Un filo di Arianna di Luigi Lombardi Satriani Irretiti nel labirinto delle nostre città, non siamo illuminati, come lo fu Teseo, dall’amore di Arianna e il nostro vagare si svolge prevalentemente nell’oscurità. Costruttori noi stessi, come Dedalo, del labirinto, quando restiamo rinchiusi con i nostri figli in esso, ci è estremamente difficile, a differenza del costruttore ateniese, fabbricare delle ali di penne e cera per sottrarci con il volo alla chiusa datità labirintica. Ove questo ci riuscisse, anche noi, a somiglianza di Icaro, rischieremmo di avvicinarci troppo al sole e pagheremmo l’imprudenza, la temerarietà precipitando in mare. L’itinerario di Teseo ha intenso valore emblematico. «Teseo entra nel labirinto che, nei suoi meandri, secondo Colli, è emblema del logos. Ma anche il filo, che gli permette di procedere senza perdersi, il simbolo dello stesso logos, che presenta dunque, nel suo affacciarsi nel mito, un duplice aspetto, un’ambigua esistenza: il luogo del pericolo, dell’ombra e degli anfratti e, al contempo, è lo strumento della vittoria della luce sulla tortuosa oscurità e sui mostri che essa contiene e nasconde. Ma il simbolo non è ancora compiuto: si completa e si fa profetico del potere del logos nell’immagine della spada implacabile che Teseo stringe nel pugno, che perfeziona e rende micidiale, col suo filo tagliente, il filo di Arianna. Con la spada Teseo ucciderà il Minotauro. Con la spada egli dovrebbe dunque rendere inutile l’esistenza stessa del labirinto. La spada taglia e apre il varco che dovrebbe annientarlo. Ma è veramente così? [...] Ogni volta che esso [il mito] viene raccontato, ripreso in tutte le sue possibili varianti, la narrazione fa rinascere il tortuoso labirinto, le sue buie volute e i suoi ciechi meandri, e, al centro ancora una volta il terribile e disperato muggito del Minotauro. L’oscurità non è mai vinta per sempre. Sempre si riaffaccia davanti ai nostri occhi. La luce, che credevamo conquistata, scrive sull’orizzonte del nostro sguardo le sue cifre di ombra. […] La conoscenza stessa questo stesso superamento che ci fa pervenire allo “stato d’animo contrario” alla meraviglia. Il geometra non si meraviglia più di fronte all’immagine dei meandri del labirinto, “ma se la diagonale è commensurabile al lato” (Met., 1, 2, 983 A): se, cioè, l’esito della sua ricerca non corrisponde ai postulati razionali della stessa»1 . Alcuni monumenti romani sottolineano il nesso labirinto e tomba. Lo ha ben visto Kàroly Kerényi, per il quale «al primo posto andrà collocato Castel Sant’Angelo, il Mausoleum Hadriani. […] in questa possente opera edilizia l’ingresso conduce, attraverso un percorso a spirale che si avvolge verso sinistra, fino alla camera mortuaria; si tratta di un vero e proprio labirinto in salita, costituito dalle doppie mura del tamburo, il quale s’innalza al di sopra di una base quadrata, e circoscrive a sua volta una torre quadrata: questa congiunzione del cerchio e del quadrato trasforma l’immenso mausoleo, proprio come il mondo intero, in un’espressione della totalità. Quanto agli altri due monumenti, uno era già noto nella letteratura scientifica, ma acquista un valore decisivo solo alla luce in cui tento qui di interpretarlo. Si tratta di un monumento di marmo che si fregia di un’ iscrizone greca. Il luogo in cui il monumento si trovava in origine viene chiamato con particolare insistenza labyrintbos. “Per i vivi - dice l’iscrizione - questa è una strada ingannevole. Voi amici, dovete sempre gioire del labirinto”. […] Pare davvero che i Marmorarii siano perfettamente coscienti del fatto che il labirinto non è una “strada ingannevole” bensì un passaggio sicuro, così per i morti come per loro stessi: e infatti, proprio come i morti, anch’essi, nella loro comunità cultuale, vengono condotti a salvamento da Serapide. L’ultimo monumento è un mosaico che produce un labirinto; è stato scavato e riportato alla luce nei pressi della piramide di Cestio, dove probabilmente dovevano trovarsi anche dei resti di monumenti sepolcrali. Le sue dimensioni dovevano essere cospicue; la parte conservata (forse un quarto dell’intera opera) è stata restaurata e ricondotta al livello attuale. Presenta una combinazione del tardo schema dell’intrico di strade a meandri (quello che oggi è conosciuto semplicemente come “labirinto” [...]