ChimiCa della radio - Apeiron

annuncio pubblicitario
Tiziano Bonini
ChimiCa
della radio
Storia dei generi dello
spettacolo radiofonico
Sommario
Parte I
Storia e Generi
2
Introduzione
3
I generi radiofonici: una categoria problematica
L’intrattenimento parlato e musicale
Il Varietà 12
Rivista e varietà
Il Morning Show
Il Talk Show
17
Hot talk
Sport talk
La Talk radio in Italia
Lo spettacolo drammaturgico: radiodrammi, audiodrammi, serial
Il radiodramma
Il radiodramma in Italia dal dopoguerra ad oggi
Il dibattito sullo statuto estetico dell’arte radiofonica
Walter Benjamin e la radio
Le “leggi” di Sieveking
29
Il radiodramma come strumento di propaganda
Audiodramma
Il serial drama: soap opera, sitcom, fiction, sceneggiato
Sceneggiato radiofonico
Il documentario
64
Storia del genere documentario in Italia
La maturità e il neorealismo radiofonico
Il documentario in Europa negli anni Sessanta
Il documentario oggi
L’intrattenimento musicale 88
I formati musicali
Lo strano caso di Radio2 RAI
L’arrivo della rete e la polverizzazione dei formati
Lo spettacolo musicale
Le radio pirata
Le radio libere e le radio private
Innovare il format degli show musicali: crowdsourcing, peer-to-peer e open source playlist. Tre
casi di studio.
Parte II
Approfondimenti
109
Spettacoli drammaturgici
110
Attention! La radio ment! Decostruire il mito della Guerra dei Mondi
Breve ricordo di Rudolf Arnheim
All’ombra del bosco di latte
Pericolo! Il primo radiodramma della Storia
Suonare Schostakovich sotto assedio. L’estate di Radio Leningrado.
Intervista a Sergio Ferrentino
Lo spettacolo dell’arte radiofonica
Situazionismo radiofonico per le strade di Firenze
145
Resonance FM – la radio dell’arte
ARTE radio, quando la Rete si mette a fare radio.
La radio comunitaria: una forma non spettacolare
158
Radio Alice in Australia. Breve storia della radiofonia comunitaria aborigena.
La radio di Danilo Dolci
Radio B92, Belgrado. Un ricordo
La police vous parle tout le soirs a 20h
Lo spettacolo del suono radiofonico
La voce è il messaggio
Il secolo delle cuffie
“Sesso. Ho capito”: ovvero quando la radio si incrocia con la vita quotidiana
Radio on the road
Teorie e tecniche della playlist secondo David Byrne
168
Parte I
Storia e Generi
Introduzione
Un uomo che abbia qualcosa da dire e non trovi chi l’ascolta se la passa male.
Ma ancor peggio se la passano gli ascoltatori che non trovano nessuno che abbia
qualcosa da dir loro.
(Bertolt Brecht, 1932)
Questo libro prova a disegnare una mappa dei generi dell’intrattenimento
radiofonico, andando a ritroso nella storia del mezzo per ricostruirne la genealogia, con una particolare attenzione per quello che succede fuori dall’Italia. La prima parte è quindi dedicata all’intrattenimento parlato e musicale, la seconda invece è un saggio sulla nuova natura del pubblico della radio
nell’epoca della società in rete. Le due parti si completano a vicenda, perché
non si può parlare di generi, testi, prodotti radiofonici senza parlare del tipo
di pubblico in ascolto. La radio è un medium particolare, non esiste senza
un pubblico che la ascolta. Per fare la radio oggi bisogna sì conoscere le radici dei generi che la caratterizzano ma anche conoscere l’ecosistema mediale
all’interno del quale si muovono gli ascoltatori della radio contemporanea.
Ma prima di tutto, di cosa parliamo, quando parliamo di “generi”
radiofonici? Proviamo qui a definirne il concetto.
“Definiamo come genere un insieme di tratti distintivi che consentono
al pubblico di orientare le sue attese nei confronti di un testo o di uno
spettacolo, ricollegandoli a precedenti esperienze” (Ortoleva, 2003). Questa
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definizione mette in risalto tre aspetti rilevanti:
1. il genere esiste non solo in sé, ma in quanto categoria riconoscibile dal
pubblico (decodifica).
2. il genere si forma (e si trasforma) nel corso del tempo (remix). Ciò
vale per la produzione – l’autore fa sempre riferimento ad un genere da cui
viene influenzato – e per la fruizione – solo il progredire delle esperienze di
fruizione fa nascere una reale competenza di genere nello spettatore/lettore/
ascoltatore.
3. il genere definisce le convenzioni e regola un orizzonte di attese. È
un sistema normativo alla base di un “patto comunicativo” tra l’autore e
il pubblico. Questo non vuol dire che le regole siano rigide. I confini del
genere mutano continuamente, come la cultura.
I generi radiofonici: una categoria problematica
Nel 1946 usciva negli Stati Uniti un saggio divenuto famoso, People look at
Radio, a cura di Paul Lazarsfeld, che, oltre a porre le basi dei metodi dello
studio del nuovo medium dell’epoca, enunciava un certo numero di categorie per la ricognizione e catalogazione delle emissioni radiofoniche: notiziari, drammi radiofonici, programmi comici, quiz, musica per famiglie, musica popolare e da ballo, dibattiti su questioni di pubblico interesse, musica
classica, manifestazioni sportive, trasmissioni religiose, sceneggiati a puntate, rubriche per l’agricoltura, per ragazzi, per la casa e le casalinghe, bollettini dei prezzi di mercato di “animali e granaglie” (Ortoleva, 2003, p. 347).
Questa catalogazione era figlia di una società appena uscita dalla Grande
Depressione e l’arrivo della televisione, del transistor e del rock’n’roll avrebbe contribuito a cambiare le forme dei contenuti della radio, introducendo
nuovi generi. Ma le tre macro categorie – programmi di informazione, di intrattenimento ed educativi – che discendevano dagli obiettivi – Informare,
Educare, Intrattenere – del direttore della BBC negli anni Venti, John Reith,
rimanevano e rimangono tuttora invariate. In misura diversa, ancora oggi il
panorama radiofonico offre programmi d’informazione, d’intrattenimento
(parlato e musicale) e divulgativi. La differenza è che oggi si sono rotti definitivamente i confini tra questi tre codici ed è difficile attribuire una sola
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etichetta ad un programma radiofonico. L’informazione è sempre più narrazione e spettacolo (info-tainment), l’intrattenimento contiene in sé molti
elementi informativi ed educativi (gli infra-saperi di Roland Barthes) ed è
sempre più complicato parlare di generi radiofonici. Ma è importante ricostruire la storia dei generi radiofonici e conoscerne i confini tracciati in passato per poterne poi forzare le barriere e produrre formati innovativi.
La radio, sia nella sua declinazione americana e commerciale, sia in
quella inglese e pedagogico-pubblica, ci mette degli anni prima di trovare le
sue forme. È soltanto negli anni Trenta, l’età dell’oro della radiofonia, che
si consolidano generi, codici e palinsesti. Mentre in Europa si sperimenta,
come vedremo, soprattutto la drammaturgia radiofonica attraverso la forma
del radiodramma, affrancandone sempre più le tecniche e le estetiche dal
medium teatrale, negli Stati Uniti si sperimentano e si consolidano i generi
dell’intrattenimento che ancora oggi, in misure diverse, popolano la radiofonia.
Le radio americane degli anni Trenta, stimolate dalla concorrenza tra
emittenti, rappresentano il più importante laboratorio di formati e programmi
della storia della radio. Alla stagione dell’oro radiofonico si deve la messa a
punto del palinsesto moderno, della programmazione standardizzata, basata
sul formato di programmazione di un’ora (in particolare per i programmi
musicali sponsorizzati e per i varietà). Se si guardano i palinsesti americani
dell’epoca ci si accorge che spettacoli di varietà e programmi musicali
duravano per lo più un’ora, mentre i programmi settimanali di comicità
(comedy) ricorrevano al formato dei trenta minuti. Sitcom e programmi di
comedy in onda cinque giorni a settimana tendevano ad utilizzare il formato
canonico dei quindici minuti. Stessa durata per le soap operas, grande
novità di drammi seriali (la prima soap della storia, Clara, Lu & Em, andò
in onda nel 1931), mentre gli sceneggiati “seri” potevano variare dai trenta
minuti all’ora del Mercury Theatre on Air di Orson Welles. I notiziari e i
programmi di commento alle notizie passarono dai dieci minuti del 1936 ai
quindici del 1939, mentre i discorsi politici venivano formattati sui ventitrenta minuti (quelli di Roosevelt ne duravano sempre venticinque). Non
pochi programmi accumulavano cambiamenti continui nei palinsesti, dovuti
alla migrazione di un programma da un’emittente all’altra, da uno sponsor
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all’altro, da un’agenzia di pubblicità all’altra. Al mattino, dopo le emissioni
all’alba dedicate agli agricoltori, che si alzavano molto presto per andare
a lavoro, la programmazione era indirizzata prevalentemente al pubblico
femminile delle casalinghe, cui si offrivano programmi di cucina ed economia
domestica, e soprattutto soap operas. Lo scrittore James Thurber definì
ironicamente le soap opera: “una specie di sandwich la cui ricetta è molto
semplice, anche se ci sono voluti anni per metterla a punto: tra due fette
spesse di pubblicità spalmate dodici minuti di dialogo, aggiungete qualche
situazione complicata, malvagità, una spruzzata di lacrime, insaporite con
musica d’organo, ricoprite con una gustosa salsa di annunciatore e servite
cinque volte alla settimana”.
Dalla metà degli anni Trenta sarebbe stato il dramma domestico, ovvero
la fiction seriale, importata alla lettera da giornali e riviste, a raccogliere i
maggiori successi. Negli Stati Uniti, tra la metà degli anni Venti e la metà
degli anni Quaranta, la produzione di fiction si intensificò notevolmente,
così che le radio passarono da un 60 per cento di programmazione generalista
nel 1925 al 60 per cento di soap operas e serial affini alla fine della guerra.
Alle trasmissioni per ragazzi veniva dedicato il primo pomeriggio, mentre
alcuni programmi derivati dai fumetti fecero da battistrada per i serial
d’avventura all’ora di cena in programmazione dal lunedì al venerdì alle
19.15, creando, con il loro successo, un pubblico di fedeli giovani e adulti,
agganciati alla serialità delle avventure, alla curiosità per lo sviluppo narrativo
dei personaggi. Le sceneggiature dei serial venivano scritte da una squadra
di autori, scrittori, drammaturghi e non c’era programma che non cercasse
di guadagnare la fedeltà degli ascoltatori attraverso gadget e regali degli
sponsor che venivano in qualche modo inseriti e integrati negli script, così che
il messaggio pubblicitario non finisse mai. I produttori dell’Ovomaltina ad
esempio, sponsor della famosa fiction seriale per bambini Little Orphan Annie1
chiedevano ai fan di inviare alla radio le etichette trovate sulle confezioni per
poter liberare Annie dai suoi sequestratori (in quel caso però migliaia di genitori
di bambini spaventati protestarono con gli sponsor e la radio, cfr. Douglas, 2001).
1
«Serie radiofonica trasmessa dalla NBC dal 1935 al 1943. Tratta dalla omonima e popolarissima
strip apparsa per la prima volta sul Chicago Tribune nel 1924, si basava sulle vicende di una ragazza
(Annie) in cerca di avventure insieme al suo cane Sandy. Della durata di quindici minuti, si apriva
con una sigla divenuta quasi più famosa della serie stessa» (Ortoleva P., Scaramucci B. (a cura di),
2003, p. 442)
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La programmazione notturna era soprattutto popolata da concerti,
spettacoli di varietà e serial ispirati al thriller e al giallo (non accade oggi lo
stesso con la trasmissione di Lucarelli su Radio Deejay?).
I generi radiofonici raffinatisi nei primi venti anni della storia della
radio non sono altro che adattamenti al mezzo di generi precedenti.
Bolter e Grusin (2000) chiamano “remediation” la rappresentazione di un
medium all’interno di un altro. Ogni nuovo medium, secondo loro, non fa
che “rimediare” quelli precedenti. L’analisi di Bolter e Grusin era già stata
anticipata da uno dei padri dell’informatica, Alan Kay, che già nel 1984
descriveva il computer come un metamedium: il computer è un medium che
può simulare dinamicamente le caratteristiche di altri mezzi di comunicazione.
Non è uno strumento, anche se può prendere il posto di molti strumenti.
È il primo metamedium, e possiede un grado di libertà di rappresentazione
ed espressione mai incontrati prima d’ora e mai investigati. Tutto ciò è
molto simile a quello che già McLuhan (1964) sosteneva quando scriveva
che ogni nuovo medium ristruttura il paesaggio mediale in cui si innesta.
La categorizzazione in generi dello spettacolo radiofonico però è un
po’ complicata e anche discutibile. Se la storia della radio ci dà conto di
un’effettiva progressiva divisione in generi dello spettacolo radiofonico,
l’attuale linguaggio della radio, sia pubblica che privata, ha raggiunto un tale
grado di ibridazione dei generi che diventa difficile e forse inutile impegnarsi
nel dare un’unica etichetta ai contenuti trasmessi. Inoltre, al dibattito sui
generi della radio fa da sfondo la “contraddizione” naturale offerta dal mezzo
quando si parla di singoli programmi: la radio è anzitutto un medium di flusso
(Raymond Williams, 1974) che sussume format, programmi, generi. Da una
parte la radio esige i generi come strumento per l’orientamento del pubblico
e come metodo di regolarizzazione anche istituzionale del palinsesto, ma
al tempo stesso rende difficile applicarne le regole. Il carattere fluido del
medium favorisce una definizione “leggera” dei generi, un uso operativo,
pragmatico. Questo è ancora più vero nel caso delle radio di flusso, con un
unico format (di solito musicale), ma anche nell’intrattenimento i confini
tra i generi si vanno confondendo sempre più. I contenuti radiofonici di oggi
sono comprensibili non più come generi distinti ma come formati contenenti
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mix di generi tradizionali in misure diverse. È più utile quindi, per orientarsi
nell’offerta radiofonica attuale, una categorizzazione che agisca per tag, per
una somma di parole chiave.
Un medium di flusso
Il contenuto della radio è la radio stessa, non i singoli programmi che la
compongono: una canzone, un radiodramma, un giornale radio hanno un
inizio e una fine, il flusso radiofonico no. Ed è per questo che si accende e si
spegne la radio come si fa con la luce in una stanza. Quello che si chiede alla radio non è un testo ma una colonna sonora (anche parlata). La fruizione
della radio si sovrappone ad altre attività, è frammentaria, mobile. Non è come andare in un cinema pagando un biglietto o come comprare un romanzo.
Non è solo il singolo testo (programma) che si ricerca.
Come sostiene Williams (1974) il flusso è la forma culturale della radio
e della televisione, in quanto in generale la fruizione del mezzo non è mirata
alla ricezione di uno specifico testo o di singoli segmenti di programmazione
ma lascia ai programmatori il compito di definire la successione e l’ordine
dei materiali da ascoltare, a differenza di quanto avviene con il libro, il
film, o il disco. Più in generale la radio di flusso è un modello di offerta
radiofonica che si propone una sequenza continua di contenuti senza alcuna
cesura tra loro, senza alcuna interruzione né eventi sonori (sigle, jingle)
che segnalino la fine di un programma e l’inizio del successivo. In questo
modello l’impostazione del palinsesto non offre programmi o generi per
pubblici diversi e fasce orarie distinte, bensì un flusso ininterrotto di musica
e parlato rivolto ad un unico pubblico generalista, che cerca nella radio
evasione piuttosto che concentrazione. Alla base del modello di flusso ci
sono il formato dell’emittente, il clock, e la rotation (Scaglioni, Fenati, 2003).
Il formato può essere incentrato sulla musica (vedi paragrafo dedicato) o
sulla parola. Tra i formati parlati i filoni principali sono tre: all news, talk
radio, news&talk. Il clock rappresenta il piano di messa in onda di una radio
scandito di ora in ora. Per ogni ora di programmazione il clock scandisce
gli appuntamenti fissi quali il segnale orario, il gr, la pubblicità, il meteo, il
traffico, i blocchi di musica e parlato, i jingle, le sigle. La rotation indica il
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susseguirsi di brani musicali all’interno della playlist dell’emittente. Dietro il
passaggio più o meno ripetuto di un brano particolare durante l’arco della
giornata c’è sempre una specifica strategia di rotazione. In riferimento al
singolo brano la rotazione indica la frequenza di programmazione, che può
essere alta (heavy o power), media o bassa, in base al successo raggiunto da
quel brano nelle classifiche di vendita o in base alle scelte artistiche della radio.
All’opposto di questo modello c’è il formato incentrato sui programmi,
la “radio di programmi”, composta da format e contenuti differenti tra loro,
da suoni non omogenei, diretta a pubblici differenti nell’arco della giornata.
L’intrattenimento parlato e musicale
Il libro affronterà la storia e analizzerà i formati di due grandi generi di intrattenimento, quello parlato e quello musicale. Nel secondo caso si tratta di
tutti quei programmi che hanno come elemento centrale la musica, nei suoi
formati più diversi. Nella categoria del parlato invece rientrano tutti quei
programmi fondati sulla parola che hanno come fine primario l’intrattenimento – alto o basso, colto o popolare – del pubblico radiofonico. Come abbiamo sostenuto, la radio contemporanea è difficilmente divisibile in generi
separati: i programmi contengono tutti elementi di generi differenti. Lo attesta anche una recente ricerca su 28 format “di successo” trasmessi da 7 radio
pubbliche europee compiuta dalla EBU (2011): i programmi analizzati sono
stati definiti attraverso l’uso di più tag piuttosto che da un genere univoco. È
il format, l’idea originale del programma, che decide in che misura mescolare la chimica degli elementi di genere esistenti per dare vita ad una ricetta
innovativa. È per questo motivo che all’interno di questa categoria comprenderemo anche generi tradizionalmente ascrivibili all’informazione come il
talk show politico e il documentario, perché le forme attuali di questi due
generi hanno sempre più contaminato i loro contenuti con le forme dell’intrattenimento: la satira e la spettacolarizzazione della politica nel talk show
(vedi La Zanzara di Radio24) e la narrazione e lo storytelling nei documentari di ultima generazione, sia per la radio (Tre Soldi su Radio3), che per il web.
Una definizione ibrida ed operativa del macro-genere dell’intrattenimento
parlato nella radio contemporanea dovrebbe quindi secondo noi contenere il
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varietà radiofonico (da Viva Radio2 di Fiorello al Trio Medusa e Lo Zoo di 105),
il morning show, il talk show, la drammaturgia in tutte le sue declinazioni
– radiodramma, fiction e sceneggiato, audiodramma, storytelling – fino al
documentario (che gli americani chiamano, appunto, factual entertainment)
e alla docu-fiction.
Ad ognuno dei sotto-generi di queste due grandi categorie dedicheremo
un capitolo a sé.
Infine concludo questa introduzione con una nota, per me fondamentale,
sul concetto di ascolto.
Questo libro si sofferma sui generi dell’ascolto radiofonico. E sottolineiamo
ascolto, non a caso. Perché ascoltare la radio è differente dal sentire. L’atto
dell’ascolto è una pratica culturale che implica il dare attenzione a qualcosa, per
distinguere il significato di un suono. “L’ascolto enfatizza l’attenzione verso
qualcosa o qualcuno, il sentire invece enfatizza la percezione e la sensazione
di un suono” (Lacey 2013, p. 17). L’ascolto radiofonico implica un’attività
dell’orecchio e della mente, entrambi concentrati nell’interpretazione di
un “testo” sonoro. Sentire la radio non significa per forza comprenderne il
“testo”, ma evoca piuttosto un “ascolto” distratto, passivo, di sottofondo,
effimero, passeggero. L’ascolto è un’attività della mente. Si ascolta con la
mente attiva, ma si sente con il corpo. Di un brano musicale trasmesso alla
radio possiamo apprezzare le sfumature culturali del testo, la complessità
della sua composizione musicale, la sua forza innovativa, oppure percepirne
soltanto il ritmo, il suono, i battiti per minuto, che ci fanno muovere il
corpo, salire i brividi alla pelle o anche solo tamburellare le dita sul volante.
Anche se la radio è oggi più spesso sentita che ascoltata (i programmi
cosiddetti di flusso raccolgono più ascoltatori di quelli della radio, detta,
impropriamente, di parola), questo libro tenta di mettere a fuoco la
genealogia di quei contenuti radiofonici pensati per l’ascolto e non solo per
essere sentiti, percepiti in sottofondo. Eppure, anche l’ascolto contiene in
sé diverse sfumature. Kate Lacey per esempio, distingue tra ascolto serio e
ascolto popolare (2013, p. 46). Il primo è il frutto di un lavoro intellettuale,
di un’interazione tra l’ascoltatore ed un testo ed è il prodotto e il segno
distintivo dell’accumulo di un certo capitale culturale. L’ascolto serio è
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elitario, attento, continuo, immersivo, necessita di uno sforzo cognitivo
costante ed è associato, secondo Lacey, soprattutto a chi ha già una certa
cultura letteraria. L’ascolto popolare, è al contrario, accessibile, mondano,
costituisce una fuga dal quotidiano ed è orientato più al rilassarsi, al tempo
libero che al lavoro intellettuale dell’interpretazione di un “testo” sonoro.
L’ascolto popolare sembra una forma più passiva di ascolto, appena un
gradino più su del sentire la radio. L’ascolto serio è spesso associato ad un
ruolo attivo dell’ascoltatore, che rielabora e decodifica il “testo” radiofonico
in autonomia e spesso decide di prendere parte al testo stesso, attraverso
il telefono, gli sms o i social media. Eppure non bisogna dimenticare che
anche restare in silenzio ad ascoltare, con attenzione, un contenuto serio
o popolare, non è né un segno di passività né un atto di sottomissione ma
una tappa fondamentale del processo di comunicazione. Bisogna imparare
ad ascoltare, prima di tutto. Ascoltare è un gesto prima di tutto politico. E
questo libro prova ad insegnare ad ascoltare con più attenzione una serie di
“testi” radiofonici.
Riferimenti bibliografici
AA.VV., Why it works. 28 case histories of European public radio formats,
Ginevra, report presentato all’EBU General Assembly, 2011.
Bolter J. D., Grusin R., Remediation: understanding new media, Cambridge,
MIT Press, 2000.
Douglas S., Listening In, Minnesota, Minnesota University Press, 2001.
Lazarsfeld P., The people look at radio, Chapel Hill, University of North
Carolina Press, 1946.
McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Milano, Garzanti, 1964.
Kay A., “Computer Software”, Scientific American, 52, 1984.
Ortoleva P., Scaramucci B. (a cura di), Radio, Milano, Garzanti, 2003.
Williams R., Televisione, tecnologia e forma culturale (1974), Roma, Editori
Riuniti, 2000.
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Il Varietà
Rivista e varietà
La rivista è un genere di spettacolo d’arte varia costituito dal susseguirsi di
numeri di prosa, di musica o di danza, di scenette umoristiche uniti da una
trama (spesso pretestuosa) e dalla presenza di personaggi fissi, tra cui la soubrette. Preceduta da esperienze come i cafè-chantant, l’operetta, il vaudeville e il music hall dei paesi anglosassoni, la rivista si affermò in Italia negli
anni Venti e conobbe grande fasto fino agli anni Cinquanta grazie a figure
come Ettore Petrolini, Wanda Osiris e Renato Rascel (De Matteis 2008).
Con l’avvento del cinema sonoro la rivista si adattò alle sale cinematografiche, dando vita al cosiddetto “avanspettacolo” che precedeva la proiezione
del film. Sebbene la rivista e la radio si siano affermate in Italia contemporaneamente, la radiofonia non si appropriò immediatamente del nuovo genere artistico: il carattere serioso, ufficiale e paternalistico dei primi anni della
radio italiana bandì dai palinsesti qualsiasi spettacolo frivolo. Le rare forme
di intrattenimento si ridussero a commediole moraleggianti, musica leggera
e conversazioni umoristiche.
Bisogna attendere gli anni Trenta per i primi esperimenti di spettacolo
radiofonico. Il primo spettacolo radiofonico di rivista è considerato Un’ora con
te, di Morbelli e Nizza, andato in onda il 7 marzo 1933 (Ortoleva, Scaramucci
2003). La formula, destinata a ricevere un vasto successo, prevedeva
l’abbinamento di testi densi di richiami alla letteratura (d’appendice), temi
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d’attualità, molta musica, spesso strutturata sulla parodia delle canzoni più
celebri. Non c’era una storia, ma un susseguirsi di diverse attrazioni (sketch,
canzoni, scenette). La radio offriva risorse sconosciute al teatro, come la
serialità: era possibile trasformare la rivista in un appuntamento seriale, con
personaggi ricorrenti e la reiterazioni di topoi in grado di originare veri e propri
tormentoni (es., cos’è oggi Zelig?), come nel caso de I Quattro Moschettieri,
prima rivista seriale della radio italiana: basata sull’accoppiamento di prosa,
musica e parodie di produzioni popolari, fu il prototipo della rivista musicale
a puntate. Dal 1937 in poi la programmazione radiofonica riservò uno spazio
sempre più ampio alle trasmissioni di rivista, messe in onda grazie a sponsor
pubblicitari. Il varietà è la forma che la rivista prenderà dopo la guerra: più
musica e affermazione della figura del conduttore (emersero figure come Mike
Buongiorno e Corrado). Negli anni Settanta si afferma l’improvvisazione
senza testi scritti (es. Alto Gradimento, di Boncompagni e Arbore)
Il Morning Show
Il Morning Show è quella particolare declinazione del varietà radiofonico che
va in onda nella fascia più pregiata della radio, quella del mattino. In Italia
la maggioranza degli ascolti si concentra tra le 7 e le 9 del mattino, quando
circa 21 milioni di persone si sintonizzano con la radio. Esistono varie declinazioni di questo formato, alcune più improntate all’informazione o all’infotainment (come Caterpillar AM su Radio2), altre più orientate al varietà
puro (come Chiamate Roma Triuno Triuno su RadioDeejay), a seconda della
natura dell’emittente. In Italia il formato prende piede negli anni Ottanta,
con la diffusione su scala nazionale delle radio private e la concorrenza sulla
fascia del mattino. Negli Stati Uniti, con lo spostamento del prime time radiofonico dalla sera al mattino, dovuto all’arrivo della televisione negli anni
Cinquanta, molti varietà serali sono stati trasformati direttamente in varietà televisivi oppure in morning show, conservando in entrambi i casi i nomi
originali. Uno dei morning show più famosi in Europa è Il Chris Moyles Show
– 8 milioni di ascoltatori a settimana, 1 milione di download di podcast al
mese, 11 per cento di share – presentato da Chris Moyles, che è terminato
quest’anno dopo anni di successo. Il Chris Moyles Show è stato il più famoso
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morning show della radio britannica trasmesso sul più popolare canale pubblico dedicato ai giovani, BBC One. Il format è comunemente detto “Zoo”.
Lo zoo è un format particolare di morning show normalmente condotto da
due-tre conduttori dalle “personalità molto caratterizzate, capaci di interpretare registri satirici, ironici, comici”. (Wilby P., Conroy A., 1994, p. 142).
La maggior parte degli zoo contemplano la presenza di personaggi fissi al telefono, di solito di finzione, giochi e scherzi telefonici. Il nome “zoo” deriva
dalle stranezze e dai rumori emessi in onda dall’eclettismo dei conduttori.
Fu usato per la prima volta dal direttore dei programmi della stazione locale di Dallas KZEW, Ira Lipson, nel 1976 ma diventò un vero e proprio format soltanto nella stazione Z-100 nata a New York nel 1980 (Keith, 2000).
Quando questa emittente divenne popolare le altre concorrenti iniziarono a
copiare il format dello zoo. Il format dello zoo si è diffuso nelle stazioni americane negli anni Ottanta ed è ormai un classico modello di morning show
della radio attuale2.
Il Chris Moyles Show si basa su alte proporzioni di parlato comico, i cui
blocchi possono durare anche molto a lungo, visto il carattere del personaggio
che conduce lo show. Le telefonate col pubblico sono un altro elemento
fondamentale del programma.
Nel 2011 la EBU ha compiuto una ricerca sui motivi del successo di
28 programmi di 7 radio pubbliche europee. Tra questi sono stati analizzati
anche alcuni morning show come il Chris Moyles e l’italiano Il Ruggito del
Coniglio, in onda su Radio2. L’analisi comparativa ha preso in esame un
giorno di trasmissioni, il 15 marzo 2011 e ne ha dedotto la formula chimica
di entrambi i format:
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In Italia il format dello zoo è stato importato e portato al successo da Radio 105, con il popolare
varietà Lo Zoo di 105, che lo ha virato verso un programma del primo pomeriggio, diretto ai giovani.
Un altro esempio di zoo, seppur coltissimo e rivolto a tutt’altro pubblico, può essere considerato il
varietà Il Dottor Djembé su Radio3.
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Le qualità dei due show riconosciute dalla ricerca si fondano sulla centralità dei personaggi al microfono, sulle loro capacità comico-satiriche, sull’alto
ritmo di conduzione e di alternanza di differenti elementi sonori, sulla capacità di interagire in maniera ironica ma onesta con gli ascoltatori al telefono.
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Riferimenti bibliografici
AA.VV., Why it works. 28 case histories of European public radio formats,
Ginevra, report presentato all’EBU General Assembly, 2011.
De Matteis S., Il teatro delle varietà: lo spettacolo popolare in Italia dal café
chantant a Totò, Firenze, La casa Usher, 2008.
Keith M., The Radio Station, New York, Focal Press, 2000.
Ortoleva P., Scaramucci B. (a cura di), Radio, Milano, Garzanti, 2003.
Wilby P., Conroy A., The Radio Handbook, Londra, Routledge, 1994.
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Il Talk Show
La radio prende molto da vicino il suono della parola e fa sentire nella loro materialità,
nella loro sensualità, il respiro, l’increspato, la polpa delle labbra, tutta una presenza
del muso umano (che la voce, la scrittura, siano fresche, morbide, lubrificate,
finemente granulose e vibranti come il muso di un animale), perché riesce a trascinare
lontanissimo il senso e a gettare, per così dire, il corpo anonimo dello speaker
dentro al mio orecchio: qualcosa granula, crepita, accarezza, raspa, taglia: gioisce.
Roland Barthes (1973)
La radio è un medium che enfatizza lo spettacolo dal vivo, la trasmissione in
diretta. È nata prima in diretta e solo successivamente sono state introdotte
le tecnologie per la registrazione (vinili, nastri, cassette, sistemi digitali) e la
fruizione (mp3 on demand, podcasting) dei programmi in differita.
Anche quando i programmi vengono registrati si cerca di ricreare
l’effetto della diretta, quello che gli addetti ai lavori chiamano finta diretta.
Mentre la fiction, sia radiofonica che televisiva, è un prodotto registrato e
poi trasmesso, i talk show e in generale i programmi con una conduzione
parlata sono quasi sempre in diretta, accadono nello stesso momento in cui
vengono ricevuti dall’ascoltatore. La diretta – quella sensazione di esistenza
della voce in tempo reale – è uno “degli effetti più importanti e pervasivi
della radiofonia”, sostiene Paddy Scannell (1991, p. 2). Il parlato radiofonico,
prosegue Scannell, è sempre intenzionalmente comunicativo: il pubblico
17
non ha l’impressione di essere in ascolto di una conversazione rubata, diretta
ad altri. Ogni conversazione radiofonica, anche quando è tra due persone
che si conoscono molto bene e danno l’impressione di non fare caso a chi
sta ascoltando in quel momento, è una conversazione pubblica, indirizzata
alla folla invisibile, spazialmente dispersa ma emotivamente connessa. Ogni
conversazione radiofonica ha una doppia articolazione: “è un’interazione tra
le persone coinvolte nella discussione (il conduttore e i suoi ospiti) e, allo
stesso tempo, è progettata per essere ascoltata, seguita e compresa da un
pubblico assente” (Scannell 1991, p. 2). Sulla forma della comunicazione
parlata alla radio la letteratura accademica è vasta, a partire dai classici studi
di Turow (1974) e Avery, Ellis e Glover (1978).
Il parlato radiofonico nasce come monologo di uno speaker basato su
un testo, ma presto si scopre la forma dialogica, spesso improvvisata. Già
nel 1928, Hilda Matheson, allora nuova Direttrice del Talk Department
della BBC, si interrogava sulle forme che doveva prendere il parlato e le
modalità della comunicazione al microfono. La Matheson condusse una
serie di esperimenti che la portarono a concludere che era inutile indirizzare
la conversazione al microfono come si era soliti fare ad un incontro pubblico,
o addirittura leggere interi saggi e articoli.
“La persona seduta dall’altra parte si aspetta di essere chiamata in causa
personalmente, in maniera diretta, semplice e usando modi familiari, intimi,
da uomo a uomo” (Matheson 1933, p.75). La radio non può parlare alle
masse in maniera indistinta, deve parlare loro come si fa con dei singoli
individui. Se è vero che tutti i generi radiofonici in diretta, parlati o musicali,
devono riuscire a parlare “da uomo a uomo” al pubblico, lo è ancora di più
per il talk show.
Il Talk show è un programma radiofonico (e successivamente televisivo)
in cui uno o più ospiti affrontano e discutono temi d’attualità presentati da
un conduttore. Di solito gli ospiti invitati, presenti in studio o al telefono,
sono esperti del tema o hanno a che fare con la puntata in corso.
Oltre all’intervento degli esperti, un talk show può prevedere anche
l’intervento del pubblico e delle sue opinioni sul tema in discussione, attraverso
il telefono. Questo tipo di programmi viene chiamato negli Stati Uniti call-in
18
show. Di solito le telefonate in arrivo vengono filtrate da un redattore o
produttore dello show, che sceglie le più adatte alla puntata in corso. Questo
formato prevede di solito una forte caratterizzazione del conduttore, che
viene riconosciuto come un personaggio non neutrale, con le sue idee e
le sue posizioni. Nelle radio commerciali il format ha durate variabili da
una a tre ore, è diviso in blocchi separati da cluster (grappoli) pubblicitari e
non prevede stacchi musicali. Nelle radio pubbliche o comunitarie, al posto
degli stacchi pubblicitari viene invece spesso usata la musica. Negli Stati
Uniti, dove il formato è nato e si è raffinato, sono emerse col tempo diverse
variazioni del modello originale: il talk politico conservatore, l’hot talk, il
talk politico-liberal, il talk sportivo.
La storia di questo genere è lunga come quella della radio: il dibattito
politico e la discussione di opinioni sull’attualità è una caratteristica della
radio fin dalla sua nascita. Uno degli show più famosi d’America nell’età
dell’oro della radio è quello del controverso parroco Padre Charles Coughlin,
che a partire dalla metà degli anni Trenta predicava alla radio raggiungendo
milioni di americani ogni settimana. Nel 1935 inizia anche il programma
America’s Town Meeting of the Air, in cui venivano trasmessi una serie di
dibattiti pubblici a cui prendevano parte importanti giornalisti e al pubblico
in sala era permesso fare domande e commentare. Il talk show nel formato
che prevede l’interazione col pubblico esiste almeno da metà anni Quaranta.
Leggenda vuole che il dj Barry Gray della WMCA di New York, un pomeriggio
del 1945, stanco di trasmettere musica, decise di avvicinare il ricevitore
telefonico al microfono per far ascoltare la sua telefonata col musicista Woody
Herman. Dopo di lui, molti programmi cominciarono ad aprire i telefoni agli
ascoltatori, dando vita ai primi call-in show. Negli anni Cinquanta e Sessanta,
la diffusione della televisione aveva spinto la radio a specializzarsi in formati,
non solo musicali. Dal format del talk show, un programma singolo dedicato
ai dibattiti, alcune stazioni cominciano a dedicare la maggior parte della loro
programmazione alla conduzione parlata. Due stazioni americane locali, la
KMOX Am di St. Louis e la KABC Am di Los Angeles sostengono di essere
state le prime stazioni, nel 1960, a convertirsi completamente al formato
talk, dedicando l’intero palinsesto a programmi parlati, dibattiti, notizie,
19
approfondimenti e microfoni aperti con gli ascoltatori. Negli anni Settanta
e Ottanta, con la diffusione della stereofonia e della trasmissione in Fm,
il pubblico delle radio musicali in Am si sposta verso le nuove stazioni in
modulazione di frequenza e molte radio in Am si convertono al formato talk
ma il vero boom di questo tipo di trasmissioni negli Stati Uniti si ha tra gli
anni Ottanta e Novanta, dopo l’abrogazione nel 1987 della Fairness Doctrine
(la “dottrina dell’imparzialità) introdotta da Roosevelt nel 1949. Secondo
lo scrittore americano David Foster Wallace, che al talk show radiofonico
ha dedicato uno splendido saggio (2004), l’aumento della popolarità delle
talk radio politiche è dovuto a tre fattori: 1) lo strangolamento delle stazioni
musicali Am da parte delle Fm a inizio anni Ottanta; 2) la revoca da parte
del governo Reagan della dottrina dell’imparzialità, una norma del 1949
secondo la quale, per ottenere una licenza di trasmissione, l’emittente
doveva “dedicare un ragionevole tempo alla copertura di questioni
controverse di pubblico rilievo” e di conseguenza doveva offrire agli opposti
schieramenti l’opportunità ragionevole di esprimere il loro punto di vista.
La revoca della dottrina rientrava nella politica di deregulation reaganiana,
per sbrigliare le attività produttive. La logica rooseveltiana che informava la
dottrina dell’imparzialità vedeva nell’etere un bene comune, pubblico, il cui
sfruttamento per fini commerciali poteva essere autorizzato e concesso ai
privati in cambio di un impegno da parte loro ad assolvere ad una porzione
di servizio pubblico; 3) la distribuzione del Rush Limbaugh Show – il primo
talk politico conservatore – a livello nazionale a metà anni Ottanta. Rush
Limbaugh, (imitato in Italia da Giuliano Ferrara) inizia il suo show politico
nel 1984 in una radio locale di Sacramento, per poi crescere in popolarità
fino ad essere acquistato e distribuito su scala nazionale nel 1988. Da
quel momento, non più frenato dalla dottrina dell’imparzialità, Limbaugh
dà vita ad un talk aggressivo, partigiano, apertamente schierato a destra
e conservatore nei valori, un modo di parlare al microfono inedito per
l’informazione dell’epoca, abituata a un certo equilibrio. Limbaugh è anche
inventore dello schema retorico del condizionamento liberale dei mezzi
di informazione. Prima di lui, i talk pomeridiani erano caratterizzati da
personaggi non apertamente schierati, generalisti nei contenuti. Limbaugh
20
ha cambiato per sempre il modello del talk politico, dando vita ad una
lunga serie di cloni. Foster Wallace, nel suo saggio del 2004, analizza uno
di questi cloni, il John Ziegler Show, smontandone la retorica. Wallace svela
la struttura del talk, che apre sempre con una frusta, ovvero il monologo
emotivo che dovrebbe riscaldare gli animi degli ascoltatori e provocarne la
reazione, sottolinea la ricerca del conduttore di un mostro, un nemico contro
cui scagliarsi ogni puntata e la scelta di un linguaggio indignato, arrabbiato,
da parte del conduttore. Il conduttore dello show, scrive Wallace, è sempre
in cerca del suo nemico-feticcio, il suo mostro ricorrente. Anche nel rapporto
con gli ascoltatori al telefono, il conduttore del talk si caratterizza per un
linguaggio diretto, crudo, provocatorio, in cerca dello scontro. E quando lo
scrittore gli fa notare che come giornalista avrebbe delle responsabilità nel
modo in cui racconta l’informazione, il conduttore gli fa notare che lui non
è un giornalista, che lui fa intrattenimento. Ecco svelata, secondo Wallace,
la natura intima dei talk politici: intrattenere, tenere agganciati all’ascolto.
La chiusa del saggio è memorabile: “Perché lo si può quasi sentire, in che
mondo squallido e spietato vive questo commentatore – crede, anzi no, sa
per certo di viverci. Quanto a me, sono più tipo da dubbi”.
Il successo di questa evoluzione del talk politico, ovvero il talk partigiano,
di solito conservatore e di destra, alimenta la diffusione del formato, tanto
che nel 1995 la FCC riporta che su circa 11.834 stazioni presenti negli Stati
Uniti 1.005 trasmettono in Am col formato talk/talk&news e 304 in Fm.
Oggi le stazioni che hanno adottato questo formato sono in aumento.
Secondo Arbitron (2012) sono 1503, hanno un pubblico settimanale di 47
milioni e sono ascoltate soprattutto da maschi bianchi di cultura medio-alta
che guadagnano più di 50.000 dollari all’anno.
Il successo è così vasto che molti si chiedono se questa nuova esposizione
a una comunicazione politica così sbilanciata verso destra non condizioni
le opinioni politiche degli ascoltatori. Barker (1999, 2002) dimostra che
in effetti una parte del campione di ascoltatori analizzato nei suoi studi,
ha cambiato opinione politica in seguito all’esposizione continuata ai talk
radiofonici nel periodo 1994-96. Anche Bennett (2002) e Bobbitt (2010)
dimostrano che i talk show politici esercitano una certa influenza nel dare
21
forma alle opinioni politiche. Quali che siano gli effetti di queste trasmissioni
o i fini faziosi di certi conduttori però, secondo Foster Wallace (2004) è
sbagliato pensare che le talk radio politiche siano motivate dall’ideologia. È
business, motivato dalla logica del profitto: questo tipo di programmi avevano
registrato nel 2004 un aumento dei profitti del 10 per cento, dovuto ad una
legge del 1996, la Federal Telecommunications Act, che permise alle società
radiofoniche di acquistare fino a 8 emittenti all’interno di un determinato
mercato e di controllare fino al 35 per cento dei profitti totali della pubblicità
di un mercato. Questo ha permesso la formazione di grandi conglomerati
mediali, come Clear Channel, gruppo che detiene il possesso di circa 1300
stazioni negli Stati Uniti e può fare economie di scala creando stazioni simili
in mercati diversi.
Nel 2004 il Pew Research Center affermava che il 17 per cento del
pubblico radiofonico americano ascoltava regolarmente una o più talk radio.
Questo pubblico era per lo più maschio, di mezza età e conservatore.
Nel 2012 i dati d’ascolto di questo formato sono tra i più positivi della
radio americana e in testa ci sono soprattutto i talk politici di destra, come si
vede dalla tabella qui di seguito:
programma
format
fascia
ascoltatori settimanali in mln
The Rush Limbaugh Show
Talk politico conservatore
12.00-15.00
14,75
The Sean Hannity Show
Talk politico conservatore
17.00-19.00
14+
Morning Edition
Public news
6.00-9.00
12
All Things Considered
Public news/talk
17.00-19.00
11+
Marketplace
Public news
17.00-19.00
9+
Glenn Beck Program
Talk politico conservatore
6.00-9.00
8,25
The Mark Levin Show
Talk politico conservatore
17.00-19.00
8,25
Fig. 1 I talk show più seguiti negli Stati Uniti. Arbitron, 2012.
Col tempo, affianco ai talk conservatori si sono però sviluppati altri modelli
di talk politici: religiosi, moderati, liberal. Nel 2004 è nato AIR America, un
network di stazioni che si definiva un’“alternativa progressista” ai talk conservatori e che ha ospitato per anni The Al Franken Show, ma nel 2010 la
rete ha dovuto chiudere per problemi finanziari. Il più importante show progressista americano è ospitato dalle antenne di Pacifica Network, la quale è
22
però disponibile soltanto in alcune delle maggiori città americane. Lo show
si chiama Democracy Now!, è nato nel 1996, è condotto da Amy Goodman
ed è trasmesso da 1000 stazioni radiofoniche, televisive, satellitari in tutto il
mondo (Coyer, Dowmunt, Fountain, 2007). Lo show è apertamente radicale ed è famoso per l’intervista a Bill Clinton del 2000, quando il Presidente
americano concluse dicendo che la conduttrice era stata “ostile e aggressiva”. Un’indagine del 1996 dell’Anneberg Public Policy Center sul pubblico dei
talk show mette ben in evidenza le differenze di classe, genere, cultura e status economico tra il pubblico dei talk politici:
Dati demografici
Non ascoltano Rush Limbaugh Conservatori
Moderati/Liberal
Maschi
47,2
61
54
54,8
Femmine
52,8
39
46
45,2
18-29 anni
22,1
18,8
16,9
14,9
30-49 anni
44,4
43
49,3
53,6
50-64 anni
19,1
21,3
19,1
16,7
65+ anni
14,4
16,9
14,7
14,9
Non diplomati
10
3,3
3,6
6,8
Diplomati
35,1
31,3
21,6
26,7
Non hanno finito
26,7
30,8
34,5
20,6
Laureati
28,2
34,6
40,3
45,9
20.000 $
25,7
14,3
12,9
18,7
20-30.000 $
20,5
21,9
12,1
19
30-50.000 $
26
24,5
30,6
23
50.000 $+
27,8
39,3
44,4
39,3
Bianchi
77,5
89,2
83,5
79,2
Non Bianchi
22,5
10,8
16,5
20,8
Conservatori
32,4
70
47,8
19,5
Moderati
44,2
21,4
34,1
51,1
Liberal
23,3
8,6
18,1
29,4
università
Fig. 2 Ascoltatori dei talk politici per segmenti demografici. Annenberg Public Policy Center of the
University of Pennsylvania, 1996.
23
Hot talk
Questo tipo di talk show non ha niente a che fare con la politica. È noto anche come Fm talk o shock talk ed è diretto solitamente ad un pubblico maschile compreso fra i 18 e i 49 anni. Il tema delle puntate è generalista, più
orientato verso la culturale popolare, i temi di costume e società. Negli Stati
Uniti uno dei più noti programmi di questo genere è l’Howard Stern Show,
famoso soprattutto negli anni Novanta e ora in onda sui canali radio satellitari. Sulla costa occidentale è diventato molto famoso Pìolin por la Mañana,
lo show di un ex clandestino messicano, Eddie Piolin Sotelo. Oggi trasmesso
in più di 100 stazioni in tutto il paese, questo programma tratta spesso temi
politici relativi all’immigrazione ma rimane uno shock talk a metà tra il modello di Howard Stern e il formato dello zoo.
Sport talk
Questo tipo di formato è popolare negli Stati Uniti sia nelle radio locali che
nazionali. Indica sia i programmi dedicati al dibattito sportivo, sia il formato
di un’emittente dedicata interamente all’informazione sportiva. Uno degli
show più famosi è il Jim Rome Show, al quale il sociologo Nylund (2004) ha
dedicato un’analisi in cui emerge che la retorica del programma è informata
dai valori del machismo e della discriminazione di genere, un luogo in cui
conduttori, ospiti e ascoltatori mettono in scena la loro mascolinità.
