà: non nella mente, ma nel corpo”. Intelligenza “ io voglio vivere con lei, mi sono innamorato una seconda volta nella mia vita. E’ un momento di attesa questo. Ma che male che mi fa!” “Io sto cercando di capire cosa posso fare e evitare casini o situazioni tragiche!” “Ma come posso accettare che il mio matrimonio finisca? E i miei due figli? Come posso educarli se non c’è accanto a me loro madre?”. Realtà profonda (valori della persona, sua coscienza) “mi sento una bussola impazzita; una nave che continua a cambiare rotta. È giusto lasciare mia moglie per il fatto che fisicamente non la desidero più? Dopo tutto ci rispettiamo e ci aiutiamo. Nel profondo della mia anima credo dovrei restare, rinunciando anche al sesso e al desiderio di avere un’altra donna” “Non credo che supererò mai questo problema. È un problema senza soluzione” 97 Quando invece rifletteva su se stesso in merito ad azioni che riguardavano sua moglie (fare l’amore con lei, rinnamorarsi, lasciarla ecc.), Marco riportò quanto segue: Corpo “Faccio l’amore per bisogno biologico. Ma non provo emozioni come invece mi accade con l’altra donna. E poi adesso c’è pure questo problema di eiaculazione precoce. Non avrei mai pensato che nella mia vita potesse accadermi una cosa del genere”. “Chiusura dello stomaco. Brivido di freddo. Difficoltà a deglutire”. Sensibilità “Disgusto, noia. Tristezza. Sento i miei sensi spenti, anestetizzati” “Con mia moglie i sensi si sono spenti: non la sopporto più. Quanto vorrei darle un calcio nel sedere a volte, con le sue insistenze e le varie seccature” Intelligenza “Il non poter andare con la mia nuova amante mi fa sentire male. Ma come posso lasciare i miei figli? E se poi mia moglie si vuole vendicare in qualche maniera?”. “Non è giusto continuare la relazione con mia moglie se questa non è sostenuto dal mio desiderio”. Realtà profonda “Sono credente e sento la mia morale a terra, distrutta” 98 “Come posso lasciare mia moglie? E se poi da sola non ce la fa? Inoltre: non riesco ad accettare di aver sposato una donna con cui non voglio dividere la mia vita”. Questi brevi stralci dei periodi formulati dal consultante a seguito dell’esercizio datogli, testimoniano quanto Marco fosse confuso su come operare la sua scelta. Tuttavia l’esercizio l’ha portato a concettualizzare in questo modo il suo problema: non esiste solo il corpo e questo, spesso, confligge con le altre parti di noi. Marco si rendeva conto di ciò, dopo i primi colloqui in modo più chiaro di prima; sentiva anche il bisogno di indagare più in profondità le altre parti di sé e il senso del suo vivere. In ogni caso, di una cosa era consapevole, nonostante la sua confusione e le sue contraddizioni: che tutte quelle parti di lui erano appunto parti e che avrebbero costituito un’immagine finale in funzione del modo in cui le avrebbe combinate. La sua scelta dipendeva anche da questo. Tuttavia, egli manifestava il bisogno di indagare anche razionalmente il rapporto tra amore e desiderio, da una parte, e tra amore e idealizzazione, dall’altra. Il primo perché non avvertiva più desiderio sessuale nei confronti di suo moglie, donna con la quale ha avuto due figli; il secondo perché la sua amante attualmente abita lontano da lui e l’ha frequentata veramente poco (per quanto intensamente), sebbene la conosca dagli anni del suo primo lavoro e abbia avuto dei contatti telefonici di tanto in tanto. Sentendolo parlare e leggere quanto ha scritto in base a degli esercizi datogli, mi sono venuti in mente due capitoli del testo “Le cose dell’amore”, di Umberto Galimberti (si voglia considerare questo testo come riferimento e strumento per la pratica filosofica), che appunto s’intitolano “Amore e desiderio - le avventure del desiderio e il richiamo della casa” e “Amore e idealizzazione - la forza dell’idealizzazione e l’insano realismo”. Ho dunque pensato di utilizzarli come testi stimolo da cui iniziare un lavoro filosofico in merito a quei rapporti. Contemporaneamente a ciò, aiutavo Marco a scoprire in se stesso le risorse e i valori a lui più intimi che l’avrebbe aiutato a compiere la sua scelta, attraverso semplici esercizi da svolgere a casa. L’obiettivo concordato fu quello di farsì che Marco si costituisse come un soggetto morale 99 responsabile della sua scelta, indipendentemente da quella che avrebbe optato. Solo così egli avrebbe potuto raggiungere una situazione in cui poter dire di sentirsi bene, nonostante i dolori e i sacrifici che ogni scelta voluta poteva comportare. In “Amore e desiderio - le avventure del desiderio e il richiamo della casa”, Galimberti sostiene che la parola “amore” sottende tensioni di forze che minano le nostre vicende emozionali: da una parte il desiderio e dall’altra il richiamo della casa; per un verso il bisogno di trascendenza e per l’altro il terrore di perdere protezione. Se l’amore vive di novità, di mistero e di pericolo, ha però come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Anche se non è il tempo in sé a degradare l’amore, bensì noi a fare di tutto per degradarlo. Infatti, l’amore senza desiderio garantisce sicurezza, tenerezza e intimità, ma non prevede l’avventura e il rischio che alimentano la passione. Se l’amore vuole costruzione e stabilità, il desiderio invece non sa cosa vuole, è un movimento verso un punto di perdita, è un gioco senza regole, perché nel gioco del desiderio le regole non rispondono a un calcolo. Il desiderio agogna avventura: l’uomo è per sua natura sempre proteso oltre di sé, in una dimensione di trascendenza di ciò che ci è dato semplicemente. Ma come si può conciliare il bisogno di sicurezza e il desiderio di avventura? La risposta di Galimberti è la seguente: «… per avventurarsi bisogna partire da un luogo che mi dia il senso del “da dove vengo”, “a cosa appartengo” e magari un giorno “dove desidero tornare”[…] Oltre l’avventura noi cerchiamo la continuità e l’identità per ancorarci […] Per questo diciamo che non sono la quotidianità, la familiarità, l’abitudine a estinguere nella casa la passione amorosa, ma siamo noi a usare la quotidianità, la familiarità e l’abitudine per estinguere nella casa la passione amorosa, allo scopo di difendere il nostro nido dal rischio destabilizzante dell’avventura, che potrebbe sottrarci la sicurezza e l’accoglienza di cui, al pari dell’avventura, abbiamo un assoluto bisogno» (Galimberti, pp. 68-69, 2004). 