La Talk radio in Italia
L’epoca della talk radio in Italia viene inaugurata con ampio ritardo rispetto
a Stati Uniti ed Europa, per paura di perdere il controllo sul messaggio trasmesso. La versione italiana del talk vide la luce infine nel 1969 da un programma del servizio pubblico, Chiamate Roma 3131, il primo ad introdurre
le telefonate del pubblico in diretta, in onda tutte le mattine dalle 10.40 alle
12.15. Per la prima volta dalla sua fondazione, la RAI introduceva all’interno
del flusso radiofonico la voce degli ascoltatori, seppure attraverso un lungo
processo di filtro e selezione degli interventi. La “rivoluzione” era figlia dei
tempi – siamo nell’anno successivo al Sessantotto – che avevano messo in
discussione l’autorità dei padri e delle istituzioni in genere ma venne in parte
24
mitigata dal modo in cui venne realizzata. La direzione democristiana dell’epoca (Bernabei) decise di aprire alle telefonate del pubblico ma filtrandone
dapprima i contenuti e selezionando i conduttori più moderati. Il talk prese subito la forma dei suoi conduttori più rappresentativi, Paolo Cavallina e
Franco Moccagatta, che Ortoleva definisce pieno di “buoni sentimenti e dai
toni moderato-conservatori, con forte accentuazione etico-cattolica” (2003,
p. 164). La diffusione delle radio private a metà degli anni Settanta spinse
la RAI a modificarne i contenuti e i modi, virandoli verso un dialogo meno
rigido e ingessato. Nel 1979 la trasmissione cambiò nome in Radiodue 3131 e
il nuovo conduttore, Corrado Guerzoni, la trasformò in un programma molto più aperto verso il pubblico, seppure la pratica del filtro degli interventi
si sia mantenuta inalterata fino ad oggi e sia stata estesa a tutti i programmi con telefonate della RAI. Guerzoni la condusse fino al 1990. Nel 1980,
in seguito al terremoto in Irpinia l’allora direttore di Radio2 si improvvisò
conduttore di La loro voce, programma nato nell’emergenza del disastro ambientale, che, servendosi delle linee del 3131 (lo 06-3131, appunto) creò nei
giorni successivi al terremoto una straordinaria rete di collegamento tra i sopravvissuti e i parenti lontani. Il programma cambiò nome, formato e conduttori più volte nel tempo. Ogni cambio di conduttore ne determinava un
nuovo cambio di contenuti e forma. Al microfono nel tempo si alternarono
Gianluca Nicoletti, Barbara Palombelli, Enrica Bonaccorti, Pierluigi Diaco,
che la condusse dal 2000 al 2006, data del definitivo ritiro del format. Oltre
a Chiamate Roma 3131 la RAI ha poi prodotto altri talk con telefonate del
pubblico, di natura più politica, come nel caso delle longeve trasmissioni
Radio Anch’io e Zapping, tuttora in onda su Radio1, ma la vera rivoluzione di
linguaggio arriverà con l’uso delle telefonate da parte delle radio libere negli anni Settanta e con la nascita del formato, tutto italiano, del Microfono
Aperto. Innanzitutto le radio libere dell’epoca aboliscono il filtro (anche per
una semplice carenza di redattori in studio) alla partecipazione telefonica
del pubblico: il conduttore in onda prendeva le telefonate che arrivavano
senza poterle scegliere, gestendo in diretta il flusso di opinioni differenti che
si inserivano nel suo discorso. Per le radio politiche e di controinformazione dell’epoca, le telefonate degli ascoltatori, la conversazione comunitaria
25
intorno ad un tema caldo dell’attualità, costituivano la spina dorsale del palinsesto. Era nel contatto col pubblico, fino a quel momento precluso dagli
altri mezzi di comunicazione, che risiedeva il valore dirompente delle radio
libere. Il contenuto delle radio libere erano i loro ascoltatori, la loro comunità. Tra queste radio quella che più di tutte ha raffinato il modello del microfono aperto è stata Radio Popolare, che dal 1976 ha in palinsesto un programma che porta questo nome, in onda al mattino nella fascia 9.00-12.00
(con variazioni nel tempo). Lo descrive così il direttore di Radio Popolare
dell’epoca, Piero Scaramucci, in occasione del trentennale della nascita della
radio (2006, p. 272):
Soprattutto inventammo il microfono aperto: telefonate senza filtro, in studio con
ospiti o senza, gli ascoltatori che chiedono, discutono, danno notizie...All’epoca era
una novità dirompente. Il linguaggio era assai più castigato di oggi, le provocazioni
politiche, in anni di terrorismo, erano temute. “E se chiamano le BR? E se qualcuno
dice una parolaccia?”. Chiamarono i fautori della lotta armata, chiamarono i
dispensatori di espressioni colorite. Ma ovviamente non successe nulla di grave.
Anni dopo Paolo Hutter fece parlare i fascisti, polemiche esplosive, ma cresceva
l’idea che si potesse, dovesse, parlare di tutto e che per sapere si dovesse ascoltare
di tutto...
Prima di internet e dei contenuti generati dagli utenti c’era già la radio e la
costruzione collettiva di un discorso orale che prendeva forma in tempo reale, sotto le orecchie degli ascoltatori, un’anticipazione dell’immediatezza e
della disintermediazione della comunicazione operata in seguito da social
network come Twitter.
Nel panorama radiofonico contemporaneo, in una società immersa in un
ecosistema mediale saturo di piattaforme e messaggi, il semplice intervento
degli ascoltatori in diretta non basta più. La radio non è più, da molto
tempo, il luogo privilegiato dell’interazione e dell’espressione delle opinioni.
Esistono molti altri mezzi per partecipare alla sfera pubblica senza passare
da essa, dai blog ai social network, eppure la radio resiste come palcoscenico
26
della condivisione delle opinioni.
Radio3 dedica tutte le mattine un microfono aperto con gli ascoltatori
sugli argomenti dell’attualità con Tutta la città ne parla e dal 1999 esiste anche
una radio interamente votata al formato talk & news, Radio24 IlSole24Ore,
all’interno della quale sono nati diversi talk show con interventi del pubblico,
in particolare La versione di Oscar, un talk del mattino, ascrivibile al modello
americano del talk politico conservatore, con tonalità “evangeliche”; Melog,
un hot talk condotto da Gianluca Nicoletti su temi di cultura popolare; A
tempo di sport (ora diventato Tutti Convocati), un talk sportivo; La Zanzara,
un format che ha vissuto diverse stagioni ma che nella sua ultima versione
più orientata verso l’infotainment, mescola elementi del talk politico
conservatore ad elementi del formato zoo, con sempre più spazio ad ospiti in
studio e sempre meno tempo per l’interazione con gli ascoltatori. La novità
di questi formati rispetto ai modelli del microfono aperto sta nella forte
caratterizzazione del conduttore, che diventa un personaggio-star, come
nel caso dei talk show americani e nella spettacolarizzazione dei contenuti,
complice la velocità di propagazione, grazie a Twitter, You Tube e le agenzie
di stampa, delle dichiarazioni rilasciate dagli ospiti in studio.
Da notare in Italia anche il successo delle talk radio interamente dedicate
allo sport e al calcio in particolare, che hanno rivitalizzato l’emittenza locale.
Riferimenti bibliografici
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Turow J., “Talk show radio as interpersonal communication”, Journal of
Broadcasting & Electronic Media, vol. 18, n.2, 1974, pp. 171-180.
28
Lo spettacolo drammaturgico: radiodrammi, audiodrammi, serial
Il radiodramma
Radio drama (audio drama, audio play, radio play, radio theater) è una performance acustica, trasmessa alla radio o pubblicata su un media sonoro, come
una cassetta, un CD, un mp3, un podcast (audiodramma). Senza componenti visive, il radiodramma dipende dal dialogo, dalla musica e dagli effetti sonori per aiutare gli ascoltatori a crearsi l’immagine della storia. (Tim Crook,
1999). È un’opera originale pensata per la radio, di durata varia – nel tempo
si sono stabilizzati soprattutto i formati da 10-15 minuti, mezz’ora, un’ora –,
non seriale. Si distingue dal teatro radiofonico per la sua originalità, mentre
il primo è la semplice trasmissione di uno spettacolo teatrale. In Germania
questa distinzione viene formalizzata nell’uso di tre parole differenti: shauspiel (spettacolo teatrale), sendesspiel (spettacolo teatrale radiotrasmesso) e
hörspiel (opera drammatica per l’ascolto, Malatini, 1981). In Francia prende subito diversi nomi: “teatro dello spazio/teatro del verbo/audiodramma/
teatro invisibile” fino ad attestarsi su radiodramma e/o jeu radiophonique. In
Messico curiosamente l’hörspiel viene chiamato “teatro dell’aria”, in ogni caso i primi tentativi di definire il genere pagano tutti il debito con il medium
di origine, il teatro. È in Inghilterra che il genere prende per la prima volta la
forma attuale di spettacolo originale scritto per la radio, che rispecchia lo specifico del mezzo sonoro. Il primo vero radiodramma della storia viene infatti
trasmesso dalla BBC il 15 gennaio del 1924, si intitola Danger! ed è scritto dal
ventiquattrenne Richard Hughes, che, anni dopo, ricorderà così quella sera:
29
“Il nostro pubblico era abituato ad usare i propri occhi; noi lo stavamo
introducendo ad un mondo completamente cieco. Col tempo avrebbero
accettato queste nuove convenzioni, ma come avrebbero reagito in questa prima
occasione? Meglio render loro la vita facile, almeno la prima volta. Qualcosa
che accade al buio, per esempio, in cui gli stessi personaggi si lamentano di non
poter vedere niente, messi nella stessa condizione degli ascoltatori. Forse così
avremmo potuto convincere il pubblico a spegnere le luci e ascoltare al buio”
(Richard Hughes, 1956)
Il radiodramma apparteneva ad un contenitore di drammi in onda dalle
19.30 fino alle 21.15, il prime time dell’epoca. Quello di Hughes era l’unico
originale radiofonico, gli altri erano adattamenti teatrali. Questo era il programma della serata:
London An Evening of Plays produced by Mr. Nigel Playfair’;
Vachel Lindsay, ‘The Blacksmith’s Serenade’;
Jane Austen, ‘The Proposal Scene from Pride and Prejudice’;
Richard Hughes, ‘A Comedy of Danger’ (Author of ‘The Sisters’ Tragedy’);
A.P. Herbert, ‘Ladies Night or the Annual Dinner of the National Society
for Eating Less Meat’;
Incidental music by the “2LO” Light Orchestra (S.B. to Glasgow);
Plays arranged and produced by Nigel Playfair3.
Burrows, allora direttore dei programmi della BBC, fu il primo ad
accorgersi che con quell’opera si aprivano nuove possibilità linguistiche per
quel “nuovo medium”:
Penso che tutti quelli che hanno ascoltato questo primo tentativo di costruire
una vera situazione drammatica soltanto attraverso gli effetti sonori dovranno
ammettere che è stato davvero intrigante e ci pone di fronte a un ampio raggio di
nuove possibilità espressive (Burrows, 1924)
Anche Nigel Playfair, produttore del dramma, si accorse della novità e
dell’importanza di quella prima opera:
3
Programma pubblicato su The Radio Times, 15 gennaio 1924.
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Per me rappresenta una delle migliori opere mai trasmesse. Con Danger abbiamo
finalmente qualcosa pensato soltanto per l’etere; la scena era ambientata in una
miniera di carbone, ed era pensata per essere ascoltata e basta. Se quest’opera fosse stata
rappresentata a teatro avrebbe dovuto essere messa in scena nella più completa oscurità.
Gli attori e l’azione sarebbero rimaste invisibili. Era quindi ideale per la radiofonia
e probabilmente nemmeno troppo adatta al teatro. Penso che è una storia che abbia
guadagnato dal fatto di essere trasmessa alla radio (Playfair, “Popular Wireless”, 1929)
Lo studioso inglese di storia del radiodramma Alan Beck (2001) ci restituisce un resoconto molto dettagliato di come fu accolto il radiodramma dagli
addetti ai lavori dell’epoca e dai media.
La recensione del Manchester Guardian relativa alla ritrasmissione
dell’opera il 6 dicembre del 1930 ne parlò come di un “esempio di alto
artigianato dell’etere sonoro” che “mostra i tratti essenziali del dramma via
etere” e ne apprezzò la caratterizzazione psicologica dei personaggi e il potere
del climax (quando i tre protagonisti, una coppia di giovani e un vecchio,
stanno per essere sopraffatti dall’acqua che ha invaso la miniera). Secondo
Val Gielgud Danger dimostrò una “genuina comprensione della realtà e delle
possibilità del nuovo medium” (1957, p. 20).
Hughes era molto giovane e si trovò di fronte un mezzo espressivo
completamente nuovo, che poneva domande e problemi mai affrontati. Una
delle prime novità dell’opera fu l’abolizione della figura del Narratore, una
cosa oggi scontata ma che all’epoca non era mai stata fatta. In un’intervista
del 1956 lo stesso Hughes ammetterà che durante le prove non aveva idea di
come avrebbe potuto realizzare gli effetti sonori in diretta: “avevo disseminato
il testo di effetti sonori che non ero capace di realizzare!” (1956). Come
rendere l’effetto delle voci in un tunnel? Playfair risolse il problema facendo
infilare le teste degli attori in dei cilindri. Poi c’era il problema del coro di
minatori gallesi che si doveva udire in lontananza. A quell’epoca le strade di
Londra erano piene di minatori gallesi che cantavano in cambio di qualche
offerta. Ne vennero reclutati alcuni, ma una volta dentro lo studio questi
non smettevano di cantare e rientravano troppo dentro l’unico microfono
dell’unico studio in cui si facevano le prove e da dove sarebbe partita la
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diretta. Così Playfair li posizionò fuori dallo studio, nel corridoio: quando il
testo lo avrebbe richiesto, Playfair avrebbe aperto la porta dello studio per far
sentire i canti dei minatori. Chiudendo la porta avrebbe simulato un effetto
di dissolvenza. Questi furono i due accorgimenti artigianali per risolvere le
questioni di risonanza e di controllo del volume. Durante le prove Playfair
aveva anche invitato i giornalisti ad assistere a quei primi esperimenti
dell’arte emergente. Il vero problema si presentò quando dovettero simulare
il suono di un’esplosione. Playfair si inventò un’esplosione facendo scoppiare
una borsa di carta accanto alla stanza dove erano posizionati i giornalisti.
L’effetto sui giornalisti sembra essere stato molto positivo, se il giorno dopo,
sul Daily Mail a pagina 7 il reporter scriveva:
Migliaia di persone hanno assistito in stanze oscurate al dramma Danger (…), la
prima opera scritta interamente per la radio (…) Chi l’ha scritta ha dovuto tenere
a mente che il suo pubblico non avrebbe potuto vedere la scena e l’azione avrebbe
dovuto essere rappresentata solo da suoni che dovevano essere in grado di simulare
lo scroscio e il fluire dell’acqua, l’esplosioni in una miniera e i colpi d’ascia nella
roccia. Gli ascoltatori erano stati avvisati che l’azione del dramma accadeva al buio
e si suggeriva loro di ascoltarla al buio, abbassando le luci domestiche. Un reporter
del Daily Mail ha assistito alla trasmissione in diretta. In una stanza illuminata
una giovane donna in vestito da sera e due uomini con in mano dei fogli di carta
declamavano al microfono il loro terrore per essere rimasti chiusi in una miniera.
Fuori dalla stanza, un giovane uomo sedeva in terra, con delle cuffie in testa: non
appena avesse sentito il testo procedere avrebbe dovuto segnalare ai suoi due assistenti
di produrre i rumori che l’azione richiedeva. In un passaggio c’erano cinque uomini
in corridoio che cantavano inni da minatori mentre la porta dello studio si apriva e
chiudeva per far entrare i loro canti. Miss Joyce Kennedy, Mr. Kenneth Kent and Mr.
H.R. Hignett hanno recitato molto bene.
Un’altra recensione fu invece trasmessa via radio il 23 gennaio 1924 e definì
Danger un “trionfo dell’arte radiofonica”:
Molti di noi, all’ascolto del programma a centinaia di miglia di distanza, con i nostri
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occhi chiusi e le nostre pulsazioni battenti, sentirono di essere presenti almeno con
lo spirito accanto a quelle persone agonizzanti in una miniera di carbone. La mia
ricezione via etere funzionava bene quando la donna nella miniera disse che l’acqua
le era arrivata al polso e stava per dire addio al suo fidanzato. Il giovane uomo a cui
saltarono i nervi fu particolarmente bravo a fare quella risata isterica. Nonostante la
situazione drammatica, sono state godibili anche le brevi battute umoristiche.
Danger fu riproposto per l’ultima volta dalla BBC nel 1981. Nello stesso anno
della prima trasmissione di Danger, il 1924, vedono la luce altri due drammi
nati per l’ascolto: il 19 ottobre viene trasmesso in Francia Maremoto di Pierre
Cusy e Gabriel Germinet, che provocherà negli ascoltatori una certa apprensione, antenata del ben noto “effetto Welles” del 1938 (Costa, 1999), nello
stesso mese in Germania viene prodotto Magia sulle onde di Hans Flesch. È
curioso notare come tutti e tre i primi radiodrammi della storia condividono l’ambientazione in un luogo con presenza d’acqua (la miniera allagata, il
mare) e un’impostazione proto-thriller.
In Italia gli esperimenti di drammaturgia iniziarono con notevole ritardo
rispetto agli altri paesi europei. L’URI bandì soltanto nel 1926, attraverso
il suo organo ufficiale “Radiorario”, un Concorso per un radiodramma
d’azione “comica o tragica”: la durata non doveva superare i 25 minuti, i
personaggi dovevano essere pochi e prontamente caratterizzabili e gli autori
dovevano “cercare di rendere l’ora e l’ambiente con rumori imitativi, battute
di dialogo e altri accorgimenti” (Ortoleva, 2003, p. 681). I risultati furono
però deludenti: secondo la giuria i radiodrammi pervenuti denotavano “una
generale povertà di invenzione e deficienza di forma, una mancanza assoluta
della tecnica indispensabile a questo nuovo genere d’arte, che dovrebbe
balzare viva l’azione dal dialogo”. La radio italiana, dopo l’esperimento di
Venerdì 13 di Gigi Michelotti, un adattamento radiofonico (e quindi non un
vero radiodramma, un originale radiofonico) tratto da un racconto di Mario
Vugliano e trasmesso il 18 gennaio 1927, attese fino al 3 novembre 1929
per mettere in onda il suo primo radiodramma, L’anello di Teodosio, un giallo
dalla trama esilissima. Il teatro radiofonico di prosa si alimentò a lungo del
repertorio teatrale dell’epoca: molto teatro naturalista, i classici, ai quali si
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affiancarono i primi tentativi di radiodramma, in cui si sperimentarono le
qualità di letterati di secondo piano, figure oggi dimenticate come Luigi
Chiarelli, autore del già citato L’anello di Teodosio o Alessandro de Stefani con
La Dinamo dell’Eroismo (tradotto per il cinema nel 1932). In genere i primi
esperimenti cercavano di eccitare la fantasia e lo stupore degli ascoltatori
riproducendo effetti sonori in gran quantità (Isola, 1998, p. 307).
I primi esperimenti di drammaturgia radiofonica italiana scontavano
una forte dipendenza dal medium teatrale. Tardò ad affermarsi in Italia una
tradizione di scrittori per la radio, capaci di “organizzare il mondo per le
orecchie” (Arnheim, 1936). Ortoleva (2003) ascrive il ritardo produttivo
italiano sia alla mancanza di autori e registi convinti del nuovo mezzo, sia
all’assenza di una specifica riflessione teorica sul genere, ma a questo va
aggiunta la scarsa diffusione della radio, che la rese, almeno nei primi dieci
anni di vita, poco attraente agli scrittori più affermati. Nel 1927 gli abbonati
al servizio radiofonico erano 30 mila e ancora nel 1931 erano saliti soltanto
a 200 mila unità (in Gran Bretagna erano già 4,3 milioni, De Benedictis,
2004), con buona pace di Mussolini, che faticava a trasformare la radio in
un’efficiente macchina per la costruzione del consenso sul modello tedesco.
Sulla storia e lo sviluppo del radiodramma in Italia è fondamentale la recente
ricerca di Rodolfo Sacchettini, La radiofonica arte invisibile (2011), al quale si
rimanda per maggiori approfondimenti. Il dibattito sull’estetica radiofonica
e sulle forme di questa nuova arte drammaturgica inizierà a muoversi negli
anni Trenta, grazie al Manifesto della radio come forza creativa, di Enzo Ferrieri
(1931), che fu il primo ad intravedere il potenziale drammaturgico della
radio. Nel 1933 Filippo Marinetti e Pino Masnata pubblicavano il Manifesto
della Radia, esaltandone le capacità di giustapposizione surreale di suoni
provenienti da luoghi geografici diversi. La lezione dei futuristi verso il puro
suono come tratto distintivo dello spettacolo radiofonico venne raccolta
da due giovani studenti universitari, Livio Castiglioni e Renato Castellani,
che nel 1934 proposero due opere caratterizzate dall’uso esclusivo di
elementi acustici, detti “suonomontaggi” (Ortoleva, 2003). Nel frattempo si
ponevano le basi per la nascita della figura del regista radiofonico, né regista
teatrale né autore dei testi, ma una figura produttiva specifica della radio,
34
capace di tradurre il testo di partenza in “immagine acustica” (Arnheim,
1936), dirigere gli attori, mescolare sapientemente suoni, rumori, musica e
parole inquadrandole in una complessa drammaturgia sonora. Tra i registi
italiani dell’epoca bisogna ricordare, oltre all’esperto Alberto Casella, anche
Guglielmo Morandi, Nino Meloni, Enzo Ferrieri, autore di uno dei primi
testi italiani di riflessione teorica sul mezzo, Manifesto della radio come forza
creativa (1931). Risale infatti ai primi anni Trenta la parola “regista”, con
cui si individua un ruolo specifico della radio, che il critico Enrico Rocca,
per la prima volta, definisce così: “la regia è l’arte di sonorizzare la vicenda
e di contrappuntare voci e rumori” (in Sacchettini 2011, p. 45). Nel 1935
l’autore Ettore Giannini firmò il primo vero radiodramma della storia
italiana, Isolato C, con la regia di Alberto Casella. Protagonisti di Isolato C
sono un casermone di periferia e due personaggi, Uno che pensa e Uno che
passa, “incarnazione di una stessa contraddittoria coscienza” (Malatini 1981,
p. 49), che visitano il palazzo dalla base al tetto, captando i rumori, i suoni
e le parole che li raggiungono attraverso i muri e le porte e immaginando i
fermenti, il respiro umano, il dramma e la farsa che accadono dietro quelle
porte. La struttura ricorda La vita: istruzioni per l’uso, romanzo strutturalista
di Georges Perec degli anni Settanta. La tecnica è innovativa: l’azione è
costruita per sequenze dal taglio “cinematografico”, sintetiche, allusive,
che si sovrappongono tramite dissolvenze incrociate, restituendo un ritratto
impressionista di personaggi e situazioni. La produzione drammatica italiana
nel periodo precedente alla guerra rimane tuttavia inferiore al resto d’Europa,
anche per un minore successo di pubblico, dovuto ad una penetrazione del
mezzo radiofonico nella società dell’epoca molto più basso rispetto a paesi
come Germania, Francia, Regno Unito.
Il radiodramma in Italia dal dopoguerra ad oggi
Nel 1949 la RAI istituisce il Prix Italia per premiare i prodotti radiofonici –
drammi, documentari, opere musicali – delle radio di servizio pubblico nel
mondo, un premio che acquisisce una particolare importanza non solo per
la valorizzazione della qualità radiofonica ma soprattutto, in un mondo appena uscito dalla guerra, per la ricostituzione di rapporti culturali tra i paesi
35
europei, asiatici, americani. Da una parte, le opere vincitrici ottengono la
possibilità di essere distribuite fuori dai confini nazionali (Under Milk Wood,
di Dylan Thomas è il radiodramma più replicato della storia con 45 traduzioni straniere), superando uno dei maggiori vincoli alla circolazione dei
prodotti radiofonici, quello linguistico, dall’altra, il Premio offre un’occasione di scambio di opinioni, commenti, tecniche e strategie produttive tra gli
autori e i produttori radiofonici di tutto il mondo, contribuendo all’innovazione del genere.
Nell’età dell’oro del premio, gli anni Cinquanta e Sessanta, tra i nomi dei
vincitori troviamo scrittori e drammaturghi noti in letteratura e nel teatro,
da Primo Levi (la sua Intervista aziendale, un’opera del 1968 basata su finte
interviste ai dipendenti di un’immaginaria impresa chimica – che mescola
elementi di finzione e realtà, documentario e fiction, suoni reali e sintetici –
vincerà il premio nel 1969) ad Harold Pinter.
La produzione drammaturgica cresce soprattutto in questi anni e ha
una prima battuta d’arresto negli anni successivi alla popolarizzazione della
televisione, come si può vedere dalla tabella qui di seguito:
Fig. 3 Numero di radiodrammi prodotti dalla EIAR (RAI dal 1944) tra il 1929 e il 1979. Fonte: Malatini, 1981.
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Il 1950 è l’anno più prolifico della produzione radiodrammatica italiana
(48 radiodrammi). Più in generale l’età dell’oro del radiodramma italiano
è compresa tra il 1949 e il 1955, con una ripresa ad inizio anni Sessanta e
fine anni Settanta, periodo in cui la produzione drammaturgica si sposterà molto più verso forme ibride di drammaturgia, come il docu-drama e la
docu-fiction, che vedremo nel capitolo dedicato al documentario. Gli anni
Sessanta e Settanta sono gli anni delle sperimentazioni tecniche dello studio di Fonologia Musicale di Corso Sempione, delle sperimentazioni con la
stereofonia e dei grandi registi-autori radiofonici: Giorgio Bandini, Giorgio
Pressburger, Luigi Quartucci, Andrea Camilleri. Sarà proprio Camilleri a firmare insieme a Sergio Liberovici, nel 1974 un docu-drama di grande spessore e lungimiranza, Outis Topos: 50 minuti di trasmissione ottenuti dal montaggio di 200 ore di materiale registrato tra gli abitanti di un quartiere periferico di Torino. L’opera porta il sottotitolo “ipotesi di una radio futura” e
si pone il problema di una radio “popolare”, fatta dai cittadini, non calata
dall’alto. L’opera risente chiaramente del clima culturale dell’epoca e anticipa di poco l’ondata delle radio libere che avrebbero portato gli ascoltatori al
centro del flusso radiofonico. Camilleri descrive così il radiodramma durante
la premessa alla trasmissione (Malatini 1981, p. 127):
...si fa sempre più evidente uno squilibrio tra l’evoluzione tecnica del mezzo e i
sistemi di gestirlo (…). Certo, il problema di una conduzione non convenzionale,
veramente innovatrice, della radio è complesso e aperto a diverse soluzioni; ma forse
una delle risposte possibili è nella radicale invenzione delle sue funzioni tradizionali:
non solo trasmettere ma anche ricevere, non solo far sentire qualcosa all’ascoltatore
ma anche farlo parlare, non isolarlo ma metterlo in comunicazione con gli altri,
non soltanto “rifornirlo” ma far sì che esso diventi parte attiva, produttore (…) Un
esperimento di autogestione del mezzo radiofonico da parte dei cittadini, effettuato
dalla RAI nei primi 25 giorni di Luglio in una serie di quartieri popolari torinesi,
ha offerto una folla di indicazioni stimolanti, anche se non sempre incoraggianti:
oltre all’imprevedibilità e all’autenticità dei parlanti, è affiorato il condizionamento
derivante dall’acquisizione più o meno consapevole di certi stereotipi espressivi
suggeriti proprio dai grandi mezzi di comunicazione di massa.
37
Si sente, nelle parole di Camilleri, l’idea di radio di Brecht e di Benjamin,
l’idea di un servizio pubblico che non deve solo fornire contenuti di qualità
ma connettere le persone, metterle in comunicazione. Quanto al problema
della convenzionalità della conduzione, ci avrebbero pensato le radio libere
con il loro linguaggio disinibito a spezzare una volta per tutte, nel bene e nel
male, il legame tra il testo scritto e la sua messa in onda.
A partire dagli anni Ottanta la produzione di radiodrammi andrà
lentamente diminuendo. Negli anni Novanta il radiodramma diventa un
terreno di sperimentazione per giovani scrittori4. Mentre Radio2 diventerà il
canale elettivo della fiction seriale (romanzi adattati, biografie, sceneggiati),
il radiodramma in atti unici rimarrà una prerogativa di Radio3. Questa rete
all’inizio degli anni Duemila, sotto la spinta della direttrice dell’epoca, Roberta
Carlotto (1999-2002), propone alcuni format di fiction che innovano il genere
del radiodramma, tornando a renderlo popolare negli ascolti. È il caso di:
Teatrogiornale, di Cavosi e Pierattini, in onda dalle 20.00 alle 20.15 per 320
puntate dal 2000 al 2003; “La mattina è una notizia, il pomeriggio diventa
un copione, la sera fiction in diretta”, questo era lo slogan del programma,
una forma di docu-fiction a partire da una notizia d’attualità. Ogni giorno
veniva scelta una notizia dai quotidiani, a mezzogiorno la sceneggiatura era
pronta, nel pomeriggio gli attori provavano il testo e alle otto di sera, la
notizia sceneggiata andava in onda con gli attori che recitavano in diretta,
una maniera di raccontare la vita quotidiana del paese attraverso lo specchio
della fiction (Mecocci 2005); Atto Unico Presente, una serie di radiofilm (10
nel 2001, 6 nel 2002) realizzati da scrittori allora emergenti e in seguito
divenuti popolari (Francesco Piccolo, Giosuè Calaciura, Maurizio Braucci,
Mauro Covacich, Marcello Fois, Melania Mazzucco, Carola Susani, Niccolò
Ammaniti, Ivan Cotroneo) affiancati da registi emergenti provenienti dal
cinema. I drammi consistevano di atti unici di 40 minuti, andavano in onda
il venerdì alle 20.30 e avevano il grande merito di raccontare vicende minime
della vita quotidiana con una lingua contemporanea, leggera, anti-retorica;
4
La collana Centominuti di RAI-ERI ha pubblicato i testi dei radiodrammi di giovani scrittori prodotti
per Radio3 negli anni Novanta. Tra questi, da ricordare l’opera di Dario Voltolini, Le lontananze
accanto a noi (1997), una storia che parla della guerra a Sarajevo attraverso il filtro di una storia
d’amore a distanza, mediata da una segreteria telefonica.
38
Radiobellablu di Sergio Ferrentino, un radiogiallo in onda nel 2002 per 40
puntate (20 scritte da Carlo Lucarelli, 20 da Massimo Carlotto). Con la
nuova direzione che succede alla Carlotto la produzione di radiodrammi si
limiterà alla serie di originali radiofonici Dialoghi Possibili, in onda il martedì
alle 22.00 dal 2004 al 2006, che si inserisce nel solco della tradizione aperta
con Atto Unico Presente, ovvero il lancio di giovani scrittori emergenti accanto
a registi provenienti dal cinema. Oggi la produzione drammatica di Radio3 è
limitata ed estemporanea, seppure sono da ricordare alcuni esperimenti con
la nuova tecnica di ripresa sonora dell’olofonia.
Il dibattito sullo statuto estetico dell’arte radiofonica
Nel resto d’Europa il dibattito sulla nascente arte radiofonica fiorì molto prima rispetto all’Italia: in Francia con le opere di Gabriel Germinet (1926),
autore del primo radiodramma francese e dell’allievo Paul Delharme (1928),
in Germania con i contributi di Hermann Pongs (1930) e Richard Kolb
(1932), di Walter Benjamin (1931) e Bertolt Brecht5 (1932), mentre in Gran
Bretagna Lance Sieveking aveva dedicato grande attenzione alle tecniche
registiche (De Benedictis, 2004). Lo stesso Sieveking (1934) intavolerà un
lungo dibattito con un altro regista radiofonico inglese, Val Gielgud (1932).
Il primo sostiene la superiore specificità radiofonica delle sonorità tecnologiche prodotte dal suo Dramatic Control Panel (una forma antesignana dell’attuale mixer) e quindi del regista radiofonico, il secondo invece attribuisce alla figura dell’autore e alla voce umana, non agli effetti sonori, la superiorità
nelle trasmissioni (Costa, 1999).
Lance Sieveking viene definito dallo storico inglese Asa Briggs (1995)
uno degli esponenti di spicco della produzione radiogenica inglese, con
la sua monumentale serie Kaleidoscope. A Rhythm, Representing the Life of
Man from Cradle to Grave. Questa serie veniva prodotta e sonorizzata in
diretta, coinvolgeva più di cento tecnici del suono disposti su sette o otto
studi radiofonici separati, coordinati attraverso l’innovativo strumento del
Dramatic Control Panel, che permetteva l’orchestrazione di input sonori dif5
Mario Costa (1999, p. 223) sostiene che è a partire dall’esperienza di drammaturgo per la radio, che
Brecht inizia ad avvertire l’esigenza di trasformare il teatro in un altro tipo di medium.
39
ferenti (parole, musica, effetti sonori) e il controllo dei volumi dei differenti
microfoni. Nel suo libro più famoso, The Stuff of Radio (1934), Sieveking
sottolinea come alcune sue opere radiofoniche sono troppo basate sulla sperimentazione sonora per essere riprodotte sotto forma di testo e pubblicate.
Da queste due correnti di pensiero, la prima (Sieveking) più incentrata sullo specifico tecnologico e la seconda (Gielgud) più attenta al testo e alla sua
traduzione sonora, discendono due diverse tradizioni drammaturgiche inglesi, che trovano la loro massima espressione l’una nel dramma sperimentale Cascando di Samuel Beckett (1961, trasmesso per la prima volta dal canale pubblico francese France Culture, ha come protagonista un tecnico del
mixer), l’altra nel magistrale Sotto il bosco di latte di Dylan Thomas (1953,
vincitore del Prix Italia di quell’anno), ambientato in un immaginario villaggio gallese nell’arco di una notte e un giorno. Negli Stati Uniti, dove era
fiorito il modello commerciale, sul dibattito teorico sulle forme espressive
dell’arte radiofonica prevalse il pragmatismo produttivo della serialità, una
forma di storytelling che non proveniva dal teatro, come il radiodramma,
ma dalla narrazione seriale popolare (romanzi d’appendice e strisce a fumetti). Eppure anche negli Stati Uniti emerse una brillante produzione radiodrammatica e si svilupparono alcune discussioni teoriche. Per esempio, Arch
Oboler, autore del saggio The Art of Radio Writing, sottolineava il vantaggio
della drammaturgia radiofonica di non avere limiti d’azione.
Di particolare importanza è invece il dibattito intorno all’estetica del
radiodramma nato all’interno della Repubblica di Weimar a cavallo tra anni
Venti e Trenta, prima che la radio cadesse nelle mani del nazionalsocialismo.
In Germania in quegli anni si discute molto sullo statuto estetico della
radio (Lacey, 2003). Un termine che ritorna spesso in quegli anni, non solo
in Germania, e che è poi stato dimenticato dalla letteratura sull’estetica
radiofonica, è radiogénie. Il termine radiogénie non è mai passato nella lingua
corrente, anche fra gli specialisti della radio. Era stato coniato in Francia
per rendere l’idea parallela a quella della ben più conosciuta photogénie, con
il suo aggettivo corrispondente, “fotogenico”. Se photogénie si riferisce alle
proprietà poetiche o sublimi di un’immagine catturata dalla fotografia, e
che hanno la loro genesi nel momento filmico, in particolare quello del film
40
muto,6 la radiogénie si riferisce a quegli aspetti dell’essenza degli oggetti che si
evidenziano soltanto nella registrazione e trasmissione del suono.7 Photogénie
è un termine coniato dal regista cinematografico e teorico impressionista
Louis Delluc per descrivere “quegli aspetti più poetici dell’essenza degli
oggetti, che solo il cinema potrebbe scoprire e rivelare”. Questi includevano
la cattura di momenti fuggenti e spontanei, come il congelamento di una
particolare espressione del viso, o l’esposizione di azioni familiari all’esame
minuzioso del rallentatore. Photogénie allude anche al senso che c’è qualcosa
di inquietante nella dissezione e congelamento del flusso di immagini nel
tempo, che è il segno della fotografia. L’incorporeità delle voci radiogeniche
rappresenta un momento simile.
Entrambi questi termini, photogénie e radiogénie, risalgono ai dibattiti
formalisti degli anni Venti del novecento in Francia e in Russia, ma furono
adottati in modo relativamente veloce nei dibattiti del mondo anglofono.
Alan Beck ha rintracciato la prima comparsa della parola “radiogenic” in
inglese in un articolo del Radio Times del 1930 (Beck 2002), e ha dimostrato
che questo termine continua, ad intervalli, ad essere usato in alcuni dibattiti
sulle estetiche della radio. Beck sostiene che il modo in cui viene attualmente
utilizzato è triplice: il primo, per descrivere testi che sono idealmente o
specialmente adatti alla radio; il secondo, per descrivere testi che utilizzano
al massimo le qualità distintive della radio; il terzo, per descrivere testi che
mostrano un uso estetico ottimale del suono (Beck 2002).
Anche se la parola “radiogenico” è stata usata relativamente poco,
l’idea che ci siano alcuni elementi specifici della radio ha avuto riscontro
nei dibattiti intorno al mezzo fin dalla sua nascita. Le discussioni estetiche
intorno alla natura di ciò che è radiogenico e ciò che non lo è sono fiorite
soprattutto nel contesto tedesco, benché le parole “Radiogenie” e “radiogen”
compaiono anche in tedesco, sono gli aggettivi funkisch (o anche funkgemäß,
funkeigen e funkgerecht) i più caratteristici di questi dibattiti. Alla base di
queste discussioni sulla potenzialità della radio nel suo primo decennio, ci fu
6
Louis Delluc, Photogénie, Parigi, 1920, citato in Kurowski, 1972, p. 100.
7
Nota che la nozione del sublime implica qualcosa che non può essere espresso facilmente, ma che
ha qualcosa a che fare con un momento rivelatorio, un incontro con un certo tipo di ‘verità’.
41
il riconoscimento che si stava costruendo una “realtà artificiale” tramite un
nuovo spazio acustico, uno spazio che veniva percepito in modo soggettivo,
o ricostruito nell’immaginario dei singoli ascoltatori, ma che aveva un po’
di realtà oggettiva nel suo consumo simultaneo e diffuso da parte di una
moltitudine di singoli ascoltatori.
Il termine radiogenico è stato più spesso usato per definire quali
tipi di strategie estetiche fossero più adatte alla radio. Sin dal principio,
questi dibattiti tendevano a focalizzarsi, in modo abbastanza naturale,
sulla problematica specifica della produzione narrativa, sia reale che di
finzione, soltanto tramite l’uso del suono. I primi dibattiti assegnavano
alla radio un valore riproduttivo, capace cioè di riprodurre a livello sonoro
medium e forme artistiche già esistenti, come la letteratura, le conferenze
e le rappresentazioni teatrali. Ma la sfida più pressante fu proprio quella
di rendere la radio un mezzo produttivo, un mezzo capace di produrre
nuove forme artistiche, autonome dalle precedenti. Se non fosse emersa
una cultura produttiva specifica del mezzo, la cultura della trasmissione
radiofonica avrebbe semplicemente “mummificato” le tradizioni culturali
precedenti (Schirokauer 1929). Gli autori radiofonici dell’epoca, soprattutto
in Germania e Inghilterra, si auguravano che attraverso la sperimentazione
radiofonica si restaurasse una cultura dell’ascolto e dell’orecchio, in contrasto
con la dilagante cultura visiva stabilita dalla stampa, dalla fotografia e dal
cinema. Lo scrittore tedesco Water Bischoff (1926, p. 73-74; Lacey 2013,
p. 98) sosteneva che “il moderno orecchio urbano è stato degradato fino
ad essere considerato poco più di un sistema di allarme ma il compito della
radio è restituire all’orecchio la sensibilità perduta per le sfumature di tono e
i respiri della voce umana parlata.” La radio, come nota Lacey (2013, p. 98)
“rappresentava, per alcuni critici e produttori eccitati dall’arrivo di questo
nuovo medium, la possibilità per un’emancipazione creativa dell’arte di
ascoltare”. Nonostante queste discussioni sull’estetica dell’arte radiofonica, i
dipartimenti di drammaturgia delle radio pubbliche europee non lasciarono
molto spazio per la sperimentazione dell’arte radiofonica e preferirono
produzioni più tradizionali. Secondo Lacey (2013, p. 99), lo stile dominante
del palinsesto della radio tedesca durante la repubblica di Weimar era il
42
dozierend, cioè la “pontificazione”: i produttori radiofonici tedeschi, così
come quelli inglesi, ma anche francesi ed italiani, considerando la radio un
mezzo di elevazione culturale delle masse, spesso chiamavano alla radio gli
scrittori più rinomati dell’epoca – in Germania per esempio Thomas Mann,
Arnold Zweig, Alfred Döblin – per far loro leggere frammenti dalle loro
opere, usando quindi la radio principalmente come mezzo riproduttivo di
testi precedenti.
D’altra parte, alcuni osservatori hanno notato che proprio la transitorietà
e l’immediatezza della radio significavano che il mezzo avrebbe dovuto, in
principio, prestarsi di più all’improvvisazione e all’innovazione di qualsiasi
altro media. A differenza di tutti gli altri media, la radio in quel momento –
cioè, prima che gli strumenti di registrazione fossero largamente disponibili
– funzionava come un sistema di (re)distribuzione incapace di mantenere
memoria dei propri contenuti. La stampa, il cinema e la fonografia catturavano
e conservavano le realtà culturali per i posteri, la radio invece viveva nel
transitorio, nell’effimero, come ben descrive uno scrittore dell’epoca:
“Una volta che le onde della radio sono passate, non lasciano traccia di sé”
(Jolowicz, 1932, p. 16), o come ha ben sintetizzato lo storico italiano della
radio Gianni Isola (1998, p. xi): “Ma la radio scrive spesso sulla sabbia della
nostra memoria. Alla prima brezza restano solo i segni di una frase, di un
concetto; raramente possiamo disporre, per una riflessione successiva, del
testo originale. Raramente, ho detto, e non a caso”.
Il collaboratore musicale di Brecht, Kurt Weill, aveva espresso il desiderio
per una forma artistica specifica della radio già nel 1925 (Weill, 1925, p.
1625): “Sarebbe puntare troppo in basso se guardassimo soltanto alla mera
traduzione di pezzi musicali o recitazioni […] Proprio come il cinema ha
arricchito i mezzi dell’espressione ottica, così la radiotelefonia deve estendere
l’espressione acustica. Dobbiamo scoprire “il rallentatore acustico” e anche
tanto altro. E tutto ciò potrebbe portare a un’arte radiofonica assoluta”.8
Anche il famigerato ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels,
era convinto del carattere produttivo della radio: “Sono convinto che
8
Weill collaborò con Brecht e Paul Hindemith all’opera radiofonica sperimentale Il Volo di Lindbergh
nel 1929.
43
anche la radio ha la sua propria arte e la propria forma culturale. Non si
dovrebbe credere che la radio può solo trasmettere ciò che accade altrove”.9
Questi sentimenti riecheggiarono anche nelle riflessioni teoriche di Rudolf
Arnheim, il quale sostenne che la radio si sarebbe realizzata soltanto quando,
come il cinema, avesse attraversato la fase primitiva della riproduzione della
realtà a favore di una tecnica più creativa e adatta al montaggio acustico.
Effettivamente, quando i pionieri della radio come Walter Bischoff cercavano
un mezzo di espressione veramente “radiogenico” (funkisch), presero il
medium parallelo dei film muti come un possibile modello. Nelle parole
di un critico, con la sua “successione onirica e accelerata di immagini che
passano velocemente, che saltano, le sue abbreviazioni e sovrapposizioni –
la sua velocità – il suo cambiamento da primo piano a campo lungo con
l’assolvenza e la dissolvenza incrociata,” le prime trasmissioni radiofoniche
“hanno consciamente trasferito la tecnologia cinematografica alla radio”
(Gelatt in Kittler, 1999, p. 173). Il potenziale artistico del mezzo radiofonico,
come mezzo in grado di distribuire prodotti culturali creati appositamente per
l’orecchio, è colto lucidamente da un critico letterario e autore radiofonico
tedesco dell’epoca, Arno Schirokauer (1929, p. 1; Lacey 2013, p. 100): “Ci
sono tre milioni di apparecchi riceventi, tre milioni di famiglie in ascolto,
cioè circa nove milioni di persone che ascoltano la radio. L’arte ha raggiunto
una dimensione pubblica che non può essere superata. L’arte può così essere
socializzata, tramite la radio, a nove milioni di persone. L’arte non appartiene
più alla dimensione privata ma è potenzialmente di tutti. L’artista è divenuto
una figura tanto pubblica quanto lo è un uomo di Stato”.
L’idea di Schirokauer è che, mentre la stampa e il grammofono
avevano reso la cultura d’élite disponibile alle masse sotto forma di copia,
era stato soltanto con la radio che l’arte era potenzialmente resa pubblica
contemporaneamente a tutti gli ascoltatori e che quindi la figura dell’artista
(l’autore e regista radiofonico) acquisiva un valore pubblico, politico, non
più privato. La radio, secondo questi autori, era un linguaggio artistico ed
autonomo a tutti gli effetti e andava esplorato e sperimentato.
9
Discorso di Goebbels ai direttori della radio tedesca, 25 marzo 1933. Citato in Lacey K., Listening
Publics, Cambridge, Polity Press, 2013, p. 107.
44
Il dibattito sulla forma estetica della radio fu molto serrato nella
Germania della Repubblica di Weimar e alla fine degli anni Venti, infine,
proprio qui nacque la distinzione estetica tra fra il Sendespiel (“trasmissione
di un’opera”), la semplice trasmissione di un’opera teatrale, e l’Hörspiel
(“opera per l’ascolto”, più spesso considerato come “film acustico”), un’opera
progettata soltanto per l’orecchio.
Su questa distinzione una tradizione leggermente diversa fu rappresentata
dalla Lega dei Liberi Autori Radiofonici, co-fondata da Alfred Döblin,
l’autore di Berlin Alexanderplatz – già di per sé presumibilmente un romanzo
radiofonico – il quale sostenne il Worthörspiel, (“opera della parola”), un
particolare tipo di opera drammatica per l’ascolto con un’attenzione
particolare per la parola: l’accento sulla parola come espressione letteraria
del Neue Sachlichkeit, la “Nuova Oggettività”, la corrente estetica allora
dominante nelle arti visive della Repubblica di Weimar (Dahl, 1983, p. 110).
Walter Benjamin e la radio
Così come Brecht, Benjamin intravede nella radio, un mezzo “rivoluzionario”, capace di modificare il rapporto delle masse con la cultura, la politica,
la vita quotidiana, attraverso la trasmissione di un sapere vivo e critico (ne
intuisce anche la pericolosità, l’uso a fini propagandistici, la costruzione del
consenso delle masse).
Per questo motivo Benjamin, nei suoi lavori radiofonici e nei suoi saggi,
si spende per una concezione della radio come strumento di emancipazione
dell’ascoltatore, per un ascolto non passivo e si adopera per la costruzione
dell’ascoltatore come soggetto politico attivo della società.
Benjamin lavora molto negli anni a cavallo tra i Venti e i Trenta alla
Radio della Repubblica di Weimar, scrivendo programmi per bambini, saggi
biografici e radiodrammi (Sacchettini 2011; Pinotti, Somaini, 2012).
Così come la fotografia e il cinema, la radio è un mezzo capace di
riproducibilità tecnica. Se per il cinema il prodotto artistico è costituito dal film
e se per la fotografia lo statuto artistico risiede nella qualità delle immagini,
per la radio il prodotto artistico sta nei suoi contenuti di intrattenimento,
che, all’epoca di Benjamin erano soprattutto i radiodrammi, ma che oggi
45
potremmo assimilare ad ogni programma radiofonico con la presenza di autori.
Se da un lato la scomparsa dell’aura (Benjamin, 1936) ci fa perdere
qualcosa del godimento estetico dell’opera d’arte originale, dall’altro la
facilità di riproduzione dell’opera d’arte e il conseguente aumento della sua
diffusione aprono l’accesso al consumo dell’arte da parte delle masse.
Adorno (1941) non era affatto d’accordo con questa interpretazione
della comunicazione di massa. Per lui la trasmissione di un concerto alla
radio (una forma riproduttiva, non autonoma, di spettacolo radiofonico)
rappresentava soltanto una forma degradata di esperienza d’ascolto. Adorno
celebrava l’ascolto dal vivo simultaneo e collettivo in una sala da concerto
come la forma più alta e immersiva di godimento di un’opera sonora, mentre
la sua forma mediata (la radio) e dislocata era una pallida copia di bassa
qualità. L’isolamento dell’ascoltatore radiofonico nella sua sfera privata
d’ascolto, la riproduzione sonora di bassa qualità, la mediazione radiofonica
dell’opera attraverso il montaggio e l’editing, non permettevano, secondo
Adorno, di concentrarsi sull’ascolto dell’opera, contribuendo al rigetto della
radio come mezzo artistico da parte dello stesso Adorno.
Benjamin ha un approccio più complesso ai media rispetto ad Adorno:
se da una parte comprende i cambiamenti estetici apportati dalle forme di
mediazione elettrica, dall’altro ne intuisce anche le potenzialità. Secondo il
filosofo tedesco tecniche quali il cinema, il fonografo o la fotografia invalidano
la concezione tradizionale di “autenticità” dell’opera d’arte. Infatti, tali
nuove tecniche permettono un tipo di fruizione nella quale perde di senso il
distinguere tra fruizione dell’originale e fruizione di una copia. Ad esempio,
mentre per un quadro di epoca rinascimentale non è la stessa cosa guardare
l’originale o guardarne una copia realizzata da un altro artista, per un film
questa distinzione non esiste, in quanto la fruizione dello stesso avviene
mediante migliaia di copie che vengono proiettate contemporaneamente
in luoghi diversi; e nessuno degli spettatori del film ne fruisce in modo
“privilegiato” rispetto a qualsiasi altro spettatore. In forza di ciò, si realizza
il fenomeno che Benjamin chiama la “perdita dell’aura” dell’opera d’arte.
L’aura, secondo Benjamin, era una sorta di sensazione, di carattere mistico
o religioso in senso lato, suscitata nello spettatore dalla presenza materiale
dell’esemplare originale di un’opera d’arte.
46
Secondo Benjamin (1936), l’arte nacque storicamente in connessione
con la religione e proprio il fenomeno dell’aura costituì per lungo tempo una
traccia di questa sua origine.
Le due forme sotto cui si presenta l’arte del secolo ventesimo – da una
parte la cultura di massa, dall’altra l’avanguardia artistica – sono secondo
Benjamin accomunate entrambe dalla perdita dell’aura: come il cinema
abolisce la contemplazione attraverso il rapido succedersi delle immagini,
così il dadaismo dissacra letteralmente l’arte, utilizzando materiali degradati
in funzione provocatoria.
La radio e i mezzi di riproducibilità tecnica rivoluzionano la relazione artepubblico, una relazione che può essere orientata verso l’estetizzazione dell’arte,
se i mezzi tecnici vengono virati verso un uso propagandistico, verticale,
mistificatorio (i media/fabbrica del consenso politico e consumistico) oppure
verso la politicizzazione dell’arte, se i mezzi tecnici vengono spostati verso
un uso comunicativo, partecipativo, orizzontale, bidirezionale, dell’arte (i
media partecipativi, comunitari, di servizio). Prima di arrivare a scrivere la
sua opera principale, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,
in cui mette a fuoco questi due diversi orientamenti del ruolo dell’arte nella
società di massa, Benjamin ha già iniziato a interrogarsi sui modi per rendere
l’ascoltatore partecipe, invece che semplicemente massa inerte all’ascolto.
Le sue trasmissioni alla radio hanno un programma politico: trasformare
la posizione occupata dal fruitore da passiva ad attiva: questo significa
“politicizzazione dell’arte”, ovvero pensare il pubblico, convocarlo, renderlo
partecipe, trasformarlo in produttore: “Anche un bambino capisce che il
senso costitutivo della radio è dato dal condurre davanti al microfono il primo
capitato alla prima occasione; del fare dell’opinione pubblica il testimone di
interviste e conversazioni” (Riflessioni sulla radio, 1929).
Anche per quanto riguarda la divulgazione del sapere attraverso la radio,
Benjamin si rende conto della novità del mezzo rispetto ai precedenti:
Esisteva il libro, esisteva la conferenza, esisteva la pubblicazione periodica; ma erano
tutte forme di comunicazione che non si distinguevano per nulla da quelle attraverso
le quali la ricerca scientifica trasmetteva i suoi progressi a gruppi specializzati. La
47
radio ha trasformato questa situazione radicalmente per effetto della possibilità
tecnica di rivolgersi contemporaneamente a un numero illimitato di persone.
La più vasta popolarità della radio impone di non accontentarsi di divulgare, di
semplificare, richiede un diverso assemblaggio del materiale (il montaggio). Si tratta
soprattutto di comunicare all’ascoltatore la certezza che che il suo personale interesse
ha un valore sostanziale e che le sue domande vengano prese in considerazione. È una
divulgazione che non mobilita più solo la scienza verso il pubblico ma soprattutto il
pubblico verso la scienza (Due generi di popolarità,1932)
Secondo il progetto editoriale del direttore della radio di Francoforte dell’epoca, Ernst Schoen, Benjamin era chiamato a produrre tre generi diversi di
programmi: 1) per ragazzi 2) saggi di argomento letterario 3) hörspiel, drammi radiofonici.
I generi stabiliscono automaticamente il profilo dell’ascoltatore e danno
così il perimetro entro il quale lavorare. Benjamin si interroga sui modi per
tenere l’ascoltatore inchiodato all’ascolto e per questo utilizza due procedimenti retorici: uno è l’interpellazione, l’altro è la fidelizzazione (Denunzio
2012, p. 51). Fin dalle prime trasmissioni il filosofo tedesco capisce che
per poter coinvolgere l’altro, la folla invisibile oltre il vetro dello studio radiofonico, gli si deve rivolgere direttamente. Ne è un esempio l’appellativo
“Stimati Invisibili!” che Benjamin usa per aprire la trasmissione Letteratura
per Infanzia del 15 agosto 1929 e attraverso la quale gli ascoltatori vengono
convocati sulla scena della narrazione. Convocare è la parola chiave di questo
procedimento: la radio, secondo Benjamin, si fa in due – chi parla e chi
ascolta – e chi è al microfono ne deve tener conto, sempre, cercando di rispondere a tutte le sollecitazioni che vengono dal pubblico (nel suo caso, le
sollecitazioni e le domande potevano essere solo immaginate, oggi invece i
feedback del pubblico viaggiano velocemente su diversi media, dal telefono
all’sms, dal tweet al post di Facebook). Benjamin si preoccupava anche di far
affezionare il suo pubblico all’ascolto. È per questo che, nei testi scritti per la
radio, Benjamin istituì una fitta serie di rimandi interni ai suoi programmi,
creando attorno ad essi aspettative ed appuntamenti da assolvere nelle
puntate successive. Ad esempio Denunzio (2012) mostra come, avendo
48
Benjamin deciso di dedicare due puntate al programma Passeggiata berlinese
tra i giocattoli, per non far calare l’attenzione degli ascoltatori e stimolarli ad
ascoltare anche la seconda puntata, il filosofo decide di non finire di raccontare la prima: “E adesso cercate tutti di non starmi a sentire. Quello che
dico ora, infatti, non è per bambini. Terminerò la passeggiata la prossima
volta” (Denunzio 2012, p. 52). Generi, interpellazione e fidelizzazione sono
subordinati, secondo Benjamin all’aspetto primario della produzione radiofonica, ovvero il trattamento della voce. Benjamin sottolinea che “la materia
prima da trattare nel processo produttivo radiofonico è la voce: produrre
testi acusmatici, mappe sonore (sceneggiature, scalette) in cui la scrittura
è subordinata alla voce; una volta davanti al microfono la voce dell’emittente esegue la partitura acustica della mappa” (Denunzio 2012, p. 55).
Le “leggi” di Sieveking
Una delle riflessioni teoriche più importanti sulla forma della drammaturgia
dell’epoca ci viene da sopracitato Lance Sieveking, il primo produttore-regista che ha provato a definire le regole dell’utilizzo degli effetti sonori e della
musica in drammaturgia. Il regista e teorico inglese del radiodramma Tim
Crook (1999, p. 70) le ha chiamate le leggi di Sieveking (1934):
1) Effetto realistico, confermativo
In questo caso il suono viene utilizzato per amplificare un passaggio del testo. Sieveking intendeva dire che se, ad esempio, un personaggio introduceva l’idea di un temporale, il suono didascalico di una tempesta avrebbe
confermato quell’idea. Osserva inoltre che ogni effetto sonoro può assumere
un’intonazione diversa a seconda del legame creato con il testo. Se ad esempio il protagonista di una storia afferma di volersi fare un bagno caldo e si
sente il rumore dell’acqua che scroscia da una doccia, il suono di quell’acqua
diventa caldo, se invece nel testo si parla un fiume in pieno circolo polare
artico il suono dell’acqua assumerà nel teatro mentale dell’ascoltatore una
temperatura fredda.
Crook sostiene che in drammaturgia questo uso del suono e della musica
è stato abbondantemente usato e forse abusato e che sarebbe molto più
interessante provare ad utilizzare l’effetto opposto, quello che Chion (2001)
49
chiama suono non empatico, che potrebbe essere usato per provocare
nell’ascoltatore una sensazione di spiazzamento, di dissonanza emotiva tra,
ad esempio, un evento tragico nel testo e una musica allegra in sottofondo.
2) Effetto realistico, evocativo
Qui il suono è usato da solo, non in combinazione con il testo, per evocare un’ambientazione o una sensazione. Per la prima volta si sosteneva che
i suoni ripresi meccanicamente dalla realtà, da soli, senza bisogno di alcuna parola e di nessuna voce umana, potevano aprire al come se del mondo,
all’immaginazione del mondo di finzione che si voleva raccontare con la radio. Insieme ad Arnheim, è una delle prime dichiarazioni di autonomia del
linguaggio sonoro dal testo scritto.
Una buon sound design è uno degli elementi più importanti di una buona
drammaturgia. Orson Welles lo sapeva e, dopo il successo de La Guerra dei
Mondi scrisse una lettera al suo rumorista, Ora Nichols: “Caro Ora, grazie
per il miglior lavoro che si potesse fare per il mio testo. Tutto il mio affetto,
Orson” (Maltin 1997, p. 92).
3) Effetto simbolico, evocativo.
In questo caso la musica o gli effetti sonori vengono usati per comunicare un
particolare stato emotivo o psicologico del personaggio in azione, non per
evocare un’ambientazione reale. Corrisponde, secondo Crook (1999) alla
pittura astratta o all’action painting americano.
4) Effetto convenzionale
Sieveking descrisse i suoni usati come convenzioni “suoni medi”, facilmente
identificabili. Rappresentano fenomeni ed oggetti comuni, come macchine, treni o cavalli. Sono quegli effetti sonori facilmente riconoscibili perché
appartengono all’immaginario acustico della maggioranza degli ascoltatori.
Suoni altamente iconici, stereotipati, molto usati in pubblicità, dove il tempo scarseggia e l’ascoltatore deve capire velocemente dove si svolge l’azione.
Il radiodramma come strumento di propaganda
Negli Stati Uniti degli anni Trenta la fiction seriale aveva trovato più spazio
nei palinsesti rispetto al radiodramma. La produzione di drammi per l’ascolto era limitata ma di alta qualità. Autori come Arch Oboler, Arthur Miller,
50
Archibald McLeish, Orson Welles e soprattutto Norman Corwin produssero
nel decennio prima della guerra le loro opere più popolari. Con la presa del
potere in Germania da parte dei nazisti e l’aumento delle tensioni in Europa
i giornali radio erano sempre più popolati di notizie riguardanti la crisi europea. Ma la radio si limitava a riportare i fatti: mancavano approfondimenti che tentassero di spiegare la crescita del fanatismo fascista in Spagna,
Germania, Italia. Fino all’attacco di Pearl Harbour gli Stati Uniti mantennero una posizione neutrale e lo stesso fecero i media, compresa la radio. La
critica del fascismo nella radio americana non arrivò dai programmi di informazione, ma passò attraverso la metafora della fiction (Blue, 2002). Furono
infatti una serie di autori impegnati politicamente a scrivere i drammi più
schierati. Norman Corwin scrisse il primo dramma politico nel 1939, dopo
aver letto un articolo in cui il figlio maggiore di Mussolini, Vittorio, descriveva il bombardamento sull’Etiopia che aveva appena concluso come un gesto
estetico simile allo sbocciare di una rosa. Da qui nacque l’idea per il dramma
They fly through the air with the greatest of ease, ambientato dentro l’abitacolo
del pilota che sta andando a bombardare.
L’opera fu trasmessa dalla Cbs nel febbraio del 1939 all’interno
della serie drammatica Words without music. Il giorno dopo il New York
Times scrisse che quella era “la migliore opera radiofonica mai scritta in
America” (Blue 2002, p. 86). La Cbs ricevette quasi mille lettere. Quattro
di queste scrivevano da stati diversi e dicevano tutte che avevano dovuto
fermarsi con la macchina ai lati della strada per poter finire di ascoltarla10.
Il successo di quest’opera e di un radiodramma precedente di McLeish
ambientato durante la guerra civile spagnola spinsero il governo americano
a comprendere l’importanza della fiction nella lotta di propaganda contro
il fascismo. Lo stesso Presidente Franklin Delano Roosevelt spinse per la
produzione di programmi di propaganda, per rispondere alla propaganda
tedesca che aveva cominciato ad imperversare negli Stati Uniti attraverso una
stazione falsamente americana, che trasmetteva tutte le sere alle 8 e mezza
messaggi contro il presidente e a favore delle tensioni razziali. Nacque così
10
Qualche anno dopo la Cbs cedette alla Warner Bros i diritti per la trasposizione cinematografica
dell’opera, affidando il ruolo del pilota a un giovane attore di nome Ronald Reagan.
51
la serie The Free Company, prodotta dalla Cbs con il contributo del governo
americano. La serie si avvalse del lavoro dei maggiori scrittori americani
dell’epoca, da Norman Corwin e Archibald McLeish, a John Steinbeck e
Orson Welles. La serie terminò sei mesi prima dell’attacco a Pearl Harbour.
Nel frattempo altri due dipartimenti governativi erano stati incaricati di
diffondere attraverso i media messaggi interventisti, quello della Guerra e
quello del Tesoro. Il primo produsse con la Nbc Wings of Destiny (1940)
una serie di storie drammatizzate sulla vita dei militari americani e Spirit of
‘41 (1941), un’altra serie ambientata tra i soldati della marina americana. Il
dipartimento del Tesoro entrò in azione nel 1941, collaborando con i network
per promuovere la vendita di bond della Difesa americana. Il loro show più
popolare, il propagandistico Treasury Star Parade, fu trasmesso per la prima
volta nell’estate del 1942. In questo caso si trattava di un varietà, non di una
serie drammatica, ma al suo interno conteneva brevi corti drammatici della
durata di 7 minuti scritti da Arch Oboler.
Per combattere il sentimento isolazionista e la sfiducia nel governo il
presidente Roosevelt decise nel 1941 di aprire infine una vera e propria
agenzia, una centrale operativa della propaganda, the Office of Facts and
Figures (OFF), che si sarebbe occupato del “controllo e della disseminazione
dell’informazione di guerra” (Blue 2002, p. 101). A dirigere l’agenzia
fu messo non un giornalista, ma un drammaturgo, l’autore Archibald
McLeish. La serie più famosa prodotta dall’OFF è stata This is War (194243). Con una media di venti milioni di ascoltatori, la serie rappresenta
il primo vero tentativo strutturato di usare la radio come strumento di
propaganda. Nel giugno del 1943 l’OFF veniva assorbito dall’Ufficio per
l’informazione di guerra, ma le fiction di propaganda continuarono ad
essere prodotte anche da altri network. Il futuro storico della televisione Erik
Barnouw produsse la serie They call me Joe, per rendere popolare la natura
multietnica dell’esercito americano. Nel 1944 Corwin scrisse e produsse
Untitled e Words at War, due dei suoi migliori lavori sulla guerra (Blue 2002,
p. 197). La prima raccontava la storia di un soldato ucciso al fronte, era
apertamente antifascista e ricevette più di 1500 lettere dagli ascoltatori.
Con la fine della guerra, questi stessi autori che si erano schierati
apertamente contro il fascismo attraverso le loro opere, incontrarono molti
52
problemi nel proseguire la loro carriera. Molti tra gli autori che avevano
lavorato per l’OFF finirono su una lista nera dell’FBI (Blue 2002) e gli fu
preclusa la possibilità di continuare a scrivere per la radio e per il cinema.
L’uso propagandistico-educativo della fiction fatto negli Stati Uniti per
costruire il consenso attorno all’intervento americano in guerra non è l’unico
esempio dell’impiego della drammaturgia per sostenere campagne politiche
o sociali. Negli anni Novanta i drammi seriali e le soap opera radiofoniche
sono stati utilizzati con successo da organizzazioni non governative e da
istituzioni internazionali per la cooperazione allo sviluppo per comunicare
campagne sociali contro l’hiv-aids in Zambia (Yoder, Hornik, Chirwa, 1996),
Tanzania (Vaughan, Rogers, Singhal, Swalehe, 2000), Ghana (Panford,
Nyaney, Amoah, Aidoo, 2001), per campagne di informazione agricola
in Vietnam (Heonga, Escaladab, Huanc, Ky Bad, Quynhe, Thietf, Chienf,
2008) e in molti altri paesi africani ed asiatici. Nell’Afghanistan occupato
dalle forze della Nato la soap radiofonica è tornata ad essere utile come
strumento di propaganda da parte delle forze americane (Skuse, 2005).
Audiodramma
L’audiodramma è un’opera per l’ascolto che usa le tecniche produttive e i
codici linguistici della drammaturgia radiofonica ma non è pensata primariamente per essere trasmessa via radio.
L’audiodramma è il prodotto di una serie di cambiamenti tecnologici,
culturali ed economici nel modo di fare e ascoltare la radio.
Così come la diffusione dei transistor ha contribuito a riconfigurare
la radio nell’era della televisione come un mezzo individuale e non più
collettivo, un mezzo mobile, trasportabile e non più domestico, le tecnologie
di digitalizzazione del suono insieme alla diffusione di internet hanno
cambiato l’ascolto tradizionale della radio. L’invenzione delle tecnologie di
compressione di contenuti audio digitali come l’mp3 da un lato e la diffusione
di dispositivi e tecnologie per l’ascolto asincrono dall’altro (lettori mp3, smart
phone, podcasting, streaming) hanno modificato la fruizione dei contenuti
radiofonici sottraendo sempre più spazio al tradizionale ascolto di massa in
diretta, così come negli anni Ottanta il Vhs e la diffusione dei registratori
53
video avevano scardinato le routine della visione di massa televisiva. La radio
che conosciamo oggi, ai tempi della Rete, non scrive più come un tempo
“sulla sabbia della memoria” (Isola, 1998, p. XI), i suoi contenuti sono
oggi conservabili e accessibili per un secondo ascolto. L’ascolto in diretta
è ancora l’ethos dominante, ma i numeri dell’ascolto asincrono crescono
esponenzialmente, mentre gli ascolti tradizionali tendono verso la decrescita,
che accelera tra le nuove generazioni.
La drammaturgia radiofonica trova sempre meno spazio nei palinsesti
della radio attuale e quando questi spazi continuano ad esistere li troviamo
sulle emittenti di servizio pubblico. Nel 1939, età dell’oro della radio,
quando deteneva il primato dei mezzi di comunicazione di massa, la
fiction rappresentava l’85 per cento del palinsesto della CBS, oggi in tutte
le radio americane questa percentuale è scesa all’1 per cento. La BBC è
tra i canali pubblici europei quella che meglio ha mantenuto la tradizione
drammaturgica radiofonica (nata proprio in Inghilterra) e produce ancora atti
unici, radioplays, sceneggiati (uno su tutti, il più longevo, la soap opera The
Archers11, in onda su BBC 4 dal 1 gennaio 1951 ad oggi, senza interruzioni)
ma il tempo dedicato alla fiction in generale è in declino anche lì. In Italia lo
sceneggiato radiofonico, un formato storico di Radio2 RAI, è scomparso nel
2009 e formati drammaturgici si ritrovano soltanto nel palinsesto di Radio3
RAI, seppure in diminuzione costante rispetto a soli dieci anni fa. I motivi
di questo arretramento nei palinsesti è da ascrivere ai costi di produzione:
produrre un radiodramma costa molto di più di qualsiasi altro formato di
intrattenimento, perché la radio deve sostenere i costi degli attori, dei diritti
d’autore, degli autori, del regista e dei tecnici del suono, impegnati per
ore in studio nella fase di cattura del suono e di post-produzione. La crisi
economica del servizio pubblico ha spinto a preferire la produzione di format
di intrattenimento più agili, meno costosi e di pari soddisfazione negli indici
d’ascolto. In un contesto come questo, la sperimentazione e l’innovazione
linguistica del genere drammaturgico non riescono più a passare dalla radio
tradizionale, perché non ci sono più le risorse economiche e la volontà
11
È ancora il programma più ascoltato di BBC 4, con 5 milioni di ascoltatori al giorno. http://www.
bbc.co.uk/programmes/b006qpgr
54
editoriale di investire in questo genere. Lo spazio più adeguato per continuare
a produrre drammaturgia radiofonica sembra essere piuttosto la Rete, dove
il palinsesto non esiste o meglio, è infinito. È per questo che insieme alla
diffusione di Internet si sta assistendo ad un ritorno della drammaturgia, o
meglio, di opere drammaturgiche pensate per l’ascolto su altre piattaforme
tecnologiche. Ne è un esempio il Third Coast International Audio Festival di
Chicago – il Sundance della radiofonia – che da circa quindici anni produce
fiction e documentari al di fuori dei confini radiofonici, oppure il canale
web francese Arte Radio, che dal 2003 ha prodotto migliaia di ore di fiction
e features radiofoniche. La drammaturgia, espulsa dal medium di flusso,
rinasce nel mondo degli atomi sotto forma di festival e nel mondo dei bit
sotto forma di podcast.
L’aumento esponenziale della diffusione del podcasting come modalità
di ascolto asincrona di contenuti sonori e radiofonici contribuisce al ritorno
della drammaturgia e dell’intrattenimento parlato.
Un’attenzione particolare va dedicata agli audiodrammi prodotti
dall’autore e regista radiofonico Sergio Ferrentino12, che, dopo una lunga
esperienza nel radiodramma, è passato alla produzione indipendente di
audiodrammi che hanno la particolarità di non essere pensati soltanto per
l’ascolto on demand in rete, ma anche per essere visti su un palco teatrale
da un pubblico riunito per l’occasione. Il percorso della drammaturgia
radiofonica appare qui finalmente completo: in principio la radio ha adattato
il teatro, trasportando il palco teatrale all’interno dello studio radiofonico;
oggi è lo studio radiofonico ad essere esportato sul palco, è la drammaturgia
radiofonica, genere in via d’estinzione, ad andare in scena sul palco. Gli
audiodrammi di Ferrentino sono opere retrofuturiste, che applicano al
presente estetiche e tecniche del passato: gli attori recitano in diretta sul
palco, così come i rumori e gli effetti sonori accadono in tempo reale. Lo
spettacolo a cui assiste il pubblico è lo spettacolo della radio degli albori,
così come doveva esperirlo il pubblico dei primi radiodrammi della storia. La
registrazione della performance degli attori sul palco finisce poi in podcast,
diventa un contenuto mp3 da fruire individualmente, ma lo spettacolo che
12
All’autore è dedicata un’intervista negli approfondimenti del libro.
55
giunge alle orecchie dell’ascoltatore solitario non è un semplice audiodramma,
è la traccia della performance sonora degli attori sul palco. L’aura della diretta
radiofonica, della performance che accade qui e ora, una volta venuta meno
in radio, rinasce sul palco.
Il serial drama: soap opera, sitcom, fiction, sceneggiato
T.W. Adorno disse una volta che “la commistione di nuovo e sempre uguale
è tipica dei media moderni” e colse un aspetto fondamentale dell’intrattenimento della comunicazione di massa: la programmazione seriale.
Le prime forme di produzione seriale si manifestarono nella narrativa
popolare tra gli anni Trenta e Cinquanta dell’Ottocento con il romanzo
d’appendice (feuilletton) di matrice francese e i romanzi a dispense di stampo
britannico. Nasceva con quei romanzi il meccanismo della serie con la
duplice funzione di strumento per la creazione di un pubblico fedele e di
meccanismo per vendere alle classi popolari dei testi che, nella forma di
libro, sarebbero stati inaccessibili economicamente.
Poi, con la nascita negli Usa dei romanzi da pochi centesimi e dei fumetti,
si afferma una nuova forma di serialità: la produzione di tante storie diverse
costruite attorno a un gruppo fisso di personaggi e situazioni. caratteristiche:
pluralità degli autori e trasferibilità tra i media (dal libro al fumetto, al
cinema... alla radio). Il rapporto virtuoso tra serialità e flusso (il medium di
flusso garantisce un pubblico alla serie, il desiderio di tenersi aggiornati sullo
sviluppo della serie incentiva l’attaccamento al medium) è già all’opera nei
romanzi d’appendice ottocenteschi.
La radio scoprì la narrazione seriale negli anni Trenta. Dall’adattamento
del fumetto alla radio prendono forma le sitcom, e le serie di genere. Dal
romanzo d’appendice invece discende la soap opera, che in Italia prenderà la
forma dello sceneggiato radiofonico.
Nella format radio (radio di flusso) la serialità tocca non i singoli
programmi ma l’intero palinsesto, strutturato sul clock (forma ciclica e
ripetitiva) e su software di automazione della programmazione. Ciclicità dei gr,
ciclicità dei passaggi musicali dello stesso brano, ciclicità verticale (all’interno
delle 24 ore) e ciclicità orizzontale (spalmata nell’arco della settimana).
56
Sceneggiato radiofonico
“Lo sceneggiato radiofonico, produzione a episodi, tratta da un soggetto narrativo,
costituisce la forma drammatica seriale più caratteristica e longeva della radio italiana.
Si può suddividere in due grandi categorie: il romanzo sceneggiato (adattamento o
riduzione di un’opera letteraria per la radio) e l’originale radiofonico a puntate, in
cui il soggetto narrativo è inedito”.
Questa è la definizione che ne dà Ortoleva (2003, p. 778). In Italia avrà
grande successo il romanzo sceneggiato, mentre l’originale radiofonico si
svilupperà soltanto a partire dagli anni Sessanta.
Fatta eccezione per alcuni sporadici tentativi durante il periodo fascista
(romanzi d’avventura sceneggiati per ragazzi), la RAI iniziò a produrre
romanzi sceneggiati soltanto nel dopoguerra. Il 3 giugno 1948 fu inaugurato
il format Il romanzo a puntate, che per primo vide ridotto e sceneggiato per
la radio il romanzo di Emilio De Marchi Il cappello del prete. Il vero successo
del format però arrivò l’anno successivo, con l’adattamento di Jane Eyre,
quando in redazione arrivarono centinaia di lettere da parte di ascoltatori
entusiasti. L’esito positivo di queste prime produzioni aprì la strada ad un
genere che ebbe lunga fortuna nella radio italiana. Già nel 1952 infatti la
RAI aveva prodotto ben 28 adattamenti di romanzi, soprattutto stranieri
(Ortoleva, 2003). Le scelte dei testi da adattare ricadevano tra i romanzi
italiani e stranieri più popolari che venivano riproposti in serie di brevi
puntate. Le riduzioni dei testi consistevano nell’arricchimento dei dialoghi
e nel condensare le parti descrittive, reputate più noiose per l’ascolto. I testi
radiofonici si allontanavano anche notevolmente dagli originali di carta,
almeno fino al 1980, quando venne prodotta la prima lettura integrale di
un classico, Manzoni, genere però affine solo in parte allo sceneggiato e
che è giunto invariato fino ai giorni nostri, vedi l’esempio di Ad Alta Voce,
format di letture integrali di romanzi da parte di attori noti, in onda dal 2002
su Radio3 RAI, tornato in voga con la diffusione del podcasting. Accanto
alla vocazione d’intrattenimento, i romanzi sceneggiati mantenevano una
forte connotazione divulgativa: in quanto produzioni del servizio pubblico
57
miravano anche alla diffusione presso le masse dei grandi classici della
letteratura. Dal 1967 la durata delle puntate venne ridotta a 15 minuti con
conseguente aumento del numero di puntate e la tendenza a privilegiare
opere più popolari. Il canale eletto alla trasmissione di questo genere era
il Secondo Programma, l’attuale Radio2, che continuò per tutti gli anni
Settanta a produrre numerosi adattamenti. Le produzioni si contrassero
a partire dagli anni Ottanta, a favore di altre forme di fiction radiofonica
(l’originale radiofonico) e di nuovi modelli di intrattenimento seriale che
non prevedevano l’uso di testi e di drammaturgia: Radio2 doveva far fronte
ai nuovi linguaggi delle radio private e confrontarsi con esse. Un ritorno del
genere, seppure per poche stagioni, avvenne nel 2002, quando la direzione di
Sergio Valzania mise in produzione L’amante di Lady Chatterley di Lawrence
e Le inchieste del commissario Maigret di Simenon.
Lo sceneggiato originale invece rimane in Italia un genere minore fino
agli anni Ottanta. Il primo sceneggiato non adattato da testi precedenti è del
1967, Mademoiselle Docteur, una serie di 40 puntate scritto da Enrico Roda
intorno alle vicende reali della spia Annemarie Lasser, che in realtà si ispirava
ancora ad un testo preesistente, l’omonimo film di Pabst del 1936. Le figure
di spie femminili avranno una certa fortuna, visto che anche nel 2003 Radio2
produrrà la popolare serie Mata Hari. Tra gli sceneggiati degli anni Settanta i
filoni più frequentati saranno le biografie sceneggiate e gli sceneggiati ispirati
ai romanzi storici ottocenteschi, anche qui con intenti divulgativi. Il genere
verrà rinnovato dalla direzione di Lidia Motta, nei primi anni Ottanta, con
l’introduzione di storie più vicine alla soap opera e alla serialità televisiva.
È Corrado Guerzoni, Direttore della Seconda Rete, a sollecitare il varo
della prima soap radiofonica italiana: si tratta di Matilde, storia di una
donna divisa tra i doveri della vita familiare e un vecchio amore giovanile,
sceneggiata da Carlotta Wittig e diretta da Gianni Bongioanni. Va in onda, a
partire dal 5 gennaio del 1985, per 183 puntate (Natale, 2003). Poi arrivano
ancora Andrea, storia di un trentenne yuppie, in 195 puntate (1986) e Villa
dei melograni, saga familiare in 260 puntate (1987-1988).
Successivamente, a cavallo tra anni Novanta e Duemila, il serial
radiofonico si attesterà prima intorno alle 40-50 puntate e poi intorno alle
58
20-30, quando il genere conoscerà una nuova vitalità e popolarità, grazie
allo spostamento del formato nella pregiata fascia 8.47-9.00 del mattino e
alla scrittura di autori emergenti, con originali come Il castello di Eymerich
(2000) di Valerio Evangelisti (vincitore di un Prix Italia), Il Mercante di Fiori
(1996) e Domino (1997) di Diego Cugia, serie di 50 puntate, Pop Corn (1997)
di Tiziano Scarpa (vincitore di un Prix Italia), Eros per Tre (2002) di Melania
Mazzucco. Nel 2001, su un totale di 13 titoli, 7 sono soggetti originali, 4
riduzioni letterarie, 1 adattamento da fumetto e 1 biografia. Restano, per il
2002, 5 originali, ancora 4 riduzioni letterarie e 2 adattamenti da fumetto
(Natale, 2003). Grande è il successo di un’altra serie – Alcatraz (1999-2000,
170 puntate) di Diego Cugia – che fa storia a sé, perché trasmessa in un’altra
fascia – 13.40-14.30 – e perché basata sul monologo diaristico. Alcatraz, e in
seguito il sequel Jack Folla (2002), riprendendo la tradizione dello storytelling
innovano il genere della fiction radiofonica dimostrando che è ancora un
formato capace di fidelizzare l’ascolto del pubblico.
Fino alla prima metà degli anni Duemila la produzione di fiction di
Radio2 è cospicua e redditizia, poi la flessione degli ascolti spinge la direzione
dell’epoca a spostare il formato alle 12.10, in una fascia meno pregiata. Lo
spostamento sancisce il declino del genere, ormai considerato dalla Rete un
formato oneroso, ingombrante. Nel 2008-2009 il genere vive il suo canto del
cigno: Radio2 produce un nuovo sceneggiato originale, Amnésia di Matteo
Caccia e Alessandro Genovesi, un mockumentary attorno alla storia di un
uomo che ha perso la memoria e vive ogni giorno come se fosse la prima volta.
In onda prima per 90 puntate poi prolungate a 235, Amnésia si rivela un caso
radiofonico e raccoglie un successo inaspettato, grazie anche alla particolarità
del genere (autofiction/mockumentary) e alla vocazione multimediale della
storia, raccontata in radio e sui social network contemporaneamente. Amnésia
dimostra che è ancora possibile produrre sceneggiati capaci di attrarre un
pubblico popolare mantenendo alta la qualità, eppure la lunga storia dello
sceneggiato radiofonico italiano si conclude subito dopo, con il cambio
della direzione del canale. Le 90 puntate dello sceneggiato Mi chiamano Bru
(2009) rappresentano l’ultima produzione seriale messa in onda da Radio2.
Nel 2012 Radio2 è tornata a produrre sporadicamente sceneggiati: è il caso
59
di un adattamento radiofonico in 10 puntate del fumetto Tex.
Una menzione a parte merita il caso de Alle Otto della Sera, serie originale
di divulgazione culturale, andata in onda alle 20.00 su Radio2 per dieci anni,
dal 1999 al 2009. In questi dieci anni la Rai ha prodotto 130 serie e coinvolto
più di 70 narratori diversi.
Il format de Alle Otto della Sera era un originale mix di parlato e playlist
musicale pop raffinata. L’idea centrale consisteva nel chiamare un esperto
al microfono per raccontare alla radio, sera dopo sera, ad esempio gli ultimi
quattro canti del “Paradiso” o il teorema di Fermat, la vita di Carlo Magno o
le teorie dell’evoluzione di Darwin, la vita di Khomeini o di una concubina
giapponese. Ogni storia veniva suddivisa in cicli di 10 o 20 puntate, di durata
di circa 25 minuti l’una. Tra i protagonisti che hanno scritto e narrato per
il programma si ricordano: Piergiorgio Odifreddi, Giulio Giorello, Vittorio
Sgarbi, Claudio Strinati, Federico Zeri, Franco Cardini, Luciano Canfora,
Giovanni Brizzi, Giordano Bruno Guerri, Alessandro Barbero, Sergio
Valzania, Valerio Massimo Manfredi ed Elio delle Storie Tese che parla di De
Bello Gallico, sua lettura preferita da sempre.
Lo citiamo qui, come forma spettacolare di drammaturgia seriale anche
se non riguarda la fiction, perché la sua produzione prevedeva la scrittura/
assemblaggio di un testo, la registrazione e il montaggio della voce del
narratore. Era a tutti gli effetti una produzione drammaturgica dove al
microfono andava non un attore ma l’autore stesso della serie. L’idea della
serie ricorda tanto la dozierend della radio tedesca degli albori: grandi autori
invitati a “pontificare” al microfono su un tema di cui sono esperti. Di per
sé quindi non rappresentava un format molto innovativo rispetto ai canoni
del passato, ma l’alternanza del racconto con una selezione musicale di
qualità e l’alto profilo dei narratori rendevano il programma una forma di
divulgazione culturale di qualità, leggera all’ascolto.
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63
Il documentario
Genere classico, è finalizzato a sfruttare le potenzialità di documentazione e
riproduzione del reale. Basato sulla registrazione e il montaggio, si compone
di interviste, stacchi musicali, effetti sonori d’ambiente. In Italia si chiama
documentario, in Europa si parla soprattutto di feature, mentre negli Stati
Uniti il genere documentaristico, sia radiofonico che televisivo, prende il nome di factual entertainment, intrattenimento basato su fatti reali, una macro
categoria che contiene anche il docu-drama.
La parola inglese feature merita un po’ d’approfondimento. La feature è
un’opera radiofonica che comprende sfumature di genere molto più ampie
rispetto al documentario italiano. Il primo a definire la feature è stato il
leggendario direttore della BBC Radio Features Department, Lawrence Gilliam:
“una combinazione dell’autenticità del parlato con il potere drammatico di
un’opera teatrale, ma a differenza del teatro, che ha come obiettivo quello di
creare un’illusione drammatica, la feature vuole convincere l’ascoltatore della
verità di ciò che racconta, anche se lo racconta attraverso mezzi drammaturgici”
(Gilliam in McLeish, 1994, p. 247). Una definizione più moderna di
feature la riporta Tim Crook nel suo Radio Drama (1999) e la attribuisce al
produttore inglese Peter Everett: “La feature è una composizione creativa di
suoni presi dalla realtà. Se vogliamo essere più concreti, potrei aggiungere
che la feature è quella cosa che sta nel mezzo dello spettro dei programmi
radio che si estende dal radiodramma all’informazione” (Everett, 1999).
Ma è Lawrence Gilliam colui che più di tutti ha fissato le regole del
64
genere. Nella sezione finale del suo saggio sulle features del 1950 fornisce una
descrizione delle pratiche produttive di una feature che sono valide ancora
oggi: 1) Gli elementi di una feature sono la sceneggiatura, il suono, la musica
e le voci. 2) La sceneggiatura può essere scritta da un autore esterno o dallo
stesso produttore. 3) Gli scrittori/produttori sono la figura più comune ed
efficace. 4) La ricerca attraverso interviste e indagini bibliografiche è il punto
di partenza di ogni feature. 5) Audizione degli attori per la scelta dei ruoli.
6) Priorità a fonti autentiche e di prima mano. 7) Un’attitudine mentale
all’inchiesta, un orecchio attento e la capacità di portare il microfono in ogni
angolo del mondo contemporaneo, nei suoi recessi più nascosti, il più vicino
possibile alla fonte. 8) E infine la sequenza delle azioni da compiere in ogni
produzione: l’idea; la ricerca; la stesura della sceneggiatura; la scelta degli
attori; la raccolta degli effetti sonori; la ricerca della musica; la scrittura; la
registrazione; il montaggio e la produzione.
Il mitico produttore americano di feature creative, Gregory Whitehead,
ne dà una definizione più ironica. La cosa più importante per lui è “la
passione, la volontà di seguire la propria idea creativa fino in fondo e un
rasoio a portata di mano per tagliarsi la gola quando si scoprirà quanto poco
si verrà pagati” (Crook 1999, p. 213), mentre il produttore tedesco Helmut
Kopetzky crede che la cosa più importante per un buon documentario sia la
scelta di punti di vista provocatori e molto forti, “la soggettività e la radicalità
sono elementi distintivi di una feature creativa. Devi trovare la tua voce, il
tuo tono, il tuo stile, senza dimenticare l’ironia” (Crook 1999, ibidem).
Piers Plowright, storico autore/produttore di features della BBC (tre volte
vincitore di un Prix Italia) e ora in pensione ha recentemente (2013) dato
una definizione molto intuitiva di cosa deve essere una feature per essere di
qualità: 1) deve avere un focus molto preciso; 2) deve avere quello che lui
chiama “whoof factor”, quella sensazione che parte dallo stomaco che fa
interrompere ogni altra attività per concentrarsi sull’ascolto; 3) deve arrivare
al cuore, muovere emozioni, essere umana. Per questo Plowright afferma
che anche nel montaggio bisogna dare respiro alla voce umana, lasciare ad
ogni voce il suo ritmo, le sue indecisioni che la caratterizzano13.
13
Piers Plowright, key note speech alla Ecrea Radio Research Conference, Sunderland University,
London College, 12 settembre 2013.
65
Volendo riassumere potremmo definire il documentario un’opera
radiofonica creativa con una struttura sonora articolata e una storia vera da
raccontare. Ha tempi di produzione più lunghi rispetto a qualsiasi altra forma
di giornalismo radiofonico (servizio, reportage, rubrica, voxpop) ed è l’unico
ad avere bisogno di una sceneggiatura di partenza. Per questo è un genere
frequentato sempre meno dai giornalisti e sempre più da figure autorali
(scrittori, autori, registi), come sostengono Chantler e Stewart (2003).
È opinione condivisa dagli storici che il documentario radiofonico come
genere abbia come antenate le opere e le riflessioni teoriche di due registi:
Walter Ruttmann e Dziga Vertov.
Già protagonista del cinema astratto nei primi anni Venti, Walter
Ruttmann, dopo aver adottato una struttura musicale per il suo film Berlin.
Symphonie der Großstadt [Berlin. Symphony of the Metropolis, 1927] (Fulks
1982; Quaresima 1994), e dopo aver presentato un’ampia ricognizione delle
sonorità di diverse culture in Melodie der Welt [Melody of the World] (1929),
fa ricorso al sistema di registrazione ottica del suono Tri-Ergon per il suo
Hörspiel auf Tonfilm, originale radiofonico su pellicola sonora, trasmesso per
la prima volta alla radio durante la Berliner e la Schlesische Funkstunde il 13
giugno 1930, in una trasmissione che comprendeva anche un altro Hörspiel,
Hallo! Hier Welle Erdball! [Hallo! Here the Soundwave of Planet Earth!] di Fritz
Walther Bischoff. Weekend presenta un montaggio di suoni caratteristici di
un tipico fine settimana tedesco, suddivisi in sei capitoli che vanno dalla
conclusione del lavoro il venerdì sera alla ripresa del lavoro il lunedì mattina:
1. Jazz del lavoro; 2. Fine del lavoro; 3. Viaggio all’aria aperta; 4. Pastorale;
5. Ripresa del lavoro; 6. Jazz del lavoro. Tra i suoni registrati dal vivo o in
studio da Ruttmann troviamo, nella sezione dedicata al “Jazz del lavoro”, il
ticchettio delle macchine da scrivere, gli squilli del telefono e delle casse, i
diversi rumori delle macchine, dei martelli, delle seghe, delle lime, delle fucine,
delle sirene, dei clacson, di aerei in volo, di voci che dettano o impartiscono
comandi al telefono. Un numero esiguo di suoni musicali, peraltro sempre
frammentari e interrotti – gli accordi di un pianoforte, la linea melodica
di un violino, la marcia suonata da una banda, il canto di una voce che fa
degli esercizi d’intonazione o quelli di un coro di chiesa – si trova immerso
66
in un ampio spettro di rumori non sempre riconoscibili, che si succedono
gli uni agli altri lungo una serie complessa di dissolvenze rese possibili
dal lavoro sulla pellicola sonora. Come sostiene Antonio Somaini (2012),
montando insieme ben 240 frammenti sonori diversi, spesso brevissimi, in
soli 11 minuti e 10 secondi, Ruttmann compone un’opera in cui il rumore si
trova esattamente sullo stesso piano della musica, portando a compimento,
tramite i nuovi mezzi di registrazione, riproduzione e montaggio del suono
quell’estensione dello spettro dei suoni componibili artisticamente che il
futurista italiano Luigi Russolo aveva già invocato nel suo manifesto L’Arte
dei rumori del 1913 e che la musique concrète di Pierre Schaeffer avrebbe
ulteriormente sviluppato negli anni Cinquanta.
Nel suo primo film sonoro, Entuziazm, Dziga Vertov si cimenta come
Ruttmann con il montaggio sonoro, prendendo come riferimento non un
tipico fine settimana tedesco ma il soundscape di una regione dell’Unione
Sovietica, il Donbass, che stava attraversando una fase di profonda
trasformazione sociale ed economica e che si era posta alla testa degli
sforzi per centrare gli obiettivi del primo Piano quinquennale. Il film inizia
con l’inquadratura di una giovane donna sovietica che si infila un paio di
cuffie collegate alla radio e comincia a sintonizzarsi sui suoni provenienti
dalla regione del Donbass: le campane, i canti ecclesiastici, le preghiere, le
manifestazioni con cui la folla saccheggia le chiese e le trasforma in club
operai, i rumori delle fabbriche. Girando la manopola del sintetizzatore,
pratica in forma elementare ma efficace quel montaggio sonoro che Vertov
concepiva come diretta estensione del montaggio cinematografico, e a cui
attribuiva un decisivo valore al tempo stesso conoscitivo e politico. Se il
montaggio visivo poteva essere concepito come una forma di “esplorazione
sensoria del mondo attraverso il film” (Vertov 1984, pp. 14-18), il montaggio
sonoro, fondato sul potenziale conoscitivo del radioglaz, il “radio-eye”, aveva
invece come obiettivo quello di “registrare fatti sonori” per fini schiettamente
politici: “organizzare quello che i lavoratori ascoltano” (Hicks 2007). A
differenza di Ruttmann, la prospettiva di Vertov è decisamente anti-artistica,
sostiene Somaini: le tecniche di registrazione e riproduzione del suono non
devono essere usate per produrre opere d’arte, bensì per promuovere una
67
nuova conoscenza del mondo sensibile in termini anti-capitalistici, come si
legge in un testo intitolato Kinopravda & Radiopravda del 1925: “Al cinema
artistico noi opponiamo la kinopravda e il cineocchio; alle trasmissioni di arte
radiofonica noi opponiamo la radiopravda e il radio-orecchio. La tecnologia
si sta muovendo velocemente in avanti. Un metodo per trasmettere immagini
via radio è già stato inventato. Inoltre, un metodo per registrare fenomeni
sonori su pellicole sonore per film è già stato scoperto. In un futuro prossimo
l’uomo sarà capace di trasmettere al mondo intero i fenomeni visivi e uditivi
registrati dalla video-audio-camera. Dobbiamo prepararci a trasformare
queste invenzioni del mondo capitalista in armi per la sua distruzione”
(Vertov 1984, p. 56). Grazie alla radio e al cinema sonoro, secondo Vertov,
il “radio-occhio” consentirà di eliminare la distanza tra le persone, dando ai
lavoratori di tutto il mondo la possibilità “non solo di vedersi, ma anche di
ascoltarsi, simultaneamente”. Vertov non lo sapeva, ma stava già precorrendo
la rivoluzione delle trasmissioni a microfoni aperti e interventi telefonici che
sarebbero arrivate con le radio libere degli anni Settanta.
Storia del genere documentario in Italia
Il documentario in Italia ha una lunga storia e tradizione, anche se, come
vedremo, è oggi quasi scomparso dai palinsesti. È importante qui ricostruirne una storia, per cogliere le evoluzioni del genere e avere gli strumenti per
pensare a delle possibili rinascite sotto altre forme, per una radio contemporanea, ibridata con la Rete. Ripercorreremo qui le tappe fondamentali dello sviluppo del genere in Italia, nonostante la letteratura sull’argomento sia
piuttosto scarsa, eccetto i lavori di Gianni Isola e Peppino Ortoleva e quello,
mai pubblicato ma estremamente brillante, di uno studente torinese, Andrea
Amato, di cui questo paragrafo è debitore.