100 E per rispondere alla domanda di prima: «Una strada ci sarebbe, ed è quella di accorgersi e di accettare il cambiamento continuo a cui ogni abitante della casa va soggetto nel corso della sua vita giorno dopo giorno. Un cambiamento che riconfigura la quotidianità, sbilancia la familiarità, infrange le abitudini, rende insolito e nuovo il tempo […] Non è che la prevedibilità, la conoscibilità, la quotidianità, l’abitudine sono i prodotti della nostra disattenzione all’altro, o addirittura strumenti che noi usiamo per spegnere la curiosità e la passione, che sono gli ingredienti del desiderio, allo scopo di garantire la sicurezza?» (ivi). Questi erano i brani che avrei portato al prossimo colloquio con il consultante, appunto per iniziare con lui a ragionare filosoficamente sul rapporto desiderio e amore e, poi, se avesse voluto, su quello di amore e idealizzazione. Lo scopo era di portare Marco a riflettere sul senso profondo della sua sessualità, in quanto parte non avulsa dai suoi valori, dalle sue credenze, dai principi e dai suoi progetti esistenziali. Dei due brani vagliati, Marco scelse di cominciare con quello che investiga il rapporto desiderio/amore. Durante il colloquio successivo, dopo aver ascoltato quanto il consultante aveva da riportarmi in merito all’evoluzione dei rapporti con sua moglie e intorno al suo percorso personale, proposi allo stesso di leggere con me quel testo stimolo, di farmi domande se ne avvertiva il bisogno e di ritornare a rileggerlo a casa con calma, cercando di riflettere su come Galimberti propone una via di uscita al dilemma desiderio/amore. Il compito assegnatole è stato precisamente: “Confrontarsi col testo stimolo per vedere, dall’esterno rispetto alla situazione che sto vivendo, se può dare indicazioni da poter calare nel mio contesto. Posso imparare qualcosa di nuovo?” 101 All’incontro successivo, Marco si presentò con due fogli in cui riassumeva l’esercizio datogli. Lessi con molta attenzione quanto da lui scritto e ammisi a me stesso che di lavoro su di sé Marco ne stava facendo tanto e bene. Alcuni temi, però, pensai di affrontare con lui; temi, questi, che ho notato essere presenti nel suo scritto e che ritenevo importante esplorare. Li riassumo sinteticamente, sarebbe stato poi lui stesso a sceglierli: “1) Marco non si sentiva dis-onesto o in colpa o sporco o altro ancora di questa sorta per aver tradito sua moglie. Egli riportava come il tradimento sia normale è fin troppo evidente nella società di oggi. Ma questa normalità come lo fa sentire? Gli chiesi se voleva approfondire questa direttrice; 2) Marco riconosceva l’impossibilità di seguire una terza via: o sua moglie o l’amante. Tutte due insieme lo avrebbero distrutto e non avrebbe nemmeno voluto considerarlo con sua moglie. Sua moglie avrebbe potuto anche aspettare la sua decisione, ma egli non poteva non considerare l'ipotesi che avrebbe potuto anche lei fare delle scelte durante questa attesa, per quanto non aveva alcun intenzione di lasciare il marito .Non volevo spingere Marco a una scelta affrettata, ma autentica e soprattutto sua; ciononostante, volevo metterlo di fronte al fatto che altre persone dipendevano da lui e che potevano soffrire almeno quanto lui stesso. 3) riguardo al tema dell'avventura suggerito dal testo stimolo, ho condiviso con Marco che questa può esserci in casa per uno o entrambi i partner, ma non può far rinascere il desiderio e la passione se non è con-divisa e co-sentita; 4) il problema riportato da Marco era il venuto meno desiderio nei confronti della moglie. Proposi di lavorare con me su un chiarimento concettuale e filosofico intorno al concetto di desiderio, nella speranza o nella non speranza che potesse rinascere con sua moglie. Nell’incontro successivo il consultante, rispetto a tutti questi temi su cui si sarebbe potuto lavorare, espresse il desiderio di soffermarsi sul problema delle vie da seguire 102 e quindi sulla questione della scelta. Egli ribadì la sua convinzione che una preferenza avrebbe dovuta averla. Io le dissi che accanto alle due possibilità, da un punto di vista logico non si poteva escludere anche la scelta di non scegliere e le feci presente come il filosofo Kierkegaard si fosse molto soffermato sul rapporto tra vita estetica e vita etica. Convenimmo di ragionare sui valori e sulle mete che avrebbe conseguito in funzione di quello che avrebbe optato. Gli suggerii il seguente esercizio: pensare alla sua vita con suo moglie e la sua attuale famiglia; disegnare un cerchio al centro del quale avrebbe scritto le mete che avrebbe raggiunto con la sua famiglia, quelle da lui ritenute più importanti (quindi rispondere alla domanda: quali mete e scopi io raggiungo se continuo a stare con la mia famiglia?) Man mano che le mete diventavano meno importanti, gli dissi di scriverle sempre più lontano dal centro. Siccome le mete potrebbero essere molteplici e alcune di queste potrebbero essere positive mentre altre negative (cioè non raggiungibili in questo contesto), gli dissi anche di ragionare in merito alle sue motivazioni che lo spingevano a raggiungere una meta, se questa era considerata positiva, o a escluderla se la meta fosse stata considerata negativa. In quest’ultimo caso gli disse di scriverle al di fuori del cerchio. Alla fine gli dissi di rispondere a queste domande: riguardandoti tutto quello che hai scritto, cosa ho capito di meglio o di nuovo rispetto alla mia famiglia? Quali mete e realtà mi danno maggior piacere e gioia? Quali mete dipendono da me? Come posso coltivarle e raggiungerle? In modo analogo, gli dissi di pensare la sua vita con l’ amante e una nuova ipotetica famiglia con lei; di disegnare un cerchio al centro del quale avrebbe scritto le mete che avrebbe raggiunto in questa situazione e di mettere al centro quello più importanti, per allontanarsi da esso via via che le mete diventavano meno rilevanti fino a disegnare fuori dal cerchio le mete negative, ossia quelle che non avrebbe raggiunto se avesse fatto la scelta di stare con lei. Come per il primo cerchio, gli dissi di rispondere alle seguenti domande: riguardandoti tutto quello che hai scritto, cosa ho capito di meglio o di nuovo rispetto a questa situazione? Quali mete e realtà mi danno maggior piacere e gioia? Quali mete dipendono da me? Come posso coltivarle e raggiungerle? 