Amato14 sostiene che a monte della nascita del genere del documentario
radiofonico italiano ci sia il giornalismo parlato delle radiocronache dell’Eiar
in periodo fascista. Il rapporto tra la radio ed il regime fascista iniziò ad
apparire più stretto a partire dagli anni Trenta, per consolidarsi in maniera
14
Amato A., Le forme del documentario radiofonico, tesi di laurea non pubblicata, 2005. Cfr. http://
www.audiodoc.it/attivita.php?id_attivita=79&lang=1
68
sempre più indissolubile con il passare del tempo. Il problema più urgente,
sotto il profilo espressivo e dei contenuti, era quello di creare una nuova classe
di radiocronisti che fossero capaci di attirare l’attenzione degli ascoltatori,
muovere i loro animi durante l’ascolto delle cronache degli eventi di regime,
che sapessero narrare le imprese del popolo fascista sia in guerra che nella
vita quotidiana, e che fossero in grado di celebrare la società fascista. A
questo proposito venne creato a Roma nel 1937 il Centro di preparazione
radiofonica che, sotto il controllo del Ministero dell’Educazione e del
CNR, era destinato a formare le nuove leve del personale con compiti
autoriali e comunicativi dell’emittente radiofonica nazionale: radiocronisti,
annunciatori, fonomontatori, registi ed attori. Il centro, diretto dal giornalista
Franco Cremascoli – una delle voci più celebri della radio durante il periodo
fascista – fu istituito sulla scorta del Centro sperimentale di cinematografia
di Cinecittà, in un progetto congiunto volto all’individuazione di nuovi
talenti che andassero ad arricchire le fila di quegli autori che sarebbero
stati artefici della nascita della cultura di massa. La scuola ebbe in realtà
vita breve, chiuse i battenti nel 1943 per non riaprirli alla conclusione della
guerra, ma l’unico corso tenuto in quel lasso di tempo diplomò personaggi
destinati ad avere ruoli di grande rilievo nell’etere italiano degli anni
seguenti. Essi vennero presto assunti ai microfoni dell’Eiar, e andarono a
costituire il nocciolo duro del gruppo di redattori di un programma che è
possibile considerare come il vero “antenato” delle prime forme del maturo
documentario italiano: Voci del mondo, una rubrica di attualità in onda dal
1931. La trasmissione, interrotta nel periodo di belligeranza, fu riproposta
dal 1949 sotto la direzione di Vittorio Veltroni (padre di Walter) – allora
a capo della redazione radiocronache – e con l’importante presenza di Pia
Moretti e di Luca Di Schiena. Amato sostiene ragionevolmente che non
bisogna dimenticare che chi si è cimentato con il genere documentario,
inizialmente, ha dovuto scontrarsi con innumerevoli problemi dal punto di
vista tecnico: le prime tecniche di registrazione e manipolazione di materiali
sonori si resero disponibili, per le stazioni radiofoniche, fin dai tardi anni
Venti, ma si trattava di processi particolarmente complessi e costosi. Un
importantissimo passo avanti fu compiuto con l’arrivo della registrazione
69
audiomagnetica, che permetteva l’introduzione di vere e proprie forme di
montaggio, lanciando di fatto il genere del documentario. I primi sistemi
di registrazione su nastro magnetico furono messi a punto dalla tedesca
BASF nel 1934: si trattava di nastri con base di plastica che, utilizzati sugli
apparecchi di registrazione “Magnetophone” della AEG, assicuravano
registrazioni di buona qualità, pari a quella delle radiocronache trasmesse
in diretta. I nuovi mezzi faticarono, però, ad imporsi nelle radio europee ed
americane per il costo elevato necessario per l’acquisto e la manutenzione
e per le loro grandi dimensioni, che li rendevano macchinari difficili da
spostare sul terreno, se non proprio inamovibili. Ma sarà lo status di nazione
in guerra a fare in modo che la sete di informazione e di conoscenza della
popolazione accresca la volontà dei cronisti di riportare la realtà del conflitto
nelle case degli italiani. È Monteleone (2005, p. 133) a sostenere che:
I servizi che Antonio Piccone Stella manda dall’Africa settentrionale, le interviste di
Mario Ortensi dal fronte francese, le descrizioni di Cremascoli e Ferretti della vita di
tutti i giorni nelle basi militari italiane erano le prime anticipazioni del neorealismo
radiofonico degli anni Cinquanta.
La maturità e il neorealismo radiofonico
Secondo Gianni Isola il “primo vero documentario in diretta” fu La liberazione di Firenze, opera nata durante l’imperversare della battaglia per le vie
di Firenze grazie all’inventiva del giovane cronista di Radio Firenze Amerigo
Gomez, che ovviò all’inamovibilità degli strumenti di registrazione a sua disposizione ponendo questi strumenti su un carretto legato alla propria bicicletta (Isola, 1995).
Quando il 26 ottobre 1944 l’Ente Radio Audizioni Italiane cambiò il nome
in Radio Audizioni Italia (RAI), in seguito ad un decreto relativo alla riorganizzazione della radiodiffusione, inizialmente poco sembrò variare, o meglio,
meno di quanto ci si sarebbe aspettato dopo la caduta del regime fascista.
70
Il cosiddetto “Vento del Mezzogiorno” - la acuta definizione con cui Alberto
Monticone ha indicato tutte quelle forze nuove che avevano animato i microfoni della
Rai e delle radio alleate in lingua italiana - non riuscì a sostituire, nemmeno nei giorni
immediatamente seguenti la fine delle ostilità, il vecchio personale Eiar compromesso
col regime, che in breve riprese il controllo della «stanza dei bottoni». [… ] Era chiaro che
la dirigenza Rai aveva ormai deciso di riportare nell’alveo della vecchia Eiar centralista le
esperienze di rinnovamento maturate nel periodo eroico e turbolento della Resistenza.
(Isola 1995, pp. 106-140)
Possiamo leggere nelle parole di Isola un riferimento non unicamente ad una
reintegrazione di dirigenti e funzionari della radio di stampo fascista, ma anche di quella classe di giornalisti e redattori che, per convinzione o per necessità, avevano esaltato il regime nei loro servizi, réportage e documentari.
Alcuni di essi, assieme con nuove leve reclutate dalla neonata RAI o confluite dalle esperienze delle radio di guerra, contribuirono a creare il periodo
d’oro del documentario radiofonico italiano, quello della sua piena maturità,
che alcuni storici hanno definito come neorealismo radiofonico.
La radio scopriva l’impegno sociale e, pur con prolungati toni di maniera
intrisi di paternalismo e assistenzialismo, affermava la sua presenza rinnovata
nell’ambito della società e del mondo dell’informazione. […] Era la risposta,
professionalmente di alto livello, ma politicamente di segno moderato,
all’impegno sociale del cinema in cui il neorealismo […] aveva accompagnato
il rilancio dell’industria cinematografica. (Isola, ivi, p. 146)
Un accostamento tra il genere del documentario nel periodo del secondo
dopoguerra e il neorealismo è stato proposto da tutti gli storici della radio.
Alcuni di essi concordano nel sostenere che le opere radiofoniche degli anni
Cinquanta – per lo più documentari, ma anche alcune fiction – possano
andare a formare una corrente individuabile, nella storia della radio italiana,
come neorealismo radiofonico. Con qualche anno di ritardo rispetto
all’ambito cinematografico, nacque la tendenza della suddetta squadra di
radiogiornalisti a muoversi sul territorio nazionale alla ricerca delle facce
nascoste della società durante la ricostruzione post-bellica. In quel periodo
venivano formate le Radiosquadre: gruppi di giornalisti, redattori, personale
71
tecnico e addetti allo spettacolo che viaggiavano per il Paese sui furgoni
1100 dell’Eiar, raggiungendo anche i villaggi più remoti, per rinsaldare
il rapporto tra l’emittente nazionale e la gente. Nelle trasmissioni e nei
reportage realizzati dai giornalisti delle Radiosquadre era messa in scena la
realtà di un’Italia ancora dimenticata dai piani di ricostruzione, non ancora
risollevata dalla depressione bellica. Si produssero dunque in quegli anni
opere di alta qualità, grazie ad autori quali Sergio Zavoli, Massimo Rendina,
Giovan Battista Angioletti, Luca Di Schiena, Amerigo Gomez, Gigi Marsico,
Enrico Ameri e Nando Martellini – in seguito passati alla cronaca sportiva –
e molti altri, come il Guido Piovene di Viaggio in Italia, reportage dal taglio
documentaristico del 1954, che raccontò il paese in 93 puntate registrate in
mobilità. Si può dunque parlare di una stagione del neorealismo radiofonico?
Come visto in precedenza, Gianni Isola sostiene che si trattò di una risposta
professionalmente di alto livello, ma politicamente dai toni diversi, più
moderati, rispetto al neorealismo in ambito cinematografico. È lo storico
della radio italiana Franco Monteleone che, invece, sostiene l’esistenza di un
neorealismo radiofonico:
L’alto livello professionale della radio italiana, durante l’intero decennio degli
anni Cinquanta, si manifestò non solo nelle edizioni del GR, ma in un genere di
informazione più mediata, spesso di rara efficacia linguistica, a volte addirittura
di notevole bellezza estetica: il documentario. Era un genere che tendeva a
mostrare aspetti della realtà sociale che altrimenti sarebbero rimasti assenti dalla
programmazione radiofonica. In una perdurante penuria di occasioni informative,
che non era certo modificata dalla propaganda dei cinegiornali e dalla loro scadente e
limitatissima offerta, i documentari radiofonici di quel lungo periodo ebbero il merito
di contribuire, in misura niente affatto esigua, a far conoscere il paese così com’era,
ma anche ad allargare gli orizzonti di una realtà non solo nazionale. Per questo tipo
di giornalismo, che ha dato alla radio esempi numerosissimi e spesso magistrali di
capacità professionale, penso che si possa legittimamente parlare di «neorealismo
radiofonico», un pedinamento realizzato utilizzando le voci, i suoni, i rumori di un
mondo esterno che entrava nelle case degli italiani senza retorica e vi portava un’aria di
vita, di cose viste, di fatti a volte tristi o crudeli, ma anche vicende di gioia e di speranza.
(Monteleone, cit., pp.260-261)
72
Diversa è, invece, la posizione di Peppino Ortoleva. Durante un colloquio
con Amato (2005), risponde:
Erano tempi duri, era l’epoca della ricostruzione, quindi i temi della difficoltà del
vivere quotidiano erano temi reali, immediatamente sotto gli occhi di tutti. Però
non esageriamo. Cioè possiamo dire che c’era un clima generale di fascinazione per
le potenzialità di racconto e insieme di produzione del reale che erano proprie dei
mezzi tecnici. L’uso del registratore che fanno Costa e lo stesso Zavoli ha qualcosa in
parte di simile all’uso della cinepresa che fanno tanto Rossellini, quanto De Sica: c’è
quindi un gusto della presa diretta sulla strada, del tirar fuori problemi sociali nascosti.
Però non mi sentirei di parlare in senso stretto di neorealismo radiofonico come
qualcuno ha fatto. Diciamo che era un clima culturale che andava in quella direzione.
Quindi, secondo lo storico, si tratta di una somiglianza di temi – data la
quasi corrispondenza temporale – e di un’affinità nell’approccio all’uso dei
mezzi di riproduzione. Eppure la lingua di alcuni autori, di certi speaker –
voci narranti dei documentari – ancora non cambiava, rimaneva ingessata e
ricordava certe voci “littorie” tipiche dei prodotti di regime. Secondo Amato,
da un punto di vista formale, la vera rivoluzione del documentario radiofonico si ebbe sul finire degli anni Sessanta con la nascita della docufiction.
Gli anni Cinquanta si sono rivelati come il periodo della massima
maturità per il documentario radiofonico italiano. Amato decide di
prendere Clausura di Sergio Zavoli, opera del 1958, come il punto limite
di questo periodo d’oro. È come se, sostiene Amato, “Zavoli avesse raccolto
tutte le suggestioni di quel decennio – che egli stesso aveva contribuito a
creare –, la nuova estetica del mezzo di registrazione, la consapevolezza
circa le possibilità e la leggerezza del mezzo, la voglia di andare alla
scoperta di luoghi e persone spesso “inaccessibili” e le avesse riversate
nel suo documentario sulla vita delle monache di Clausura”. Punto tra i
più alti raggiunti da quel gruppo di giornalisti, probabilmente punto
limite, almeno rispetto ai tempi, di quel modo di concepire la radiofonia,
Clausura chiude in grande stile l’epoca aurea dei giornalisti documentaristi.
Peppino Ortoleva, sempre nell’intervista di Amato, parla, per quel
periodo, di “morte del documentario classico”, indicando come essa vada
73
Attribuita forse non alla TV, ma al 16 mm da un lato e alla banalizzazione
dell’audioregistrazione dall’altro. Il 16 mm significa che c’è un mezzo tecnico per
fare cinema con una leggerezza d’impianto paragonabile, anche se inferiore, a
quella della radio. Cioè sostanzialmente ci si poteva muovere con una cinepresa
leggera in due persone e si poteva fare tutto, quindi si potevano fare degli interventi
estremamente rapidi. Del resto un prodotto come TV7 nasce da questo. Con la
banalizzazione della registrazione voglio dir questo: che sostanzialmente il mezzo
registratore che nei primi anni Cinquanta era ancora una sorta di meraviglia - quindi
la testimonianza registrata appariva un elemento di grande impatto -, nel ‘57-’58, col
lancio del Gelosino, che era il primo registratore portatile italiano ed era un bene
relativamente abbordabile, la registrazione diventa una cosa abbastanza comune.
Quindi da un lato veniva smitizzato il forte impatto che aveva il documento sonoro, dall’altro nasceva un grande interesse verso quei prodotti filmati che, grazie al 16 mm, acquisirono quella “leggerezza” che era stata fino
a quel momento prerogativa unicamente della radio. Nel 1954 la RAI aveva cominciato a trasmettere regolarmente il segnale televisivo, e gran parte dell’attenzione era rivolta al nuovo mezzo che permetteva di realizzare
inchieste e documentari con la stessa agilità di quelli radiofonici, ma con
l’aggiunta di quelle immagini che lo rendevano un linguaggio di maggiore
impatto per il pubblico dell’epoca. Inoltre molti dei giornalisti artefici del
periodo aureo del documentario radiofonico passarono alla redazione del
neonato TG: innanzitutto Veltroni, che ne fu il primo direttore, poi Roberto
Costa, Massimo Rendina, Sergio Zavoli. La televisione aveva “cannibalizzato” la radio, secondo Enrico Menduni (1994, p. 31), ma
Del resto, perché stupirsi? A suo tempo anche la radio aveva vampirizzato i media
preesistenti. Adesso, facilitati dalle immagini, gli spettatori trovavano più faticoso
l’ascolto radiofonico se il programma non aveva una vivacità tale da tener desta la
loro attenzione; la radio era così costretta ad un forzato rinnovamento dei propri
caratteri espressivi.
Anche il documentario radiofonico mutò la sua forma, compiendo una
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radicale trasformazione delle proprie caratteristiche: si andava verso un documentario realizzato non più da giornalisti ma da registi, verso la docufiction. Adolgiso, storico autore di documentari RAI, intervistato da Amato,
coglie il motivo tecnico-sindacale che ha contribuito a questo cambiamento:
Fu proprio il documentario a suscitare una grossa vertenza sindacale all’interno della
RAI. E questo c’entra col documentario perché lo ha condizionato in una maniera
molto seria, non so se l’abbia migliorato o no, certamente l’ha condizionato. Il motivo
è molto semplice. Questi documentari, come del resto le riprese esterne registrate
Rai, si facevano con un particolare registratore che si chiamava NAGRA - c’era il
NAGRA II, poi III, poi il IV, a seconda del modello di questo grande registratore
svizzero di grandissime prestazioni. Col NAGRA si utilizzava un microfono che si
chiamava LABOR, che permetteva sia una buona ripresa dell’intervista ma era anche
un panoramico, per cui se tu volevi metterlo in una piazza e sentire il campanile con
lo stesso microfono potevi svolgere un’intervista in voce e prendere degli effetti in
campo lungo. Bene, questo giornalista - siamo dunque nel periodo dal dopoguerra
in poi - era sempre accompagnato da un tecnico il quale amministrava il NAGRA.
Oggi può sembrare una cosa buffa visto che perfino la troupe televisiva è composta
da tre persone, ma allora per fare un documentario radiofonico si muovevano in
due. La radio, che è stata sempre piuttosto agile, aveva questa coppia: da una parte il
giornalista, dall’altra il tecnico. Ad un certo punto è venuto fuori che sia il giornalista
sia l’Azienda hanno detto: «Tutto sommato questo strumento è così agile che questo
tecnico a che serve?», e devo dire che la cosa è proprio così. Insorse un sindacato
interno di tecnici potentissimo, il cui nome è SNATER (Sindacato Nazionale
Autonomo Tecnici Ente Radiofonico), e non insorsero per motivi estetici, ma perché
tutte le riprese esterne, documentario radiofonico incluso, erano una manna per
gli straordinari per le trasferte che si facevano. Naturalmente non potevano dire
questa cosa, sarebbe stata una figuraccia non soltanto sul piano sindacale, e allora
trovarono una ragione e dissero: «No, perché quando va fuori questa persona porta
poi una serie di materiali così confusi, così fatti male, per cui poi noi dobbiamo
lavorare molto di più e aumentano le ore di produzione e quindi è una perdita per
l’Azienda». Naturalmente era una scusa, e una scusa che detta dai tecnici è molto
buffa perché la tecnologia va verso la miniaturizzazione e la semplificazione delle
75
manovre per usarla, quindi è una teoria che è uscita ampiamente sconfitta e oggi
non esiste proprio che vada un tecnico fuori: è già tanto che esista un tecnico dentro,
figuriamoci fuori. Tutto questo per dire che ad un certo punto il documentario ha
avuto delle difficoltà di procedimento, perché mentre va avanti questa discussione
che dura un paio d’anni - questo nei primi anni Settanta - naturalmente vengono
tirati i freni e i documentari si fanno di meno.
Accerchiato dalla fuga dei giornalisti verso la televisione, dall’impatto delle
immagini che colpivano l’immaginario degli italiani maggiormente dei documenti sonori, dalla inedita leggerezza delle nuove cineprese e da avvenimenti come la sentenza SNATER, il documentario si trasforma in qualcosa
di nuovo. Naturalmente la forma del documentario di stampo giornalistico
non svanisce, la si continua a produrre tuttora, ma ottiene sempre meno spazio nella programmazione dell’emittente pubblica. Nasce allo stesso tempo
un nuovo prodotto dall’unione del concetto di documentario come riproduzione della realtà, così come la vede un autore, con le tendenze della radiofonia degli anni Sessanta e Settanta. In RAI è il momento della sperimentazione, la stagione dei grandi registi. La forma radiofonica si mischia con quella
teatrale, il documentario si fonde con il genere drammatico. Registi come
Giorgio Bandini, Giorgio Pressburger, Carlo Quartucci propongono regie
di grande complessità, caratterizzate dalla continua ricerca di sonorità nuove, effetti inediti, partiture di voci, musiche e suoni elaborate in montaggi
suggestivi e d’avanguardia. Alcuni di questi drammaturghi, su tutti Giorgio
Bandini, creano trasmissioni che fanno nascere anche in campo radiofonico
la forma della docufiction: un documentario che lega brani registrati “dal
vivo” ad altri costruiti per l’occasione, magari recitati da attori che interpretano personaggi reali o inventati. Si tratta di opere sofisticate non solo per
la loro concezione drammaturgica, ma anche per la loro concezione sonora,
espressiva, effettistica. Questo mutamento del genere è riscontrabile anche
nel mutamento della committenza interna della RAI: si passò dalla dirigenza giornalistica alla dirigenza programmi, da un giornalista ad un dirigente che poteva anche essere un giornalista, ma interessato alla produzione di
prosa, spesso di carattere fortemente sperimentale. Anche il linguaggio dei
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radiodrammi, insieme a quello dei documentari, cambiava: i microfoni venivano fatti uscire dagli studi di registrazione e ci si avvaleva di scenografie
sonore catturate on the ground. Il regista, poi, utilizzava questo materiale, lo
manipolava, lo mixava a musiche, voci, effetti creati elettronicamente: si formavano così dei testi sonori paragonabili a partiture, nasceva la “scrittura su
nastro”. Nel 1970 il procedimento della “scrittura su nastro” toccò uno dei
suoi apici con Giochi di fanciulli di Giorgio Pressburger, che vinse il Prix Italia
nello stesso anno. Pressburger creò negli studi RAI di Torino un luogo dove
i bambini di una scuola elementare giocarono per mesi, tra strumenti musicali, scivoli, tubi, botti, e altre attrezzature che scatenavano la loro fantasia.
Il documentario degli anni Sessanta e Settanta si snodava, dunque, lungo
queste linee direttrici: grande attenzione al montaggio e alla sonorizzazione,
sperimentazione nella forma, rielaborazione della realtà da parte di quegli
stessi registi che spesso si occupavano di fiction radiofonica, commistione
con la fiction stessa. Uno dei maestri della docufiction degli anni Sessanta e
Settanta in Italia fu Giorgio Bandini, regista eclettico e sempre all’opera per
produrre lavori di profonda rottura coi generi tradizionali, che lasciassero
qualcosa agli ascoltatori sia dal punto di vista sonoro, che da quello del significato. La sua opera prima è del 1966: Il guerriero scomparso o dell’evoluzione,
una docufiction che racconta il viaggio di un giovane siciliano che decide di
emigrare al nord Italia per trovare lavoro. Bandini decise di realizzare il suo
prodotto sul campo, viaggiando con un tecnico sui treni che dalla Sicilia si
dirigevano a Milano, alternando le parti recitate a brani di conversazioni,
rumori e suggestioni registrate lungo il percorso. Bandini, intervistato da
Amato, lo ricorda così:
Era un documentario-fiction che aveva impressionato la giuria del Premio Italia, ma
siccome c’erano rappresentati tutti i dialetti, poi era folle, per loro era impensabile
premiarlo, così hanno aspettato l’anno dopo e mi hanno premiato con Nostra casa
disumana (1968). Ma quello che avevo fatto prima era il percorso di tutta l’Italia
compiuto da un giovane siciliano che lasciava la Sicilia per il nord, perché voleva
diventare civile. C’era la Sicilia di partenza - l’abbiamo fatto con la RAI di Torino,
quindi c’era il tecnico di Torino che era Pierino Boeri, un gigante friulano - e
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abbiamo fatto tutto il percorso. C’era l’incubo del treno per arrivare al nord, e io
raccontavo tutto, gli episodi e gli incontri del treno, e poi arrivava a Milano. Aveva
un titolo piuttosto curioso perché tra l’altro partivo dall’idea che lui aveva gli stessi
diritti del giovane protagonista di Proust, quindi tutte le mattine la mamma gli dava
il corrispettivo delle madeleines. Lui non aveva un’idea di che cos’è la società civile
che andava a raggiungere, arrivava in questa Milano dove suonavano le Kessler, che
allora dominavano la canzone italiana, quindi c’erano tutte le canzoni di allora, brani
e sprazzi che si vivevano, e l’orrore dell’arrivo alla stazione di Milano. Lui parlava
poco, e poi si perdeva in una manifestazione di protesta politica della sinistra. Si
perdeva e…cosa gli sarà successo? Avrà capito? Chi lo sa.
Bandini non spiega, ma interpreta e insieme fa sentire la realtà sonora di
quel periodo. Inoltre lascia un finale aperto, in modo da suggerire una rielaborazione da parte dell’ascoltatore. Nel 1975, in seguito al suicidio di due
bambini di Parma, venne chiesto a Bandini di realizzare un prodotto radiofonico sulla vicenda. Il regista si recò sul posto e si affidò all’ingenua recitazione di un gruppo di scolari di una prima elementare. Ancora dalla intervista
di Amato col regista:
Quel documentario lì era pieno di favole, ma non favole note. Io ci giocavo, erano
elementi di fiabe: delle porte che sbattevano all’infinito, dei personaggi, delle ombre,
delle voci all’infinito. […] Io ho adoperato tutto quello che era possibile, l’orrore
e la bellezza venivano dalle favole che io interpretavo, la realtà era ininfluente di
fronte ai pensieri di questi due bambini, una volta tanto la realtà era ininfluente.
[…] Dovevano morire questi due ragazzi, non perché fosse giusto, ma noi siamo tutti
diversi, come facciamo ad entrare nella testa di due bambini che si suicidano? Da
che cosa saranno stati affascinati? Noi dobbiamo dare delle idee. Era inutile che
parlassero il padre, la madre, gli amici, io dovevo dare l’inutilità di una ricerca fatta
sulla realtà ed immaginare.
Quello di Bandini, sostiene Amato, è senza dubbio un concetto limite: un
documentario – è lui stesso a definirlo così – che rifiuta a priori la realtà,
la testimonianza, e che sceglie, invece, l’immaginazione come motore interno della narrazione.
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Il documentario in Europa negli anni Sessanta
La storica dei media e producer radiofonica australiana Virginia Madsen
(2003) sostiene che a partire dai tardi anni Sessanta, complici le nuove tecniche di registrazione portatile disponibili sul mercato e il nuovo clima culturale creatosi attorno ai movimenti sociali degli anni Sessanta, nasce in
tutta Europa una nuova attenzione per il documentario radiofonico, una
categoria riconosciuta, a partire dal 1953, anche dal Prix Italia. La storia
di questa rinascita è la storia dell’“altra new wave” (Madsen 2003, p. 190),
quella radiofonica del film sonore, radiomontage, radio filme, documentaire de
création15, una produzione documentaristica d’autore che trae le sue origini
estetiche dal clima culturale emerso dai cambiamenti del cinema francese
degli anni Sessanta. In Italia si parla di neorealismo radiofonico, nel resto
d’Europa si parla di nouvelle vague radiofonica. In ogni caso è chiaro che le
produzioni documentaristiche di quegli anni avevano in comune una vocazione al racconto d’autore, all’attraversamento del confine tra fiction e realtà, alla libertà espressiva in campo sonoro e l’applicazione di nuove tecniche
di registrazione e nuove estetiche di montaggio. Solo che di questa onda radiofonica c’è poca traccia nella storia dei media, perché la radio è un medium sonoro e sfugge allo studio accademico, il quale ha bisogno di testi per
storicizzare. Inoltre questi lavori avevano un altro limite: la lingua. Mentre
le opere cinematografiche di quel periodo varcarono facilmente i confini
attraverso la sottotitolazione e il doppiaggio, i documentari radiofonici di
questa ondata rimasero per lo più sconosciuti ed ebbero sempre grandi difficoltà ad essere esportati, come accade ancora oggi ad ogni prodotto radiofonico, perché la radio è per sua natura “allacciata ad una lingua” (Burgess,
1991, p. 305). Nonostante questa limitazione, ci fu negli anni Settanta una
certa circolazione di prodotti documentari, grazie all’opera pioneristica del
documentarista tedesco Peter Braun, fondatore nel 1975 dell’International
Features Conference e promotore del Prix Futura. Braun teorizzò la “banda
madre” (mutterband), una forma di montaggio che poteva permettere diverse narrazioni in diverse lingue a partire dalla stessa feature e questo stimolò
la traduzione e l’adattamento di numerosi documentari, rendendo questo
genere il più esportabile tra quelli radiofonici.
15
Tutti termini francesi per definire il genere documentario.
79
Il documentario oggi
Dai tempi di Bandini la radio pubblica italiana è cambiata molto e il documentario è diventato sempre più una rarità nei palinsesti. Oggi rimane ben
poco: Tre soldi (nipote dello storico contenitore di documentari Cento Lire,
in onda tra il 1998 e il 2003) e Radio3 Doc su Radio3 sono gli unici spazi
(serali) dedicati al documentario, un genere praticato in maniera sporadica
anche da Radio24, con RadioDoc e alcune puntate di Nessun luogo è lontano.
Cuore di Tenebra, su Radio3, (il sabato alle 14.00) rimane l’unico caso sopravvissuto di docufiction/docudrama. Al di fuori della radio proliferano invece
produzioni audio dedicate al genere, come il caso di AudioDoc, un gruppo di
documentaristi indipendenti che distribuisce online le sue produzioni o come DocuSound.it, un altro gruppo di autori che produce storie sonore dal taglio documentaristico. Mentre in Italia il genere sparisce e rinasce online, in
Europa e Stati Uniti le radio di servizio pubblico continuano a produrre documentari, sempre più nella forma di faction (commistione di fact + fiction),
ovvero racconti sonori originali che trattano la realtà da un punto di vista
narrativo (Ladd, 2005), dal montaggio audio creativo e dalla scrittura molto
personale, una forma autoriale di documentario, dalla durata breve – dieci,
quindici minuti – che potrebbe rappresentare un esempio di rigenerazione
del format. In Francia la radio pubblica dà ancora molto spazio al documentario, anche se in diminuzione, come in tutta Europa. Inoltre, on line esiste
il caso virtuoso di Arte Radio (vedi intervista al direttore, negli approfondimenti), la piattaforma web del canale francese satellitare Arté: ha prodotto e
distribuito per un ascolto on demand in streaming o podcast più di mille mini-documentari d’autore per il pubblico francese della rete. Negli Stati Uniti
resiste invece una lunga tradizione di giornalismo narrativo (la non-fiction
è nata lì, dall’invenzione di Truman Capote) e da quando nel 1967 è stata
fondata la radio pubblica NPR, esistono programmi dedicati al documentario come This American Life, la popolare All Things Considered, entrambe
dedicate a storie di vita privata, o RadioLab, un programma scientifico dal
taglio documentaristico. La BBC in Gran Bretagna è la radio che ancora trasmette più documentari al mondo, insieme alla Germania, dove nel 2009
è nata anche una forma di produzione documentaria in collaborazione con
80
gli ascoltatori attraverso l’uso dei social network: è il caso del programma
Mehrspur, in onda sulla SWR2. In America Latina è appena partito un altro
progetto di produzione documentaria per la radio attraverso la rete: Radio
Ambulante16, una piattaforma on line di produzioni sonore finanziata tramite
pratiche di crowdfunding. Se il genere appare in declino – non di qualità, ma
di spazi – sulla radio tradizionale, sembra però trovare nuove forme di vita
in rete, dove non esistono i vincoli del palinsesto e degli ascolti a tutti i costi.
Per quanto riguarda la precaria situazione del documentario nelle radio
pubbliche europee è di fondamentale importanza il risultato di un’indagine
compiuta nel 2011 dall’associazione di documentaristi indipendenti AudioDoc.
Nel corso del 2011 è stato elaborato un questionario poi inviato a 63
redattori radiofonici di 32 diversi paesi europei. Il questionario è strutturato
attorno a tre temi principali: le caratteristiche del documentario trasmesso,
il modello produttivo adottato, la formazione professionale dell’autore.
I principali risultati di questa indagine, sono i seguenti (AudioDoc, 2012):
L’audio documentario è una realtà tutt’altro che omogenea in Europa. Le differenze
più importanti sono legate al sistema produttivo, da cui dipende anche il tipo di
rapporto contrattuale dell’autore (dipendente o freelance); all’entità delle risorse
investite nella produzione, da cui consegue anche la generosità nella retribuzione
all’autore; alla formazione, che è indice sia della qualità ricercata sia dell’attenzione
per questa specifica professionalità. Germania e Gran Bretagna producono da
sole il 41 per cento di tutti i documentari trasmessi in Europa in un anno. Altri
paesi producono un numero di documentari al di sotto della media europea (che
risulta essere di 294 documentari all’anno per paese) ma con un forte investimento
finanziario (Finlandia, Norvegia e Paesi Bassi), mentre altri ancora producono e
investono pochissimo (Italia). La Gran Bretagna utilizza esclusivamente autori
dipendenti dalla radio oppure società di produzione mentre la Germania ricorre
nella quasi totalità dei casi ad autori esterni freelance. Sotto questo aspetto, non
si può neppure dire che esista un modello scandinavo: in Danimarca quasi tutti
gli autori sono interni, in Finlandia quasi tutti freelance, mentre in Norvegia e
16
Jimenez A., “Radio Ambulante wants to drive narrative journalism in Latin American radio, via the
web”, Nieman Lab, 7 luglio 2012.Cfr. http://www.niemanlab.org/2012/07/radio-ambulante-wantsto-drive-narrative-journalism-in-latin-american-radio-via-the-web/
81
Svezia le due figure sono numericamente più o meno equivalenti. Nei paesi dell’area
mediterranea prevale il modello della produzione interna, ma fa eccezione l’Italia.
Anche nei paesi dell’est Europa gli autori sono prevalentemente dipendenti, ma non
in Bulgaria (maggioranza freelance) e non in Repubblica Ceca e Slovenia (dipendenti
e freelance si equivalgono). Per quanto riguarda i costi di produzione, si va dalla
Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Norvegia, Paesi Bassi e Svizzera, i
cui costi sono compresi tra i 100,00 e gli oltre 300,00 euro al minuto, ai paesi in
cui un documentario costa tra i 12,00 e i 67,00 euro a minuto: Austria, Bulgaria,
Danimarca, Irlanda, Kosovo, Polonia, Romania, Spagna e Ungheria. Seguono lo
stesso andamento le retribuzioni all’autore. Gli estremi sono rappresentati da un
lato da Gran Bretagna, Norvegia e Paesi Bassi, dove il compenso previsto è superiore
a 90,00 euro al minuto, e dall’altro da Italia, Polonia e Ungheria, dove gli autori
guadagnano in media 10,00 euro al minuto. I documentaristi interni alle radio
realizzano in media ciascuno circa 24 documentari in un anno. I freelance non ne
realizzano che poco più di due, il che fa supporre che pochi di loro vivano producendo
esclusivamente documentari. Per quanto riguarda invece la definizione del genere
documentario oggi la fonte più importante sono i produttori stessi, che hanno
fornito le seguenti interpretazioni, anche molto diverse tra loro, di documentario
(AudioDoc, 2011, pp. 5-7):”
«Feature17 è il tentativo di un autore di afferrare il mondo da un punto di vista
particolare. È una storia raccontata attraverso una drammaturgia, con la quale
l’autore esprime il suo atteggiamento nei confronti della realtà, e invita l’ascoltatore a
riflettere». (Polskie Radio Jedynka, Radio 1, Department of Feature and Dokument).
Storie dalla cucina della società. Flessibilità, versatilità. Non è reportage. Ogni tanto
può essere, almeno in parte, un radio dramma. (NTR/VPRO for Radio 1)
Le feature trasmettono informazioni in un modo divertente. Usano il mezzo
17
Feature viene usato nel mondo anglosassone e nordeuropeo come sinonimo di documentario
82
radiofonico come spazio acustico. In questo senso utilizzano tutti i linguaggi
espressivi della radio. Sono un insieme di reportage, dialoghi e commenti. (DRS 2)
Registrazione sul posto di storie e situazioni. Non è fiction, non comprende in
genere analisi di approfondimento, ma illustra delle situazioni. Non lo distinguiamo
dal reportage. (RSI)
La feature è un formato molto diversificato che riesce a trovare un’espressione
coerente usando tutti i mezzi e tutte le possibilità dei linguaggi radiofonici. L’unico
requisito è che la feature si occupi di fatti, non di fiction. (DLR Kultur - Kultur und
Gesellschaft)
Le feature sono forme di racconto giornalistico con un’elaborazione drammaturgica
e un lungo lavoro di montaggio. Utilizzano tutti gli elementi a disposizione della
creazione sonora. Possono (ma non sono obbligati a farlo) mettere in risalto il
racconto soggettivo dell’autore/autrice.
Nelle feature si possono introdurre elementi di fiction ma, diversamente dal radio
dramma, i temi trattati sono esclusivamente di non-fiction e giornalistici. (SWR
2 - Wissen)
Le feature si basano sui fatti. Il loro sottofondo sono i suoni e le storie. È un genere
della radio come gli altri. L’aspetto caratteristico è il punto di vista particolare
dell’autore su di un determinato argomento. Nella costruzione di una feature il
lavoro di ricerca ha un ruolo predominante. Molto importante è la qualità sonora,
anche in post produzione. Feature significa occuparsi di un argomento in maniera
molto intensa, cercando punti di vista non comuni. Una soggettività coraggiosa.
(MDR - Künstlerisches Wort)
83
Un attacco radiofonico alle orecchie. (WDR - PG Hörspiel & Feature)
Una storia approfondita, un reportage di più lunga durata, un dramma colto dal
vivo. È un racconto radiofonico autoriale, realizzato utilizzando voci e suoni raccolti
da autori e regista nei luoghi interessati. (RAI Radio 3)
Una eco sonora del reale attraverso il punto di vista di un autore. (Arte Radio)
Sicuramente il documentario è anzitutto un desiderio, una passione. Spesso è il
nostro desiderio di documentaristi, ma a volte anche un’evidenza o una priorità
oggettiva. Una volta che abbiamo questo desiderio di documentario, cosa facciamo?
“Raccogliamo dal reale”. Un po’ come fanno dei cercatori d’oro nel fiume,
raccolgono molta sabbia e alcune pepite. Il documentario implica un grande lavoro
di preparazione, di sopralluogo, di ricerca di voci, di ascolto della gente, di scelta
dei luoghi. Questo è il tempo del prima, un tempo fondamentale che è una delle
caratteristiche del documentario e che fa la differenza con il reportage, dove invece si
registra sul momento e senza molta preparazione. Penso che fin dagli albori l’essere
umano abbia cercato di capire il mondo, di capirlo con appetito come un bambino.
Il documentario è questo. E’ questo impulso di voler capire, di voler compartecipare,
di andare verso l’altro. (France Culture)
Un documentario non è un reportage, perché richiede un “io” che si fa carico della
narrazione. In questo senso può avvicinarsi a una scrittura di finzione. In ogni caso
è un processo di scrittura del reale. (RTBF, La Premiére)
Il radio documentario è una trasmissione sui fatti che utilizza alcune o tutte le
tecniche dell’inchiesta documentaristica – intervista, suoni dell’ambiente, letture,
suoni d’archivio, musica – per raccontare una storia reale. Ci sono molte varietà
84
di documentari – dal giornalismo investigativo, al reportage, fino a narrazioni
impressionistiche, anche senza una voce narrante. (BBC)
I radio documentari si basano su una struttura drammaturgica intorno al tempo
presente, ai suoi conflitti e ai suoi personaggi. La differenza con il radio dramma
è che quest’ultimo è finzione. Ma i documentari veramente interessanti si trovano
spesso al confine fra radio dramma e documentario. (BNR)
Il documentario si occupa di persone ed eventi reali. Utilizza documenti e ricorre a
persone che hanno partecipato ai fatti come risorse o fonti. Si basa su accadimenti
e suoni autentici. Risponde al bisogno di ricostruire storie individuali ed eventi
storico-politici mediante una ricerca approfondita. (BH radio 1)
Il radio documentario è un’autentica testimonianza di personaggi e fatti. Sono storie
vere sia di grandi personaggi, sia di piccoli drammi quotidiani. Una forma particolare
del documentario è il feature. Feature significa un processo creativo genuino in
tutte le sue fasi, il cui elemento principale è la storia di una persona. La feature
ha un soundscape autentico, composto da varie forme di suono: musica, ambiente,
effetto. Usa il suono non come effetto drammatico, ma come elemento integrale
della comunicazione. (ČRo 2 - Praha, Dvojka)
Il documentario ha bisogno di una drammaturgia ben strutturata e spesso è
quasi costruito come un film. È raccontare una storia, sia in forma di giornalismo
investigativo, sia di narrazione. La ricerca e lo sviluppo del lavoro arrivano a livelli
molto elaborati e profondi. Noi abbiamo deciso che l’ascoltatore, quando accende la
radio, deve rendersi conto in modo immediato che quello che sta ascoltando è un
documentario e non un semplice servizio o reportage. Il documentario deve parlare
al cuore e al cervello nello stesso tempo. È un valore poetico del linguaggio. (NRK
P2 - Radio feature department)
85
La lunghezza, la narrazione, il focus, la post produzione. (RTP Antenna 1)
Il documentario è un modo particolare di fare la radio. Si rivolge a un pubblico più
vasto di quello degli ascoltatori di un semplice servizio, perché approfondisce un
argomento in modo creativo. E questo solo il documentario lo può fare» (RTK Radio
Kosova Department of Informative Program).
Una forma di giornalismo analitico di ricerca. (Radio Belgrade)
Gli aspetti più importanti sono, da un lato, il punto di vista personale dell’autore e,
dall’altro, la realtà, comunque sia trattata. (Swedish radio P 1 - The documentary
department)
Il documentario usa la radio come forma d’espressione, raccogliendo il materiale
dalla realtà, della quale però l’autore opera la sua personale rielaborazione. Il
documentario è qualcosa fra la poesia e il giornalismo. Ci sono molti messaggi nel
documentario, alcuni più chiari, altri meno, raccontati magari solo attraverso dei
suoni. (YLE Radio 1 Documentary Group)
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from the 2005 Melbourne Radio Conference, Melbourne, RMIT Publishing,
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86
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Berkeley, 1984, pp.14-18.
87
L’intrattenimento musicale
I formati musicali
Ogni emittente ha un suono diverso, conseguenza di voci diverse, modalità
di compressione del segnale diverse e soprattutto, brani musicali differenti.
In ogni mercato radiofonico esistono oggi emittenti musicali che ruotano attorno a formati musicali differenti. Sono le cosiddette format radio, ovvero
le radio di flusso che trasmettono un genere di musica specifico, accompagnato dai funambolismi vocali dei dj. In Italia questo tipo di formato arriva
tra gli anni Ottanta e Novanta, come conseguenza della maturità delle radio
libere comparse negli anni Settanta e trasformatesi in imprese commerciali
private negli anni successivi. La format radio però nasce molto tempo prima, negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, per differenziarsi dalla nascente
offerta televisiva, che stava riadattando per lo schermo le forme di intrattenimento e informazione generalista fino a quel momento prerogativa della
radio. Il primo formato musicale adottato da una radio americana è il Top40,
insieme al quale nasce il concetto di playlist, ovvero la scaletta musicale dei
brani messi in rotazione nell’arco di una giornata radiofonica.
La storia della radio attesta che la playlist arrivò per la prima volta
sull’emittente Fm di New York W2XMN, che nel 1941 proponeva un regolare
programma di dieci ore di musica registrata “originating from the Associated
Recording Studios” ma questa storia è meno interessante di quella di Todd
Storz, che – leggenda vuole – sia stato il primo ad avere avuto l’idea della
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format radio basata sulla playlist e la rotation. Storz, narra il mito fondativo,
ebbe l’idea magica in un bar, dove i clienti continuavano a selezionare
sempre le stesse canzoni al jukebox. Sempre le stesse canzoni. Seduto al
tavolo con membri del suo staff, alla fine della serata, osservò una cameriera
inserire gli spicci delle mance nel jukebox e scegliere le stesse poche canzoni
che i clienti avevano ripetutamente suonato. Sempre-le-stesse-canzoni. La
storia dell’acquisto – col padre Robert e con gli utili del birrificio di famiglia
– della stazione KOWH di Omaha nel 1949; l’epopea del Mid-Continent
Broadcasting; la strategia competitiva – raddoppiare la proposta di una radio
concorrente (se Top20 è bene, Top40 è meglio); la strategia del less is more
per gli interventi dei dj; l’ossessione per l’aspetto tecnico (anche un segnale
forte e chiaro era importante per gli obbiettivi), sono minuziosamente
documentati nel saggio “Lucidando il marchio: Todd Storz e il «Total Station
Sound»” (Mc Court T. e Rothenbuler E. W., 2004). Quel che emerge, al di
là del lungo processo che portò all’affermazione della Format Radio, è la
dimostrazione di come le stazioni di Storz fossero macchine di vendita a pieno
regime, costruite per riaggregare un’audience di massa attorno alla radio più
che cercare specifici segmenti demografici, per vendere la radio-marchio agli
investitori più che per promuovere singoli dischi o personaggi al pubblico.
“Sosteniamo che la Radio Top40 fu concepita in termini meccanici, più che
estetici”, affermano solenni Mc Court e Rothenbuler. Il profitto portava Storz
e gli altri alla scoperta della parola magica: “formattazione”. Agghiacciante
la sintesi di David Hendy (2003, p. 351): “abbiamo già notato che i formati
sono il mezzo con cui ‘le emittenti forniscono agli utenti pubblicitari gruppi
di consumatori definiti e quantificati’. Mentre per chi la radio la produce
possono essere descritti come mezzi per garantire ‘la standardizzazione e la
prevedibilità’”. Sono solo canzonette, che ci piacciono, ci mettono allegria
e ci aiutano a sopportare il traffico, ma pur costituendo mediamente la
ragione sociale del nostro gesto su manopole e tasti vari, “il flusso continuo
di suoni è più potente di qualsiasi elemento singolo racchiuso in questa
progressione, la ricezione di elementi particolari è subordinata al discorso
generale della programmazione radiofonica, che crea dipendenza e una forma
di abbandono” scriveva la studiosa canadese Jody Berland (1990, p. 183).
89
Il percorso che porta alla generazione di una playlist è lungo e fortemente
standardizzato secondo pratiche simili a quelle della produzione industriale
di un utensile. La musica che arriva alla radio è sottoposta ad un lungo
processo di formattazione: i brani vengono selezionati, schedati per autore,
anno, genere, “energia” (calcolata in bpm, battiti per minuto), umore (un
valore da 1 a 5 che dovrebbe esprimere lo stato d’animo della canzone),
editati, cioè adattati ai tempi stretti della radio, accorciando temi introduttivi
e a volte anche i ritornelli e infine programmati all’interno della playlist
quotidiana dell’emittente. Oltre alla divisione per appartenenza di genere,
una divisione molto arbitraria, ad ogni brano viene attribuita un’etichetta,
in base alla sua età. Un brano viene archiviato come novità se è stato appena
pubblicato; power current se non solo è nuovo ma è un brano popolare e che
quindi viene riproposto molte volte nell’arco della giornata (heavy rotation);
hot current se è un brano a cui viene associata una rotazione medio-alta;
up and comer se è un brano dal successo altalenante; burned current se è
stato iper-programmato e quindi ormai bruciato; non current se è un brano
“vecchio” di almeno un anno o due, che può essere ripescato ogni tanto, a
seconda dell’identità della radio; recurrent se è stato un successo dell’ultima
stagione; gold se è già vecchio di qualche anno ma è stato molto popolare in
passato. All’interno dei gold esistono sottocategorie come power gold, regular
gold e secondary gold; gli oldies sono invece quei brani classici, che hanno fatto
la storia del pop, ma che appartengono anche a quattro o cinque decadi fa.
La scelta dei brani per la playlist e della frequenza di trasmissione
viene fatta sulla base di ricerche di marketing e sui gusti e l’esperienza del
programmatore musicale. Tra gli strumenti di marketing più diffusi c’è la Music
Research, che tradizionalmente si avvale di due ricerche, l’indagine telefonica
e gli Auditorium test. La prima si basa su campioni di 100-300 ascoltatori a
cui viene chiesto una volta al mese di rispondere a delle domande sulla musica
attualmente in onda. Al campione vengono fatte ascoltare dalle 30 alle 50
canzoni pescate fra quelle già messe in rotazione pesante e gli viene chiesto di
valutarle sulla base di tre criteri: familiarità (Ha mai sentito questo brano?);
piacere (Quanto le piace questo brano?); saturazione (Vorrebbe ascoltare più
spesso questo brano?). Nel secondo caso si riuniscono 150-300 ascoltatori
90
in una sala – una o due volte l’anno – e si fanno ascoltare loro gli attacchi di
circa 1000 brani musicali appartenenti a tutta la playlist della radio. Shramm
& Knoll (2012) hanno studiato l’impatto di questi metodi tradizionali di
selezione della musica sulla programmazione musicale tedesca. Tra le 354
radio tedesche oggi il 91 per cento dei canali pubblici (erano il 58 per cento
nel 2001) e il 64 per cento di quelli privati (erano il 43 per cento nel 2001)
hanno implementato questo metodo. I risultati della Music Research son
ancora la fonte più affidabile per la scelta della musica; in seconda battuta i
programmatori si fidano dei loro gusti personali; la terza variabile in gioco
nella scelta musicale delle radio è rappresentata dalle classifiche di vendita
e dal confronto con le altre playlist concorrenti, secondo Shramm & Knoll.
I due ricercatori concludono dicendo che oggi la programmazione musicale
tedesca si basa in prevalenza ancora su metodi di ricerca degli anni Ottanta,
anche se sta crescendo l’uso di indagini on line per raccogliere i feedback
degli ascoltatori lasciati in giro per i propri social network. L’aumento di
questi strumenti di valutazione del gusto musicale del pubblico è anche la
causa della restrizione del bacino di brani musicali oggi programmate dalle
radio tedesche. Shramm & Knoll hanno i dati per dimostrarlo, ma anche in
Italia le cose sono molto simili.
Le proporzioni di palinsesto musicale dedicate ad ogni singolo genere
musicale dipendono inoltre dal tipo di formato della radio di flusso.
L’identità sonora di una radio di flusso si costruisce intorno al suono
musicale che emette, al contrario delle radio di programmi, che hanno nei
contenuti e nei personaggi al microfono le maggiori fonti d’attrazione. Una
radio di flusso musicale si riconosce dal tipo di musica e dai jingle musicali
(i loghi sonori dell’emittente) che trasmette.
La radiofonia commerciale americana e inglese ha nel tempo sviluppato
diversi formati musicali a partire dalla formula primaria della Top40. I
principali formati musicali oggi esistenti sono:
Contemporary Hit Radio (CHR)
È la versione aggiornata della Top40. Si rivolge in particolare ad un pubblico di teenager (Perrotta, 2003) ma è aperto a tutti i target. È un formato
91
generalista che prevedo un ascolto distratto e un pubblico senza preferenze
di genere musicale. Nel CHR trovano spazio un bacino di brani molto ristretto, di solito una trentina al giorno trasmessi con frequenza, brani molto
recenti e molto ritmati.