103 Per concludere il compito gli dissi infine di confrontare i due cerchi e le risposte date alle domande inerenti i due cerchi e di riportarmele al successivo incontro. Dopo due settimane circa da quest’ultimo incontro, Marco mi informò che sarebbe andato via per un viaggio di lavoro e che ci saremmo visti dopo due settimana circa. E così andò. Al suo ritorno non mi riportò il compito assegnatogli e mi comunicò che non aveva più intenzione di proseguire il percorso di counseling filosofico per alcune ragioni che mi avrebbe scritto tramite mail e che di seguito riporto: “… Claudio il percorso fatto con te mi ha fatto molto bene. Non sono venuto da te per arrivare dove sono arrivato. Va bene lo stesso. La mia scelta e' in linea con me stesso. Quella che sapevo di essere e quel pezzettino che non sapevo di essere. Ci sta. La mia scelta e' in linea con me stesso. E' quello a cui volevo arrivare. Ne sono felice, anche se sofferente. … Ho fatto pace con me stesso, almeno questa e' la sensazione che ho. Fa tutto ancora un gran male, ma non mi aspettavo altrimenti. So che posso sorridere sempre. E questa e' una gran forza. …” Prima di congedarsi, si mostrò tuttavia interessato al metodo da me utilizzato. Avevo dentro la mia borsa di lavoro una copia del libro “Platone è meglio del Prozac” di Marinoff; pensai quindi di prestarlo a lui e di farmelo restituire quando ne avrebbe avuto voglia. Dopo alcune settimane mi arrivò la sua seguente mail: 104 “… sto leggendo il tuo libro … Dopo una prima lettura bramosa delle cose che pensavo mi interessassero, lo sto leggendo tutto, pagina dopo pagina, scoprendo delle cose di me e di come affrontarmi. Oggi, dopo una buona lettura serale di tante pagine (molto sano ogni tanto invece che lavorare sempre) mi sembra di avere una lucida visione di me e della mia vita. Del senso. Dei mezzi che ho. Domani si offuscherà, non ne dubito,ma so che oggi ho fatto un altro passo avanti. Mi fa bene camminare da solo ora, dopo un primo aiuto tuo. Mi hai aiutato a mettere le basi per una strada da percorrere. La sto percorrendo. E ne sono molto felice e orgoglioso. Un grande saluto, Marco” Dopo alcuni mesi Marco mi ricontattò per restituirmi il libro. Da quel giorno non ho più avuto sue notizie. Questo caso mostra come un counselor filosofico possa essere di aiuto fondamentale in uno studio di psicosessuologia, quando il sessuologo clinico si trova di fronte a problemi della coppia che richiedono anche un intervento con un singolo membro per chiarire il mondo valoriale ed etico di quest’ultimo. Con Marco, infatti, il lavoro si è concentrato sulla possibilità di mettere lo stesso consultante nella condizione di chiarire a se stesso e di meglio rendersi consapevole dei valori, delle mete e degli scopi che accompagnano la sua esistenza. Tal relazione di chiarificazione e di consapevolizzazione ha portato Marco dove l’ha portato, ma in un modo più autentico e più responsabile, indipendentemente dall’etica e dai principi morali che Marco ha deciso di far suoi. 105 3.4 Valentina ovvero il desiderio di un rinnovato progetto esistenziale Valentina è una donna di 55 anni, separata da circa 30 anni, ha tre figlie sposate, due nipotine, un nipotino e un figlio. Tutti quanti i figli li ha avuti con il suo ex marito. Prima della separazione possedeva un negozio che gestiva con l’allora suo marito e che riuscirono aprire grazie a una somma di denaro risparmiata. A causa del comportamento del suo ex compagno, a suo dire spendaccione e poco impegnato a portare avanti l’attività commerciale, i due dovettero chiudere l’azienda. Da allora Valentina ha cambiato diversi lavori e da circa 13 anni è impiegata come ausiliaria socio assistenziale presso una Residenza Sanitaria Assistenziale per persone anziane parzialmente autosufficienti o non autosufficienti. Per motivi professionali ho potuto conoscere Valentina la quale, avendo saputo che mi occupo anche di counseling filosofico, espresse la sua volontà di raccontarmi il suo malessere. Di qui è iniziato un breve percorso ma intenso che ha portato la consultante a realizzare scelte fondamentali per la sua esistenza. I primi colloqui hanno visto me in una posizione di ascolto del messaggio che Valentina voleva esprimere e condividere. Cominciò raccontando la sua vita, le sue storie d’amore con altri uomini incontrati dopo la separazione e il suo bisogno di frequentare soprattutto persone più giovani di lei, in quanto, così disse,“mi sento uno spirito libero, che non vuole attaccarsi a nessuno e che non vuole dipendere da altri”. Nel raccontare ciò non avvertii in me emozioni di gioia o di felicità, colsi invece una certa amarezza che tuttavia non riuscivo a presentificarmi completamente. Cominciai a domandarmi cosa volesse comunicarmi e in quale modo; mi vennero in mente alcune ipotesi. Lasciai però da parte queste mie sensazioni e illazioni riservandomi di rivederle e al limite pensarle in altri momenti, estranei ai colloqui con Valentina. Come la fenomenologia ci ha insegnato, dobbiamo, in quanto professionisti di una relazione di aiuto, operare su di noi la cosiddetta epochè, pur consapevoli che una sospensione delle nostre credenze e dei nostri pregiudizi da un punto di vista teorico e pratico non è possibile raggiungere in modo totale e perfetto. K. Jaspers scrisse che: 106 «Dobbiamo lasciare da parte tutte le teorie che sono giunte fino a noi, tutte le costruzioni psicologiche, tutte le pure interpretazioni e i giudizi, e dobbiamo interessarci solo a ciò che possiamo comprendere, distinguere e descrivere nella sua vera esistenza […] E questa impostazione fenomenologica è uno sforzo continuo, è una proprietà che si deve acquisire superando sempre nuovi pregiudizi» (Jaspers, pag. 59, 1982). A suo dire, la fenomenologia ha il compito precipuo di rendere presenti ed evidenti gli stati d’animo e i vissuti che le persone realmente vivono in modo tale che possiamo osservarli nei loro rapporti, nonché distinguerli e delimitarli. «Dato che non possiamo mai percepire direttamente gli stati psichici degli altri come il loro stato fisico, si tratterà sempre e soltanto di un’attualizzazione, di una partecipazione affettiva (Einfühlung), di una comprensione» (ivi). Questo significa che dobbiamo cercare di presentarci in modo vivo ciò che avviene veramente nella mente del consultante per comprendere quanto ha veramente vissuto, con quali emozioni e quali sentimenti, al di là delle nostre pregiudizievoli idee o interpretazioni. Valentina continuò il suo racconto dicendo che stare sola, nel senso di non intrattenere legami sentimentali seri e continui con un uomo, la faceva stare bene e la faceva sentire viva, “mettendomi sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e di non noioso”. Durante il primo incontro le chiesi allora il motivo per cui decise di venire da me per parlare di se stessa ed ella ripose letteralmente così: “In questi ultimi mesi non sto bene. Mi sveglio alla mattina con un senso di nausea: è come se mi venisse da vomitare ma poi non riesco e tossisco fortemente; non ho voglia di vedere nessuno e solo l’idea di andare in giro in cerca di avventure mi fa stare male. Non mi riconosco più!”. Le chiesi se si fosse rivolta a un medico e lei mi rispose affermativamente e che tuttavia le consigliò solo di prendere un po’di ferie perché da un punto di vista organico non risultavano problemi evidenti. Le disse che era stanca e che aveva 107 bisogno di risposare .Il professionista aveva escluso psicopatologie come disturbi di ansia o dell’umore. A tal proposito, per scrupolo chiesi un consulto alla psicosessuologa, che mi rassicurò in tal senso affermando che, sulla base del mio racconto, non intravedeva un quadro di depressione clinica rilevante. Mi consigliò a ogni modo di confrontarmi con lei al riguardo e anche successivamente per eventuali invii. Di fronte a un malessere esistenziale, lo spiegare non sempre funziona. Come ci ha insegnato W. Dilthey (Dilthey, 1973), spiegare un fenomeno significa ricondurlo alla causa materiale che lo ha determinato. Per esempio, se si hanno conati di vomito e si hanno vissuti di tristezza e di senso di solitudine, occorre ricondurre questo stato mentale a un fattore extrapsichico, che ne so a un cibo avariato o a un trauma subito. In questo senso, la spiegazione avviene sempre dall’esterno, in quanto collega un fatto extrapsichico, mediante una relazione causale, con uno stato mentale. La comprensione è invece altra cosa dalla spiegazione: essa è una conoscenza che viene dall’interno. Da un punto di vista fenomenologico, comprendere geneticamente un problema vuol dire portare alla luce i fattori impliciti e sostanziali che ne hanno permesso la costruzione. In una frase: rendere conscio l’abituale e i pensieri impliciti per poi, ma solo in un secondo momento, rendere abituale il conscio, i pensieri razionali che meglio ci fanno stare. I vissuti esistenziali del consultante, inoltre, si offrono alla nostra comprensione mediante l’empatia. Questa partecipazione affettiva ai vissuti dell’altra persona si caratterizza in senso fenomenologico solo se implica una messa tra parentesi di ogni nostra ipotesi preliminare, di ogni nostra precomprensione e ogni nostro pre-giudizio. Il compito del counselor filosofico è pertanto quello di creare le condizioni che permettano al vissuto del consultante di manifestarsi per quello che è; e il counselor filosofico può raggiungere ciò sforzandosi di sgomberare dalla propria mente ogni sua teoria pregiudiziale e ogni preoccupazione interpretativa. 108 Forte di questi strumenti, continuai ad ascoltare attivamente il racconto di Valentina, la quale arrivò a confidare quanto segue: “Sai qual è il punto,? È che non ce la faccio più con questo lavoro. Ne ho le scatole piene: le colleghe straparlano e ti fanno la doppia faccia; quando ci sono problemi sono tutte carine con te mentre quando occorre affrontare le difficoltà mettendoci la faccia, voltano le spalle o fingono di non avere alcuna difficoltà. Voglio fare altro … se potessi aprire un’attività tutta mia” A questo punto del colloquio provai a riformulare a Valentina quanto aveva raccontato con queste parole: “Mi sembra di aver capito, ma correggimi se sbaglio, che la tua vita sentimentale e relazionale improntata sul senso della libertà non è tanto un problema per te; tuttavia, da qualche tempo a questa parte, la tua visione e i tuoi vissuti riguardo alla sessualità e agli uomini sono cambiati. Il tuo modo attuale di vivere la sessualità e le relazioni è come se ti stesse indicando un malessere che però riguarda qualcos’altro: questo tuo stato d’animo ha in qualche modo a che fare con il lavoro e con il rapporto con le colleghe”. Ella confermò quanto le riformulai e integrò il mio riassunto dicendo che al mattino, appena si sveglia, il solo pensiero di andare a lavorare l’agitava e le faceva chiudere lo stomaco. Disse pure che questo malessere l’accompagnava anche durante la giornata e che riusciva a distaccarsi e a sollevarsi solo nel tardo pomeriggio, quando ormai giunta a casa e tutta presa dalle faccende domestiche, la mente si liberava. Alla sera tuttavia si sentiva esausta e non avvertiva più la voglia di socializzare con alcuna persona. Congedai Valentina da questo primo colloquio presentandole e condividendo un compito che avrebbe potuto fare a casa e che mi avrebbe riportato all’incontro successivo, se ne avesse voluto. Le chiesi semplicemente di mettere per iscritto in una lista i pensieri che le venivano in mente quando si concentrava sul lavoro in generale 109 o su alcuni specifici episodi lavorativi e per ogni pensiero di rispondere alla seguente domanda: come mi sento e quali emozioni avverto? L’incontro successivo partì da dove lasciammo il primo. Valentina portò un foglio di carta sul quale scrisse alcuni pensieri e, a fianco di questi, come si sentiva: “1. Questo lavoro non mi piace più e non mi dà più quello che sentivo all’inizio. Emozioni e sentimenti: disgusto, stanchezza, rabbia verso il lavoro; 2. Le colleghe sono false. Quando S. mi si rivolge con quella bella faccia innocente e poi scopro che me ne ha dette dietro di tutti i colori mi viene voglia di cantargliele quattro. Emozioni e sentimenti: rabbia nei loro confronti, senso di vendetta, voglia di prenderle in faccia e dire loro quello che penso veramente del loro comportamento; 3. Con questo lavoro non vedo un futuro. Emozioni e sentimenti: paura, preoccupazione. 4. Ho sentito dire che dalle mie parti vendono un attività. Potrei ritirarla e lavorarci con le mie figlie. Emozioni e sentimenti: gioia, preoccupazione, timore, mi sento come per rinascere ma se poi non ce la faccio e fallisce tutto?” Presi spunto dall’esercizio per mettere Valentina nella condizione di dire meglio a se stessa come si sentiva di fronte a tali pensieri. Le chiesi nello specifico come il suo corpo reagiva di fronte a essi e quali comportamenti metteva in atto quando la sua mente era assorbita da quelle ruminazioni. La consultante rispose che da diverso tempo aveva perso l’appetito, che aveva aumentato il consumo di sigarette e che la notte faticava ad addormentarsi. Disse anche che non riusciva a fingere con le colleghe, nel senso che non poteva far finta di niente di fronte alla loro falsità. Questo però la faceva sentire nervosa e arrabbiata tutto il giorno. Riportò altresì la sua preoccupazione in merito al suo desiderio di cambiare vita, di pensare di fare altro e di aver perso un poco la bussola. Nello specifico confidò di non riconoscersi più, di aver perso se stessa e di non capire più chi fosse. 