Il claim di RDS – 100 per cento grandi successi – è l’esempio di questo
formato: un’emittente che ha come obiettivo quello di essere riconosciuta
come la radio dei successi del momento. Un altro modello italiano di questo
formato è RTL 102.5.
Adult Contemporary (AC)
È un formato ibrido, che ha subito molte variazioni, ma in generale si ispira
al CHR concentrando però la sua offerta soprattutto sul target 25-49 anni e
sull’ascolto femminile. Sono esclusi generi musicali di nicchia. Il formato è
composto di brani pop e rock delle ultime tre decadi, con prevalenza di successi del momento. Negli Stati Uniti è il formato più diffuso: il 58 per cento
delle radio americane adottano questo formato, contro il 19 per cento del
CHR e il 6 per cento dell’AOR (Shramm & Knoll, 2012).
Easy Listening
Questo formato è rivolto agli over 50 in cerca di un flusso musicale rilassato e distensivo, dai ritmi medio-bassi. Una caratteristica dei clock orientati
su questo formato è la presenza di musica strumentale e di lunghi blocchi
musicali ininterrotti. Qui il parlato ha una rilevanza minima, avvicinando il
flusso alla muzak degli aeroporti e dei luoghi di consumo, quasi fosse un servizio di filodiffusione.
Country/solo musica italiana
Un formato che programma solo musica “nazionale”, fortemente incentrato
sul senso di appartenenza ad una vasta comunità geografica.
Album Oriented Rock (AOR)
Un formato rivolto ai “giovani adulti di sesso maschile tra i 18 e i 34 anni dotati di discrete competenze musicali e un approccio selettivo al consumo della
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musica” (Perrotta, 2003, p. 80). Un formato che ruota attorno al rock, anche
ai brani storici di questo genere, con la particolarità di programmare non solo
i brani di punta di un album ma anche gli altri (da qui il nome del formato).
Una variante di questo formato è l’Alternative, composta soprattutto
da brani rock di produttori indipendenti o dalla connotazione radical degli
autori dei brani.
Classical
Un formato che tenta di coniugare le ampie dinamiche della musica classica
con le rigide regole della rotazione. Negli Stati Uniti ogni grande centro urbano ha nel suo spettro fm almeno un’emittente che segue questo formato.
Il segmento di pubblico a cui si rivolge è quella fascia d’età che parte dai 35
anni in su, dal profilo socio-culturale alto e dotata di un certo potere d’acquisto medio-alto. In Italia questo formato è stato adottato da Radio Classica
del gruppo editoriale Class.
Vintage/nostalgia
Formato agli antipodi della CHR, perché programma soltanto brani non current, oldies appartenenti alle decadi degli anni Sessanta-Settanta. Si rivolge ad
un pubblico in età avanzata, che si sintonizza per tornare con la memoria al
periodo in cui affrontava la giovinezza. È un flusso che fa leva sul ricordo e sulla
nostalgia del passato. In Italia esistono emittenti locali che lo hanno adottato,
come nel caso di Radio Nostalgia, e nazionali come Radio Italia Anni Sessanta.
Urban
Un formato indirizzato ad un pubblico metropolitano, nato negli Stati Uniti
per raggiungere un pubblico giovane, tra i 18 e i 35 anni e multiculturale
(McFarland 1997). La playlist in questo caso contiene brani presi da generi differenti come l’R’n’B, il Rap, l’hip hop, la dance, l’elettronica, il reggae, la
black music, la jungle, la dubstep, generi differenti che però hanno tutti in
comune un rapporto particolare col corpo e con il ritmo e sono molto contaminati dalla musica black. Questo formato può in alcuni momenti confondersi con il CHR, con cui alcune varianti dell’Urban si sono imparentate,
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dando origine al Churban, in realtà il bacino dei brani programmati è più
ampio rispetto alla CHR e in playlist finiscono anche altri brani dello stesso
album, non soltanto le hit. Un esempio di questo formato in Italia è rappresentato da Radio Deejay.
World
Formato concentrato sull’offerta di musica world, “etnica”, che ha preso piede negli anni Novanta, con la globalizzazione e la popolarità di festival musicali come il Womad, pensati per portare nel mondo gli artisti di musica etnica. Ha varie declinazioni, dal folk inglese al latin pop sudamericano, dal reggae
alla musica banghra. In Italia un esempio di questo modello è LifeGate Radio.
Freeform
Un formato che non è un formato, nato nei college americani della costa
occidentale negli anni Sessanta. Adottato soprattutto dalle radio comunitarie e universitarie, prevede una proposta musicale eclettica, originale, non
omologata, poco strutturata, con molto parlato, molte performance musicali dal vivo in studio, interviste con i musicisti e una certa predilezione per il
rock alternativo. Negli Stati Uniti, nonostante le college radio rappresentino
soltanto l’11 per cento del panorama radiofonico americano (Wall, 2007),
questo formato è dominante.
Lo strano caso di Radio2 RAI
La playlist di Radio2 RAI è un caso interessante di studio perché mostra notevoli differenze rispetto all’omologazione dell’offerta musicale radiofonica
italiana. Il suo duplice obiettivo, massimizzare l’audience e nel contempo
offrire un servizio pubblico (con gli annessi culturali che ciò presuppone) la
obbliga a dover ragionare sul proprio schema di gioco nella partita che è la
stessa che disputano tutte le altre concorrenti commercial. Le tocca inevitabilmente fare i conti con la playlist corrente, ma deve anche smarcarsi da essa. Il cambiamento nella sua programmazione musicale, avvenuto nel 2009,
che ha accolto nella selezione delle musiche da trasmettere derive altre del
pop, investendo anche su brani che non sono già successi consolidati e che
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afferiscono a suoi sottogeneri, richiama alla mente, secondo il critico musicale Luigi Iavarone (2013) quel che accadde alla metà degli anni Novanta a
BBC One, la pop-music radio station del colosso pubblico inglese. Incalzata
dalla concorrenza delle radio private commerciali, e anche dallo spettro di
una possibile privatizzazione, dovette riconsiderare il proprio ruolo – più di
una mera questione di riposizionamento – e presentarsi “molto più aggressivamente come un tutt’uno con la dimensione culturale di un broadcasting
di servizio pubblico”, rivedendo il suo motto “ratings by day, reputation
by night” per trasformarsi in una “‘new music first’ radio station” (Hendy,
2000, p. 757). La vulgata accredita a BBC One, per questa via, la creazione tout-court del fenomeno brit-pop, perché l’emittente fu la prima a passare le canzoni di Oasis e Blur (ma anche Sour Times, primo singolo di tali
Portishead inciso per la Go! Beat Records). Ma anche se “è inconcepibile sostenere che BBC One abbia ‘creato’ da sola il brit-pop o l’ampio range dei
suoni più nuovi che emersero nella metà degli anni Novanta”, quel che è più
sostenibile “è l’argomento per cui è stata la prima radio a identificare queste
sottocorrenti culturali e l’unica ad aver rischiato trattandole in un modo che
ha permesso loro il crossover nel mainstream” (ivi, p. 752). Un esempio per
tutti. Il singolo Brimful of Asha dei Cornershop, allora sconosciuto gruppo
indipendente dell’etichetta Wiija, fu programmato da BBC One in heavy rotation (25-30 passaggi a settimana) per più di cinque settimane prima della
sua uscita. In quel caso, anche le stazioni commerciali seguirono a ruota la
BBC e il singolo entrò in classifica al primo posto. BBC One aveva deciso di
giocare il suo ruolo di servizio pubblico, ovvero di volàno per l’innovazione, in questo caso musicale. Questo ruolo comporta dei rischi che spesso
le commerciali non si sentono di intraprendere, ma la programmazione da
parte del servizio pubblico inglese di canzoni nuove non collaudate e di prerelease (i brani non ancora pubblicati sul mercato, programmati con grande
frequenza: uno ogni quattro brani trasmessi) ha avuto ricadute culturalmente rilevanti: ha portato da una parte ad allargare culturalmente la portata del
cambiamento, tanto che i vertici musicali dell’emittente parlarono di “new
mainstream”, dall’altra a sancire la distinzione tra l’airplay di BBC One, che
veniva prima delle vendite e quello delle radio commerciali, che veniva dopo
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di esse. Schiantando l’alta prevedibilità delle relazioni industriali della musica (leggi: fare affidamento sulle classifiche), preferendo lo sconosciuto al
certo, BBC One si assunse un altro, prevedibile rischio, “la drammatica caduta dell’ascolto nel periodo in discussione. Da una media settimanale di
circa 19 milioni di ascoltatori nel giugno 1993 […] si precipitò a circa 11 milioni all’inizio del 1998” (ivi, p. 756). Quel che potrebbe sorprendere è che
si trattò di una specie di rischio calcolato in nome del servizio pubblico di
qualità, una strategia che rifiutava la logica di provvedere servizi minoritari
dallo scarso peso commerciale che avrebbero chiuso l’emittente in un ghetto
culturale, e aveva la volontà di raggiungere tutti, ma in un modo che “ponesse grande enfasi” su programmi “di distinzione e qualità” per “le culture
popolari quanto per quelle minoritarie” (BBC, 1992). Il carattere distintivo
di BBC One diventò “combinare inconfondibilmente un’audience di massa
su scala nazionale e un inusuale progetto culturale per trasmettere ‘nuova’
musica […] mediando tra i sottogeneri e il mainstream pop” (ivi, p.760).
L’arrivo della rete e la polverizzazione dei formati
Oltre a questi formati l’arrivo della rete, della tecnologia streaming e la diffusione della web radio, dei canali digitali e satellitari e delle piattaforme di social networking musicale come Last Fm, Deezer, Grooveshark e Spotify hanno
contribuito ad allargare lo spettro dei formati possibili, fino a polverizzare le
categorie finora esplorate dalla radiofonia in fm e costruire flussi musicali altamente ritagliati sulle esigenze e i gusti musicali di nicchie anche ridottissime.
Le web radio nate nei tardi anni Novanta negli Stati Uniti sono state
le prime a contribuire alla polverizzazione dei formati musicali, offrendo
flussi sonori costruiti attorno a micro-generi e correnti musicali, sfruttando
i vantaggi della coda lunga (Anderson, 2007) ma il consumo di web radio
rimane marginale fino a che non verrà integrato nelle autoradio e fino a che
i costi di connessione alla banda larga non saranno accessibili ai più.
Le radio musicali in Fm oggi sopravvivono perché il mercato analogico di
cui fanno parte è un mercato chiuso alla concorrenza: un numero limitato di
operatori si spartisce tutto il pubblico. Queste stazioni vantano una rendita
di posizione sul mercato, che le protegge dalla concorrenza. Il risultato è una
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forte omogeneità dell’offerta musicale e dello stile di presentazione della
musica da parte dei network nazionali. Ma il futuro passaggio al digitale, la
crescita dell’ascolto in streaming e soprattutto la diffusione delle piattaforme
di streaming musicale rappresentano un “pericolo” concreto per le radio di
flusso musicali, che rischiano di perdere il vantaggio ottenuto dall’oligopolio
analogico. Il successo di queste radio è dato dal fatto che oggi, nei luoghi
di consumo della radio (auto, negozi, casa) i ricevitori sono principalmente
analogici e l’ascoltatore è costretto a scegliere tra un ventaglio di offerte
musicali limitate. In un futuro prossimo, che in alcuni paesi europei come la
Svezia o la Svizzera è già il presente, i ricevitori digitali saranno più diffusi,
internet sarà più accessibile e sarà più facile crearsi playlist personalizzate,
senza dover più accendere la radio per ascoltare musica. Già oggi You Tube è
il più grande archivio musicale del mondo e viene usato come un juke box
alternativo alla radio. Inoltre, come ben fotografa l’indagine Audiographics
intitolata “Radio Industry, Losing Clout in Music Discovery” del 30 maggio
2012, solo il 10 per cento degli americani nella fascia d’età tra i 12 e i 44
anni dice di aver scoperto nuova musica attraverso la radio.
In un’epoca liquida (società, amori, capitalismo liquido) anche il modello
della divisione per formati della radio, nato per intercettare grandi target
differenti, entra in crisi e si polverizza.
Lo spettacolo musicale
Lo spettacolo musicale alla radio nasce con la trasmissione in diretta di concerti di opere e musica classica, così come lo spettacolo drammaturgico nasce con la diretta di spettacoli teatrali per poi evolversi nel radiodramma.
Così, anche la musica che veniva trasmessa alla radio nei primi anni del mezzo era soprattutto musica dal vivo. Accanto alla musica dal vivo iniziano a
comparire i primi programmi di musica riprodotta meccanicamente (vinili)
e trasmessa via radio.
Nel 1935 il commentatore radiofonico Walter Winchell conia il termine
“disc jockey” per descrivere il lavoro dell’annunciatore radiofonico Martin
Block, il primo speaker diventato popolare. Mentre il pubblico in ascolto
stava aspettando gli sviluppi del caso del sequestro Lindbergh, Block iniziò
97
a trasmettere vinili creando l’illusione di star trasmettendo da una sala da
ballo dove suonavano le migliori band del paese. Lo show, che lui chiamò
Make Believe Ballroom (“La sala da ballo immaginaria”), fu un immediato
successo. Il termine “disc jockey” apparve poi sulla stampa la prima volta nel
1941, su un numero del mensile “Variety”. Fino a quel momento la maggior
parte della musica alla radio era suonata dal vivo, la maggior parte delle
stazioni radiofoniche avevano una propria orchestra musicale sui propri libri
contabili (vedi anche il film dei fratelli Cohen, Brother Where Are Thou?).
La FCC, la commissione federale sulle Comunicazioni, inoltre favoriva
chiaramente la musica dal vivo, approvando più velocemente le pratiche di
richiesta di trasmissione da parte di radio che promettevano di non usare
musica registrata per i primi tre anni di vita. Molti musicisti dell’epoca
tentarono di non far suonare i propri dischi alle radio, per paura che la gente
avrebbe smesso di comprare la propria musica e addirittura provarono ad
etichettare i propri dischi come “non adatti” legalmente per la trasmissione
radiofonica. Questa polemica non ci chiama alla mente polemiche più
recenti sulla ritrosia degli artisti ad accettare la trasmissione su piattaforme
come Deezer, Grooveshark e Spotify? In ogni caso la corte Federale nel 1940
stabilì una volta per tutte che gli artisti non avevano alcun controllo legale
sull’uso della loro musica registrata, una volta che questa era stata venduta.
Nel 1943 Jimmy Savile lanciò il primo Dj dance party al di fuori di una
stazione radiofonica. Più tardi Savile divenne il primo Dj di Radio Luxemburg
ad usare due giradischi insieme.
Il dopoguerra coincise con l’esplosione della musica registrata e degli
show radiofonici condotti da dj, che erano anche selettori della musica che
trasmettevano.
Il dj più famoso di questa epoca fu Alan Freed, anche conosciuto come
Moondog. Divenne popolare per via del mix particolare di musica che
proponeva in onda. Freed è comunemente conosciuto come il padre del
rock’n’roll, colui che ha inventato questo termine e lo ha reso comune. La
sua opera è stata importante perché nelle sue selezioni musicali ha messo
fine alla segregazione tra i pubblici bianchi e neri dei giovani americani dei
primi anni Cinquanta presentando alla radio musicisti afro-americani e
98
organizzando concerti frequentati da pubblici misti (Larkin, 1998). Freed era
solito affermare che il rock’n’roll è un fiume che ha assorbito rivoli musicali
differenti: il rhythm and blues, il jazz, il ragtime, le canzoni dei cowboys, il
country, il folk. Tutto ciò ha contribuito a creare questo ritmo. La sua carriera
fu stroncata quando venne arrestato nel 1958 per un caso di Payola (una
serie di pratiche illecite che hanno per oggetto il trasferimento di somme
monetarie o benefit da parte dei produttori discografici agli operatori
radiofonici a fronte di una maggiore attenzione per i propri prodotti). Freed,
insieme alla reputazione, perse anche il suo show alla WABC. La pratica del
Payola era comune all’epoca a molti dj (e non è mai scomparsa, nonostante
sia diventato un crimine penale nel 1960) e molti commentatori dell’epoca
sono convinti che Freed fu scelto come capro espiatorio dello scandalo Payola
perché il suo pubblico era soprattutto afroamericano. Altri dj radiofonici
dell’epoca, dimostratisi corrotti anche loro dal mercato fonografico, non
subirono condanne pesanti come quella di Freed, perché accettarono di
“sbiancare” le proprie trasmissioni (Miller, 1999).
Il primo vero Dj della storia della radio italiana è probabilmente Vittorio
Zivelli, conduttore del settimanale Il Discobolo, dal 1953 al 1961, programma
dedicato alla trasmissione di musica leggera (trasmise i primi successi di
Gino Paoli, Sergio Endrigo, Luigi Tenco, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber)
ma il termine disc jockey non si utilizzò fino al 1965, quando venne usato
per la prima volta per descrivere il lavoro di Renzo Arbore (Bandiera Gialla,
1965 e Per Voi Giovani, 1966), Gianni Boncompagni (insieme ad Arbore in
Bandiera Gialla), Adriano Mazzoletti (con la trasmissione intitolata proprio
Disc Jockey, 1966, che contribuì alla diffusione del termine) e Renzo Nissim,
il primo dj ad andare in voce in diretta. Boncompagni fu il primo ad adottare
uno stile di conduzione dal ritmo altissimo, mentre Arbore rifuggiva dai
toni ufficiali degli annunciatori radiofonici dell’epoca tramite l’uso di un
linguaggio spontaneo e una dizione “imperfetta”.
Le radio pirata
Alle due di notte del 3 marzo 1968 ho finito il Carl Mitchell Show e ho augurato
la buonanotte agli ascoltatori, invitandoli a tornare con noi alle 5.30 per lo show di
99
Roger Day; Johnnie, Stevi ed io siamo poi andati a berci un caffè [...]. Siamo andati a
letto verso le quattro. Giusto un’ora dopo, l’ingegnere in carica, Ray Glennister, era
di nuovo in piedi per riaccendere il trasmettitore e far partire la musica registrata.
Ma prima che questo potesse accadere il capitano della nave è entrato nello studio 1
e ha detto a Ray di spegnere la musica perché stavamo per salpare e fare ritorno in
Olanda. Ray ha obbedito e ha svegliato Johnnie, il dj più anziano. Gli hanno dato
15 minuti per cancellare le cassette prima che venissero sequestrate; verso le 7.30
abbiamo iniziato a muoverci. Tutti i dj ora erano in piedi e ci stavamo chiedendo
se quella era davvero la fine. Il tempo era brutto, poca visibilità [...] per tutto il
pomeriggio abbiamo ascoltato la Bbc e Radio Veronica, ma nessuno parlava di noi.
Il giorno seguente so che il dj di Bbc One, ha commentato in maniera sarcastica la
fine di Radio Caroline dando il benvenuto ai suoi “nuovi ascoltatori”. Siamo arrivati
ad Amsterdam alle 5 del mattino del 4 marzo. [...] Roger, Stevi ed io abbiamo dovuto
sfuggire alla folla di giornalisti prima di riuscire a raggiungere il nostro ufficio. Poi
abbiamo fatto ritorno a Londra e ce ne siamo andati ognuno per la sua strada. Tutti
i dj ricevettero un assegno e una nota scritta che ci pregava di tenerci in contatto.
Ma non successe niente e così quella fu la fine di una stazione fantastica. Questa
è la vera storia di come sono andate davvero le cose quel giorno. L’ultimo brano
trasmesso da Radio Caroline è stato Cinderella Rockefella di Esther & Abi Ofarim.
Poi la stazione ha chiuso con il suo solito jingle, Caroline, dei Fortunes18.
Questo è il racconto di Andy Archer, l’ultimo dj ad essere andato in onda
su Radio Caroline. Il 1968 si apriva così con la chiusura della stazione più
rappresentativa del fenomeno delle radio pirata19 e che, per mezzo di un
trasmettitore montato su una nave cargo ancorata nelle acque internazionali del mare del Nord, aveva osato sfidare il monopolio sull’etere britannica
della BBC. Radio Caroline aveva iniziato a trasmettere la domenica di Pasqua
del 1964, il 28 marzo, mandando in onda per la prima volta la musica dei
Beatles e del rock’n’roll americano, musica allora inaudita per le orecchie
di inglesi ed europei abituati all’intrattenimento pedagogico e paternalista
18
Andy Archer, How the mi Amigo was silenced, “Spotlight”, Free Radio Association Newsletter, 1970.
19
La prima radio pirata della storia è Radio Merkur, che inizia a trasmettere dalle acque internazionali
fuori Copenaghen nel 1958. Sul fenomeno e la storia delle radio pirata si veda Borgnino A., Radio
Pirata. I bucanieri dell’etere, Roma, Castelvecchi, 1997.
100
del servizio pubblico. Milioni di ascoltatori, soprattutto giovani adolescenti,
spostarono i sintonizzatori delle proprie radioline a transistor sulla frequenza
di Caroline e di altre radio pirata dell’epoca (tra le più seguite c’erano Radio
City, Radio London e Radio North Sea): «L’impatto culturale dell’emittente,
che trasmetteva con lo slogan Love, peace and good music, fu impressionante
e coinvolse quasi venti milioni di ascoltatori»20. Le radio pirata raccolsero un
successo enorme perché offrivano ad una vasta porzione della società inglese
dell’epoca – i giovani – un genere musicale che la radio pubblica inglese aveva completamente sottovalutato (Chapman, 1992). Lo stile della radiofonia
americana, fatto di dj che parlavano senza un testo in mano, usando un linguaggio spontaneo e informale, ritmo frenetico e rock’n’roll, venne importato in Europa attraverso i pirati dell’etere. La BBC, una volta vietate le trasmissioni pirata – che, per inciso, non moriranno mai del tutto, ancora oggi
costituiscono il 15 per cento dell’ascolto dell’area metropolitana di Londra
(Ofcom 2009) – provvederà a colmare il vuoto, creando nel 1967 un canale
nuovo, BBC One dedicato alla musica leggera e animato dalle voci stesse delle radio pirata chiuse per legge, cooptando al suo interno voci che faranno la
storia del servizio pubblico inglese come Sir John Peel (famose le sue trasmissioni di performances live, le Peel sessions) e Peter Blackburn. La cultura underground diffusa dalle radio pirata transiterà così verso le istituzioni mediali
diventando mainstream in pochi anni. Le navi pirata erano ormai in porto, i
loro trasmettitori spenti, ma la rivoluzione del linguaggio e del suono operata dai suoi dj era ormai diventata patrimonio comune della cultura inglese.
Le radio libere e le radio private
L’emergere e la diffusione delle radio libere e successivamente delle prime radio private alla fine degli anni Settanta coglie la RAI impreparata, soprattutto
culturalmente. La radiofonia libera e privata porta con sé, come era accaduto
nel Regno Unito dieci anni prima, un nuovo modo di fare radio, nuovi suoni
e nuovi stili di conduzione: il flusso è più informale, più grezzo (le diverse figure produttive del servizio pubblico – autore, conduttore, regista, fonico – si
20
Giovanni Cordoni, Radio Caroline, in Peppino Ortoleva, Barbara Scaramucci (a cura di), Dizionario
della Radio, Milano, Garzanti Libri, 2003, p. 142.
101
ritrovano nella radiofonia privata spesso assolte da un’unica persona) e il linguaggio più diretto. Spariscono i testi scritti, la radio torna ad essere un mezzo
ad oralità primaria (o meglio, “terziaria”, direbbe Menduni, 2001) e generazionale, come lo era stato per i baby boomers americani degli anni Cinquanta.
A questa new wave radiofonica il servizio pubblico italiano non riuscirà
a dare le risposte che dieci anni prima la BBC era invece riuscita a dare,
assorbendo l’onda all’interno del proprio palinsesto con la creazione di un
canale apposito – BBC One – e cooptando le voci dei pirati nei propri studi.
La RAI dell’epoca, già vittima di uno spoil system che aveva spartito
il controllo sul palinsesto tra i partiti allora al potere, reagirà molto più
lentamente e in maniera più conservativa e pedagogica rispetto alla BBC.
Non nasceranno nuovi canali, ma soltanto alcune trasmissioni nuove,
dedicate esclusivamente ai giovani, come il fortunato caso di Per Voi Giovani,
che rappresenta l’archetipo dei programmi musicali generazionali italiani. In
onda dal 1966 al 1976 alle 16.35 ha visto tra i suoi conduttori più noti Renzo
Arbore, Paolo Giaccio e Mario Luzzatto Fegiz. Contribuì a sdoganare la musica
beat, rock, progressive, di protesta in Italia. Il libero amore, l’antiautoritarismo,
il pacifismo, la guerra in Vietnam, la psichedelia, la libertà erano i temi
che attraverso la musica (e le traduzioni in diretta dei testi di Bob Dylan e
Leonard Cohen, tra gli altri) venivano raccontati e discussi tra gli ascoltatori.
Nel tempo la scaletta si fece sempre più raffinata, trasmettendo per la prima
volta in Italia lunghi brani musicali prog e psichedelici, come quelli dei Pink
Floyd e dei Grateful Dead, ma anche cantautori italiani che non avevano
ancora inciso dischi (Venditti, De Gregori, Sorrenti, Guccini, Lolli) e che
debuttavano in studio con la loro chitarra. Col tempo anche i contenuti
si radicalizzarono e il direttore della RAI dell’epoca, Bernabei, in quota
democristiana, allontanò il conduttore Paolo Giaccio dal microfono.
La cooptazione di figure produttive – conduttori, autori, registi – nate
con la radiofonia libera e privata accadrà lentamente, nei due decenni
successivi, Ottanta e Novanta. La metamorfosi del linguaggio dei programmi
di intrattenimento della radio pubblica sarà quindi un processo lento e diluito
nel tempo, non immediato e dirompente come nel Regno Unito.
Nel 1982 la RAI tenterà qualcosa di più, creando due canali nuovi in
102
stereofonia per far fronte alla proliferazione delle radio private: RaiStereoUno
e RaiStereoDue. Questi due canali di nicchia otterranno un successo
inaspettato nelle ore notturne, a causa della improvvisa popolarità di un
programma musicale diventato presto un cult: Rai Stereonotte. RaiStereoNotte,
ideata da Pierluigi Tabasso, rappresentava il proseguimento musicale
notturno di RaiStereoUno e RaiStereoDue sulle stesse frequenze in FM.
Andò in onda dal 1982 al 1995, da mezzanotte e trenta alle 6 del mattino.
Sin dalle prime trasmissioni, il programma ebbe notevole successo ed
ottenne ascolti molto alti ed inaspettati. Le reti radiofoniche della RAI,
nelle ore diurne di solito sopraffatte nell’ascolto dalle allora emergenti
radio private, triplicarono gli ascolti proprio grazie a questo programma,
nonostante l’ora di trasmissione. Il successo fu dovuto in gran parte alla
formula che prevedeva l’alternarsi, nel corso della notte, di quattro
conduttori liberi di proporre – all’interno del proprio spazio – generi musicali
difficilmente ascoltabili nel corso della programmazione diurna e serale.
Rock, jazz, rhythm’n’blues, folk, elettronica, canzone d’autore, musica
d’avanguardia, ma anche classici di ogni epoca erano proposti e commentati
da conduttori, liberi di proporre la loro musica senza vincoli di ogni genere.
I format musicali del servizio pubblico seguirono tutti le tracce e la
forma del modello originale Per Voi Giovani, innovandone i contenuti. Uno
dei più famosi fu Stereodrome, programma di cultura musicale in onda su
Stereouno dal 1985 al 1991 alle 20; rappresentava uno spazio franco per la
musica alternativa, rock degli anni Ottanta, dal post-punk all’heavy metal.
A questo show seguì Planet Rock, in onda su Stereorai dal 1991 al 1996 alle
21. Proponeva una playlist di brani freeform che non trovavano spazio sulle
radio commerciali. Contribuì ad importare in Italia i suoni del grunge e del
brit pop attraverso diverse performance live (tra tutte quella dei Nirvana).
Lanciò le voci di dj e critici musicali oggi popolari, come Luca De Gennaro,
Stefano Pistolini, Mixo, Alberto Campo. Sulle ceneri di Planet Rock nacque
poi Suoni e Ultrasuoni, in onda dal 1996 al 2000 alle 21 su Radio2 RAI;
programma di tendenza sulle culture giovanili dell’epoca (brit pop, trip hop,
elettronica, jungle, lounge), produsse numerosi concerti dal vivo (Smashing
Pumpkins, Blur, 99 Posse ecc.) e speciali sulla storia del rock condotti da
103
Ernesto De Pascale. Anche questo contenitore contribuì a lanciare nuove
voci e critici musicali oggi popolari, come Fabio De Luca, Marco Boccitto,
Marina Petrillo e Francesco Adinolfi.
I format musicali che abbiamo citato non sono cambiati molto nella
forma: un conduttore/critico musicale al microfono, lancio del brano,
divulgazione musicale, interviste a musicisti e performance live. Oggi
l’eredità degli show musicali notturni del passato è stata presa da Moby Dick,
RaiTunes, Babylon, Music Box, tutti varati a Radio2 nel 2009. A parte il caso di
RaiTunes, che affronteremo più avanti, questi programmi hanno in comune
la stessa formula del passato e si differenziano dai canoni tradizionali dello
spettacolo musicale radiofonico per i contenuti musicali e per una maggiore
interazione col pubblico, relazione che oggi passa soprattutto attraverso i siti
di social networking.
Innovare il format degli show musicali: crowdsourcing, peer-to-peer e open source
playlist. Tre casi di studio.
Per Adorno (2004) la possibilità di trasmettere per la prima volta al mondo
la musica di un valzer viennese dritto nelle case della borghesia non significava nulla di veramente innovativo, anzi, era inutile, perché la democratizzazione della musica classica attraverso l’etere non portava con sé un aumento
della competenza musicale del pubblico.
Adorno sosteneva che l’ascolto distratto della musica, tipico
dell’ascolto radiofonico domestico, era sbagliato e dannoso. Per lui l’unico
ascolto possibile era quello esperto, attento, di un concerto eseguito
dal vivo. Benjamin (1936) vedeva sì nella trasmissione via radio di una
performance dal vivo una perdita dell’aura e della pienezza del godimento
estetico di un’opera, però vedeva anche il potenziale democratico dei
contenuti radiofonici in grado di raggiungere milioni di persone. Brecht
(1932) non ci vedeva nulla di nuovo nella trasmissione di un valzer
viennese tra le pareti della casa borghese, finché anche gli ascoltatori
non avessero potuto partecipare alla produzione del flusso comunicativo.
L’ibridazione di radio e Internet ha permesso di aggiungere una nuova
dimensione all’ascolto di programmi musicali, rendendo possibile,
104
finalmente, la partecipazione del pubblico alla produzione del programma.
In questo paragrafo analizzeremo tre casi di programmi che hanno rinnovato
il formato tradizionale degli show musicali aggiungendo la dimensione
dell’interazione predicata da Brecht ottanta anni fa.
RaiTunes
RaiTunes è uno show musicale andato in onda fino al 2013 su Radio2 dalle 22.30 a mezzanotte ed è condotto da un noto dj, Alessio Bertallot. La
musica trasmessa si rifà al formato urban, è autonoma dalla playlist dell’emittente e mescola assieme elettronica, dubstep, jungle, new jazz, urban sounds, drum&bass, downbeat, hip hop, trip hop, soul, dub, house, techno. Il flusso
musicale è mixato in tempo reale dal lavoro in diretta del Dj Frankie B, che
attraverso software come Traktor e Logic ha riportato su un piano digitale
l’estetica del dj analogico. Il programma rappresenta un’innovazione dei formati notturni di intrattenimento musicale, perché ha aperto la scelta della
playlist al pubblico attraverso social network di massa come Facebook. Nelle
ore prima della diretta radiofonica lo show è già iniziato sulla fan Page del
programma: il conduttore gioca con il pubblico ad un classico gioco da Dj,
il back to back, che consiste nella selezione alternata di un pezzo musicale
tra due Dj. In questo caso da una parte c’è un Dj professionista, dall’altra un
Dj collettivo, impersonato dal pubblico, che risponde ai post di video di You
Tube fatti dal conduttore con altrettanti link a video musicali che potrebbero
attaccarsi al primo brano lanciato da Bertallot. Di fatto il programma fa leva
sulle qualità di crowdsourcing delle reti sociali on line. La playlist dello show
che andrà in onda alla radio è open source, è costruita collettivamente e rielaborata dagli utenti una volta che lo show è giunto alla fine. Il messaggio di
questo programma non è più il contenuto, il tipo di musica trasmessa, ma è
il pubblico stesso, la costituzione di una comunità di peers basata sulla vicinanza di gusti musicali. Non è un caso che un programma così sia trasmesso
da una rete pubblica, perché il compito primario del servizio pubblico non
è semplicemente intrattenere ma fornire al pubblico dei cittadini/editori (in
quanto finanziatori del servizio) un’occasione per fare comunità, per produrre socialità conviviale, anche se a distanza. La musica, come si può vedere
dal grafico sottostante, occupa più del 50 per cento del format:
105
La Tweet-Liste
La Tweet-Liste è uno show musicale domenicale nato nel 2010 e condotto da Emilie Mazoyer, in onda dalle 13 alle 15 sul canale pubblico francese
Le Mouv’, un’emittente musicale dedicata ai giovani. La playlist è interamente generata dal pubblico attraverso Twitter: i follower del programma @
EmilieRadioFr) possono mandare al profilo Twitter del programma le proprie scelte musicali a partire dalle 11 del mattino del giorno prima e interagire tra loro, orizzontalmente, o con la conduttrice, prima e durante lo show.
I generi musicali prediletti dal pubblico sono in linea col formato del canale: Pop rock/ Rock/alternative rock/indie pop/folk. La musica, come si vede dal
grafico sottostante, occupa il 77 per cento del format.
Hoy Empieza Todo
Hoy Empieza Todo è un morning show musicale trasmesso dal lunedì al venerdì
dal canale pubblico spagnolo dedicato ai giovani, Radio Tres. La musica
trasmessa si avvicina al format freeform, e combina assieme musica rock
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alternativa e indipendente spagnola con brani internazionali di indie, rock,
folk, americana, soul. Andando in onda al mattino in una fascia importante
(dalle 7 alle 11) concede spazio non soltanto alla musica ma anche al
commento delle notizie, momenti comici, rubriche dedicate alla cultura
alternativa, interviste a scrittori, artisti e musicisti e spazi per l’interazione
telefonica col pubblico:
Il programma chiude ogni giorno con la rubrica Entrevistas Acusticas (interviste acustiche) dedicata alle performances musicali dal vivo in studio di importanti artisti nazionali ed internazionali, alternati con interviste agli autori. Il formato della rubrica è simile a quello delle perfomances musicali live
delle radio americane del circuito pubblico (NPR) come Radio KCRW di Los
Angeles o WFMU di New York.
Anche la playlist di questo programma è, in parte, scelta dagli ascoltatori
tramite social networks, in particolare Facebook.
Tutti e tre i format descritti sono trasmessi da canali pubblici, che tentano,
attraverso l’innovazione dei formati musicali e l’istituzione di canali tematici
dedicati ai giovani (nel caso della Francia e della Spagna, ma non dell’Italia),
di contrastare la fuga del pubblico giovanile dalla radio pubblica, verso le
radio commerciali e soprattutto verso altre piattaforme di offerta musicale,
come Spotify e le web radio, dove la varietà musicale è molto più ampia e
maggiore il controllo sulla scelta della musica.
I programmi qui descritti rappresentano le punte più alte dell’innovazione
di un genere – lo spettacolo musicale alla radio – sempre più in debito
d’ossigeno di fronte alle innovazioni provenienti dalla rete e alle nuove
abitudini di consumo musicale ad esse correlate.
107
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The Radio Journal, vol. 5, n.1, 2007.
108
Parte II
Approfondimenti
In questa sezione pubblichiamo testi di natura più agile, rielaborazioni di
contributi di vario genere scritti negli anni intorno ai temi dello spettacolo radiofonico. Questa raccolta di testi vuole fornire ai lettori e agli studenti un approfondimento libero sugli argomenti affrontati nel corso del libro.
La raccolta si avvale anche di materiali inediti, come l’intervista al regista
Sergio Ferrentino e riflessioni derivate dall’esperienza di autore e regista di
documentari radiofonici, sceneggiati, radiodrammi, programmi radiofonici
sia nella radio di servizio pubblico che in quella privata.
I testi si dividono in quattro grandi categorie: gli spettacoli drammaturgici;
lo spettacolo dell’arte radiofonica; la radio comunitaria: una forma non
spettacolare; lo spettacolo del suono radiofonico.
Spettacoli drammaturgici
Attention! La radio ment! Decostruire il mito della Guerra dei Mondi
“Era la vigilia di Halloween... l’unica seccatura è che un numero impressionante di
ascoltatori si è dimenticato che giorno era”
(Orson Welles, 1938)
Il 30 ottobre 2012 La Guerra dei Mondi di Orson Welles compie 74 anni.
Tutti la citano come l’esempio più eclatante del potere dei media di falsificare la realtà e condizionare le credenze del pubblico. Proverò a decostruire
questo mito, cercando di chiarire i motivi delle reazioni del pubblico e soprattutto cercando di rimettere in discussione una volta per tutte il falso mito del panico generalizzato che questa trasmissione generò.
La sera di domenica 30 ottobre 1938, alle otto in punto, la Cbs
trasmetteva in diretta La Guerra dei Mondi, un radiodramma tratto da un
romanzo di H.G. Wells e diretto dal giovane Orson Welles. Il programma
apparteneva alla serie di adattamenti radiofonici Mercury Theatre on air, in
onda ormai da sedici settimane senza che avesse ancora raccolto grande
successo. La domenica sera, alla stessa ora, la Nbc mandava in onda il più
popolare Charlie McCarty Show e la Cbs non aveva ancora trovato una ditta
commerciale disposta a sponsorizzare il programma di Orson Welles. La serie
correva il rischio di saltare. Lo stesso Welles era molto scettico sulla capacità
110
del romanzo inglese di catturare l’attenzione degli ascoltatori americani. Il
giovedì precedente la trasmissione il gruppo direttivo del Mercury Theatre
(che comprendeva anche il regista) si riunì per ascoltare la registrazione delle
prove. “Abbiamo una sola strada per far stare in piedi questa trasmissione”,
disse Houseman, il condirettore della Mercury, “accentuare il più possibile il
realismo. Dobbiamo farla più vera, più credibile, con la tecnica dei notiziari
radiofonici”.21 La sceneggiatura venne rivista intorno a questa indicazione e
riscritta interamente in alcune parti. Si decise che la storia dello sbarco dei
marziani sulla terra fosse raccontata sotto forma di giornale radio. Ma anche
così a Welles non sembrava convincente. Poi venne la sera della diretta. Partì
la sigla del Mercury Theatre on air (un concerto per pianoforte di Ciaikovskij).
Partì il tradizionale annuncio della trasmissione. Partì l’introduzione alla
storia, con la voce lenta e profonda di Orson Welles: “Noi oggi sappiamo
che durante i primi anni di questo secolo creature dotate di menti più vaste
di quella dell’uomo, eppure come lui mortali, osservavano attentamente
dallo spazio il nostro mondo...”. L’agenzia Crosley calcolò che quella sera
32 milioni di persone stessero ascoltando la radio...Poi la voce anonima di
un annunciatore seguì a quella di Welles, per leggere un normale bollettino
meteorologico e comunicare che i programmi sarebbero proseguiti con un
collegamento con la sala da ballo di un ristorante di New York. Seguirono
alcuni minuti di musica, poi una brusca interruzione: “Signore e signori,
interrompiamo questo programma...”. Era il 1938, i giorni della crisi di
Monaco, la vigilia della guerra. Alla prima edizione straordinaria del giornale
radio, che annunciava l’avvistamento di strani fenomeni sul pianeta Marte,
altri ne seguirono, fino all’annuncio che delle misteriose macchine volanti
erano atterrate nel New Jersey. La voce di un cronista inviato sul posto irruppe
nelle case degli americani: “Mio Dio, dall’ombra sta uscendo qualcosa di grigio,
che si contorce come un serpente...la folla indietreggia, porto il microfono con
me mentre parlo. Sto cercando un punto di osservazione. Vi prego di restare
in ascolto. Riprenderò a trasmettere fra qualche minuto”. Poi intervenne il
“segretario degli Interni”, con un tono ufficiale e noioso: “Cittadini della
nazione americana. Non cercherò di nascondervi la gravità della situazione
21
Noble Peter, “I Marziani sono tra noi!”, in “L’Europeo”, 1959, n. 23.
111
in cui si trova il paese (…) Riponendo tutta la nostra fede in Dio dobbiamo
continuare l’esecuzione dei nostri doveri per opporre all’invasore una
nazione unita, coraggiosa e tutta consacrata alla conservazione dell’umana
supremazia su questa terra”. Questo messaggio contribuì notevolmente a
scatenare il panico. Migliaia di famiglie abbandonarono le proprie case e si
rifugiarono nei boschi. Molte caserme della Guardia Nazionale furono prese
d’assalto per ottenere dall’esercito maschere antigas. In alcune cittadine
del Sud l’intera popolazione si riversò nelle strade a pregare e cantare inni
religiosi. Intanto la trasmissione si avviava verso la conclusione: “Vi parlo
dal tetto del Broadcasting Building di New York. I marziani si avvicinano.
Si ritiene che nelle ultime due ore tre milioni di persone abbiano lasciato
la città per le strade dirette a nord...Evitate i ponti per Long Island, sono
tremendamente affollati. Tutte le comunicazioni con New York sono state
interrotte circa dieci minuti fa. Non esistono più difese. Il nostro esercito è
distrutto. Questa può essere l’ultima trasmissione. Rimarremo qua fino alla
fine. Le macchine volanti dei marziani stanno atterrando in tutto il paese (...)
Tutti corrono verso l’East side. Sono migliaia e cadono come topi. Il fumo
ha raggiunto Times Square. È a cento metri da me...a quindici metri...”. Un
sospiro, un gemito, il rumore soffocato di un corpo che cade e il rotolare, sul
cemento, del microfono: Morte di un cronista, in diretta radiofonica.
Il giorno dopo i giornali titolavano: “La guerra radiofonica di Orson
Welles terrorizza gli Usa”. Sei settimane dopo la trasmissione ancora veniva
ritrovata gente attendata nei boschi per paura dei marziani.
La Hooper Rating Company calcolò che quella sera il programma
radiofonico più seguito fu il Charlie McCarty show con il 34.7 per cento di
share. Ma quando lo show finì, il 12 per cento di quel pubblico si spostò
sulla Cbs e lo share del Mercury Theatre on air passò dal classico 3.6 per
cento al 15 per cento nei primi venti minuti di trasmissione22. Il passaparola
degli ascoltatori e le telefonate ad amici a parenti per avvertirli di accendere
la radio (non è avvenuto qualcosa di molto simile l’11 settembre del 2001
con gli Sms?) contribuirono ad ampliare ancora il numero degli ascoltatori
portandolo a 6 milioni.
22
Crook T., Radiodrama. Theory and practice, Londra e NY, Routledge, pp.111-112
112
Secondo il classico studio psicologico di Cantril sulle reazioni degli
ascoltatori del radiodramma di Welles23, di quei sei milioni circa un milione
e settecentomila presero per vera l’invasione dei marziani mentre un milione
e duecentomila circa tra questi, non solo presero sul serio la trasmissione
ma provarono sensazioni di paura e di panico. Lo studio delle reazioni
degli ascoltatori portato avanti da Cantril attraverso l’analisi delle lettere al
programma e una serie di interviste lo ha spinto a concludere che la porzione
di pubblico che quella sera di Halloween credette alla veridicità dello sbarco
dei marziani lo fece per una serie di ragioni che, secondo Cantril, si possono
così riassumere:
La natura della fiducia del pubblico nel mezzo radiofonico in sé. La
Guerra dei mondi fu trasmessa in un periodo in cui la radio aveva sostituito i
giornali come fonte primaria di informazione.
Il grado di instabilità politica del tempo. Gli Stati Uniti stavano
ancora uscendo dalla Grande Depressione e la crisi della politica europea
era l’argomento d’attualità di quei giorni. La società americana viveva un
periodo di insicurezza. Appena un mese prima (30 settembre) le trasmissioni
erano state interrotte per dare l’annuncio dell’accordo di Monaco24. Era un
periodo di crisi: crisi economica, guerra mondiale alle porte e ora lo sbarco dei
marziani, l’ennesimo evento esterno, spiegò Cantril, al di fuori del controllo
e della comprensione dei singoli individui. Il contesto d’ascolto: molti si
sintonizzarono tardi o per “contagio”, invitati da conoscenti al telefono
a connettersi alla radio, fomentandosi a vicenda. Il profilo psicologico e
sociale del pubblico: Cantril ha riscontrato personalità di ascoltatori molto
più propensi di altri a credere senza riserve, ascoltatori incapaci di fare uso di
senso critico. In particolare, la mancanza di senso critico è stata riscontrata,
nelle interviste fatte da Cantril, soprattutto in ascoltatori con un minore
23
Vedi Cantril H., The invasion from Mars: A study in the Psychology of Panic, Princeton NJ, Princeton
University Press. Cantril analizzò le 1400 lettere arrivate alla Cbs nei giorni successivi alla
trasmissione del radiodramma e constatò che soltanto il 9 per cento di esse erano di aperta condanna
alla rete.
24
La conferenza di Monaco si tenne dal 29 al 30 settembre 1938, fra i capi di governo di Regno Unito,
Francia, Germania e Italia. L’oggetto della conferenza fu la discussione, poco prima della seconda
guerra mondiale, delle rivendicazioni tedesche sulla porzione di territorio cecoslovacco abitato dai
Sudeti (popolazione di etnia tedesca) e si concluse con l’accordo di Monaco, che portò all’annessione
di fatto della Cecoslovacchia allo stato tedesco.
113
grado di alfabetizzazione e limitato consumo culturale. L’alto grado di
realismo della trasmissione. “Non sembrava un radiodramma”, riferì uno
degli ascoltatori al sociologo americano.
Perché i marziani erano credibili
L’analisi e le conclusioni di Cantril sono sicuramente importanti perché rappresentano il primo studio approfondito sulla psicologia dell’ascolto e hanno il pregio di aver saputo cogliere la complessità delle reazioni del pubblico
radiofonico.
Ma il fatto che un ascoltatore americano su tre quella sera abbia creduto
allo sbarco dei marziani non dipende solo dalla psicologia degli ascoltatori
e dal particolare contesto storico-politico degli Stati Uniti dell’epoca. Un
altro fattore determinante, poco illuminato dall’analisi di Cantril, è stato il
particolare uso del linguaggio radiofonico fatto da Orson Welles25. La scelta
di trasferire il testo di Wells all’interno della cornice linguistica tipica di
un’edizione straordinaria di un giornale radio ha contribuito notevolmente
alla credibilità del falso evento.
L’ascoltatore abitudinario della Cbs che avesse seguito il radiodramma
di Welles fin dall’inizio con attenzione costante avrebbe avuto più occasioni
per rendersi conto di essere di fronte ad una fiction radiofonica26. Il
programma era disseminato di segnali linguistici e narrativi che indirizzavano
l’interpretazione verso la fiction: per ben quattro volte, durante il programma,
venne ripetuto il jingle del programma in cui si specificava che il Mercury
25
La tesi che il registro realista scelto da Welles ha avuto un ruolo notevole nell’”ingannare” il
pubblico al di là del contesto storico-politico-sociale dell’epoca è avvalorata dal fatto che La Guerra
dei Mondi è stata trasmessa da altre emittenti nazionali, in altri contesti culturali e in altre epoche
storiche, provocando effetti simili tra il pubblico: “In the rare 1970 publication The Panic Broadcast:
the whole story of Orson Welles’ legendary radio show, Howard Koch (sceneggiatore che lavorò
all’adattamento del radiodramma insieme a Welles), describes the story of a radio production group
in Quito, Ecuador, who appropriated the play, translated it into spanish and broadcasted it on 12
february 1949. Thousands of listeners in Quito fled into the streets to escape martians. The New
York Times (14 February 1949) claimed that a mob burned down the radio station, killing fifteen
people inside. A broadcast of the War of the Worlds script in Santiago, Chile, on 12 November 1944
is alleged to have caused many listeners to run into the streets” (Crook T., op. cit., p. 113-114)
26
La figura dell’ascoltatore attento dall’inizio alla fine della trasmissione è una figura ideale, un’utopia
degli autori radiofonici. Di fatto la radio è un mezzo che predispone ad un ascolto distratto,
discontinuo, temporaneo, che si adatta a sovrapporsi ad altre attività.