110 Da una parte ragionai con Valentina circa il suo sentirsi male quando spendeva le sue energie in quei pensieri e le chiesi se poteva pensare ad altri comportamenti e azioni da mettere in atto per dare sollievo alle sue preoccupazioni. Lei rispose che non ci aveva mai pensato perché le venivano così, naturalmente, e che non riusciva facilmente a scacciarle e ad allontanarli. Ciò mi permise di farle fare, durante il secondo colloquio, l’esercizio di Epitteto sulla differenza tra ciò che dipende da noi e ciò che invece non è in nostro potere cambiare. Come è noto, Epitteto affermò che non sono tanto i fatti che alimentano le nostre preoccupazioni, quanto i pensieri che rivolgiamo ai fatti. Imparò a riconoscere che certe relazioni con le colleghe sono statiche e poco modificabili, ma che avrebbe potuto dare un peso diverso a quei legami; si disse che poteva decidere se cambiare lavoro o se continuare a lavorare in quello o ancora se tenersi quest’ultimo con un’altra modalità, magari part-time e intanto informarsi su quell’attività che era in vendita. Riconobbe che queste cose dipendevano da lei, come anche il suo modo di reagire ai comportamenti delle colleghe che per lei non era corretti, sebbene continuasse ad affermare che non era giusto lasciare cadere nel vuoto i loro sgarbi; si disse pure che non era in suo potere la possibilità di cambiare il gruppo di lavoro e le relazioni in essere in esso, per quanto le sarebbe piaciuto molto poterlo fare. Dall’altra parte cercai di distanziare Valentina dalle sue emozioni per lei fonte di malessere facendole delle domande maieutiche intorno agli ultimi pensieri che riportò prima dell’esercizio di Epitteto: Che cosa puoi pensare di fisso di te stessa e che non è assolutamente modificabile? Cosa puoi pensare di te stessa che è cambiato negli ultimi cinque anni? Cosa pensi cambierà di te nei prossimi cinque anni? Quando vale la pena domandarsi “chi sono”? Ebbene, di fronte a queste domande (ispirate a me dalla filosofia di Eraclito e di Socrate), Valentina mi interruppe proprio con l’ultima dicendomi che il punto era 111 proprio questo: “non so capire cosa desidero veramente fare di me stessa e cosa voglio veramente dalla mia vita”. Congedai la consultante dal secondo colloquio invitandola a prendersi del tempo per sé, durante la giornata o alla sera, per soffermarsi su quelle questioni e capire da se stessa dove voleva andare. Le chiesi di riflettere, prima di coricarsi, sulle sue diverse azioni compiute durante la giornata, di lavoro e non, e di chiedersi se l’hanno fatta sentire bene; se sono congruenti ai suoi desideri più profondi; se conosce tali desideri e nel caso negativo di provare a pensare alle difficoltà che incontra quando cerca di rendersene consapevole. Durante il terzo incontro, avvenuto dopo quindici giorni dal secondo, vidi Valentina meno preoccupata e fin dalle prime battute mi informò che andò dal suo commercialista per capire alcune cose riguardanti gli atti di vendita e che prese informazioni dalla sua banca in merito ad alcune finanziarie per sostenere attività commerciali. Dentro di me mi domandai se non fosse troppo prematuro da parte sua agire in quel modo, ma sospesi i miei giudizi e mi feci guidare dalle sue esperienze e narrazioni. Mi disse la sua preoccupazione e il suo timore nell’avventurarsi verso un nuovo lavoro. Si fermò a riflettere con me se non fosse meglio il caso di ridurre il lavoro attuale senza abbandonarlo completamente perché comunque una fonte di reddito certa l’aveva con esso. Annuii e restituii che questa soluzione poteva essere una cosa saggia. Tuttavia riportava ancora che al mattino, appena sveglia, le veniva da vomitare e che si sentiva angosciata. Da una parte si sentiva entusiasta per la possibilità concreta di iniziare una nuova attività, dall’altra il suo stesso corpo le diceva che qualcosa l’affannava. Negli ultimi anni il suo corpo era cambiato: intuii, per quanto Valentina non lo dichiarò esplicitamente, che la sua età fertile era da qualche tempo non remoto terminata. Mi informai poco dopo il colloquio dalla psicosessuologa in merito alle conseguenze psicologiche derivanti dalla menopausa e afferrai che, essendo questo un momento critico, può talvolta essere accompagnato da un calo del desiderio 112 sessuale e da depressione. Ne dovetti prendere atto e dirmi che di fronte a ciò una relazione di counseling filosofico ben poco avrebbe potuto fare. Tuttavia Valentina, durante il colloquio, riportava spesso la parola “angoscia” e concetti a essa correlati (“mi sento angosciata”, “non so cosa fare ma è come se dentro di me sentissi una specie di terremoto e di movimento che mi dice che devo fare qualcosa. Ma che cosa? Aprire un una mia attività?”). Questo suo riportare mi incoraggiò a proseguire nei suoi confronti con un aiuto di tipo filosofico, senza però escludere la possibilità di indicare a Valentina altri professionisti. Heidegger in “Essere e Tempo” e più in generale la filosofia esistenzialista hanno evidenziato come la struttura fondamentale dell’esistenza umana è formata dall’essere-nel-mondo e dalla trascendenza. Ogni uomo viene al mondo in una situazione ben determinata che non può che influire la sua stessa vita e condizionare la sua esistenza; ma quantunque ognuno venga al mondo in queste condizioni, appartiene all’essenza della vita umana la possibilità di poter liberamente progettare e costruire la propria vita. Il punto è che questa libera possibilità è fonte di angoscia. Questo sentimento è collegato alla possibilità che il progetto fallisca, ma anche all’assenza di progetto o alla scelta originaria del progetto o ancora al fatto che il progetto è fallito. Secondo un’ottica prettamente filosofica, l’angoscia è dunque legata al concetto di possibilità. Secondo M. Torre, quando scompare il possibile allora compare l’angoscia. Quando l’uomo guarda dentro se stesso e scorge le sue innumerevoli possibilità o impossibilità, è come se venisse colto da un senso di vertigine, che non va confuso con ansia o attacchi di panico. Abbiamo qui ha che fare con il puro sentimento della possibilità, non con disturbi d’ansia. Come ha teorizzato Heidegger, la paura è sempre di fronte a qualcosa o per qualcosa, ossia ha sempre un oggetto del mondo che minaccia la persona, la quale reagisce appunto con questa situazione emotiva. L’angoscia ha invece il potere di dare all’uomo la possibilità di condurre una vita autentica, di abbandonare l’esistenza della mera chiacchiera per svelare a lui se stesso. Nell’angoscia ci si sente spaesati o, per dirla con le parole di Valentina, “non 113 capisco veramente cosa voglio”. Altro punto fondamentale messo in luce dalla filosofia esistenzialista, è che l’angoscia, così come la nausea o la paura, sono sentimenti rivelatori in quanto, lungi dal chiudere l’esistenza nel presente continuo, la aprono invece al proprio essere autentico. L’angoscia è cioè uno stato psicologico normale, in essa non vi sono cause psicopatologiche e il suo intervento richiede un lavoro filosofico. Sull’angoscia avrei quindi potuto lavorare, e così feci. Chiusi il terzo incontro incoraggiando Valentina a pensare, a casa e da sola, i motivi per cui, a suo tempo, aveva scelto il suo lavoro attuale e quelli per cui, allo stato presente, la inducevano a pensare di cambiarlo. La salutai dicendole che ne avremmo parlato al successivo colloquio. Il quarto colloquio vide Valentina protagonista attiva sul confronto tra i motivi che le dicevano di tenersi il lavoro attuale e quelli che invece l’avrebbero portato ad allontanarsene. Tra i primi, uno dei più significativi fu questo: siccome Valentina ebbe una madre che soffrì di disturbi psichiatrici e alla quale dovette stare molto vicino nei momenti più difficili, la possibilità di lavorare con persone anziane parzialmente autosufficienti e che soffrono spesso di quei disturbi, in qualche modo la faceva sentire bene e le dava significato, riportandola alla cura che diede a sua madre. Ecco le sue parole: “se faccio un lavoro che mi permette di guadagnare appena 900 -1000 euro al mese e l’ho tenuto per più di 10 anni, un motivo ci sarà. Io sto bene nella’aiutare le persone, mi sento utile e importante, anche se a volte mi dico che sono stanca di farlo.” Eppure “mi arrabbio tantissimo quando le colleghe non fanno il loro. La coordinatrice, per esempio, che dovrebbe essere la persona più impegnata a garantire benessere agli utenti, in realtà se ne frega. Fa il minimo indispensabile, quando lo fa! E delega tutto a noi operatrici. Ma chi si crede di essere!! Noi lavoriamo con persone, mica con cose”. Tra i secondi Valentina espresse la sua fatica e stanchezza a sostenere i rapporti con le colleghe e con i superiori: “se fosse solo per gli anziani, questo sarebbe un lavoro stupendo. 114 In realtà, anche loro a volte mi danno un po’ fastidio, ma è sopportabile. Ma quanto sporco ci gira intorno, quanta falsità e ipocrisia! Io devo fare qualcos’altro, aprire un’attività tutta mia mi permetterebbe di stare a contatto con la gente, ma non so se mi darebbe le stesse soddisfazioni che provo quando faccio l’igiene a quell’utente o quando faccio le movimentazioni. Tuttavia potrei aprirla con i mie figli, che anche loro sono stanchi del proprio lavoro e così prendermi cura di loro e della nipotina”. L’angoscia (Berra, appunti anno 2014) è uno stato d’animo che getta in un nuovo mondo o in un nuovo modo di percepire se stessi e il mondo. Essa ha più a che fare con un’elevazione spirituale che con una reazione primitiva. Attraverso l’angoscia l’uomo si dà la possibilità di vedere e percepire il mondo circostante in maniera diversa da come lo si era visto fino a prima di questo vertiginoso e turbolento stato psichico. Chiesi a Valentina se, al di là della scelta che avrebbe potuto compiere e delle diversità tipiche dei due lavori che considerava, vedeva in se stessa o di se stessa qualcosa di costante, un sorta di stella polare, un punto di riferimento e un valore irrinunciabile. Dopo averci pensato qualche minuto, ella rispose: “la mia passione per darmi agli altri, per aiutarli e curarli”. Il concetto di cura divenne la chiave di volta su cui lavorare filosoficamente. Nel quinto colloquio chiesi direttamente a Valentina che cos’è per lei la cura e quale valore riveste nella e per la sua vita. Narrò di nuovo il periodo in cu si prese cura della madre malata; di quando dovette far fronte all’alcolismo e all’indifferenza del padre circa i problemi di sua moglie. Aggiunse che per lei l’accudire gli altri era ed è una sorta di vocazione. Non solo da più di 10 anni a questa parte opera con un lavoro di cura; non solo ha passato gran parte della sua vita a prendersi cura dei genitori; non solo vorrebbe aprire un attività per aiutare i figli e prendersi cura delle nipotine, una delle quale soffre di alcuni disturbi fin dalla nascita. Oltre tutto ciò confidò pure che da diversi anni lavora come volontaria presso un’associazione di volontari. Quante belle cose occupavano Valentina e quanti bei propositi e buoni 115 valori alimentavano il suo agire. E tuttavia qualcosa non tornava: da un lato sembrava vivere secondo i suoi ideali e valori; dall’altro il suo corpo manifestava stanchezza, angoscia e ormai rifiuto rispetto a tutta questa cura che dedicava alle altre persone. Ritornando agli esercizi che le diedi alla fine del secondo colloquio, le chiesi direttamente, con tono dolce e molto empatico: “a fronte di questo impegno ed energie che dedichi per gli altri, esiste qualcuno che si prende cura di te? Inoltre, quando ha senso per te domandarti quando è giusto e opportuno dare amore e considerazione non tanto agli altri, ma a te stessa?” Con occhi leggermente commossi e voce un po’ soffocata, Valentina rispose: “non sai quanta fatica ho fatto alla sera per ritagliarmi dei momenti per me. Il tuo esercizio di prendere del tempo per me stessa, di pensare a quanto ho fatto durante il giorno e se questo mi ha fatto stare bene, mi ha messo in crisi. Non sono capace! Non ho mai dato attenzione a me stessa e adesso mi trovo distrutta.” Valentina avvertiva e sentiva sulla propria pelle questa contraddizione: tanto spazio, tempo ed energia aveva dedicato agli altri, quanto poca cura aveva invece riserbato a se stessa. Le diverse circostanze della vita l’avevano portata ad agire, a fin di bene, verso l’esterno, ma mai dedicò un attimo alla sua vita, al suo spirito e alla sua crescita interiore. Formulai a lei, con parole molto delicate e con tono più che mai empatico, quest’ultimo concetto e lei vi si trovò pienamente. Ragionai filosoficamente (cercando i fondamenti, i valori esistenziali e gli scopi impliciti) con lei su come, fino a quel momento della sua vita, fosse stata prigioniera di un aspetto dominante del suo pensiero (occuparsi degli altri), quasi come fosse condannata a vedere solo questa immagine della realtà, e mai altri elementi, i quali rimanevano nello sfondo e nascosti dal pensiero dominante. Come se la sua visione del mondo e il suo progetto esistenziale fossero stati monocromatici: aiutare gli altri, e basta! Indubbiamente il mio intervento produsse un effetto choc e accentuò una realtà che il suo corpo già le indicava; tuttavia