114
Theatre on air presentava La Guerra dei mondi di H.G. Wells. Inoltre era del
tutto improbabile, con i mezzi tecnici di allora, che uno studio radiofonico
potesse collegarsi con un pilota d’aereo e mandare in onda la sua voce.
Inoltre, molti dei nomi di luoghi della storia erano stati cambiati. Il capo
della Cbs Davidson Taylor e la squadra di avvocati della rete avevano costretto
gli autori ad intervenire sul copione, apportando ben 28 modifiche a nomi
propri, per paura che fossero troppo realistici. Ma i nomi che li avevano
sostituiti rimanevano molto simili agli originali, soprattutto se pronunciati
e non letti. Langley Field divenne Langham Field. Princeton University
Observatory divenne Princeton Observatory e la Guardia Nazionale del New
Jersey divenne la Milizia di Stato27.
Inoltre, gli ascoltatori dubbiosi della veridicità della trasmissione
potevano tentare di verificarne l’attendibilità andando alla ricerca di
altre fonti: cambiare stazione radiofonica per controllare se qualcun altro
ne stava parlando, telefonare a qualche conoscente nel New Jersey o nei
luoghi dello “sbarco”. In effetti, la maggioranza degli ascoltatori quella
sera arrivarono a concludere che quello sbarco fosse soltanto una finzione.
Ma tutti, anche i “non credenti”, si domandarono per almeno un secondo,
se stesse accadendo davvero. E se qualcuno continuò a crederci fino alla
fine del programma fu anche perché Welles aveva ricreato la copia quasi
perfetta di un giornale radiofonico del tempo. Nonostante le incongruenze
(il pilota collegato via radio) e i segnali (il jingle della serie), bastarono pochi
elementi fortemente verosimili a rendere il racconto reale alle orecchie degli
ascoltatori. Il primo elemento di realismo che ha contribuito a mettere in
discussione lo statuto di finzione del programma è stato l’interruzione della
musica da parte del bollettino informativo. All’epoca queste interruzioni
erano molto frequenti: la crisi europea e l’avanzata del nazismo erano
notizie di attualità e i network americani interrompevano spesso musica e
soap opera per raccontarne gli sviluppi. Il secondo elemento è stato l’uso
dell’autorevolezza dell’esperto (l’astronomo dell’Osservatorio di Princeton).
Un altro elemento, fondamentale, è stato l’intervento della voce del ministro
degli Interni, imitata alla perfezione nei toni e nel ritmo da un attore. La
27
Crook T., op. cit., p. 109.
115
radio all’epoca era il più importante mezzo di informazione e la gente era
abituata ad informarsi tramite essa. L’attendibilità delle notizie trasmesse
dalla radio non era solita essere messa in discussione. Tutti questi elementi
e, più in generale, la scelta della radiocronaca come registro linguistico per
adattare il romanzo di Wells alla radio, hanno giocato un ruolo determinante
nell’attribuzione dello statuto di veridicità da parte degli ascoltatori.
Attention! La radio ment! 28
Il caso de La Guerra dei Mondi è importante perché per la prima volta una
fiction vestiva i panni della realtà. Welles fu il primo ad attraversare il confine tra finzione e realtà nei media elettronici, a rompere la sacralità del reale,
a mostrare che il re era nudo. Consapevolmente o meno, dimostrò che i media potevano mentire e mostrò a tutto il mondo quanto fosse pericoloso creder loro senza riserve. Welles fu anche il primo a tradire il patto implicito tra
autore e lettore/ascoltatore di una storia, ovvero quella “sospensione dell’incredulità” che permette a chi ascolta/legge una storia di giocare al “come
se”, di fare finta che sia vero per poter provare il piacere estetico della storia.
La sospensione dell’incredulità29 è un atto consapevole del lettore, che riconosce lo statuto finzionale della storia che ha di fronte ma decide di crederci,
per poterne godere appieno, per provare le emozioni che quella storia porta
con sé. Gli ascoltatori che credettero allo sbarco dei marziani quella sera di
Halloween non furono in grado di riconoscere gli elementi di finzione della
trasmissione; riconobbero solo gli elementi di realtà e provarono panico perché per loro quella trasmissione non era un gioco (“Giochiamo a credere che
gli alieni sono sbarcati sulla terra”). Possiamo dire che non riconobbero le
28
Questa scritta comparve per la prima volta sui muri delle vie parigine durante il Maggio del 1968.
Per un approfondimento sul ruolo della radio nelle giornate del Maggio parigino vedi Bonini T.,
“Revolution will not be televised: la rivoluzione raccontata via radio, da Parigi a Città del Messico”,
in Casilio S., Guerrieri L., (a cura di), Il ‘68 diffuso, Bologna, Clueb, 2009
29
La sospensione dell’incredulità consiste nella sospensione volontaria, da parte del lettore/spettatore/
ascoltatore, delle facoltà critiche per poter godere di un’opera di fantasia. È stato Samuel Taylor
Coleridge a mettere a fuoco questo concetto (suspension of disbelief ) per la prima volta: “.. venne
accettato, che i miei cimenti dovevano indirizzarsi a persone e personaggi supernaturali, o almeno
romantici, ed anche a trasferire dalla nostra intima natura un interesse umano e una parvenza di
verità sufficiente a procurare per queste ombre dell’immaginazione quella volontaria sospensione
dell’incredulità momentanea, che costituisce la fede poetica.” In Coleridge S. T., Biographia literaria
(1817), Princeton University press, 1985, vol. 2, p. 6.
116
regole del gioco, che non seppero stare al gioco. Ma a loro discolpa va detto
che per loro quello era un gioco con regole nuove: non credevano che qualcuno potesse imitare la voce del ministro degli Interni; non credevano che
un giornalista potesse annunciare falsi eventi. Non credevano che la radio
potesse mentire. Fino a quella sera del 1938 il confine tra finzione e realtà
era chiaro: gli ascoltatori credevano di poter riconoscere il racconto della realtà (le notizie, i giornali radio) dal racconto finzionale (il radiodramma, la
soap opera). Welles mescolò i linguaggi dei due generi ed aprì la strada a un
lungo e mai terminato processo di ridefinizione del confine tra finzione e realtà. Da quella sera in poi quel confine ha preso sempre più ad assomigliare
a un territorio di frontiera. La televisione prima e i nuovi media digitali poi,
hanno notevolmente contribuito a rendere quel confine sempre più sottile.
Se è vero che il pubblico non è più ingenuo come all’epoca di Welles e
l’alfabetizzazione al linguaggio dei media è globalmente cresciuta, è anche
vero che le tecniche di sofisticazione del reale sono sempre più complesse e
ancora oggi capita che anche il pubblico più preparato non riconosca subito
il confine tra finzione e realtà. La definizione del confine tra fiction e realtà
è in continua evoluzione e dipende dalla continua negoziazione tra autore e
lettore. Ogni volta che le due parti raggiungono un accordo tacito sul quale
fondare la propria sospensione dell’incredulità, c’è qualcuno che rimette in
discussione il confine, lo riattraversa, lo rende di nuovo frontiera. La colpa, se
di colpa vogliamo parlare, non è solo degli autori. Entrambe le parti spingono
per la messa in discussione di questo confine. Per l’autore la sfida è quella di
inventare un nuovo modo per intrattenere il pubblico, sperimentare fin dove
il linguaggio dei media può spingersi. Per il pubblico – almeno per quello
più “esperto”, alfabetizzato ai media – la spinta a mettere in discussione il
confine viene dal bisogno estetico di continuare a provare emozioni, dal
bisogno di giocare all’antichissimo gioco del “Facciamo finta che”. Questo
pubblico “esperto”, che ben conosce il meccanismo della “sospensione del
dubbio” ha appreso le regole del gioco e sa che i media possono mentire. Per
mantenere lo stesso livello di “immersione” estetica ed emotiva in una storia
questo pubblico ha bisogno di nuovi stimoli linguistici, di nuovi giochi con
regole ancora più complesse. Ma ancora oggi, esattamente come nel 1938,
117
esiste un pubblico che crede ancora senza riserve nei media (“mancante di
senso critico”, direbbe Cantril) e non sa riconoscere il confine tra fiction e
realtà. I contenuti mediali che mettono in discussione questo confine, oltre
al ruolo primario di fare del buon intrattenimento, hanno anche il ruolo
secondario di educare (allenare) il pubblico “ingenuo” alle trappole del
linguaggio mediale.
Conclusioni
Sono passati 70 anni dall’esperimento di Orson Welles. Il mondo è cambiato. Il mondo dei media è cambiato. La radio, il più vecchio medium del novecento, concede sempre più terreno ai nuovi media. Gli abitanti delle società tecnologicamente avanzate devono fare i conti con un mondo iper-mediatizzato, con una realtà prismatica. L’esperienza del mondo reale è sempre più
spesso mediata da diverse forme di comunicazione e di linguaggi. Mai come
in questo momento storico abbiamo avuto a disposizione così tanti strumenti per accedere a realtà molto lontane da noi: canali satellitari che portano il
mondo in casa, siti internet dove leggere l’ultima edizione del New Yorker,
blog per informarsi sulla situazione in Iran, migliaia di video amatoriali e
informazioni prodotte da singoli cittadini. In un mondo così abbondante di
racconti sulla realtà circostante paradossalmente la realtà, quella non mediata, corre il rischio di estinguersi: rischiamo di ritrovarci in un mondo de-realizzato, un mondo a cui è stata sottratta la realtà per farla riaffiorare, adeguatamente filtrata, sugli schermi che, in misure diverse, hanno preso possesso
del nostro habitat. “Quel che ci offrono le comunicazioni di massa non è la
realtà, ma la vertigine della realtà”30. L’intuizione di Baudrillard è ancora più
vera oggi, nell’epoca della riproducibilità elettronica. La vita di “clausura”
condotta dagli abitanti della postmodernità chiusi all’interno dei limitati
orizzonti della propria sfera privata, è apparentemente “liberata” dalla “finestra sul mondo” offerta dai media31. Il rischio più grande è che questa finestra – questo simulacro elettronico del mondo (carico di “effetti di realtà”)
30
Baudrillard J., La società dei consumi (1970), Bologna, Il Mulino, 2008, p. 15. Su questo tema si veda
anche Baudrillard J., Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Cortina, 1996.
31
“La quotidianità come clausura, sarebbe insopportabile senza il simulacro del mondo, senza l’alibi
di una partecipazione al mondo” (Baudrillard, op.cit., p. 16).
118
– venga considerata più vera del vero, più reale della realtà. Questo rischio
esiste da sempre, da quando sono stati inventati i media. Esisteva ai tempi
di Welles, quando un americano su sei credette alla radio e non a quello che
vedeva fuori dalla finestra (non elettronica) di casa sua, ed esiste ancora più
forte oggi, in un mondo in cui i contenuti mediali alimentano sempre più
l’esperienza del quotidiano, i media sono aumentati e si sono ibridati tra loro
e i linguaggi mediali si sono raffinati.
Breve ricordo di Rudolf Arnheim
Il 9 giugno 2007 moriva Rudolf Arnheim. Il mondo lo conosceva come psicologo dell’arte e della percezione. L’opera per cui viene ricordato di più è
sicuramente Arte e Percezione visiva, del 1954. Ma noi vogliamo ricordarlo
soprattutto per la sua passione radiofonica e per aver scritto un libro – La
radio, l’arte dell’ascolto – che per primo si è interrogato sul senso, sul ruolo e
sul linguaggio della radio, quando ancora era considerata un “nuovo media”.
Arnheim era nato a Berlino, nel 1904. Suo padre aveva una fabbrica
di pianoforti. Nel 1923 decide di iscriversi all’Università di Berlino ma per
farlo deve scendere a patti col padre: avrebbe speso metà della settimana
dando una mano in fabbrica per avere il permesso di frequentare – nei giorni
che rimanevano – le lezioni universitarie. Ma presto il patto saltò e riuscì a
dedicarsi interamente ai suoi studi preferiti, l’arte, la letteratura, la musica e,
soprattutto, la psicologia della scuola della Gestalt. Gli anni Venti a Berlino
sono anni effervescenti. Arnheim partecipa come animatore e ideologo della
radio pubblica tedesca, scrive molto come giornalista, come critico musicale
e cinematografico. Il suo primo libro – il Film come arte (1932) – sarà
proprio dedicato al cinema. Ma nel 1933, in seguito alle leggi razziali, è fra
i primi psicologi ebrei ad abbandonare la Germania. Si trasferisce in Italia, a
Roma, dove rimarrà fino al 1939, e dove ha sempre detto di sentirsi “a casa
propria”. Qui lavora per la società delle Nazioni e per il Centro sperimentale
di Cinematografia. Ed è a Roma che si dedica anima e corpo alla scrittura del
suo secondo saggio, un libro sulla radio come forma artistica. Lo finisce nel
1935 ma non può pubblicarlo in Germania. Il libro verrà invece tradotto e
pubblicato in inglese e in italiano l’anno successivo (l’originale tedesco rimarrà
119
inedito in Germania fino al 1979!). Nel 1938 Mussolini si allinea alla politica
razziale nazista e così Arnheim è di nuovo in fuga, di nuovo esule. Dopo un
passaggio a Londra tra il 1939 e il 1940, dove farà da traduttore simultaneo
per la Bbc (“il peggiore da tradurre”, ricorda, “era Winston Churcill, perché
scriveva meglio di tutti e quindi era il più difficile da rendere”) viene accolto
negli Stati Uniti, a New York, dove lo attendono già da alcuni anni molti
dei suoi colleghi psicologi. Per un anno insegna alla New School for Social
Research (all’epoca chiamata l’Università “in esilio”, per l’alto numero di
professori rifugiati accolti tra le sue fila), poi vince una Rockfeller Fellowship
all’Ufficio per la ricerca sulla radio della Columbia University, allora diretto
e fondato da un altro esule, l’austriaco Paul Lazarsfeld. Qui lavora sull’analisi
delle soap opera radiofoniche, l’antenato nobile di telenovelas, fiction tv e
sceneggiati, producendo una ricerca che è rimasta un classico del genere
(1944). Con la fine dell’assegno alla Columbia si chiude il suo periodo di
studioso dei media (film, radio) e inizia a tutti gli effetti la sua carriera di
psicologo, che lo vedrà insegnare soprattutto ad Harvard e a Cambridge.
Dal 1974 si stabilisce ad Ann Arbor, nel Michigan, per vivere insieme a sua
moglie Mary. Ed è da qui che un anno fa, all’incredibile età di 103 anni, è
partito per il suo ultimo esilio.
Queste poche righe non restituiscono certo la complessità di una vita
ricca e produttiva come fu quella di Arnheim, ma servono a inquadrare il
campo e il contesto storico nel quale si formò e si affermò come teorico e
come intellettuale. Quando Arnheim scrive sulla radio, sono in pochi ad
essersi confrontati con i problemi linguistici ed espressivi di un mezzo di
comunicazione ancora agli esordi. Le sue analisi sono anticipatorie e sono tra
le prime a riconoscere alla radio un’identità propria, uno statuto espressivo,
non soltanto comunicativo/informativo. “La radio organizza il mondo per
l’orecchio”, ha scritto. È il primo, Arnheim, ad esaltare l’accento del mezzo
sul linguaggio sonoro, a riconoscere nella “cecità” dell’ascolto radiofonico un
vantaggio e non una menomazione, una via di fuga ai vincoli della percezione
visiva. Non una fuga dall’immagine in quanto tale, ma dai meccanismi
della percezione visiva. Per questo conia l’espressione “immagine acustica”.
L’immagine acustica non corrisponde necessariamente alla realtà oggettiva
120
che abbiamo di fronte agli occhi. Non è la sua “colonna sonora”. La radio
è capace di ricreare, a bassissimo costo, situazioni paradossali, introvabili in
natura, inimmaginabili (se non a costo di produzioni kolossali e sfoggio di
effetti speciali costosissimi nel cinema). È il primo, Arnheim, a riconoscere
alla parola in sé, (alla “grana della voce”, direbbe Roland Barthes), un potere
evocativo che la radio amplifica, più del cinema, più del teatro (più della
televisione, in seguito). Ciò che va bene per il cinema o per il teatro, non
va bene per la radio (e in questo anticipa McLuhan e la sua ossessione per
lo “specifico del mezzo”, il suo accento sulla capacità del medium di dare
forma al messaggio). Arnheim pone l’accento sulla forma della radio, prima
che sul contenuto. Mentre nel periodo americano si concentrerà sui testi
delle soap opera radiofoniche, qui il suo obiettivo è sostenere le potenzialità
evocative del codice sonoro. È il primo, Arnheim, a interrogarsi sul senso
del montaggio sonoro, a compiere una scansione chirurgica dello spettro
radiofonico, il primo ad inventariare i vari elementi che compongono la
grammatica del linguaggio radiofonico. Queste sono le lezioni che ancora
oggi ha un senso conservare di quel libro venuto dal 1935. Ha senso non
dimenticarsi mai delle leve emotive che la radio sa mettere in moto, non
limitarsi ad un uso sclerotizzato del mixer e dei piani sonori, non dimenticarsi
mai di domandarsi: “Come traduco questa notizia, questa storia, questa idea,
in linguaggio radiofonico?”.
Non ha senso invece fare un uso ideologico di questo libro. Ai tempi
in cui scriveva Arnheim alla radio il genere più diffuso e ascoltato era il
radiodramma. Oggi questo genere non esiste quasi più.
Arnheim può essere utile per capire quanto rimangano ampie le
potenzialità espressive della radio, quanto il mezzo sia ancora attuale, ma
non può aiutarci a capire l’evoluzione della radio in un contesto in cui non
è più il solo medium di comunicazione di massa. Arnheim può solo aiutarci
ad arricchire il nostro vocabolario e a fornirci qualche esempio su come
utilizzarlo al meglio. Ma ancora più importante oggi è capire il contesto
sociale e tecnologico in cui si va ad applicare questo vocabolario. Dai tempi
di Arnheim sono cambiate molte cose: è arrivato il transistor, il telefono, il
telefonino, internet, la banda larga, il satellite, l’ipod. E ognuno di questi
121
innesti sul corpo della macchina radiofonica necessita di un ripensamento
anche linguistico. Se è vero che è ancora possibile ascoltare la radio al buio
dall’apparecchio via etere della cucina, come accadeva ai tempi di Arnheim,
è anche vero che è ormai una forma d’ascolto residuale.
Del suo libro, della sua lezione, in fondo, possiamo solo conservare il
fascino e il rispetto per la potenza evocativa della radio. Una potenza che
rimane immutata, se non accresciuta, dai nuovi media che con la radio
interagiscono. Arnheim purtroppo non è più qui per dirci come innescare
questo potenziale.
All’ombra del bosco di latte
Il più bel radiodramma della storia si chiama Under Milk Wood (All’ombra del
bosco di latte), è stato scritto da Dylan Thomas fra il 1950 e il 1953 e subito
vinse il Prix Italia nel 1954. È stato trasmesso per la prima volta il 25 gennaio del 1954 dalla BBC Three (a due mesi dalla morte di Thomas), cioè esattamente 54 anni fa. È un dramma per voci e, a parte il valore del testo e dei
significati simbolici che si porta appresso, rappresenta un esempio tra i più
radiogenici della storia, una delle sperimentazioni più riuscite del linguaggio
radiofonico e della sua capacità di evocazione.
È il ritratto collettivo del paesino gallese di Llareggub e racconta la storia
di una giornata all’interno della sua comunità, nella testa e nei cuori dei suoi
abitanti. Qualcuno ci ha letto anche la risposta di Dylan Thomas all’Ulisse di
Joyce: una giornata nella vita collettiva anziché individuale, ma questo a noi
interessa meno. A noi interessa raccontare l’immagine radiofonica di questa
comunità e perché vale la pena riascoltarlo, andarselo a cercare su amazon,
su eMule o negli archivi della Bbc.
Ventisette sono le voci (tutte di attori gallesi) che si intrecciano per
raccontare in prima persona i pensieri e gli stati emotivi degli abitanti di
Llareggub. Poi ci sono due voci narranti: alla prima sono affidati i pensieri
consci, quelli ad alta voce. La prima voce narrante racconta la vita quotidiana,
diurna, della comunità, raccontando “quello che si può dire”; la seconda
invece svela l’inconscio, i sogni, i desideri nascosti degli abitanti di Llareggub,
una volta calata la notte: il capitano Cat, ormai in pensione, che sogna i
122
compagni di mare ormai perduti e il suo unico amore da marinaio; Sinbad
Sailor, il barista, che sogna di poter un giorno amare Gossamer Beynon, la
maestra di scuola; Mr. Pugh, che sogna di uccidere la moglie; Mary Ann
Sailors, che sogna il giardino dell’Eden; Dai Bread, il fornaio, che sogna
un harem pieno di donne; Evans the Death, il becchino, che sogna della
giovinezza passata; Mr Willy Nilly, il postino, che continua a sognare di
fare il postino anche nel sonno; Mae Rose Cottage, che sogna di essere una
ribelle ed incontrare l’uomo giusto. Ognuno di loro ha un posto nella vita
sociale del viallaggio, ma la notte, nel sonno, quest’ordine sociale viene
ribaltato e rinnegato e ognuno insegue ossessivamente la propria felicità.
Richard Burton, famoso attore gallese, è stato il primo interprete della prima
voce narrante e una volta disse che Under Milk Wood gira tutto intorno a tre
unici temi: la religione, il sesso, la morte.
Qualche anno fa, era il 2004, scoprii on line sul sito della BBC una
nuova edizione del radiodramma, in occasione dei suoi cinquant’anni. Me
la registrai e ne feci un cd da ascoltare in macchina. Non è che capisca
perfettamente l’inglese, lo ammetto, e poi il testo è anche difficile, ma questo
è uno dei dischi che per molto tempo ho ascoltato più spesso in macchina:
è una lezione di recitazione radiofonica (mai sovraccarica, come avviene
per il teatro) e di drammaturgia sonora. Ventinove timbri, ventinove grane
vocali differenti che si intrecciano e si alternano con tempi, entrate, uscite,
sovrapposizioni sempre perfetti, come diretti da un burattinaio invisibile.
È il trionfo della grana della voce, della parola elettrificata ed amplificata,
delle sfumature di senso che qualsiasi voce umana, a prescindere dalla lingua
parlata, riesce a comunicare; è il trionfo della radio parlata, della parola
scarnificata, svincolata dal corpo di chi parla, della parola che si fa etere
ed entra nelle case attraverso un apparecchietto minuscolo e gracchiante.
Possiamo anche essere nel 2009, possiamo anche essere sul punto di passare
alla radio digitale e a qualche altra nuovissima tecnologia sonora, ma la buona
radio sarà sempre quella di Dylan Thomas, la radio che sa evocare, che sa
sfruttare la voce umana, che sa far risuonare, con una parola parlata, le corde
emotive di una comunità intera di ascoltatori. Buon compleanno, Dylan.
123
Pericolo! Il primo radiodramma della Storia
È un febbraio di 85 anni fa. Nelle miniere di carbone del Galles c’è appena
stato l’ennesimo incidente. Altri minatori sono morti nelle viscere della terra, per colpa di una frana in una delle gallerie sotterranee. I minatori scioperano, protestano. La loro condizione però non migliorerà per molti anni
ancora. È difficile immaginare come ci si sente laggiù, cosa significa fare il
minatore, cosa significa restare bloccati al buio con la certezza della fine,
con la certezza che nessuno verrà in tempo per salvarti. Eppure, appena un
mese prima, quasi fosse un sogno premonitore, qualcuno ci aveva provato,
a immaginare come ci si doveva sentire laggiù. E ne era nata una storia per
il più importante mezzo di comunicazione dell’epoca: la radio, ne era nato
il primo radiodramma della storia: Danger! (Pericolo!), del gallese Richard
Hughes. Pericolo! va in onda per la prima volta il 15 gennaio 1924 (in Italia
la radio non esisteva ancora), su commissione della British Broadcasting
Company. Il compito che il produttore Nigel Playfair affidò a Hughes fu
quello di scrivere un dramma “per soli effetti sonori”. La radio inglese viveva
la sua fase sperimentale. La BBC esisteva da meno di due anni. Però erano
già stati fatti tentativi di tradurre il teatro alla radio. In alcuni casi si era semplicemente trasmessa in diretta un’opera teatrale, mandando in onda quello che accadeva sul palcoscenico. In altri casi si era invece adattato un testo
classico alle esigenze della radio. Insomma, la fiction non era una novità. Ciò
che invece era nuovo era che per la prima volta si tentava di scrivere un’opera di fantasia pensandola adatta al mezzo che l’avrebbe dovuta trasmettere.
E Hughes colse, forse involontariamente, forse no, un aspetto fondamentale
del linguaggio radiofonico: il buio. Pericolo! è ambientato in una miniera. Ci
sono due giovani in visita, Mary e Jack, accompagnati dal vecchio signor Bax.
I due giovani stanno camminando nella galleria quando improvvisamente...
va via la luce. Il radiodramma inizia così: “Mary: Ehi, che succede? Jack: È
andata via la luce. Mary: Dove sei? Jack: Qui. Mary: Dove? Non riesco a trovarti. Jack: Qua. Ho teso la mano. Mary: Non la trovo. Jack: Daiii. Qui.”
Tutto il dramma è ambientato al buio. Il punto di vista dell’ascoltatore è
lo stesso dei protagonisti del dramma: entrambi sono al buio. Se l’ascoltatore
chiude gli occhi sentirà le stesse cose che sentono Mary e Jack: l’acqua
124
che cresce, che sale, fino ad arrivare alla gola. La radio non ha bisogno
di immagini, così come Pericolo! non ha bisogno di immagini per essere
compreso. È una storia che si racconta meglio alla radio, piuttosto che al
cinema. Il 1924 è l’anno di nascita del radiodramma. Hughes è il primo
ma già il 19 ottobre 1924 Radio France trasmette Maremoto, primo lavoro
radiofonico francese, di Pierre Cusy e Gabriel Germinet, ambientato di
notte e nel mare, mentre in Germania, alla fine del ’24 la radio pubblica
tedesca trasmette Magia sulle onde. Forse è soltanto un caso, (ma se lo è è
comunque significativo) fatto sta che i primi tre radiodrammi della storia,
oltre ad essere tutti ambientati al buio, hanno tutti a che fare con l’acqua,
che compare come rumore ricorrente, come leitmotiv sonoro, in tutte e tre
le opere. Così le prime opere sonore mettono in atto un doppio gioco: 1)
sulla forma della radio, mettendo in scena la cecità dell’ascolto radiofonico
attraverso le ambientazioni notturne. Hadley Cantril e Gordon Allport, due
pionieri della ricerca americana degli anni Trenta sulla radio, osservavano
che gli ascoltatori “per aumentare il piacere, si siedono al buio e chiudono
gli occhi. E iniziano a fantasticare”. 2) sui contenuti, dando forma (sonora)
alle nostre paure più ancestrali attraverso il rumore dell’acqua, uno dei suoni
più familiari all’uomo, un suono che ci accompagna dall’inizio della nostra
storia sulla Terra e dall’inizio di ogni vita (l’utero).
Ah, per chi si fosse affezionato alla storia di Danger! vi dico come va
a finire (tanto non esce al cinema, tranquilli): i due ragazzi si salveranno
all’ultimo minuto, aiutati dal signor Bax, il vecchio Bax, che per salvarli,
lasciandoli salire per primi, sarà portato via dalla corrente sotterranea.
Di radiodrammi se ne sentono pochi alla radio di oggi, ma sono convinto
che se oggi fossi in auto e qualcuno trasmettesse Danger! finirei per accostare
su una piazzola per ascoltarlo fino alla fine. La bellezza delle storie resiste
a qualsiasi nuova tecnologia. Ma le belle storie oggi, se esistono, vanno al
cinema, o in un romanzo.
Suonare Schostakovich sotto assedio. L’estate di Radio Leningrado.
“Achtung!” tuona Radio Berlino l’8 settembre 1941, “Achtung! La roccaforte di
Sc’lisselburg è caduta! L’anello di acciaio si è chiuso…”. È il primo dei novecento
125
giorni di Leningrado, l’assedio più lungo che la storia moderna ricordi.
Quella di Leningrado (oggi San Pietroburgo) sotto assedio è una storia di
privazioni. Sparirono fin da subito la farina e lo zucchero di quei magazzini.
Ma già allo scoppio della guerra – il 21 giugno – erano spariti i capolavori
dell’Hermitage, trasportati al sicuro nelle retrovie da treni speciali. Poi
sparirono i monumenti, coperti da teloni mimetici o addirittura spostati.
Sparì l’energia elettrica, sparirono i riscaldamenti delle case, i tram. Sparì
il sesso, la differenza tra corpi maschili e corpi femminili, e dopo un po’
cominciarono a sparire i corpi stessi, dentro vestiti divenuti improvvisamente
troppo larghi. Sparirono circa 700.000 leningradesi uccisi dalla fame, dal
freddo, dalle bombe, dalle malattie... Una cosa non sparì a Leningrado,
qualcosa che veniva fuori, dai “cerchi neri parlanti”, qualcosa che i tedeschi
non potevano intercettare perché viaggiava nell’etere: la voce. La voce di
Radio Leningrado. “Che sparino, che sparino pure”, disse un oratore in onda
durante un raid. “Ma il testo del discorso noi non lo cambieremo di una
virgola…” Una notte di gennaio del ‘42 un vecchio, allarmato per un black
out delle trasmissioni dovuto ai bombardamenti, si spinse fino alla sede della
radio: “Che la radio parli”, disse al direttore, “senza la radio la vita è una cosa
terribile, è come essere già nella tomba.”
Leningrado assediata non smise mai di trasmettere, nemmeno sotto i
bombardamenti. Allora andava in onda un metronomo, lasciato solo a scandire
la vita, ridotta al battito primordiale delle pulsazioni. Esile sì, ma viva. Ed è
grazie a Radio Leningrado e al suo comitato radiofonico se il 9 agosto del
1942 – sotto le bombe tedesche – un’orchestra di 110 elementi eseguirà in
diretta radiofonica la Settima Sinfonia di Schostakovich. Ma tutto ha inizio
il 1° settembre 1941, quando, già sotto assedio, il compositore leningradese
annuncia di aver terminato il secondo movimento della sua nuova sinfonia:
“Proprio un’ora fa, ho portato a termine la partitura del secondo tempo di
una nuova sinfonia. Se riuscirò a scriverla come si deve, a completare anche
il terzo e il quarto movimento, la composizione potrà chiamarsi Settima
Sinfonia (...) Perché vi dico questo? Perché i radioascoltatori sappiano che
vita della nostra città procede normalmente... Tutta la mia vita e il mio
lavoro sono legati a L., L. è la mia patria. La mia città natale, la mia casa (...)
Musicisti sovietici, miei numerosi e cari colleghi, amici miei: ricordate che
126
sulla nostra arte incombe un grave pericolo. Difenderemo la nostra musica.
Nel nome di tutti quelli che credono nell’arte e nella cultura, io vi giuro che
siamo invincibili”. Schostakovich venne poi evacuato nell’ottobre del 1941
e terminerà di scrivere la partitura in Asia centrale. Nel marzo del 1942 il
comitato radiofonico lancia l’appello per ricostituire l’orchestra sinfonica.
Si fa fatica a trovare musicisti. Molti sono morti, altri al fronte, altri non
si reggono in piedi. Le prove si fanno coi guanti, chi suona il pianoforte
deve interrompersi periodicamente per riscaldarsi le mani posandole su due
mattoni caldi ai lati dello strumento. La partitura, trasferita in un microfilm,
viaggia per via aerea e atterra a Leningrado nel giugno del ‘42. Dopo sei
settimane di prove, l’orchestra, in qualche modo, è pronta.
E il 9 agosto del 1942, esattamente 66 anni fa, nella sala Filarmonica
di Leningrado, l’orchestra della radio esegue per quasi un’ora e un quarto la
Settima Sinfonia di Schostakovich, da allora detta Sinfonia di Leningrado.
Quel giorno le linee naziste vennero inondate dalla musica del compositore
russo amplificata dagli altoparlanti rivolti verso il nemico. L’evento fu
trasmesso in diretta in tutta l’Unione Sovietica e in onde corte in Europa e
negli Stati Uniti. Fu il primo concerto della storia trasmesso via radio da una
città sotto bombardamento. L’assedio durerà ancora per un altro anno, ma
il peggio ormai è alle spalle. La radio, secondo l’opinione di chi vi lavorava
e di chi visse l’assedio, fu ciò che tenne viva la città nei momenti in cui non
c’erano né cibo, né riscaldamento, né luce.
“Nel mondo c’è uno zar”, scrisse il poeta Nekrasov. “E quello zar è senza
pietà: si chiama Fame”. Durante l’assedio, di zar ce ne fu almeno un altro, e
si chiamava Freddo. La radio provò a combatterli entrambi. Dopotutto era
Radio Leningrado, e a Leningrado gli zar non hanno mai avuto vita facile...
Intervista a Sergio Ferrentino32
Partiamo dal modo con cui hai iniziato a lavorare ai tuoi primi radiodrammi...
Parliamo di quando ero a Radio Popolare, quando nacque cioè l’esigenza di
creare qualcosa di più articolato legato alla drammaturgia radiofonica. Ciò
non rappresentava nulla di innovativo rispetto a quello che già c’era a Radio
32
Questa intervista è inedita ed è stata realizzata il 9 settembre 2012 per questo libro.
127
Popolare: fin dalle sue origini, erano presenti il teatro, scenette utilizzate sia
nella pubblicità che nelle trasmissioni (piccoli flash senza alcuna impostazione drammaturgica), qualche trasmissione con elementi particolari come
letture di testi teatrali e letterari. Ma questo in realtà era più simile al fare
teatro in radio.
Per esempio Marco Paolini fece la prima volta il suo spettacolo Vajont
proprio a Radio Popolare, creando un’attenzione e una tensione particolari e
con un grande ritorno di ascolti.
C’era dunque una mia curiosità ed esigenza verso il genere radiodramma
al quale avevo ammiccato anche nella trasmissione BorderLine. Volevo creare
il radiogiallo, una formula che attira attenzione e curiosità e in cui le tecniche
di scrittura sono abbastanza semplici soprattutto in una struttura a puntate,
che rappresentava, questa sì, una novità nel palinsesto di Radio Popolare.
Da qui alcuni problemi: avere innanzitutto un testo originale; produrre
qualcosa che fosse ammiccante e complice rispetto al target di Radio Popolare
e che avesse quindi delle connotazioni politiche. Altro elemento importante
da tenere in considerazione: l’ironia. Riprendere cioè la linea di satira politica
che con Massimo Cirri già proponevamo nel nostro programma.
Per risolvere questi problemi abbiamo coinvolto Carlo Oliva, professore
nonché uno dei principali traduttori di gialli italiani, che è stato la nostra
guida e ci ha permesso di arrivare a scrivere il testo in due anni.
Poi c’era ancora il piano formale del radiodramma da affrontare.
Dobbiamo pensare ai primi anni ‘90 in cui a fare radiodrammi, anche se
sempre meno, c’era solo la RAI. L’esigenza di Radio Popolare era quella di
caratterizzarsi in maniera specifica, soprattutto non ripetendo il suono e la
cifra stilistica della RAI stessa.
Abbiamo quindi pensato di dare alla radiocommedia una struttura
particolare: come protagonisti abbiamo selezionato dei dilettanti, attraverso
un casting: ne abbiamo scelti tre, tra cui un architetto e un’aspirante attrice.
Poi abbiamo giocato sul contrasto, andando a coinvolgere una serie di attori
e attrici professionisti amici di Radio Popolare. Un totale di 75 personaggi che
sviluppavano un meccanismo tra finzione e realtà in cui molti personaggi
secondari erano persone famose (tra cui Antonio Albanese, Lella Costa,
128
Claudio Bisio, Maurizio Nichetti, Gabriele Salvatores) e altri facevano loro
stessi: Gino e Michele facevano la parte di Gino e Michele, Piero Scaramucci
faceva se stesso, cioè il direttore di Radio Popolare. Si entrava in un’ottica
ludica che attirò molta attenzione.
Due furono gli elementi cardine di questo radiodramma, che si intitola Il
mistero del vaso cinese e che appunto producemmo nel 1992. Il primo era che
decidemmo di registrare in esterna alcune scene ambientate in esterni. Per
ricreare una scena in mezzo al traffico uscivamo con tutto lo staff, tecnico
e attoriale, proprio in mezzo al traffico. Questo comportava un rischio,
cioè creare confusione sonora, un complesso sonoro disorganizzato. Questa
fu una prima difficoltà da gestire e quindi, per esempio, in caso di grande
traffico bisognava registrare nuovamente la scena in un momento in cui
il traffico fosse meno intenso. La tecnica di ricreare l’esterno e di portare
all’esterno l’ascoltatore è stata determinante per ricreare un nuovo suono
della drammaturgia.
L’altro aspetto interessante fu quello che oggi si chiamerebbe
approccio crossmediale: per produrre l’operazione, ricordo che siamo nel
1992, facemmo una fusione di linguaggi, partendo da quello radiofonico.
L’illustratore Maramotti disegnava a fumetti tutte le puntate e le 4 puntate
trasmesse mensilmente su Radio Popolare venivano poi pubblicate sul
numero successivo di Linus. Poi venne scritto un libro, sempre con tre
autori, con tutti quello che comportava la scrittura a sei mani. Trovammo
dunque un escamotage: decidemmo di far parlare in prima persona alcuni
dei protagonisti e ogni capitolo veniva raccontato da uno dei protagonisti del
capitolo stesso, quindi dal suo punto di vista. Questo ci ha permesso di avere
più stili diversi nell’opera.
Questi sono i miei albori: la ricerca di una estetica che si distaccasse
rispetto alla tradizione del radiodramma: disorganizzazione dal punto di
vista testuale, gioco rispetto alla formalità drammaturgica e ammiccamento
verso il pubblico che si divertiva e diventava complice nel sentire che attori
come Paolo Rossi sbagliavano le registrazioni delle scene.
Anomalia che pochi sanno è che la 17esima puntata era stata prevista in
maniera tale che i protagonisti scappavano sbattendo la porta ed entrando
129
in una stanza buia che poi si realizzava essere un teatro dove era presente
anche la Banda Osiris (che tra l’altro aveva realizzato tutte le musiche del
radiodramma). Avevamo dunque pensato ad una sorta di lato B dell’ultima
puntata all’interno di un teatro, in diretta per radio e dal vivo col pubblico.
Grazie a tutto ciò Il mistero del vaso cinese è diventata una delle
trasmissioni più seguite e famose di Radio Popolare: 17 puntate costate
40 milioni di lire, che allora era una cifra spaventosa per Radio Popolare:
era la prima volta che si utilizzavano un assistente alla regia, un segretario
di produzione e un tecnico-fonico dedicato solo al montaggio. La
spinta per fare tutto ciò era voler creare un suono diverso e distante da
quello che produceva la RAI e ciò si avvertiva nella forma di recitazione
e nell’ambientazione sonora, insomma nella costruzione dell’immagine
acustica.
Il passaggio alla RAI
Col mio passaggio alla RAI ci sono state alcune esperienze drammaturgiche
all’interno di Caterpillar. Ricordiamo La strage della piazza delle Tre Culture:
è un esempio di utilizzo molto semplice di una lettura di un testo con sottofondo musicale di effetti e rumoristica. Potrebbe essere identificato come
audio-libro sofisticato.
Poi nel 2001 alla Scuola Holden abbiamo deciso di fare un’operazione
più complessa. Nel corso di Tecniche di narrazione radiofonica avevo a
disposizione una classe che sulla parte contenutistica era ferrata e alla
quale ho chiesto di scrivere dei racconti: ne sono stati scelti tre, tra questi
Il testamento Bukovski, scritto da tre studenti tra cui Cristiano Cavina; poi
è stato fatto un casting e sono stati scelti alcuni attori oggi di chiara fama
come Carmelo Rifici, Alessio Romano, Elena Rossi, Sax Nicosia, attori che
col tempo si sono affermati ma che allora erano giovani e appena usciti
da scuole e accademie. Con nove di loro siamo andati al Teatro Gobetti
di Torino e abbiamo creato delle Radiovisioni: il concetto era quello di far
vedere l’allestimento di un radiodramma al pubblico. Ero convinto che una
scelta del genere potesse affascinare, perché accadevano cose che era difficile
immaginare. Io stesso ogni volta che si produceva un radiodramma rimanevo
130
affascinato dal vedere cosa accadeva. C’è un fascino non indifferente nel
far vedere come nasce un radiodramma e “come la radio mente”. Tutto ciò
avveniva in una generale situazione di precarietà: gli attori non avevano
mai fatto radio ed erano abbastanza giovani, i fonici non avevano mai fatto
radio, così come gli scrittori; e ciò, secondo me, è stato il valore aggiunto. La
“radiovisione” andò contemporaneamente in diretta su Radio3 RAI. Quella
sera il pubblico a teatro ascoltava quello che vedeva attraverso delle cuffie
sintonizzate sulla frequenza di Radio3.
Questa esperienza rappresenta una modifica epocale rispetto alle
esperienze precedenti, rispetto per esempio a Il mistero del vaso cinese, che
era registrato. La registrazione infatti ti permetteva di avere un equilibrio
sonoro molto forte. Quando invece si decide di fare una diretta col pubblico
presente e che assiste all’allestimento, gli effetti devono essere realizzati in
loco o preparati in post produzione, basti pensare a dei passi in un corridoio:
in parte dunque sei limitato nella costruzione dell’ambientazione. Se, altro
esempio, dobbiamo registrare il rumore di una lattina, questo dovrà essere
fatto in funzione della scena: per cui non ci interessa avere un rumore di
lattina a caso, ma lo si deve registrare in funzione dello spazio previsto nella
scena stessa e dentro al quale la lattina deve rotolare.
La prima esperienza [Il vaso cinese] ha una struttura classica ma con la
registrazione esterna...
È difficile considerarla classica nel momento in cui entra in scena il rumore, che non c’era nelle versioni considerate classiche del radiodramma. Nei
classici radiodrammi gli attori non avevano le cuffie e già questo arreca delle
modifiche. L’attore con le cuffie, entrando più profondamente nella scena,
può in qualche modo fungere da regista per sé stesso e regolare, per esempio, la distanza dal microfono; sentirsi e sentire tutti i rumori permette di
recitare in un determinato modo. Un esempio pratico: se nelle cuffie l’attore
ha dei rumori forti sarà portato a recitare in un determinato modo che non
sarà mai uguale se all’attore si dice solamente che in sottofondo ci saranno
dei forti rumori senza però farglieli sentire.
131
Il passaggio successivo [Radiovisioni] è stato portare in teatro l’allestimento che in
qualche modo significava riprendere le modalità con cui all’inizio il radiodramma
veniva eseguito..
Con dei mezzi molto più sofisticati, con maggiore attenzione, anche
tecnica. Se si osservano le immagini delle registrazioni dei primi radiodrammi,
anche a quelli relativi a Orson Welles, si nota come pochi attori, per motivi
economici e tecnici, avevano le cuffie. La direzione di Welles era molto fisica,
riprendendo in fin dei conti molte dinamiche teatrali.
Terzo passaggio: Radio Bellablu che riprende in qualche modo Il mistero del
vaso cinese perché è un radiogiallo a puntate...
Il progetto di Radio Bellablu è curioso e interessante. Immaginiamo di dover
far scrivere una storia di Maigret a vari autori: ho coinvolto diversi autori
che hanno inventato un personaggio, in questo caso Maia che trasmetteva
da Radio Bellablu. La prima avventura di Maia è stata scritta da Lucarelli, in
20 puntate, la seconda da Massimo Carlotto, sempre in 20 puntate, per un
totale di 40 puntate. L’idea e lo sviluppo della serie è legata al fatto che si
potevano far entrare dentro altri autori, non per forza giallisti ma anche di
altri generi e far continuare le avventure della protagonista.
Qui si intrecciava l’esperienza de Il mistero del vaso cinese, che diventava
essenziale, con l’esperienza della Scuola Holden. Basti pensare che l’insieme
era di 360 scene con una produzione molto cinematografica, che implicava
una diversa scrittura del copione, una diversa registrazione delle scene, che
venivano registrare singolarmente e con gli attori che dovevano fare salti di
registrazione tra scene sconnesse e anche molto lontane tra loro. Ci voleva
dunque una struttura molto forte in tutti i settori: regia, aiuto regia, nel
momento della scrittura e in quello dell’adattamento. Gli autori non erano
abituati a scrivere per la radio, a scrivere cioè una storia acustica, e si sono
trovati a dover cambiare la loro visione del mondo (che è brutto da dire
parlando di radio) perché improvvisamente il mondo non è più visivo ma
diventa sonoro. Questo per loro è stato molto faticoso e spesso si dovevano
riadattare scene anche molto complesse perché erano state scritte per il
cinema e non per la radio. La cosa è stata interessante perché in questa
132
occasione è emersa con grande evidenza la grande differenza tra la scrittura
per l’immagine e quella legata invece a tutto ciò che è suono: è un’altra arte,
un’altra drammaturgia.
Radio Bellablu ha avuto anche il pregio, con sforzi non minimali, di far
sì che i tecnici RAI uscissero in esterna per registrare le scene: in auto, per
strada. Basti pensare che il loro contratto non prevedeva l’uscita dagli studi
durante l’orario lavorativo. Se invece c’è un rammarico su Radio Bellablu è
che Radio3 non ha colto nell’evento la possibilità di tornare ad investire nella
fiction in radio, ma ha lanciato l’operazione focalizzandosi sulla presenza
degli autori (Lucarelli e Carlotto) quando avrebbe avuto un senso continuare
l’esperienza coinvolgendo anche altri autori.
Dal punto di vista produttivo Radio Bellablu quanto è durato?
Abbiamo iniziato le registrazioni ai primi di ottobre e abbiamo finito a fine
marzo e in quel periodo stava andando già in onda Carlotto perché a febbraio era andato in onda Lucarelli. Inizialmente doveva andare in onda a giugno e dunque avevamo fatto una pianificazione che ci permettesse di finire
le registrazioni con ampio margine, invece ciò creò alcuni problemi. Come si
realizzava tutto ciò? Erano stati convocati alcuni attori che si dividevano per
scene seguendo ovviamente, per motivi di produzione e cronologici, prima
quelle di Lucarelli, per poterle mandare in onda. In contemporanea però facevamo anche alcune scene di Carlotto per non far tornare gli attori. Il problema di base era che gli autori non avevano ancora finito di scrivere il testo
per cui a volte ci trovavamo a registrare delle scene che erano appena arrivate.
Come è stata la fase di montaggio, che avveniva anche in concomitanza con il
passaggio dall’analogico al digitale?
In quell’occasione cambiammo subito, infatti utilizzammo i primi mixer e
software di editing digitali. La difficoltà fu soprattutto per i tecnici che erano abituati ad usare i registratori Revox e altri metodi di registrazione. Ma
l’aspetto più importante della registrazione era quella di uscire in esterna,
per cui l’obiettivo fu quello di registrare il più possibile le scene con gli attori
che poi in post produzione venivano integrate: dovevamo finire al più presto
133
la registrazione integrale di tutte le 360 scene. Man mano facevamo le post
produzioni necessarie per poter mandare in onda le puntate.
Prossima tappa, questo era 2001-2002, c’è Lettere Note
Lettere Note ci porta un attimo indietro, siamo di nuovo alla Scuola Holden.
Decisi di applicare la tecnica delle puntate all’interno del corso di narrazione
radiofonica e quindi realizzai una storia con tutti e 20 gli allievi. Decidemmo
di realizzare pezzo per pezzo il soggetto ad ogni lezione: nella fase creativa e
costruttiva questo fu molto interessante ed ebbe sviluppi molto curiosi. La
Radio Svizzera decise di produrre il progetto con profonde ripercussioni dal
punto di vista didattico anche per gli allievi perché si andò all’interno di una
struttura articolata, complessa e con potenti mezzi com’era la RTSI. La cosa interessante fu che mentre la RAI si dovette adeguare all’uscita in esterna
per le registrazioni, la RTSI era preparata a quel tipo di cose. In questo caso
decise di collaborare con la Scuola Holden e realizzammo queste 5 puntate
con registrazioni in esterna con tanto di furgone.