questo effetto ha avuto, durante il percorso di counseling e in questo colloquio, una connotazione di consapevolezza riflessiva, per quanto 116 dolorosa, che non aveva prima. Il poter portare alla luce questa contraddizione, poterla riconoscere e condividere con me, ha consentito a Valentina di scoprire una prima sensazione di sollievo, e subito dopo una specie di autoconsapevolezza: il terreno per potere coltivare un’attenzione a se stessa era ormai pronto; si trattava di rendere operativo questo tema del condurre se stessa verso il proprio benessere. Le chiesi allora a quale attività avrebbe potuto rinunciare nella ridda di tutte quelle caratterizzate dalla dedizione snervante alle altre persone, e cosa avrebbe potuto fare per il suo bene, per il suo spirito e il suo corpo. Elencò una lista di tutti questi comportamenti; le chiesi di metterli in ordine di importanza e di assegnare a ciascun elemento della lista un valore numerico, da 0 a 9. Risultò che poteva rinunciare senza troppi sensi di colpa al volontariato. Non riuscì invece a dirmi come avrebbe potuto impiegare il tempo avanzato dal venire meno di quell’impegno. Accennò che avrebbe potuto leggere dei romanzi, ma non mi sembrava molto certa di ciò. Chiusi l’incontro dicendole di pensarci a casa e di riparlarne la volta successiva. Durante il sesto e ultimo incontro, avvenuto circa dopo due settimane, Valentina mi aggiornò che aveva ricevuto il finanziamento per condurre l’attività commerciale, di aver contattato il venditore e di non volere rinunciare al suo impiego attuale, perché le dava sicurezza economica. Ipotizzò che se il nuovo lavoro le avesse dato rendite certe, avrebbe lasciato il vecchio impiego. Narrò anche che alla sera aveva cominciato a leggere dei libri, ma non mi specificò quali. Raccontò che spesso vi ci si addormentava sopra, ma che, prima di crollare, si sentiva bene nel compiere questa attività. Verbalizzò con consapevolezza la sua condizione esistenziale, emersa in modo esplicito durante l’incontro precedente, e che l’aver riconosciuto la situazione che si trovava a vivere non le aveva permesso di focalizzare su di sé l’attenzione. Disse che già questo lavoro la faceva sentire meglio e che l’entusiasmo di andare a svolgere una nuova attività l’aveva condotta a non dare tanto peso ai suoi pessimi rapporti con le colleghe. Valutò l’importanza di prestare più attenzione ai segnali che il suo corpo le inviava e al fatto che una vita che non sia spesa a fare quello che più piace e che rechi maggior felicità non è meritevole di essere pienamente vissuta. 117 Manifestò le difficoltà che incontrava a riconoscere quello che più desiderava e più le interessava, ma confermò che il blocco iniziale era stato tolto e che si trattava adesso di dedicarsi maggiormente a se stessa. Mi ringraziò e ci salutammo. 118 Conclusione La modesta proposta che in questo lavoro ho avanzato prende sul serio la possibilità di applicare il counseling filosofico ai problemi esistenziali ed etici correlati ai disturbi sessuali. Nel corpo centrale di questo lavoro mi sono proposto di mostrare come la sessualità prospetti il problema fenomenologico dell’intersoggettività, ovvero il problema dell’uomo esistente nel mondo con altri uomini. L’istinto sessuale e la pulsione sessuale sono un modo primordiale del soggetto di essere-nel-mondo con altri soggetti: è questo l’insegnamento fondamentale della fenomenologia in seno al tema della sessualità. La spinta erotica non è considerata dalla fenomenologia un mero meccanismo collegato alla funzione biologica del corpo, ma è soprattutto un’intenzionalità che ha natura teleologica, cioè è tensione, volontà, telos per il nostro fare e per il nostro comportamento, non solo sessuale. Ho cercato di evidenziare come per la fenomenologia la pulsione sessuale sia una “fame” diretta verso una meta, una forza desiderante che collega un corpo vivo a un altro corpo vivo: la sessualità è dunque un elemento centrale della relazione che l’io ha con gli altri uomini che vivono nel suo stesso mondo. Se è vero che i diversi modi sessuali di ciascuno di noi sono sempre relazionati ai vari significati che nascono dal desiderio sessuale e se è vero che il reticolo di significati che caratterizzano l’esistenza di una persona nel mondo altro non è che la sua visione del mondo, allora la sessualità, in tal senso, è un elemento fondamentale della visione del mondo. Ne segue che lavorare sul tema della sessualità con il consultante vuol dire in definitiva lavorare sulla sua visione del mondo. Preso atto che sempre più la sessuologia d’impronta medica si occupa del corpo inteso come Körper, al posto del corpo vivente, privandosi in questo modo e inevitabilmente della dimensione più globale dell’esistenza, ho evidenziato come, in virtù della polisemia del concetto di sessualità, si possa gettare un ponte tra il trattamento sessuologico dei disturbi sessuali e l’aiuto filosofico che si può donare 119 alla persona che, vivendo questi disturbi, si trova ad affrontare problematiche esistenziali ed etiche da essi non avulse. Facendo miei gli insegnamenti e le considerazioni di L. Nave sul rapporto filosofia e sessualità, a tal proposito ho messo in luce come il counselor filosofico non può fare del sesso un oggetto del sapere, da classificare, studiare, analizzare e cogliere le cause di una sua anomalia. Potrà però rivolgersi al consultante, che porta il suo problema sessuale, per aiutarlo a cogliere il senso e il valore che per lui ha la sessualità, il modo in cui tale significato s’inserisce nella sua visione del mondo e nel suo progetto di vita, il modo in cui vive la sua sessualità. Di qui la distinzione e il confronto operato da me tra il counseling filosofico e la psicoanalisi da una parte, e lo stesso counseling filosofico e le terapie cognitivo-comportamentali e mansionali integrate dall’altra. Ho perciò chiuso questa parte teorica del presente lavoro discriminando la professionalità del counselor filosofico da quella del consulente sessuale e del terapeuta clinico. Ed è così che mi sono presentato durante la mia attività del progetto EroSofia presso lo studio della psicosessuologa, con il suddetto bagaglio di nozioni teoriche e di strumenti filosofici. L’idea, fin dall’inizio, è stata non solo di distinguere il lavoro filosofico di cura di disagi esistenziali avvertiti da persone aventi disfunzioni sessuali da quello terapeutico per questo tipo di problemi, ma più di tutto quello di creare una profonda collaborazione con i professionisti di questo campo. Una prima fase del progetto mi ha visto ascoltare attivamente i casi che la psicosessuologa mi descriveva: gli obiettivi che mi sono proposto di raggiungere sono stati quelli di esercitare praticamente l’ascolto attivo e di delineare alcune tematiche di fondo di natura filosofica che accompagnavano le sofferenze di chi si fa portatore di disturbi sessuali. Sono emersi questi argomenti da tutti i racconti ascoltati: - la questione sulla normalità; - la questione morale; - la questione esistenziale. 120 Temi, questi, che hanno fatto da sfondo filosofico per un lavoro di cura con la persona richiedente aiuto. Nella seconda fase ho condiviso, discusso e proposto interventi di natura filosofica ai casi ascoltati nei quali le persone manifestavano disagi esistenziali. Pur non avendo seguito di persona tali situazioni, grazie al continuo e costante confronto con la collega, abbiamo potuto testare la validità di alcuni strumenti filosofici nel trattare le difficoltà etiche ed esistenziali emerse. Ciò ha non solo preparato il terreno su cui avrei potuto lavorare da solo e in autonomia, ma ha pure mostrato come il counseling filosofico, sebbene distinto dalla terapia sessuale e dalla consulenza sessuale, sia una relazione di auto molto efficace in questo campo. I casi condivisi (che in questo lavoro ho ridotto a due a titolo esemplificativo), le riflessioni elaborate e il lavoro su di essi svolto, testimoniano: - come sia possibile e plausibile un confronto costruttivo tra le tecniche della terapia cognitiva (freccia discendente, schemi di pensiero, pensieri automatici, idee intermedie, dialogo socratico, RET, ecc.) e gli strumenti propri del counseling filosofico (visione del mondo, progetto esistenziale, atteggiamento in presa riflessa, esercizi, fondamenti e riferimenti filosofici, ecc.); - come il counseling filosofico ben s’innesti nel trattamento dei disturbi sessuali laddove ci siano da indagare le credenze implicite del consultante che spesso sono per lui fonte di sofferenza; - come il counseling filosofico pare essere veramente appropriato in questo campo d’intervento allorché si prospetti il bisogno di andare a indagare e sondare il sistema di valori etici del cliente; - come il counseling filosofico funzioni purché non vada a invadere il terreno patologico delle disfunzioni sessuale e dei problemi psicopatologici; - come il counseling filosofico dia un valore aggiunto laddove il problema sessuale sollevi o sia sollevato da domande di natura etica. 121 Nella terza fase del progetto ho preso in carico direttamente diversi consultanti, alcuni dei quali inviati dalla collega, mentre altri presentatesi a me di loro spontanea volontà. In questo lavoro ho descritto due situazioni in particolare, mettendo l’accento sia sugli elementi teorici del counseling filosofico sia sugli strumenti pratici adoperati. Si tratta di due casi ben riusciti, a mio modo di vedere, di relazione di aiuto filosofica. Nella fase finale del progetto ho condiviso con la psicosessuologa delle linee guida comuni di intervento e di collaborazione: - invio reciproco di clienti al bisogno concreto; - collaborazione e reciproca supervisione per tutte quelle situazioni in cui ai problemi sessuali e psicologici si accompagnano disagi esistenziali, e viceversa; - condivisione dello stesso studio di lavoro, assettato tanto per interventi di natura psicoterapeutica e psicosessuale quanto per colloqui di counseling filosofico; - programmazione e progettazione condivisa di attività di divulgazione di pratiche filosofiche (comunità di ricerca, dialoghi socratici, ecc.) e di eventi aperti al pubblico in merito ad argomenti confacenti la sessualità e l’aiuto filosofico, oltre che terapeutico. Chiudo il presente elaborato spendendo due parole sulla metodologia da me utilizzata per costruire una cassetta di strumenti filosofici da usare in un intervento di counseling. Di ogni opera letta, studiata ed elaborata criticamente, mi sono fatto guidare dalle seguenti domande: - quale filosofia ispira tale opera? - Questa filosofia, quali strumenti operativi di auto-aiuto mi può suggerire per affrontare i disagi esistenziali e le problematiche etiche? 122 - Queste tecniche di auto-aiuto suggeritemi da quella filosofia, sono applicabili solo nella mia vita concreta o si possono estendere anche alla vita di altre persone? - Se sì, come si possono calare questi strumenti in una relazione concreta di aiuto filosofico? - La filosofia suggerita dall’opera letta può diventare uno stile di vita a cui rifarsi? - Quali bisogni posso soddisfare con quella filosofia? Quali obiettivi raggiungo adottando quegli strumenti nel counseling filosofico? E quali scopi raggiunge il consultante se facesse propri questi attrezzi e quelle filosofie? Nell’affrontare tali domande, non mi sono mai dimenticato che le risposte che di volta in volta andavo elaborando non avrebbero mai potuto fornirmi una cassetta di attrezzi funzionali per risolvere profondi disturbi della personalità, di cui i sintomi sessuali sarebbero solo degli epifenomeni, né tantomeno patologie sessuali, che invece richiedono l’intervento di professionisti del settore. Molto più umilmente, ho cercato di mettere da parte quel desiderio di onnipotenza e di egocentrismo che spesso accompagna gli operatori della relazione di aiuto, dicendomi che se nella mia cassetta metto un martello, un cacciavite e una pinza, allora non posso utilizzare questi strumenti per segare, piallare del legno o per limare del ferro, bensì rispettivamente per battere dei chiodi, girare delle viti e per estrarre dei chiodi. Consapevole di avere prodotto degli strumenti prettamente funzionali al trattamento di problematiche esistenziali ed etiche, pur non sottovalutando l’apporto di attrezzi sussidiari in parte derivabili da altre teorie e metodologie (problemsolving, RET, ecc.), mi accingo con molta passione a fare di questo progetto una vera e propria professione. 123 Bibliografia Achenbach G., “La consulenza filosofica. La filosofia come opportunità per la vita”, Apogeo, 2004 Aristotele, “De generazione animalium” Aristotele, “Metafisica”, Bur, 2009 Beck J. S., “Terapia cognitiva”, Mediserve, 2008 Berra L., “Il counseling filosofico a orientamento esistenziale”, in “Filosofia ed esistenza. Analisi Esistenziale, Logoterapia e Counseling Filosofico”, Berra L. (a cura di), Libreriauniversitaria, 2012 Berra L. e Nave L. (a cura di), “Platone e il viagra”, ISFiPP edizioni, 2009 Bonino G. “Universali/Particolari”, Il Mulino, 2008 Cociglio G. (a cura di), “Il manuale del consulente sessuale. 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