Il processo produttivo è sempre lo stesso: si registrano tutte le scene,
si registrano tutte le esterne, le musiche e gli effetti e poi si va in postproduzione e si crea il complesso sonoro organizzato.
Altra tappa: Orson Welles...
Sempre all’interno della Scuola Holden decisi di rivisitare La guerra dei mondi di Orson Welles, che è la radiocommedia più famosa nel mondo, ambientandola però nel 2005: bisogna dunque inventare e ideare un’ambientazione, in particolare un’invasione di marziani in maniera originale ed immaginare l’effetto della guerra dei mondi in versione moderna. Nel 1938 la
cosa fece molto scalpore perché fu fatta alla radio che in quel momento era
l’unico mezzo disponibile. Nel 2005 invece c’erano anche altri mezzi (televisione, internet...) per cui risultava più difficile immaginare come una notizia
falsa come questa si potesse diffondere o non diffondere.
Oltre al radiodramma principale producemmo anche 5 corti radiofonici
che erano tratti da notizie dell’epoca. Ogni studente doveva scegliere
una notizia uscita sui giornali nei giorni successivi alla trasmissione e che
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riguardavano le reazioni al radiodramma e cercare di farne una piccola
drammaturgia di 15 minuti.
La produzione?
Dal punto di vista produttivo in qualche modo ci siamo fatti del male perché scegliemmo 21 attori e doppiatori di chiara fama, come Dario Penne
(doppiatore di Antony Hopkins) e fu una grossa scommessa perché andò
tutto in onda in diretta, dentro ad uno studio con il pubblico con le cuffie.
Questo era diverso rispetto a ciò che fu fatto con Radiovisioni che, rispetto
a La guerra dei mondi era una molecola: infatti durava circa un’ora, mentre
Radiovisioni era composto da piccoli racconti con tanto di pause e discussioni in diretta tra un racconto e l’altro. Qui ci siamo trovati col dover tenere
alta l’attenzione del pubblico per più di un’ora, parlando tra l’altro di fantascienza, che non è così semplice da raccontare e spiegare. Non avevamo la
possibilità di raccontare per minuti od ore tutti i passaggi, come di solito avviene nei manuali del genere, bisognava sintetizzare cercando di essere anche
comprensivi. Per fare ciò è stato necessario un grosso lavoro di adattamento.
Decidemmo poi di registrare la prova generale non solo in audio ma anche
con tre telecamere, per farne una sorta di documentario, che venne montato
nella notte e spedito a Torino. La sera seguente alle 20.30 la Scuola Holden
fece vedere la registrazione in un cinema in contemporanea alla diretta che
invece aveva luogo a Lugano: In fondo la notte: un omaggio ad Orson Welles.
Se tutta questa cosa viene registrata e mandata per radio cambia il risultato
complessivo?
Cerchiamo di capire di cosa stiamo parlando. Se parliamo della recitazione
dell’attore, c’è una tensione a un’attenzione, una partecipazione che sono
diversi rispetto alla registrazione che poi dipendono dal livello di professionalità dell’attore stesso. L’ascoltatore a casa “sente” la diretta perché ha registrato la tensione che c’era all’interno dello studio.
Questo presuppone un’attenzione e un livello di “alfabetizzazione sonora” importante..
L’ascoltatore di un radiodramma deve essere sempre attento perché sennò
135
perde il filo della storia, in particolare in radiodrammi di un’ora.
Può anche essere che la differenza tra una registrazione e la diretta sia il fatto che
l’evento in sé in diretta dia più motivazioni all’ascoltatore?
Sicuramente ha un valore aggiunto il fatto di sentire qualcosa che sta accadendo in tempo reale. Questo anche per l’attesa subdola dell’incidente in
diretta, come nei gran premi di Formula1 quando si attende l’incidente da
un momento all’altro. In realtà nella drammaturgia difficilmente succede
qualcosa del genere, però è anche vero che commettere un errore forte durante la diretta può cambiare la tensione, deprimere addirittura gli attori.
Se invece senti che il pubblico è presente e attento ecco che ciò aumenta la
prestazione dell’attore.
Quindi in qualche modo la presenza del pubblico, che vede ciò che succede, dà
all’evento una sorta di status di performance che lo nobilita.
L’attore deve sempre e comunque recitare per il pubblico a casa, ma deve essere in grado di raccogliere le emozioni che giungono dal pubblico presente
e questa è una grossa forza. Certo, sono sfumature che dipendono dagli attori, ma sicuramente ciò e gratificante. L’attore non deve mai recitare per le
persone presenti.
Questo però per lo spettatore può essere un fattore di distrazione: si concentra più
sulla messa in scena che sulla recitazione del singolo attore...
Lo spettatore è disorientato e non è abituato a questo tipo di situazione,
perché vede delle cose che non corrispondono a quello che sente. Il 90
per cento delle persone presenti rischiano di perdere il senso della storia,
soprattutto se non la conoscono o se non stanno molto attenti. È talmente
affascinante l’impatto di una cosa che non hai mai visto. La chiave sta
nel fatto che l’ascoltatore-spettatore non è abituato a ciò, ma se lo fosse,
e avesse già partecipato a trenta spettacoli di drammaturgia radiofonica,
avrebbe un altro atteggiamento rispetto alla performance. Molti spettatori
sono entusiasti a prescindere dalla storia, escono in maniera positiva rispetto
all’esperienza vissuta, proprio perché non abituati. Al contrario si va al
136
cinema e si può uscire dalla sala dicendo di aver visto un film ben fatto ma
brutto. In futuro spero si possa sviluppare questa capacità, poter andare a
vedere una drammaturgia radiofonica dal vivo, uscire e poter dire “la storia
era così così”. Entrare sull’aspetto narrativo.
Per lo spettatore che è lì la tecnica è un contenuto della performance. Vai a vedere
la storia, gli attori, la tecnica....
È come quando vai a vedere Ronconi, uno spettacolo talmente complesso
che fai attenzione anche a certi passaggi tecnici che esulano dalla storia… In
questo caso diciamo che non conviene concentrarsi molto sulla tecnica, che
è lì per raccontare qualcosa della storia.
Ma se si trascura la tecnica qual è la differenza tra chi è presente e chi ascolta a casa?
Perché si vede come viene tradotto il tutto. Anche se questo forse è più interessante per gli addetti ai lavori, andare a vedere come è stato risolto questo
o quel passaggio.
Oggi però si aggiunge un terzo pubblico, oltre a chi ascolta da casa e a chi è
presente: il pubblico che ascolta in podcast la registrazione.
Non solo, nelle mie ultime produzioni c’è la versione diretta e quella in studio, cioè con gli equilibri dal punto di vista acustico e sonoro calibrati, con
una pulizia formale particolarmente curata. È la stessa differenza tra l’incisione di un brano in studio o quella live.
2006, altra produzione per RSI: Leningrado
Questo progetto nasce da una vecchia trasmissione che facevo a Radio Popolare
negli anni ‘80 e che si chiamava Vaghe stelle dell’Orso. In quegli anni per recuperare le musiche clandestine con Gian Piero Piretto andavamo in Unione
Sovietica e lì incontrai una storia che mi turbò, non tanto per il fatto in sé
che comunque è catastrofico, ma perché di quella storia sapevo poche cose
e per lo più confuse o sbagliate: stiamo parlando dell’assedio di Leningrado,
di cui avevo alcuni flash nella memoria, tra cui il ricordo che Sergio Leone
volesse farne un film, la grande quantità di morti ma non avevo bene idea di
137
cosa fosse. Grazie ai diversi viaggi che poi feci a Leningrado scoprii che l’assedio era un’anomalia storica e che aveva dentro di sé centinaia di storie da
raccontare, era una fucina enorme di storie, alcune già narrate, molte nella
forma più retorica (eroismo) ma la maggior parte di queste erano state taciute, in quanto Stalin fece di tutto per nascondere questi 900 giorni d’assedio.
La cosa che mi colpì fu la missione degli assediati, per loro la cultura non
poteva morire, sarebbero potuti morire loro ma non la cultura. Seconda cosa
era che c’era una radio all’interno dell’assedio, Radio Leningrado. Così iniziai
a leggere I 900 giorni di Leningrado e per me diventò un’ossessione. Parliamo
del 1988, per cui tralascio tutte le ipotesi di sperimentazione intermedie, tra
cui anche quelle pensate per e con Radio Popolare che non si concretizzarono, e arriviamo al 2005, quando la Radio Svizzera mi presentò un’esigenza:
mi chiese cioè di pensare a qualcosa che coinvolgesse anche la loro orchestra
sinfonica, e questa fu la molla perché all’interno dell’assedio di Leningrado
c’è una storia legata alla settima sinfonia di Shostakovich.
E quindi decisi di realizzare due drammaturgie: la prima era un racconto di
un’ora e un quarto di drammaturgia radiofonica pura sulle attività all’interno
di Radio Leningrado, i poeti, i musicisti, gli artisti, tra cui Anna Achmatova,
Olga Bergholtz, che l’animavano e che attraverso essa alimentavano piccole
scintille di resistenza nel popolo contro i tedeschi; la seconda era incentrata
sulla storia dell’orchestra sinfonica: l’idea era di raccontare i pensieri dei
musicisti durante l’accordatura degli strumenti. L’Orchestra della RTSI
suonò la settima sinfonia di Shostakovich all’interno della stagione sinfonica
della RTSI a Lugano.
Quindi erano due operazioni diverse..
Ascolta! parla Leningrado era radiofonica allo stato puro, alla Orson Welles
per intenderci. Tutto fatto in diretta, con una settimana di prove alle spalle.
La seconda invece – Ascolta! Leningrado Suona sull’orchestra: al
palazzo dei congressi il pubblico si trovava di fronte a 116 leggii e 116 sedie
e decidemmo di sfruttare in qualche modo questo aspetto, riservando una
cura alla scenografia e all’illuminotecnica che di solito il radiofonico non ha,
attraverso dei giochi di luce: durante la parte di drammaturgia il pubblico
138
assisteva a questi giochi di luce sul palco.
Questa volta c’è stata una cura particolare per il pubblico presente e
abbiamo fatto una radio che va in teatro, non radio-teatro: dal punto di vista
acustico, dalle casse di fronte usciva la musica, mentre da quelle posteriori la
voce. Questo per motivi di regia, in quanto si voleva rendere l’idea che i pensieri
non hanno una fonte e un flusso definiti ma possono venire dappertutto.
Non so giudicare il risultato finale in quanto ero in regia al piano
superiore, ma come attenuante generale posso affermare che l’acustica della
sala dei congressi di Lugano ha una delle più brutte acustiche mai vissute,
forse anche un parcheggio sotterraneo potrebbe averne una migliore.
La grande particolarità di Leningrado suona era la schizofonia tra l’attore in
scena e la sua voce, completamente scorporata da sé.
L’attore non si vedeva infatti, si vedeva solo il musicista e si sentiva l’attore,
cioè i pensieri del musicista che, nel frattempo, accordava lo strumento. Ma
c’era un’attenzione visiva.
È la prima volta in cui ti concentri su quello che accade sul palco. Nelle precedenti
drammaturgie chi veniva a vedere un radiodramma assisteva ad un qualcosa che
non era minimamente pensato per la vista e in cui la struttura radiofonica non
veniva modificata in funzione dello spettatore.
C’è stata un’integrazione che non modificava la parte radiofonica e che era
un valore aggiunto per quelli che erano presenti.
Leningrado ha avuto una vita propria, in quanto è diventato un reading,
è diventato uno spettacolo e poi dopo è diventato uno spettacolo teatrale.
Una delle rare volte in cui la radio dà un testo al teatro.
Guardando in maniera retrospettiva ci si allontana sempre di più dalla radio. Per
l’ascoltatore-spettatore non c’è differenza tra Orson Welles e i recenti audiodrammi
di AutoreVole, ma in quest’ultimo passaggio manca l’uscita radiofonica.
La distanza non è enorme. In mezzo c’è Svergognando la morte che è l’adattamento di un testo che viene portato all’interno dell’Auditorium della Radio
Svizzera con 450 spettatori tutti dotati di cuffie. Gli attori fanno tutto in
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diretta in olofonia e sono ripresi in video-streaming: si inseriscono elementi
visivi alla diretta radiofonica.
Svergognando la morte è una drammaturgia in diretta, tratta da un libro,
adattata fortemente per la radio e trasmessa in diretta in video-streaming.
Dopo Svergognando (2009) c’è Crediti d’autore...
Nel 2010 iniziamo il progetto Crediti d’autore – un bando per la ricerca di
autori e attori per la drammaturgia radiofonica – con l’esigenza primaria di
dover recuperare gli autori. Il problema della drammaturgia radiofonica è
che si sta perdendo una professionalità che c’è sempre stata, in particolare
quella dell’adattatore. L’adattamento dei testi non è una cosa così semplice.
Certo ci si può sempre sbizzarrire: in RAI, e non solo, per anni si utilizzavano
le voci fuori campo che risolvevano molti problemi dal punto di vista della
narrazione del testo. Il lavoro dell’adattatore invece è quello di riuscire ad
adattare sonoramente le scene, anche stravolgendole se necessario, lasciando
quello sonoro come l’aspetto determinante.
Detto questo, mancano gli autori, gli adattatori e i registi. Su questo poi
ci sono delle sfumature perché per un regista teatrale andrà bene un tipo di
recitazione prettamente teatrale che però quasi sicuramente non andrà bene
invece in un’ottica di recitazione radiofonica.
Come si svolge l’operazione Crediti d’autore?
Abbiamo fatto un bando a cui hanno partecipato degli autori che hanno scritto appositamente un radiodramma. Gli autori finalisti, selezionati da una giuria, hanno partecipato ad un corso di adattamento radiofonico. Poi è stato lanciato un altro bando “Crediti d’attore” dal quale, attraverso un casting, sono stai scelti alcuni attori che hanno a loro volta
partecipato ad un corso di recitazione radiofonica preso l’Accademia dei
Filodrammatici: insieme hanno messo in scena i tre racconti. Si torna in
qualche modo a Radiovisioni, con il meccanismo per cui si andava in scena a teatro e in diretta su Radio3, sulla RTSI e e sulle radio universitarie.
Questo nel 2010 e 2012.
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Ultima tappa: i radiodrammi su Beckett...
Quella è stata un’operazione di stile, un omaggio. Cinquant’anni dopo le
opere radiofoniche di Beckett non potevano essere rifatte come lui le aveva
realizzate e neanche essere trasmesse per radio così come sono state tradotte
in teatro. Cinquant’anni dopo c’è un altro tipo ti rapporto con l’ascoltatore,
perché all’epoca esisteva solo la radio.
Fammi un esempio di come hai adattato questi radiodrammi
Intanto ho cambiato tutti i tempi e i ritmi. Poi dal punto di vista acustico:
potendo ascoltare con un impianto stereo le opere si sarebbero potuti notare
continui cambiamenti destra-sinistra; mentre quelli che erano presenti avevano quasi un ascolto circolare.
Ho inserito delle donne che hanno recitato, invece di un attore uomo.
Ci si poteva permettere delle cose noiosissime ardite, complicatissime, dal
punto di vista radiofonico ma non c’era l’attenzione verso l’ascolto, erano
opere fini a se stesse.
Il primo remake che fai?
Il Beckett project era un progetto ardito che non è andato in porto fino in
fondo ma che ha avuto un’espressione particolare, grazie ancora alla RTSI.
Come viene realizzata questa cosa? Come in altri progetti c’è la presenza,
dentro gli studi della RTSI del pubblico con le cuffie: la novità è che l’opera
di Beckett prevede anche un’orchestra che non può essere nello stesso luogo
degli attori: abbiamo utilizzato dunque due studi; in quello con attori e pubblico c’è un grande schermo per seguire l’orchestra (che è nell’altro studio).
Io che ero in regia, e che in qualche modo dovevo interagire con entrambi
gli studi, avevo uno schermo sul direttore d’orchestra e viceversa, tramite cui
venivano dati i segnali.
Dal punto di vista del testo c’è quasi un’involuzione. Da Svergognando la morte
a Beckett fai riferimento ad un testo radiofonico già esistente: è la radio che viene
adattata alla radio..
Che viene adattata alla nuova radio che di per sé non esiste materialmente.
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Entriamo un attimo nel merito della questione “adattatore”, che non è un
“autore di serie B”: per esempio per la SIAE è riconosciuto e prende i diritti
tanto quanto il traduttore; l’adattamento e la traduzione sono opere autorali,
allo stesso livello dell’autore.
Il mio primo adattamento di Svergognando la morte è una riscrittura
del racconto “Il seminatore” di Cavatore, che è un testo prettamente
letterario, immaginifico e ho dovuto inventare scene che non esistevano:
ho ambientato il tutto all’interno di un tribunale che mai lontanamente
Cavatore aveva preso in considerazione. Perché il tribunale? Noi andavamo in
un auditorium che dal punto di vista sonoro era come entrare dentro ad una
cattedrale dove qualsiasi cosa cadesse aveva un eco, andavo in olofonia, per
cui una capacità di ripresa del suono estremamente elevata, e 450 persone.
Basti pensare che anche se solo 10 di queste si fossero mosse insieme per
sistemarsi sulla sedia avrebbero creato un rumore percepibile dalla testa
olofonica. Ho dovuto concepire quindi l’ambientazione del processo che mi
permettesse sistematicamente di avere rumori in sala: il pubblico presente
in studio era il pubblico del processo, tant’è che il nostro giudice continuava
a battere chiedendo silenzio. Questo è un lavoro autoriale: la capacità di
far comprendere delle storie complesse e tradurle in radio è un elemento
importantissimo.
Perché ho fatto Beckett? Inizialmente il progetto originale prevedeva
tre regie: una musicale, quindi per l’orchestra, quella radio, che in qualche
modo coordinava tutto, e una regia teatrale concentrata su una questione
d’immagine. Il problema è che cinquanta anni dopo la radiofonia si sta
ponendo il problema di come immaginare la radio, le immagini da affiancare
alla radio. Ecco che l’obiettivo era fare una sperimentazione importante: a
cinquanta anni dalla scrittura dei radiodrammi di Beckett si aggiungeva un
elemento, quello visivo.
Che tipo di immagine intendi quando dici completare i suoni? C’è bisogno per
l’esperienza dell’ascoltatore aggiungere delle immagini? E che tipo di immagini?
Assolutamente, intendo delle immagini artistiche, un’integrazione visiva artistica. Non immagini di servizio, come può essere il video-streaming. Fare
142
le riprese a Linus e Savino non è televisione, è solo fare. L’esigenza futura
sarà quella di aggiungere un qualcosa in più a quello che c’è già, cioè il futuro della radio sarà sempre più sul web e il web comprende le immagini.
Per esempio nei software di riproduzione musicale c’è già qualcosa, sotto
forma di immagini, che segue il suono, che si muove in funzione del suono.
Ovviamente questi sono esempi semplici e didascalici.
Si riprendono in qualche modo le avanguardie degli anni 20 in cui si realizzavano
dei film assolutamente astratti che avevano l’obiettivo di accompagnare musiche
e orchestre. Che rumori o suoni affianco alle parole?
In questo caso però non fai un’opera unica e lo fai per la comunicazione
di massa, che già si propone in diretta. Sarebbe ora di andare oltre Arnheim, è
difficile ma non vorrei trovarmi tra vent’anni anni ancora fermo ad Arnheim.
All’epoca non c’era il bisogno di immaginare: vorrei dare ad Arnheim una mia
classe universitaria per far capire che difficoltà c’è in questo momento nel far
radio, la capacità dei giovani ventenni di tenere l’attenzione su qualcosa per
più di 3-4 minuti. All’epoca forse la maggiore attenzione, concentrazione
ma anche la novità stessa della radio ti facilitavano nel rimanere attaccato al
mezzo; un po’ come lo siamo stati noi nei primi tempi dell’era internet.
Finora abbiamo parlato di radiodrammi: l’elemento comune, da Radiovisioni in
poi, è la messa in onda in diretta e la presenza del pubblico. L’ultimo capitolo di
questa storia non è qualcosa di radiofonico, tant’è che tu lo chiami audiodramma
e che non per forza deve avere un’uscita radiofonica.
Se allarghiamo la lente vediamo che non solo in Svizzera, dove ho avuto la
fortuna di sperimentare, ma anche in Francia, Germania, Inghilterra con la
BBC, negli Stati Uniti, la radiofonia e la drammaturgia radiofonica hanno
avuto degli importanti sviluppi. Dopo 35 anni di radio FM mi sento di poter
dire che l’FM avrà un suo senso legato strettamente all’attualità, sempre di
più di servizio e sempre meno narrativa, meno radio orale (con tutto il patrimonio e peso dell’oralità), sempre meno spazio per raccontare storie, e idee
e modi nuovi per raccontarle. Quindi si imporrà l’immagine di due speaker
dietro ad un mixer, con un telefono, la possibilità di leggere sms, Twitter ecc,
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tutti elementi cioè non radiofonici, con l’obiettivo sì di coinvolgere e di rendere il pubblico interattivo, un pubblico però non presente acusticamente.
Poi ci sarà la possibilità di fare radiofonia nel web, per delle nicchie
specializzate, mettendo ad esempio a disposizione in download prodotti di
narrazione e drammaturgia.
All’estero, per esempio in Germania, le case editrici hanno autori che si
dedicano esclusivamente alla drammaturgia radiofonica; in Italia non sanno
neanche di cosa si sta parlando.
Cos’è AutoreVole?
Ho aggirato il problema delle case editrici e sono andato direttamente dagli autori: ho chiesto loro di scrivere un testo appositamente per la radio,
per l’audio; ho adattato i testi e li ho registrati in un teatro, l’Elfo Puccini di
Milano. Inoltre, per ammortizzare i costi di un’operazione del genere in Italia
bisogna coinvolgere un gran numero di persone e quindi ho reso disponibile
per l’acquisto on line l’audiodramma in un audio-catalogo nel web. Inoltre
è iniziata una tournée nei teatri degli spettacoli, per dare la possibilità ad altri di poter godere dell’esperienza. Nel frattempo c’è una casa editrice che
si accorge di quello che sta accadendo e decide di partecipare: la Feltrinelli
decide di pubblicare l’originale in versione ZOOM e gli adattamenti in versione cartacea ed e-book e infine abbiamo creato un’applicazione per Apple
e Android dedicata ad ogni singolo audiodramma; Facebook lo usiamo per
pubblicare le gallerie fotografiche degli eventi.
Questa è la nuova produzione che parte dall’arte radiofonica, ma che
sicuramente è cross-mediale, come va di moda dire oggi.
Mi piace pensare che anche la prima opera Il mistero del vaso cinese fosse
cross-mediale nel 1992.
Come diceva Arnheim è un’opera per l’orecchio ma che poi si declina in molti modi..
Orecchio, che non ha palpebre tra l’altro.
144
Lo spettacolo dell’arte radiofonica
Situazionismo radiofonico per le strade di Firenze
Immaginate di essere al cinema. Le luci si spengono, inizia il film. Sullo schermo
appare Firenze, vista dall’alto, al tramonto. È una ripresa aerea che ci lascia il tempo
di riconoscere piazze, palazzi, per poi scendere a volo basso e seguire le linee dei tetti,
le curve delle strade. Coperta dai rumori urbani emerge una musica, ancora lontana,
non si capisce da dove arrivi ma è certamente musica classica. Si scende ancora,
seguendo i profili dei palazzi e la musica è sempre più vicina. Giriamo l’angolo
e siamo investiti da un’onda di suono, l’immersione è sorprendente. La fonte del
suono passa sotto di noi, la strada è invasa dai ciclisti, sono centinaia e la musica
arriva e si sposta con loro, perché ognuno porta con sé una piccola radio e ogni radio
è sintonizzata sulla stessa frequenza e diffonde la stessa musica: Beethoven e Liszt.
È così che Radio Papesse (la prima web radio dedicata al mondo dell’arte)
descrive questo evento da lei curato per la notte Bianca di Firenze. C’ero
anch’io, quella notte a Firenze (sabato 30 aprile 2011) ed è stato uno dei
momenti più radiogenici della mia vita di radiofonico. Quasi trecento biciclette, una vera Critical Mass, armate di radioline portatili, vecchi stereo,
transistor da officina, radio di design di ultima generazione, legate alle canne delle bici col cordino o avvolte dal nastro americano sul portapacchi e nei
cestini, un corteo di ciclisti che ha attraversato la città, i ponti, il fiume, le
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piazze fiorentine, per diffondere in diretta via radio il concerto dell’Orchestra del Maggio Fiorentino, con Zubin Mehta che dirigeva Daniel Barenboim
al pianoforte. Le frequenze sulle quali il corteo si è collettivamente sincronizzato erano quelle di Radio3 RAI, ma nelle strade attraversate dal corteo
di bici Beethoven interpretato da Barenboim risuonava tramite il riverbero
collettivo delle singole radioline, ognuna con un suo suono, ognuna con
una sua voce. Un’azione situazionista: riappropriarsi in chiave tattica di un
evento elitario come il concerto del Maggio e portarlo fuori dal Teatro, diffonderne il suono elettrificato nello spazio pubblico, liberarlo, confiscarlo ai
privati spettatori per restituirlo alla gente nelle strade. Salire il ponte vecchio
in bicicletta, tra due ali di folla sorprese, mentre il fantasma di Barenboim
aleggiava sopra le teste dei ciclisti, è stato commovente. Un corteo che assomigliava ad una manifestazione politica in bicicletta, maniaci di Radio3,
staffette partigiane delle associazioni ciclistiche fiorentine, componenti della Critical Mass locale, giovani freak, punk, hipster, new wave, un esercito
sbrindellato e fortunato di partigiani del pedale e della radiofonia libera, tutti stranamente assieme per diffondere...musica classica, come se fosse una
qualunque musica for the masses. Il concerto sembrava accadere sopra di noi,
gli orchestrali sembravano suonare accanto a noi, il teatro sembrava viaggiare, etereo, sopra la città. Sopra le nostre teste sembrava stendersi una tela sonora, prodotto dei singoli suoni delle radioline, una tela di suoni che si
srotolava lungo le vie, che fuggiva sempre in avanti, impossibile da acciuffare
o riavvolgere. Un muro sonoro, etereo e mobile, un’apparizione fantasmagorica per tutti quegli spettatori che nelle strade, all’improvviso, sentivano
un’onda sonora investirli da lontano, per poi esser seguita da un muro di bici
scampanellanti e festanti, che subito svicolavano, giravano l’angolo, scomparivano. Una visione, potente ma temporanea, che lasciava gli spettatori incerti della veridicità di ciò che gli occhi e le orecchie avevano appena visto e
sentito. L’unione originale di due mezzi di comunicazione come la bici e la
radio, ha prodotto un (temporaneo) risveglio dalla narcosi, un risveglio dei
sensi, come teorizzava McLuhan. L’happening si è concluso davanti alle porte del Teatro Comunale, proprio mentre il concerto che si svolgeva al chiuso
di quelle porte, volgeva al termine. Le bici e le radio, trasformate per una
146
sera in armi di liberazione di massa, hanno cinto d’assedio la fortezza-teatro,
espugnandone il contenuto. E ancora una volta, il medium (radio+bici) ha
superato il messaggio (Beethoven e Liszt; Zubin Metha e Barenboim) diventando esso stesso il vero contenuto della performance. La radio non è solo
quella cosa lì, personale e privata, che ascoltiamo in cuffia, in macchina, o
in podcast, da soli e passivi. Radiogenia è soprattutto questo: connessione,
trasmissione, sonorizzazione di uno spazio. Ci ricorderemo nel tempo, di
questa notte fiorentina.
Resonance FM – la radio dell’arte
The Guardian l’ha definita la migliore stazione radio di Londra; The Daily
Telegraph scrive che, finalmente, invece di parlare d’arte, è arte (radiofonica) di per sé. A noi basta ascoltare “13 minuti di Paradiso”, un programma
che manda in onda paesaggi sonori artificiali, per scoprire che anche la radio è un linguaggio e che qualcuno ne sa fare un’arte. Resonance Fm (per chi
passasse da Londra, la frequenza è 104.4 Mhz, per tutti gli altri, c’è la Rete:
www.resonancefm.com) è una radio comunitaria nata nel 2005 dalle gioiose
menti del London Musician’s Collective.
Nelle parole dell’Ofcom, l’ufficio inglese per le comunicazioni, l’organo
che gestisce le concessioni radio-televisive britanniche, Resonance Fm “è
diretta alla comunità artistica del cuore londinese e a coloro al di fuori dei
circuiti mediali mainstream. Il pubblico include anche gli emarginati sociali, i
gruppi minoritari e le subculture”. In sostanza, l’abc della radio comunitaria.
Il 21 dicembre 2005 Resonance Fm ha iniziato a trasmettere sulla città di
Londra (in verità soltanto su una porzione di essa, perché il raggio d’azione
del trasmettitore è di 5 km e già dalle parti di Brixton, a sud di Londra, si
fa fatica a sentirla). La licenza ha durata quinquennale, e alla fine del 2010
verrà rimessa in discussione. Ma la storia di Resonance Fm inizia quasi dieci
anni fa: era il 1998, un gruppo di giovani musicisti iniziava a trasmettere
dai solai del Royal Festival Hall, una famosa sala da concerti sulle rive sud
del Tamigi. La stazione otterrà una licenza speciale di un mese, ma ormai la
radio è nata. In piena era internet, qualcuno in Inghilterra ha ancora voglia
di mettersi a fare il pirata delle radio libere. Sembra un’utopia arrivata fuori
147
tempo massimo, una smagliatura del passato, una battaglia combattuta con
le frecce nell’era del Winchester, eppure, alla lunga, funziona. Resonance
Fm oggi sta per compiere dieci anni e la sua presenza nella capitale inglese
è ormai consolidata. Gli ascoltatori inglesi, fino a pochi anni fa abituati
all’ampio servizio della Bbc, o, in alternativa, alle radio commerciali, si
stanno abituando in fretta alla “terza via” inglese in radiofonia. Anche se le
stazioni comunitarie inglesi hanno una storia recente, la loro rapida crescita
è un fenomeno interessante all’interno del panorama radiofonico europeo
perché dimostra che la radio, in un mondo dominato dai nuovi media, può
ancora rappresentare un efficace strumento di comunicazione, almeno per
delle comunità di ascoltatori ben delimitate socialmente e culturalmente.
Resonance è uno degli esperimenti di radio comunitaria più riusciti e per
capirne meglio la storia e lo spirito abbiamo intervistato Ed Baxter, uno dei
due fondatori della radio e attuale direttore dei programmi.
Raccontaci la storia di Resonance Fm. Sappiamo della sua nascita dietro le
quinte di un teatro...
Resonance ha iniziato a trasmettere il 1 maggio del 2002, grazie ad una licenza temporanea, una sorta di licenza di prova che avrebbe poi dovuto portare
alla concessione di una licenza ufficiale, come è accaduto nel 2005. Ma prima che la radio iniziasse ad esistere come luogo fisico, come stazione vera e
propria, l’origine di Resonance risale al maggio del 1998, sotto forma di progetto RSL, Restricted Service Licence (licenza di servizio ristretto): un mese
di trasmissioni d’arte, una sorta di galleria d’arte radiofonica, in cui venivano
messi in mostra i lavori d’arte sonora di artisti da tutto il mondo. Il trasmettitore l’avevamo messo sul tetto del teatro e aveva un raggio di poco più di
un miglio, quasi due chilometri. Io e Phil England ne eravamo i curatori, i
produttori, gli speaker e gli amministratori, per conto del LMN, il London
Musicians’ Collective, una no profit che promuove la produzione e la diffusione di musica sperimentale.
Cosa vi ha spinto ha lanciarvi in questa follia?
La motivazione, sembra strano magari ma è semplice, e molto banale: la
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noia e l’impazienza. Eravamo interessati alla pop art, a Fluxus, al punk rock
e alle varie subculture “do it yourself” presenti in città, e volevamo tradurre queste estetiche in radiofonia. Inoltre eravamo molto frustrati dallo stato
della radio in Inghilterra. Avevamo collaborato molto con il dipartimento di
innovazione musicale del terzo canale della Bbc, avevamo anche realizzato
qualche evento insieme a loro. Ma ogni tentativo di proporre loro un format,
un programma, un’idea, era naufragato, era stato rifiutato.
L’idea che il mezzo, la radio, potesse essere presa in mano da un pugno
di “artisti” era per loro inconcepibile.
Phil aveva un grande interesse per la radio e aveva buoni contatti con
produttori radiofonici di tutto il mondo. Io ero un buon organizzatore di
eventi e in quel momento ero giunto ad un’impasse nella mia carriera di
artista concettuale, che era iniziata per caso il giorno in cui il prestigioso critico
d’arte del Sunday Times, William Feaver, aveva recensito positivamente la
mia prima ed unica installazione e tutti avevano cominciato a prendermi sul
serio. Ma quella carriera terminò subito dopo, poche settimane prima che
Damien Hirst allestisse la sua opera-show, “Freeze”, in Bermondsey. Quando
arrivò questa cosa della radio non avevamo niente da perdere. Non so più
se davvero non avevamo niente da fare, ma in ogni caso ci buttammo sulla
radio. I contenuti per riempire il “palinsesto” ci arrivarono presto da ogni
parte del mondo, grazie ai nostri contatti, soprattutto dall’Austria, Germania,
Canada, Australia. Non c’è mai stato un momento in cui ci mancava
materiale da mettere in onda. L’arte e la sperimentazione sonora erano
state così dimenticate fino ad allora che avevamo un serbatoio di materiali
inediti illimitato, considerata la durata limitata del progetto. Riunimmo
attorno a noi decine di volontari. Quel mese è stato indimenticabile. Anni
dopo, nel 2001, quando scoprimmo la possibilità di chiedere una licenza
di un anno, compilai la domanda copiando il modello messo a punto con
l’esperienza del ‘98: sapevamo che avremmo potuto contare su ingegneri del
suono, volontari, sulle centinaia di artisti e creativi con cui ormai eravamo
in contatto. La radio è un meccanismo attraverso il quale poche persone ben
determinate possono galvanizzarne molte. Dà loro uno spazio dove trovarsi
assieme, una passione in cui identificarsi. E li rende uguali.
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Perché proprio una radio d’arte?
Era un nostro esperimento artistico, un’opera concettuale. Volevamo applicare le nostre idee sull’arte contemporanea al mezzo radiofonico, e vedere
cosa ne poteva venir fuori. Eravamo annoiati e frustrati e ci inventammo
quell’evento per non deprimerci. Nessuno di noi era un professionista, non
avevamo mai fatto radio. Eravamo, e siamo tuttora, naïfs. Questa è anche la
nostra forza, il nostro marchio.
Qual è l’immagine più bella degli inizi di Resonance Fm che ti porti con te?
La prima notte che chiusi lo studio in teatro e me ne tornai a casa. Sapevo
che quel progetto avrebbe fatto la sua strada. Poi, nel 2002, scendendo le
scale dopo la prima notte di trasmissione, con la stessa sensazione di tre anni
prima che si ripeteva. Mi sentivo come dentro la pancia di un incredibile giocattolo. Riesci ad immaginarlo? Non un’immagine, era più una sensazione,
c’è poco da guardare in uno studio e le luci sono sempre basse.
Oggi siete una radio comunitaria. Che comunità è quella a cui vi rivolgete? Che
rapporti avete con lei.
Chi ci ascolta a Londra sono soprattutto gli artisti di vario genere, i creativi. L’idea di fondo è che questi ascoltatori possono venire in radio quando
vogliono ed entrare nel progetto, collaborare. Questo succede abbastanza.
Abbiamo molti volontari. Resonance è una radio londinese. La città è una
risorsa infinita. La radio tenta di descrivere, definire, raccontare Londra. I
curatori direbbero che noi “mappiamo” Londra. Mostra, quasi fino a celebrarlo, quello che il critico Kodwo Eshun chiama “sprezzante campanilismo”, cioè un’attenzione maniacale per la produzione artistica della città,
che ritengo molto positiva. Mi viene in mente un modello antropologico, il
potlach, in cui i membri di una comunità regalano, danno via gli oggetti che
gli stanno più a cuore, con una generosità reciproca che serve a rinvigorire i
legami sociali.
È ancora utile secondo te fondare una radio nell’epoca della convergenza multimediale?
Un progetto come Resonance Fm riesce ad avere un impatto sulla società?
150
Sì. La scena dei “nuovi media” è sopravvalutata. Non c’è ancora un valido sostituto della radio che sia in grado di radunare persone per creare qualcosa assieme, di informarle rapidamente, di raggiungerle ovunque mentre si spostano.
Resonance funziona da filtro all’abbondanza d’informazione. I ritmi
postmoderni e digitali della vita contemporanea – dall’ascolto on demand al
consumo personalizzato – implicano, ma solo in apparenza, che l’individuo
sia finalmente in grado di stoppare e far ripartire il suo capitale temporale
come e quando vuole, in realtà il nostro tempo è sempre più profondamente
sincronizzato dalla tecnologia. In questo “brave new world”, in questo
“mondo nuovo”, sembra che niente sia più irrilevante del tramonto del
sole. Sembriamo essere sospesi in un limbo in cui convivono assieme oggetti
obsoleti ma potenti (la radio) e oggetti ubiqui ma di poca efficacia. La radio,
con il suo fascino un po’ fuori moda, un po’ vintage, può continuare a
funzionare anche in mezzo al mare di i-pod e canali digitali. Il nostro sito ...
Qual è il tuo palinsesto ideale?
Ci piace cambiare palinsesto ogni quattro mesi, essere flessibili e rispondere velocemente agli stimoli creativi che ci arrivano dall’esterno. Evitiamo le
news, i meteo, le notizie sul traffico e le hit commerciali, tutto ciò crea un
ritmo che tende a dominare, ad irrigidire il nostro formato sonoro.
Il palinsesto attuale è più o meno quello ideale, quello che vorremmo
essere, con i nostri programmi regolari improvvisamente e volontariamente
interrotti da eventi come il No Music Day o dirette e concerti dal vivo speciali.
I nostri ascoltatori si aspettano che noi li sorprendiamo, non come accade
normalmente in radio, dove ci si aspetta di essere accompagnati durante il
giorno sempre dalle stesse cose.
ARTE radio, quando la Rete si mette a fare radio.
Arte Radio est une radio web à la demande. Elle propose des centaines de reportages
et créations sonores à écouter à volonté. C’est une création d’ARTE France, la partie
française d’ARTE. Elle est strictement non commerciale et sans publicité.
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È con queste parole, una sorta di manifesto, che si presenta sul proprio sito
Arte Radio, una web radio tra le più innovative del panorama on line. Una
“web radio à la demande”, su richiesta, prodotta da ARTE France, la divisione francese del canale satellitare tematico ARTE. È una radio di servizio
pubblico, senza pubblicità e strettamente no-profit.
Ma... è una radio?
A questo punto però bisogna spiegare bene che cos’è Arte Radio e perché si fa
chiamare “radio” anche se non ha antenne e non trasmette nulla. A me piace
definirla come un mezzo di comunicazione che vive su internet parlando la
lingua della radio. I contenuti che produce (documentari, fiction, reportage,
mini-format, rubriche) appartengono tutti ai generi classici della radiofonia,
generi ormai frequentati solo dalle radio pubbliche più per avere qualcosa
da mandare ai concorsi internazionali che per piacere agli ascoltatori. Ma i
prodotti di Arte Radio si distinguono da quelli delle radio pubbliche per una
buona dose di sperimentazione, ironia, originalità nei soggetti (una volta
ho ascoltato la storia, in 8 minuti, di una linea di autobus che unisce una
banlieu parigina al centro della città: a fare da narratore era l’autista tunisino, che raccontava la vita dei suoi “clienti abituali”, i passeggeri che vede
salire ogni giorno e poi improvvisamente sparire; un’altra storia ironizzava
invece sul divieto di fumare: in soli due minuti, usando solo i suoni e i rumori d’ambiente, la storia ti proiettava in un futuro distopico tipo “1984”,
dove un fumatore clandestino veniva inseguito da elicotteri, polizia, sirene
e soltanto alla fine, nascondendosi in un edificio abbandonato, col fiato in
gola, riusciva ad accendersi il suo cigarillo). Ad ascoltare i file (quasi un migliaio) archiviati sul sito di Arte Radio, l’impressione è la stessa che si ha ad
ascoltare una buona radio pubblica. È radio, ma della radio è rimasto solo il
linguaggio, tutto il resto si è smaterializzato.
Eppure, mi ha raccontato Silvain, la loro candidatura di quest’anno al Prix
Italia – nella sezione web – è stata rispedita al mittente con la motivazione
che loro “non sono una radio”. Meraviglioso! Il più vecchio e importante
premio radiofonico del mondo li ha esclusi perché “non trasmettono, non
fanno broadcasting”. È come dire che siccome un film è stato distribuito
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solo in edicola e non in televisione allora non è un film. Quest’episodio è
illuminante per capire lo scollamento dalla realtà, dalle evoluzioni, anche
tecnologiche, che la radio sta affrontando, di novecentesche istituzioni
come il Prix Italia (nato nel 1956). Si comportano come gli ultimi soldati
giapponesi nelle isole del Pacifico: non sanno che la guerra è finita da anni. È
su internet, è attraverso i bit, che sempre più passeranno tutti i media fin qui
inventati. Non si sa bene ancora “come” accadrà, “come” ascolteremo, quali
supporti si imporranno, ma è sicuro che accadrà, e in parte sta già accadendo.
Se il pubblico si frammenta, si scompone in tante nicchie dalle abitudini
di vita differenti, l’unica soluzione è inseguirlo e cercare di intercettarlo
ovunque, con tutti i mezzi possibili. La rete da pesca che ancora rende di più
rimane l’FM, ma altre reti, dalle maglie più piccole, si stanno imponendo: lo
stesso contenuto deve essere presente su tutte le piattaforme comunicative
disponibili, per sperare di raggiungere tutta la comunità potenziale. Se il
contenuto è trasmesso in diretta, o pronto per essere scaricato il giorno
dopo, se arrivava per email o via satellite, rimane sempre un contenuto
radiofonico. Arte Radio l’ha capito. Il fatto che Arte Radio sia considerato
un mezzo “originale, innovativo ecc...” non sta soltanto nel tentativo di
aggiornare vecchi generi radiofonici caduti in disgrazia, ma risiede anche
nelle modalità scelte per distribuire questi contenuti.
L’ascolto più immediato è quello “on demand”, su richiesta, ma può
essere di diversi tipi. Ho la possibilità di navigare l’archivio seguendo piste
differenti (per tema, per genere, per autore). Se voglio, posso anche crearmi
il mio palinsesto: come ad un supermercato (dei suoni), scelgo dagli scaffali
i prodotti che mi servono per fare la mia ricetta (sonora): qualche minuto
di informazione, dieci minuti di intrattenimento, un goccio di interviste di
spettacolo...mi preparo una scaletta e me la ascolto come fosse una radio
“old style”, cioè un flusso di contenuti differenti. Solo che questa volta la
sequenza è scelta da me e non da un direttore dei programmi. Se non ho
il tempo di costruirmi da solo la radio ma voglio ugualmente ascoltare un
flusso continuo di eventi sonori, senza dover ogni volta andarmi a cercare
un singolo contenuto, posso ascoltare all’“hasard”, cioè a caso: il programma
pescherà per me a occhi chiusi un nuovo contenuto dall’archivio. Inoltre ogni
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settimana in prima pagina sono presentate le ultime novità, i prodotti più
freschi, ascoltabili anch’essi nella modalità di flusso, come un programma
unico. Se sono pigro esiste il podcasting: programmo il mio computer per
scaricarmi in automatico le novità settimanali di Arte Radio e non devo più
preoccuparmi di cercare, navigare, perdere tempo. Lancio il programma
e ascolto l’ultimo audio prodotto da Arte. Proprio come i vecchi media
tradizionali: il giornale che mi arriva ogni mattina davanti al portone di
casa, l’autoradio in macchina che basta accendere con un giro di manopola
o il televisore azionato da un telecomando.
Nell’epoca dell’opulenza, dell’abbondanza dell’informazione, una grossa
fetta dell’energia di un emittente, un editore, un produttore di contenuti va
dedicata al riciclaggio, al remixaggio, alla riaggregazione, alla riproposizione
ponderata dei propri contenuti. Arte Radio ha il vantaggio di essere nata ai
tempi di internet ed è disegnata secondo un’architettura che le permette di
essere, contemporaneamente, mezzo di comunicazione e biblioteca. Non è un
caso se l’inventore del web, Tim Berners Lee ha citato il racconto di Borges, “La
Biblioteca di Babele”, per raccontare cos’era questa roba chiamata Internet.
Intervista a Silvain Gire, creatore e direttore di Arte Radio
Silvain Gire ha 43 anni (è nato nel 1964 quindi, scoprirete presto questa mia
ossessione per gli anni) e vive a Parigi ma nelle poche ore passate a Milano
ha speso sorprendenti parole d’amore per questa città. È il più vecchio della
piccola squadra al lavoro per Arte Radio, gli altri – quattro in tutto – sono:
Thomas Baumgartner, giornalista, anno di nascita 1979; Jeanne Robet, assistente di produzione, anno di nascita 1979; Christophe Rault, ingegnere
del suono e cofondatore, anno di nascita 1979. Samuel Hirsch, anche lui
del 1979, si occupa dell’editing sonoro. Una squadra che rispecchia in pieno lo stereotipo di chi sta dietro i successi di internet: un manipolo di giovani cresciuti tra gli anni Ottanta e Novanta. Silvain è il papà, il capitano di
questa gioiosa macchina da guerra, quello che decide cosa produrre, quello
che sceglie la linea editoriale, ma anche quello che, il giorno dopo la vittoria di Sarkozy, ci mette voce, penna e cervello e pubblica sul sito uno spot di
5 minuti di lancio di Radio Sarko, una specie di editoriale sarcastico su cosa
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aspetta i francesi nei prossimi 5 anni, subito scaricato da qualche migliaio
di persone. Si sente un po’ situazionista e non essendo riuscito a cambiare il
mondo, dice sghignazzando, “provo a cambiare un po’ la radio”.
Come è nata Arte Radio?
Nel 2002, il presidente di ARTE, Jérôme Clément, propose a me e a Christophe
Rault, giovane ingegnere del suono, di creare una web radio dandoci carta
bianca. Noi ne abbiamo approfittato per creare qualcosa che non esisteva,
ossia una vera e propria radio on demand, senza musica né conduzione.
Senza discorsi di giornalisti, o esperti, senza promozioni commerciali né
culturali.
I contenuti sono tutti inediti e prodotti su commissione: reportage,
documentari, fiction o creazioni sonore, che hanno ogni volta un taglio ben
definito.
La stampa francese vi adora, soprattutto Le Monde e Liberation, anche se qualcuno
dice che siete elitari...
Non è vero. Arte Radio non è elitaria. L’obiettivo è di sedurre la generazione
d’internet con contenuti di qualità. Abbiamo un’équipe di autori che propongono degli argomenti, e con loro discutiamo molto prima e dopo le registrazioni: come registrare, che tipo di microfono utilizzare, come raccontare
la storia … ad oggi sono presenti nel sito circa 1000 prodotti diversi, tutti
conservati in un archivio e delle novità ogni settimana che vanno da brevi
pezzi umoristici sull’attualità, di circa un minuto, a dei documentari di 40
minuti, passando per dei diari intimi, dei feuilletons, delle cartoline acustiche, tutto sonoro.
I reportage vanno dagli argomenti privati a quelli politici, ma sempre
senza interventi di esperti: il punto di vista dell’autore si esprime attraverso
l’arte della registrazione, del montaggio e del missaggio.
Internet dà il vantaggio di sapere con certezza chi ti ascolta e magari anche che
età ha. Chi è il vostro pubblico?
Oggi Arte Radio è un successo (per i numeri di internet): il sito è visitato
155
400.000 volte al mese, ciò significa tra i 150 ai 200.000 singoli ascoltatori
al mese. Il 50 per cento dei nostri ascoltatori ha meno di 35 anni.
I contenuti prodotti da voi si possono ascoltare in diversi modi. Vi siete accorti che
il «pubblico» come corpo unitario non esiste più e lo rincorrete ovunque?
Siamo stati la prima radio professionale in Francia a proporre il podcast.
L’abbiamo introdotto nel febbraio 2005 e nel giugno dello stesso anno
avevamo già 25.000 abbonati. Ne abbiamo tratto dei benefici in termini
di aumento degli ascolti: il podcast è una forma di abbonamento in cui
l’ascoltatore si affida a noi per farsi sorprendere. Una nuova generazione sta
ri-scoprendo il piacere dell’ascolto, della creazione radiofonica, del «cinema
per le orecchie», con le stesse modalità con cui ascolta la musica. Chi scarica
i nostri contenuti spesso non è un ascoltatore tradizionale di radio ma è
alla ricerca di contenuti, non solo musicali, per il proprio lettore portatile.
Scopre la radio tramite noi.
Quando nel 2002, eravate appena nati, vi ho scoperto su Internet, mi ha colpito
la «profondità» dei vostri suoni, la chiarezza. Provavo piacere ad ascoltarvi, anche
se non capivo niente di francese...
Ciò che gli ascoltatori apprezzano è la qualità del suono. Christophe Rault
ha creato un colore del suono molto originale, con una dinamica e un ritmo
adattati all’uso di internet (tempi brevi, ritmi veloci). La registrazione è molto ricca di ambienti sonori, di profondità di campo acustico, silenzi… tutto
ciò che, purtroppo non è più d’uso nelle grandi radio. Questa forma d’arte
è anche molto diretta: la radio «parla» alla nostra intimità, al nostro immaginario. È per questo che privilegiamo argomenti molto intimi (la verginità,
la masturbazione, il lutto), e anche molto politici (operai avvelenati da una
fabbrica di arsenico, un clandestino che legge la lettera di rifiuti del permesso di soggiorno dell’amministrazione francese), a fianco a degli argomenti
più divertenti che circolano facilmente sul web.
Tutti questi contenuti sono scaricabili sotto licenza Creative Commons. È una
scelta politica?
156
Sì. Assolutamente. Gli autori vengono pagati, ma, in attesa di valide proposte da parte delle società che gestiscono i diritti d’autore, che per il momento
non si adattano al web, noi crediamo che la cultura non sia una merce. Tutti
i nostri reportage possono essere diffusi in ambito non commerciale. Gli insegnanti li utilizzano per insegnare il francese e numerose radio libere senza
pubblicità ne diffondono i contenuti su fm.
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La radio comunitaria: una forma non spettacolare
Radio Alice in Australia. Breve storia della radiofonia comunitaria aborigena33.
Qualcuno prima o poi dovrebbe scriverla, la storia della radiofonia comunitaria
aborigena. Una storia di radio pirata e musica country, di grandi riunioni
nel deserto e antenne di fortuna. Mentre in Italia fiorivano le radio libere
dall’altra parte del mondo accadeva più o meno la stessa cosa, nascevano le
prime emittenti aborigene e i primi network, solo che nessuno lo immaginava.
Questa storia ha inizio nel 1979, qualche anno più tardi dell’esplosione
del fenomeno delle radio libere italiane, ad Alice Springs, un paesino di circa
ventiseimila abitanti piantato nel cuore rosso e arido d’Australia.
Alice Springs
Alice Springs è un’invenzione coloniale. Prima dell’arrivo dei bianchi semplicemente non esisteva. Il territorio dove oggi sorge era abitato da almeno
40.000 anni dalle tribù degli Arrente, gli aborigeni della regione centrale
d’Australia (Il Northern Territory), dove sorge la montagna sacra di Uluru
(Ayers Rock).
Nel 1862 l’esploratore inglese John McDouall Stuart riuscì (al terzo
tentativo) nell’impresa di attraversare il continente australiano da sud a
nord, passando attraverso il deserto centrale e individuò nella zona dove oggi
c’è Alice Springs il luogo giusto per una possibile colonia. Lungo il percorso
33
Testo apparso su ErrepiNews, settembre 2006.
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tracciato da Stuart si sviluppò la linea telegrafica che doveva collegare
Adelaide (sud) a Darwin (nord). La linea venne completata nel 1872 e nei
pressi di una sorgente d’acqua (spring) scoperta dalla moglie di Stuart (Alice)
venne installata una stazione del telegrafo, il primo insediamento bianco di
Alice Springs. Alice Springs è nata come avamposto coloniale e ancora oggi
la maggior parte della popolazione discende dalle famiglie di coloni bianchi
arrivati a fine ottocento in cerca di nuove terre. La minoranza aborigena
di Alice Springs è fortemente colpita dalla disoccupazione e dall’alcolismo.
Eppure ad Alice, più che in altre città d’Australia, la cultura aborigena ha
trovato negli ultimi anni terreno fertile per essere apprezzata e rispettata.
Qui sorge uno dei più importanti centri culturali e musei di arte aborigena
d’Australia e il corso principale della città è pieno di gallerie d’arte locale (Se
il vecchio Chatwin fosse ancora tra noi e passasse oggi ad Alice, farebbe fatica
a riconoscerla, tanto è cambiata e cresciuta dai tempi de Le vie dei Canti).
Qui è nata la più vecchia radio comunitaria aborigena d’Australia ed è
qui che ha avuto inizio il movimento della radiofonia aborigena. Era il 1979.
Un impiegato del Dipartimento di Educazione del Northern Territory, Chris
Myefski, e il suo amico aborigeno John Macumba convinsero la stazione
commerciale locale – Radio 8HA a dar loro una mezz’ora a settimana per
condurre (in lingua aborigena) un programma di musica tradizionale.
Il programma divenne subito famoso tra la comunità aborigena locale
e nell’estate del 1980 gli attivisti indigeni di Alice Springs organizzarono
una grande riunione di tutti gli attivisti indigeni australiani per dare vita al
movimento per la radiofonia comunitaria aborigena. La riunione, ricorda
Florence Onus – docente di Giornalismo all’Università James Cook di
Townsville e all’epoca prima giornalista aborigena della ABC – avvenne sotto
un grande albero della gomma, che per la cultura tradizionale è un albero
sacro e curativo.
Billie Thaiday, uno zio di Florence, ricorda che, una volta tornato a
Townsville, decise di aprire anche lui una radio, insieme a suo cugino Mick.
Trasmettevano da una roulotte parcheggiata in cima alla collina che dominava
Townsville. Ogni giorno ci mettevano più di mezz’ora a raggiungere la cima
a piedi. Avevano bisogno di qualcun altro che gli desse il cambio e così
159
chiamarono Florence, allora ventenne. Hanno iniziato così, in tre, dentro
una roulotte scalcagnata. Oggi a Townsville c’è una delle radio aborigene più
famose del paese, Radio 4K1G. La sede ha tre studi e occupa un intero piano
di una bella palazzina non lontana dal centro città.
Nella riunione di Alice Springs vennero gettati i primi semi della
radiofonia comunitaria aborigena: i partecipanti di quello storico convegno
– provenienti da tutto il continente – tornarono a casa con la volontà di dar
vita ad una propria stazione nella loro città, proprio come stava avvenendo
ad Alice, dove, in quell’anno, il 1980, era stata fondata CAAMA (Central
Australia Aboriginal Media Association), che a sua volta aveva aperto la prima
stazione radio completamente aborigena, Radio 8KIN. A quell’esperienza ne
fecero subito seguito altre, e verso la fine dello stesso anno nascevano altre
emittenti aborigene a Brisbane, Adelaide, Sydney, Townsville. La nascita del
movimento per la radiofonia comunitaria aborigena rappresentò una costola
del più vasto movimento per i diritti civili nato a partire dagli anni Settanta
in poi, con il riconoscimento – nel 1967! – della cittadinanza australiana e
del diritto al voto. Il governo australiano riconobbe presto la legittimità delle
richieste avanzate dal movimento e alle radio pirata venne concessa una
regolare licenza di trasmissione. Da quel momento in avanti il numero delle
stazioni radio aborigene ha continuato a crescere e, grazie anche ai contributi
statali, oggi le stazioni comunitarie aborigene in tutto il paese sono 22, alle
quali si aggiungono altre 150 stazioni locali che ricevono la maggior parte
della programmazione da una stazione-madre, di solito una delle 22 emittenti
comunitarie riconosciute dallo Stato. Queste 150 stazioni, le cosiddette RIBS
(Remote Indigenal BroadcasterS), sebbene producano soltanto dalle 2 alle 6
ore al giorno di programmazione autonoma, hanno un ruolo rilevante per
le comunità aborigene che risiedono in luoghi geograficamente remoti (in
Australia ce ne sono molti).
Radio 8KIN
Alice Springs è fatta di case basse, villette autonome con un piccolo giardino
di fronte. Quelle più bene messe hanno il tetto in legno, le altre, in lamiera.
Qui non manca certo lo spazio, e quindi l’architettura della città è dilatata.
160
Anche se vi abitano non più di venti-trentamila persone, Alice sembra molto più grande e per spostarsi tutti usano la macchina, meglio, il fuoristrada,
visto che in un attimo ti ritrovi nel deserto. A vederla dall’alto sembrerebbe
un accampamento romano, tanto è geometrica la distribuzione delle vie, una
ortogonale all’altra, a comporre una scacchiera di quadrati di terra rossa incorniciati da nastri d’asfalto. Eppure è semplice trovare Radio 8KIN. Mentre
camminiamo verso il centro ci imbattiamo in un edificio più alto della media, con una bella entrata a vetri e una scritta sulla facciata troppo grande per passare inosservata: Central Australia Aboriginal Media Association.
Questo palazzo di due piani è la sede di molte cose, tra cui la prima radio
aborigena d’Australia.
All’interno scopriamo una bella sede con 4 studi ed incontriamo Jim
Remedio. Conosce Radio Popolare e l’ha anche visitata, perché nel 1998 è
stato a Milano per il convegno internazionale di Amarc organizzato proprio
da RP. Jim è uno dei fondatori del movimento per la radiofonia comunitaria
e da due anni dirige Radio 8KIN: “L’obiettivo primario di Caama è dare
voce agli aborigeni e trattare le notizie da una prospettiva aborigena. Noi
consideriamo la Radio un “basic right”, un diritto primario. La radio è utile
per mantenere la nostra cultura e la nostra lingua, che è la ragione più forte
per la quale gli aborigeni aprono delle radio”.
È la “teoria del bastoncino elettronico”, una teoria che avevo sentito
raccontare qualche giorno prima a Melbourne, da Florence Onus: “La nostra
storia, le nostre lingue, i nostri racconti e tradizioni sono tramandate da una
generazione all’altra attraverso l’oralità, quindi la radio è un mezzo perfetto
per gli aborigeni, perché è come un’estensione della nostra cultura. Secondo
la nostra tradizione, noi eravamo abituati ad utilizzare un bastone intagliato
come mezzo di comunicazione tra tribù lontane. Se volevi mandare un
messaggio ad una tribù distante ad esempio 300 kilometri, dovevi attraversare
vari territori e varie tribù. Per questo usavamo un bastone speciale, lungo
circa un metro e mezzo, su cui venivano intagliati dei simboli speciali che
stavano a rappresentare il messaggio da mandare all’altro clan. Il bastone
veniva fatto viaggiare di tribù in tribù e veniva intagliato ad ogni confine per
segnalare il passaggio finché non arrivava a destinazione, 300 km più in là.
Così oggi gli aborigeni usano la radio come un nuovo bastone elettronico”.
161
“Caama”, prosegue Jim, “è un servizio satellitare, da qui inviamo
programmi radio via satellite a 10 stazioni remote che fanno parte del nostro
network” (ecco, il satellite è il nuovo bastone tradizionale, in fondo). Mentre
chiacchieriamo, nel corridoio sul quale si affacciano gli studi, in sottofondo
scorre il flusso della radio: stanno trasmettendo musica “americana” (in
inglese) e allora gli chiedo come mai, “Non era una radio aborigena, questa?”
“Più o meno il 70 per cento della musica che trasmettiamo è aborigena,
perché Caama è anche un’etichetta musicale che produce musicisti aborigeni,
ma non siamo integralisti! Abbiamo anche una politica per cui il 70 per
cento dei dipendenti deve essere aborigeno.”
Entriamo nello studio che sta andando in diretta. Al microfono un dj
aborigeno sta finendo di dare le notizie sportive. Tra una canzone e l’altra ci
racconta che viene da Brisbane, dove ha iniziato a fare radio in una stazione
commerciale. Ma preferisce la radio comunitaria, “perché è più vicina alle
persone”. Radio 8KIN, oltre alla musica, ha un “microfono aperto” con gli
ascoltatori, fa informazione sui problemi di salute degli aborigeni e ha una
trasmissione di necrologi molto seguita dalle comunità aborigene che vivono
in luoghi remoti. Jim ci dice che il 56 per cento degli ascoltatori di radio della
regione del Central Australia ascoltano una radio comunitaria e se lo spiega
perché “la radio comunitaria è un servizio, e in un territorio così desolato, è
un servizio particolarmente utile.”
Lasciamo la radio sulle note di una canzonetta country in lingua
aborigena. Sembra Johnny Cash, Stati Uniti, invece è Alice Springs, Australia.
La radio di Danilo Dolci
Non mi sorprenderei quando i poveri cristi si decidono a montare una radio per
sentirsi e per farsi sentire una radio anche piccola come in montagna per la resistenza
oppure a Praga non mi sorprenderei se corazzate, elicotteri vispi si lanciassero
cercando di afferrarla e denunciarla per avere tentato di turbare l’ordine pubblico.
(Danilo Dolci, Il Limone lunare)
Questa è la storia della prima radio libera d’Italia. Non è Radio Alice. Non
162
c’entra Bologna. C’entra la Sicilia. È una storia molto radiogenica, anche se
poco conosciuta, ed inizia così:
“Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova
resistenza. Siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo, ascoltate: si sta compiendo
un delitto di enorme gravità; assurdo. Si lascia spegnere una intera popolazione.
La popolazione delle valli del Belice, dello Jato e del Carboni, la popolazione della
Sicilia occidentale non vuole morire…”
Così si aprirono le trasmissioni di Radio Libera Partinico, la prima radio libera d’Italia, il 25 marzo 1970, 39 anni fa. Danilo Dolci, l’intellettuale che
aveva ideato la radio, denunciava all’Italia intera il continuo disagio nel quale erano obbligate a vivere numerose famiglie siciliane a più di due anni di
distanza dal terremoto del Belice (gennaio 1968). Il governo italiano non
aveva ancora effettuato nessuna ricostruzione: tutte le autorità competenti,
sollecitate più volte ad intervenire, vegetavano, disinteressandosi della popolazione e della salute dei cittadini.
Quel giorno di marzo la radio trasmise un appello all’opinione pubblica
nazionale e internazionale; la voce della gente delle valli Belice, Jato e
Carboni; un dibattito sulla mancata ricostruzione; il poema Il limone lunare;
alcuni messaggi di solidarietà provenienti da tutto il mondo e una canzone
popolare con versi di Ignazio Buttitta!
L’avventura di Radio Libera durò appena 27 ore. Alle 22 del 26 marzo
1970, le Forze dell’Ordine irruppero nella sede della radio sequestrando
gli apparecchi trasmittenti. Pino Lombardo, uno degli assistenti di Dolci
presenti all’interno di Palazzo Scalia, ricorda: “Abbiamo intervistato decine
e decine di persone della zona terremotata, per vedere qual era la situazione
comune per comune, cosa pensava la gente, cosa desiderava, cosa avrebbe
voluto. La sera, verso le dieci e mezza del giorno successivo, sono arrivate
le Forze dell’Ordine. Sono entrati, subito hanno spento la radio, hanno
sequestrato tutto. Quando siamo scesi, con grande sorpresa abbiamo trovato
lo spiazzale davanti a Palazzo Scalia pieno di giovani. Erano quasi le undici,
e i giovani ci hanno detto che erano disposti a fare una barriera umana per
163
cercare di impedire in qualsiasi modo che ci portassero via, nell’ipotesi in cui
ci avessero voluto arrestare”.
Tutto questo è accaduto in Italia, 39 anni fa. Danilo Dolci aveva capito
il potenziale sociale della radiofonia. Negli anni Settanta era relativamente
facile mettere in piedi una radio e trasmettere ai quattro venti le note di Janis
Joplin e De Andrè, raggiungendo migliaia di persone. Ed oggi?
Oggi, nonostante internet, non esiste più niente di paragonabile alla
potenza di un mezzo di comunicazione di massa in mano alla società civile.
Esistono le radio comunitarie, sì, esistono radio come Radio Popolare. Ma
l’etere di oggi è sempre più povera di suoni e di idee. L’etere di oggi non è
radiogenica. Sono troppo pessimista?
Radio B92, Belgrado. Un ricordo
Un amico è appena tornato da Belgrado e mi ha detto: “Una mattina ero in
giro in taxi. La radio era accesa e mandava un mix di musica elettronica e
indie rock. Mi piaceva, suonava diversa dalla solita radio italiana. Allora ho
pensato a te, che chiedi sempre ai tassisti che radio ascoltano. – Radio B92 –
mi ha risposto, – da quando esiste – ha poi aggiunto, alzando la manopola
della radio”.
18 anni fa, il 15 maggio 1989, nasceva Youth Radio B92 e nessuno
avrebbe scommesso che quella radio fatta d’artisti, studenti appassionati di
punk e giornalisti dissidenti avrebbe sfidato la dittatura di Milosevic fino a
diventare, oggi, la stazione più ascoltata della capitale serba. Radiogenìe di
questo mese è dedicata a B92 per tre motivi: perché B92 nacque di maggio,
perché è da poco uscita una nuova edizione inglese del libro (stupendo)
che ne racconta la storia, Guerrilla Radio. Rock’n’roll radio and Serbia’s
underground resistance (Matthew Collin, Nation Books editore) e perché ad
ascoltarla oggi via internet (www.b92.net) suona ancora “radiogenica” come
negli anni Novanta, quando le sue playlist trasmettevano Nevermind (1991),
Bjork (1993), Massive Attack (1994), Dj Shadow e il Beck di Odelay (1996).
2 Aprile 1999. Belgrado. Sulla città piovono le bombe della Nato: Radio
B92 viene chiusa per la quarta volta dal regime di Milosevic. Scrive Matthew
Collin: “Il direttore, Veran Matíc, e tutta la redazione furono sostituiti da
164
giornalisti fedeli al regime. Ai conduttori venne proibito di trasmettere
qualsiasi disco di musica rock o techno occidentale, imponendo invece la
trasmissione di sola musica yugoslava, il pacchiano yougo-pop e il turbofolk, una sorta di techno etnica, oppure musica di nazioni “amiche” come la
Russia o la Grecia”. Ma la redazione della radio appartiene alla bit generation,
siamo nel 1999, non nel ‘68, di lì a qualche mese a Seattle sarebbe esplosa, via
internet, una nuova contestazione globale. B92 decide di emigrare in Rete, e
trova ospitalità nei server olandesi di X4all. In internet inizia a girare uno spot
di B92 che chiede aiuto alla comunità internazionale. La musica di sottofondo
è quella di Sexy Boy degli Air. B92 inizia a trasmettere in rete, via streaming,
e per raccogliere fondi e attenzione internazionale organizza un happening
mediatico via internet: il Net Aid, ventiquattro ore di trasmissioni dislocate in
più città europee (Amsterdam, Londra, Vienna) per convogliare l’attenzione
sulla repressione mediatica in atto in Serbia e celebrare i dieci anni di Radio
B92. Concerti, dj sessions, conversazioni provenienti dalle città europee. Una
babilonia sonora fondata sul modello comunicativo di network, che ha avuto
soprattutto un valore simbolico, come afferma Glyn Pickett, una conduttrice
di Radio B92: “Il Net Aid ci ha permesso di continuare ad esistere, far sentire là
fuori la nostra esistenza. Se non avessimo avuto internet saremmo scomparsi.
In una situazione in cui ogni minuto è decisivo per il tuo futuro, per la
tua sopravvivenza, noi dovevamo esserci. Dovevamo fare qualcosa, anche se
eravamo stati sbattuti fuori dalla radio. Ci ha permesso di rimanere sani, ha
tenuto insieme il gruppo, le redazioni, facendoci sentire parte di qualcosa, in
una situazione dove la vita quotidiana non aveva più senso, in cui ti sentivi
impotente. Il Net Aid credo sia servito più a noi, che a chi l’ha ascoltato.”
B92 è diventata l’icona della resistenza interna a Milosevic, ma anche
dell’opposizione alle bombe della Nato. La resistenza è passata non solo
attraverso l’informazione indipendente, ma anche tramite le scelte musicali,
l’ironia e l’uso intelligente delle nuove tecnologie. Oggi B92 è forse un po’ più
“mainstream” di allora, ma è anche molto più radicata nella società: è una
fonte autorevole, una etichetta discografica, un portale di informazione, un
negozio di musica on line, sfrutta appieno i podcast e il marketing on line. La
sua playlist però conserva ancora l’anima indie e dimostra come si può rimanere
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“alternativi” e indipendenti anche diventando “grandi”. Buon ascolto!
La police vous parle tout le soirs a 20h
L’altro giorno ero alla Sormani, la biblioteca comunale di Milano, e mi sono
imbattuto in un librettino bellissimo, Bilancio di Maggio, di Philippe Labro,
tradotto e pubblicato da Mondadori pochi mesi dopo il maggio francese, in
cui una giornalista e sociologa, Evelyne Sullerot, racconta il ruolo dei transistor in quelle notti di barricate. Mi sono convinto che l’uso della radio durante il maggio fu tra i più radiogenici della Storia e va quindi rispolverato.
Azione!
Quarant’anni fa. Maggio, come oggi. La Francia, scriveva pochi mesi
prima un giornalista francese, “si annoia”. Poi, improvvisamente, scoppia la
“rivoluzione”. Una rivoluzione che per la prima volta passa anche via etere,
dai microfoni di RTL e di Europe 1 e dai transistor portati con disinvoltura
sulle barricate.
La radio e la televisione di stato, la ORTF, è accusata di non dire la verità
e di manipolare la realtà. Le uniche radio affidabili, almeno nei primi giorni,
sono RTL34 e Europe 1:
Nel fuoco dell’azione e degli scontri (la notte del 12 maggio) RTL ha
finito con lo svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione tra il rappresentante
del rettore e alcuni dei capi della rivolta trincerati dietro le barricate. Certo è
sorprendente che dei giornalisti abbiano abbandonato il loro vero compito,
quello di informare, per diventare gli assistenti di un tentativo di negoziato.
[...] Ci si è dovuti poi rendere conto – e i responsabili di RTL ne hanno poi
preso coscienza – di quanto equivoca stesse diventando la loro posizione (Le
Monde, 13 maggio 1968).
RTL provocò un fatto di rilievo nella storia dell’informazione: la trattativa,
con la mediazione dei suoi microfoni, fra Alain Geismar (uno dei leader
studenteschi) da una parte e il vicerettore della Sorbonne, Chalin, dall’altra.
“La notte tra il 10 e l’11 maggio”, ricostruisce la Sullerot, “erano state
costruite barricate in rue Gay-Lussac. I transistors, con i volumi al massimo,
34
Radio Tele Lussemburgo, emittente privata che trasmetteva dal Lussemburgo ma aveva gli studi nel
cuore di Parigi.
166
erano posati sui balconi, sui davanzali delle fienstre aperte, sui pavés gremiti.
Stereofonia totale. Dappertutto ci si immergeva nel suono dell’avvenimento:
c’era un’istantaneità totale fra avvenimento e informazione, fra l’informazione
e la sua ricezione”35.
La folla scesa nelle strade era figlia del proprio tempo: in piazza c’era
la prima generazione televisiva, c’era una generazione che aveva sviluppato
un’alfabetizzazione ai media superiore a quella “immaginata” dai produttori
dell’informazione. Era una generazione consapevole di essere “sotto i
riflettori”, di essere “in onda”:
Era fantastico. Dopo anni di balle e cretinate, ecco che dai transistors
si sentiva venir fuori il racconto della verità...Fatti! Fatti! Quelli della radio
erano stati presi in contropiede dal proprio mestiere. [...]. E noi non eravamo
più in un ghetto, ma in una casa di vetro. Mi sembrava che tutta la vita
pubblica sarebbe cambiata, se ci si metteva a parlarne (uno studente).
“Il 6 maggio ero a Denfert-Rochereau. Da là, sono andato a Saint Germain
de Près. Molti avevano il transistor. Era meraviglioso. L’informazione era
istantanea e ciascuno poteva elaborare la sua strategia personale. Ho avuto
la sensazione che gli individui non stessero più nella folla come pecore nel
gregge. Riflettevano. Si stava a grappoli intorno ai transistors, a sentire. Poi si
ripartiva, dopo aver ascoltato ci si autodeterminava, magari scambiando due
parole con quelli che avevano ascoltato insieme a noi” (uno studente).
I produttori dell’informazione sono stati presi in “contropiede” dal
proprio pubblico. Pensavano di parlare a un pubblico incatenato nella grotta di
Platone, al pubblico “che sta a casa”, invece il flusso informativo radiofonico,
complice la portabilità e l’agilità del transistor, venne “intercettato” dai
manifestanti/ascoltatori, che lo utilizzarono a proprio vantaggio, per
amplificare il proprio messaggio o per sfuggire ad una carica, facendo dei
transistor un’“arma” artigianale di difesa e resistenza nei confronti delle
forze della polizia. Inaugurarono così un nuovo utilizzo della radio come
fonte di informazione e mobilitazione sociale, come strumento “tattico”.
Buon maggio a tutti. E se andate in manifestazione, portatevi la radiolina.
35
Evelyne Sullerot, Transistors e barricate, in Philippe Labro, Bilancio di maggio, Milano, Mondadori, 1968.
167
Lo spettacolo del suono radiofonico
La voce è il messaggio
“In questi giorni sto lavorando ad uno sceneggiato radiofonico”. Sembra una
frase d’altri tempi, eppure è quello che ho risposto ad un amico l’altro giorno
al telefono. Ogni mattina entro in studio con il tecnico e l’attrice a registrare
testi, ripulire tracce, montare puntate. Se qualche fantasma dello sceneggiato del passato entrasse oggi nella stanza dove lavoriamo non si accorgerebbe
del tempo che è passato. Lo studio è sempre lo stesso, i microfoni anche.
Quando le cose sono buone non c’è bisogno di cambiare. I tecnici, anche loro, è probabile che siano gli stessi dell’epoca d’oro della prosa radiofonica. A
parte Pro Tools al posto del registratore a bobine, non molto è cambiato. Ed
il lavoro è sempre stato bello, da fare. A prescindere dalla radiogenìa o meno
del risultato finale, registrare uno sceneggiato è un lavoro meraviglioso e utile all’orecchio, perché fa emergere la voce dell’uomo, lavora su di essa, sulle
sue sfumature di senso e di grana. Otto ore al giorno in uno studio a concentrarsi solo sulla parola parlata, su frasi ripetute anche venti volte finché
non imbrocchi il tono giusto, allenano l’orecchio a godere della complessità
e della bellezza della voce elettrificata.
La stessa frase può essere pronunciata con toni diversi, volumi
differenti, distanze dal microfono (piani sonori) modificate. Il microfono
rappresenta l’orecchio dell’ascoltatore. E sussurrare una frase vicino ad
esso è come bisbigliargli nell’orecchio. E allora con l’attrice mi diverto
168
a giocare col microfono, a scegliere i piani sonori, i volumi, il ritmo.
E mentre dall’altra parte del vetro l’attrice si dimena muta davanti al
microfono, con le cuffie che la rendono quasi un fumetto, con le mani
che vorticano a simulare gli umori del testo, con i fogli che volano
dal leggio, io chiudo gli occhi e mi concentro sul flusso sonoro della
sua voce che esce dagli altoparlanti dello studio. E hai orecchio per le
sillabe stropicciate, arrotate, arrotondate, per l’errore come per il pezzo
di bravura e ti accorgi che il testo in radio conta meno della voce che
gli dà vita, che il modo in cui fai vivere un testo, anche fosse quello di
uno spot pubblicitario, non può non condizionare l’esperienza d’ascolto
di chi è dall’altra parte. Certe voci, per via del timbro, del ritmo, del
cuore che ci mette l’attore, sono capaci di tenerci lì, attaccati, anche
se leggessero la lista della spesa. Se c’è un motivo, oltre ad una trama
attraente, per cui vale ancora la pena fare gli sceneggiati radiofonici
oggi, questo è la voce. Mai come in questo genere la voce umana
acquista così risalto sulla scena, mai come nella prosa si può apprezzare
la potenzialità espressiva della voce, l’intimità che è capace di creare.
Una volta un detenuto in isolamento di un carcere milanese mi ha
raccontato quanto fosse importante per lui la radio in cella, perché da
anni non vedeva una donna e alla radio lui poteva ascoltare le voci delle
donne. Radio e telefono sono mezzi caldi, diceva McLuhan. L’email, la
chat, l’sms, sono mezzi freddi: anche la più bella lettera d’amore, via
email, ha un potere di coinvolgimento inferiore ad una lettera mediocre
letta dalla voce amata. Perché molto spesso, come diceva bene Marshall,
il mezzo è il vero messaggio: è la voce di chi amo, non il contenuto
della sua lettera, che fa sentire caldo al collo. Anche nello sceneggiato
vale la stessa cosa: il mezzo – la voce – è il messaggio. A Leningrado,
durante l’assedio, i conduttori della radio russa continuavano a leggere
poesie, anche sotto gli attacchi, perché il suono di quelle poesie lette in
diretta era il simbolo della vita che andava avanti, nonostante la guerra.
Trasmetto, dunque (ancora) esisto: questo è il primo messaggio che
arriva. L’estetica della voce viene prima della validità dei suoi contenuti.
Questa è l’unica cosa che ho imparato in un mese di sceneggiato.
169
Il secolo delle cuffie
“Quando entro in una casa in cui una radio è a tutto volume, ho l’impressione
di diventare pazza. Un indicibile tormento, dovunque dentro di me. Pensavo di
dovermici abituare. E così questa mattina ne ho messa una in casa mia, per prova. È
come se delle api sciamassero lungo il mio sistema nervoso. Tutti i nervi in tensione.
Quell’orribile voce metallica provoca in me un rabbioso risentimento. Dopo un
secondo ho dovuto spegnerla. Era impossibile sopportarla. Forse il mio udito imperfetto? È uno dei prodigi della nostra epoca, una meraviglia. Certo che lo so, ma la odio.”
1936. L’artista canadese Emily Carr, che scriveva e dipingeva nella solitudine della Columbia Britannica, ci ha provato, ha portato a casa una radio.
D’altronde ce l’hanno tutti, nel 1936, una radio in casa. Ma non ce l’ha fatta. L’invasione di quella successione di suoni nuovi la sfianca, le sembra un
fenomeno brutale. La sua casa è un rifugio dell’anima, e non permetterà che
venga violato dai suoni del “mondo là fuori”. Forse Emily avrà anche avuto
i nervi particolarmente sensibili, ma è vero che l’arrivo della radio nello spazio privato, domestico, delle case borghesi (prima) e operaie (poi) di mezzo
mondo aveva rappresentato una rottura netta con il passato. Anche la frontiera dello spazio privato era caduta. L’era elettrica – ci insegna il maestro
dell’ecologia sonora, Murray Shafer – ha portato con sé la schizofonia, la separazione del suono dalla sua fonte originale. Microfoni, vinili, grammofoni
e apparecchi radio rendevano possibile la cattura di un suono e la sua riproduzione nello spazio e nel tempo. Nelle case, nei locali pubblici, nelle strade
iniziò a risuonare un flusso surreale di musica, parole, notizie, radiodrammi,
concerti, pubblicità rappresentato dal montaggio radiofonico.
Il paesaggio sonoro naturale delle città occidentali, già condizionato
dal rumore delle industrie e delle automobili, ora si “arricchiva” di ulteriori
sonorità. Negli anni Trenta la radio aveva già colonizzato gli spazi pubblici:
la propaganda di regime passava attraverso gli altoparlanti (“Non avremmo
conquistato la Germania senza...altoparlanti”, scriveva Hitler nel 1938).
Nel dopoguerra arriva la radio a transistor, portata a spasso per le strade
dai teenagers (e in Italia dai tifosi di calcio, vedi scena iniziale di Ladri di
170
Biciclette). Nel 1975 la BBC ha iniziato a trasmettere i propri programmi
nelle stazioni ferroviarie. In Australia fin dal 1973 la ABC trasmetteva invece
direttamente negli scompartimenti dei treni. Oggi il suono della radio è
ovunque, invadente, tracimante. Centri commerciali, supermercati, negozi,
vicoli dei centri storici durante le feste, stazioni ferroviarie, stazioni della
metro, stazioni degli autobus. Nella metropolitana di Roma si sente – mi
pare – Radio Capital (e qualcuno deve aver fatto un contratto di esclusiva
con l’azienda romana dei trasporti). A Milano no, ma in compenso c’è uno
schermo che trasmette quasi solo pubblicità ad alto volume. Tutto questo
ha un nome. Non è solo inquinamento acustico. È imperialismo sonoro
(vedi Murray Shafer, sempre lui, in Il paesaggio sonoro, 1977). Qualcuno, che
io non conosco, impone alle mie orecchie la colonna sonora alla mia vita
pubblica. Ovunque.
Questa è una rubrica di radio, è vero. Ma io vi dico: ribellatevi, scrivete
alle aziende di trasporto locale, ai direttori dei centri commerciali, chiedetegli
di spegnere la radio. La radio in pubblico non è radiogenica. La radio è
intima. Il novecento è stato il secolo degli altoparlanti. Il ventunesimo secolo
sarà quello delle cuffie?
“Sesso. Ho capito”: ovvero quando la radio si incrocia con la vita quotidiana
Stavo rientrando a casa in macchina, in coda, in tangenziale e mi capita di
sentire Linus che parla su Radio2, con quelli di Caterpillar. Qualcosa non quadra, penso. Controllo la radio. Invece è proprio Linus, ed è proprio Radio2.
Stanno festeggiando i quindici anni di Caterpillar e hanno chiesto a Linus
come Caterpillar, in questi anni, è entrata nella sua vita. Poi arriveranno gli
ascoltatori, come sempre, a ricordare i momenti in cui Caterpillar è entrato
nella loro vita, un episodio particolare, un momento in cui la loro vita si è
legata alla radio. Chiama un’ascoltatrice. Ricorda una sera di sei anni fa: era
in coda in tangenziale e stava ascoltando Caterpillar. I conduttori avevano
chiesto a chi era in coda di scendere dalla macchina e bussare al finestrino
della macchina accanto, e offrirgli un caffè. L’ascoltatrice ascolta, chiusa nella sua bolla, in coda. Ad un certo punto sente bussare al finestrino, una faccia simpatica si affaccia oltre lo schermo, fuori, al freddo. Sorpresa, tira giù
171
la barriera, e lo sconosciuto si presenta: “Salve...sto ascoltando...Caterpillar,
dicono di bussare al finestrino e offrire un caffè a chi è in coda come noi...
ecco...se vuole...le offrirei un caffè...”. L’ascoltatrice ci pensa su, dice fra sé:
“Se sta ascoltando Caterpillar non può essere un pazzo maniaco” e accetta.
Vanno a prendere il caffè, parlano...parlano...parlano....parlano e alla fine si
scambiano i numeri. Poi si vedono ancora, e ancora, e ancora. L’ascoltatrice
dice che sono rimasti amici. Il conduttore le chiede se “solo amici o anche
sesso?”, lei risponde: “Non si può dire”, lui allora chiosa: “Sesso. Ho capito”.
Ecco, quando uno si chiede a che serve la radio (non solo a fare sesso)
questa è la storia che bisogna raccontare. Sembra banale, minima, piccola.
Eppure abbraccia il senso della radio. più di qualsiasi saggio, focus group o
ricerca di marketing. Questa storia restituisce il senso del proprio lavoro a chi
la radio la fa tutti i giorni, chiuso nel suo studio a parlare ad un microfono,
e restituisce il senso del proprio ascolto per chi la riceve, chiuso nel suo
abitacolo, ogni giorno. La radio fa da tessuto connettivo alla comunità, la
tiene insieme, restituisce un senso alla dimensione del “noi”, all’appartenere
a qualcosa, anche soltanto ad un pubblico che si riconosce in una
trasmissione. La radio sembra scontata, comune, come l’aria, ce l’abbiamo
sotto mentre cuciniamo la pasta con le acciughe, mentre telefoniamo a
casa, mentre rientriamo in macchina dopo una giornata difficile, mentre ci
mettiamo in auto prima di una giornata difficile. Una scatola insignificante,
a volte fastidiosa, qualunquista e moralista, eppure a volte così sublime. Se
vi fermaste a pensare per un secondo ad un momento in cui la radio ha
incrociato la vostra vita quotidiana, sono sicuro che tutti voi ne ricordereste
facilmente uno. Magari non vi ha cambiato la vita, magari non vi ha fatto
finire a letto con uno sconosciuto, ma vi ha fatto sentire meno soli, più vicini
a qualcuno come voi, che non conoscete ma che sapete che c’è, che ascolta
con voi, e che vi assomiglia. E allora il mondo vi sarà sembrato un po’ meno
ostile. Se la radio vi spinge fuori dalla macchina a bussare al finestrino del
vicino, allora significa che quella è davvero una buona radio.
Radio on the road
Questa estate ho fatto un viaggio in macchina. Ho attraversato la Baja
172
California messicana, passato il confine a Tijuana, risalito su per la costa fino a San Francisco. Sempre con la radio accesa. Questo è il racconto delle
frequenze che ho intercettato lungo i 4000 kilometri percorsi.
Mariachi e musica popolare, chitarre trombe e parole strappacuore.
Questa è la litania di fondo ad ogni longitudine messicana (fatto salvo le
ampie zone di deserto dove non arriva nulla, né le onde radio, né quelle
telefoniche. Ce ne siamo accorti a spese nostre, perdendoci per tre giorni nel
deserto della Baja California Central: la radio suonava solo rumor bianco, il
telefono non prendeva, intorno solo silenzio). Spostando da sinistra verso
destra il cursore dell’autoradio si sente soltanto musica popolare e tanta
pubblicità dai bassi gonfi di compressori. È come ascoltare un’unica radio dal
sud al nord della penisola. Fa eccezione la radio universitaria di Ensenada,
che trasmette molto jazz e programmi parlati. Eppure, mentre attraversiamo
il deserto di Vizcayno, tutto cactus e terra riarsa, oppure mentre ci lasciamo
alle spalle i paesi polverosi della costa, la musica popolare che esce dallo
stereo sembra la naturale colonna sonora di questi luoghi. Assomiglia al
liscio delle balere d’Emilia, delle sagre paesane del centro Italia, e qui, in
questo ambiente, la preferisco al segnale delle radio americane di San Diego
che mandano rock anni Settanta. Ogni luogo ha una sua musica, un suo
suono specifico. Alcuni di questi suoni sono esportabili, altri meno. Mentre
fuori dal finestrino scorrono cowboy messicani dal passo felpato e insegne
pitturate a mano di take away di tacos e mariscos, il mariachi in sottofondo
ha le sue ragioni di risuonare nell’aria. Una volta passato il confine, la risalita
verso San Francisco apre nuovi scenari sonori.
Se si esclude la costante presenza maggioritaria delle hit radio, radio
musicali generaliste e conformiste, che occupano buona parte dell’etere, si
scopre che ogni città, ogni zona, ha il suo suono, che racconta qualcosa del
posto che stai attraversando.
San Diego è surf, Los Angeles è rock e punk e musica latina, Santa
Barbara è rock (http://www.kcsb.org/), Santa Cruz è indie-punk (notevole
la community radio locale, KZSC, 88.1 fm (http://kzsc.org/), San Francisco
è jazz (quasi solo cool jazz), soul e r’n’b (ottima Kiss Fm 98.1 mhz, dove
ho ascoltato un documentario su Michael Jackson mentre attraversavo il
173
Golden Gate Bridge: http://www.981kissfm.com/main.html), indie (http://
www.kusf.org/, 90.3 fm).
Ma qui a San Francisco è anche nata il più importante network
indipendente, Pacifica radio: http://www.kpfa.org/, una stazione comunitaria
che dà voce al “dissenso” dal 1949. Negli studi di Pacifica non riesco a
passare ma riesco comunque a chiudere il mio on the road radiofonico negli
studi di un’altra storica radio: Kalx radio 90.7 Fm, la radio dell’Università
di Berkeley, nata nel 1962. Da questi microfoni sono passate le proteste
degli anni Sessanta. All’entrata una piccola bacheca mette in mostra alcuni
dei nastri di quell’epoca. La radio assomiglia a tante altre radio comunitarie
e studentesche che ho visitato in giro per il mondo. Studenti dinoccolati
e sdruciti, poster di concerti e di campagne di autofinanziamento, adesivi
ovunque, casino ovunque. Una sensazione di calore diffuso, da rifugio
anti-atomico. In questo momento il conduttore di turno, Marc, camicia a
quadrettoni gialli e neri, sta girando sui piatti un vinile di Shostakovich in
versione popolare, per passare, subito dopo, ad un tango argentino. Qui
vanno ancora molto, i vinili. Hanno un archivio infinito di dischi, dove
ognuno viene a servirsi, come al supermercato. Ci lavorano in tre, ma la radio
coinvolge circa 200 volontari. Questi sono i numeri di una piccola radio
comunitaria. C’è un po’ di movimento, perché l’Università ha riaperto ed è
iniziata la campagna di reclutamento di nuovi volontari. Annie, la ragazza
che mi ha accompagnato nella visita, mi regala un cd commemorativo dei 45
anni di attività: contiene le registrazioni dei concerti live degli ultimi anni.
Pensate al nome di un gruppo indie americano e lo troverete su questo cd.
Da questi studi, seppur angusti, sono passate le migliori band degli ultimi
anni, compresi i Talking Heads. Forse Kalx radio non è più sulla cresta del
tempo come negli anni Sessanta, ma continua a suonare una musica diversa
da tutte le altre radio, a distinguersi per il suo suono caldo, a volte un po’
sporco. È il suono del vinile. È il suono di Berkeley, dall’altra parte del Bay
Bridge. Perché è così, io ci credo: ogni luogo ha il suo suono. Stay tuned.
Teorie e tecniche della playlist secondo David Byrne
Su questo argomento, lo so, potreste dividervi in due parti esattamente
174
uguali: chi vuole una radio che trasmette solo musica, senza dj, e chi invece
adora sentir parlare qualcuno, farsi condurre. Se poi l’argomento diventa la
“playlist” delle radio, alé, si scatena l’inferno. Ma cos’è questo demone che
fa scannare tutti i programmatori musicali di tutte le radio del mondo come
se stessero discutendo di politica internazionale?
La playlist è quella lista di brani musicali che una radio trasmette
ogni giorno, in una sequenza (più o meno) ragionata. Ogni stazione radio
commerciale ne ha (dovrebbe averne) una che la differenzia dalle altre. Per la
radiofonia commerciale la playlist è un dogma, una regola aurea, un manifesto
programmatico, il passaporto genetico in grado di certificare la propria
identità sonora. Ma se ormai le playlist delle maggiori radio commerciali
sembrano tutte uguali, in rete, tra le migliaia di web radio musicali esiste
sicuramente una playlist adatta ai nostri palati, una scaletta perfetta, magari
per un solo ascoltatore, ma pur sempre perfetta. E la solita domanda allora è:
Quanto è radiogenica la “playlist”? Poco, molto poco, se a compilarla sono i
programmatori radiofonici messi sotto pressione dalle case discografiche in
agonia, oppure da un nerd qualunque che crede di saper interpretare, sulla
sua web radio di Syracuse, i gusti musicali dei suoi simili. Ma la playlist può
diventare un concetto affascinante se a compilarla, ad esempio, ci si mette
gente come David Byrne.
Ecco, ci ho messo un po’, ma ci sono arrivato: il centro vero di questo
numero di Radiogenìe è la web radio di David Byrne (http://www.davidbyrne.
com/radio/), la radio che fa della playlist un’arte, una raffinata opera di
collage sonoro, che si può permettere di fare a meno del dj e trasformarsi in
un ininterrotto flusso musicale senza sembrare fredda e noiosa.
La stazione web è nata nel 2005 e sembra che l’ispirazione sia venuta al
musicista grazie a una sua amica che da New York si è trasferita in California.
Un giorno, in una mail, la donna ha confessato di provare grande nostalgia
per la curiosa miscela di musica che aveva occasione di ascoltare ogni volta
che passava a trovare Byrne nel suo ufficio. Questa osservazione ha spinto
Byrne a concepire l’idea di un’emittente via Internet. “Questa radio è la mia
risposta a quella email”, ha dichiarato Byrne.
Ogni mese il musicista inglese pubblica una nuova scaletta, una manciata
175
di canzoni che corrono sempre lungo un filo rosso comune. Questo mese la
playlist ripercorre il viaggio on the road da New York a L.A. fatto da Byrne
e sua figlia un mese fa, come una colonna sonora ideale del loro personale
coast-to-coast. “Mentre passavamo attraverso città e stati differenti, mi
venivano in mente canzoni legate ai luoghi che ci scorrevano accanto. Chuck
Berry aveva scritto New Jersey Turnpike, MFSB aveva fatto una hit disco, The
Sound Of Philadelphia e Eminem cantava Goodbye To Hollywood, così eccole
qua, nell’ordine”, scrive Byrne nel sito.
Ascoltarle è come scorrazzare con lui per gli Stati Uniti lungo la rotta
meridionale. Più in generale, ascoltare mese dopo mese la sua radio fa un
po’ l’effetto che potrebbe fare trovarsi David Byrne nel sedile accanto al
tuo durante un lungo viaggio in treno: tu continui a sbirciare il suo lettore
portatile per capire cosa sta ascoltando in cuffia e alla fine lui intuisce e ti
presta le sue cuffie. Quella di David Byrne è una delle più famose, ma di
radio “personali” ce ne sono moltissime on line (i primi sono stati i Beastie
Boys nel 1996) e hanno fascino proprio per questo gesto rituale di infilarsi
nelle cuffie di un altro, per la curiosità morbosa che genera la musica degli
altri (specie se conosciuti).
Bene, la lezione di oggi, Teorie e tecniche della playlist, termina qui. Ringraziamo il prof. Byrne per la presenza. (Applausi) ... Ok... grazie... alla prossima.
176
Tiziano Bonini è ricercatore in Linguaggi dell’Arte e dello Spettacolo all’Università IULM di
Milano, dove insegna Comunicazione Radiofonica.
Ha scritto La Radio nella Rete (Costa & Nolan 2006) e Così lontano, così vicino. Tattiche
mediali per abitare lo spazio (Ombre Corte 2010). È stato regista a Rai Radio2 ed è autore
radiofonico a Radio24.
La libreria di doppiozero è un nuovo modo per trovare in rete libri di qualità, scoprire nuovi
autori, rileggere testi dimenticati. doppiozero è un’associazione non-profit impegnata in iniziative
culturali innovative. È una rivista che legge criticamente l’attualità, una comunità di autori
e lettori e ora una casa editrice che offre la possibilità di acquistare libri elettronici in formato aperto,
senza criptazioni proprietarie, cioè liberi di essere usati, oggi e domani. Insieme a tutte
le altre nostre iniziative, la libreria è per doppiozero un’occasione di condivisione e di crescita comune,
un impegno con i lettori, un’anticipazione di futuro per la cultura.
Contribuite con noi a renderlo possibile.
associazione culturale doppiozero / via a. fioravanti 3 / 20154 milano / www.doppiozero.com /
%titolo% / © Tiziano Bonini per doppiozero / pubblicato a dicembre 2013 / isbn 98 8889 7685 289 / a cura di doppiozero /
redazione Luigi Grazioli / progetto grafico Paola Lenarduzzi (studiopaola) / impaginazione Paolo Vigorito
Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla Legge sul
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