. Sul luogo del suo ritrovamento, nella parte più vecchia del cimitero protestante, nella stessa zona in cui si trova anche la tomba di Keats, sullo sfondo della piramide, spicca con la fissità di un gesto arrestato sul nascere: un gesto che indica la strada che passa - come è noto - accanto alla tomba di Cestio, e che a quella stessa strada accenna e rinvia con le parole: “Giù, giù, fino all’Orco, con passo lento!”2. Nelle culture classiche il labirinto, dunque, non era strada ingannevole per i morti e, dal momento che si era consapevoli di questo, non lo era neanche per i vivi, che ne intendevano il linguaggio, denso di valenze sacrali. Non meraviglia, dunque, che quando tali significati si attenuano, possiamo ritrovare il labirinto «come decorazione pavimentale o come terreno di gioco per bambini (in pavimentis puerorumque ludicri campestribus)»3, sino a che diventa prevalente il motivo ludico, dai giardini a labirinto ai labirinti tascabili, giocattoli con una piccola biglia che deve essere fatta giungere al centro. A noi, lontani non solo temporalmente da siffatta temperie, il labirinto può trasmettere prevalentemente la sensazione di un’estrema complessità e una notevole angoscia per il timore di non riuscire a padroneggiarlo. La città contemporanea si pone come gigantesco labirinto, nel quale nessuna fonte di luce o filo amoroso ci garantisce dal pericolo di un definitivo smarrimento. Essa si costituisce come luogo del massimo investimento simbolico e contemporaneamente e contraddittoriamente ma é contraddizione della realtà - come luogo della massima indecisione e dello smarrimento. Anche la cultura folklorica tradizionale conosceva punti critici dello spazio; ad esempio, i crocicchi, con la pluridirezionaltà da essi proposta, venivano percepiti come luogo di indecisione in cui la presenza poteva smarrirsi. L’inquietudine territoriale era annullata però, in tale cultura, da elaborate strategie atte a superare il pericolo di smarrimento e a rafforzare, contro tale pericolo, la presenza dell’uomo, del soggetto, la sua costituiva capacità vincere la datità trascendendola nel valore, direi con esplicita terminologia demartiniana. Mariano Meligrana e io ci siamo soffermati su tali strategie con particolare riferimento all’ideologia della morte nella società contadina del Sud, individuando l’insieme di localizzazioni materiali e simboliche che «costituisce il linguaggio spaziale della morte, struttura un codice di significati che si articola in una “natura” umanizzata, in un paese reale e nella sua proiezione simbolica». In questa prospettiva, abbiamo notato come «contiguo allo spazio realistico, già esso solcato dall’ideologia della morte, si ponga quindi nell’orizzonte culturale popolare un modello mitico, abitato dai morti, con i suoi percorsi, i suoi passaggi, i suoi spazi articolati secondo una topografia metafisica. La pluridimensionalità spaziale comporta, inoltre, una pluridimensionalità temporale, per cui non solo abbiamo due tempi reali diversi per le iniziative dei morti e dei vivi, ma anche una interazione fra tempo reale e tempo mitico»4. La cultura urbanocentrica contemporanea non ha elaborato adeguate strategie per fronteggiare il pericolo dello smarrimento, dell’alienazione, per cui siamo singolarmente inermi dinanzi a esso. La realtà contemporanea, inoltre, è caratterizzata da un complesso intersecarsi di etnie, tratti culturali, modelli di diversa origine, sistemi normativi che investono l’uomo contemporaneo, situandolo in una condizione per la quale non sono state predisposte tecniche efficaci di comprensione e padroneggiamento. «Nella vita sociale contemporanea sembra quasi di poter notare un doppio movimento: la chiusura, il ripiegamento verso il piccolo gruppo, verso il sé stesso accarezzato e blandito dallo stesso soggetto sino all’esasperazione narcisistica ed egocentrica, con una comunicazione che tende alla comunicazione esoterica: nello stesso tempo - contemporaneamente più che alternativamente - alla chiusura, al ripiegamento, si affianca l’ansia di universalizzare, di vivere dinamicamente il proprio tempo e i propri spazi, di scambiarsi esperienze, idee, linguaggi, beni e valori. La città della nostra epoca […] appare a un tempo una metafora di questa coesistenza e un luogo privilegiato di analisi: essa dispiega da un lato la settorialità della chiusura, con i suoi molteplici villaggi, connotati ognuno da specificità e disparità con le sue organizzazioni a modello tribale che si ergono a difendere da ogni intrusione quartieri e strade e spazi; dall’altro lato tuttavia la città è il crogiuolo di informazioni, parole, immagini, idee, che si spandono senza rispettare territori e confini. Così la città contemporanea è luogo della solitudine gregaria, ma è anche il luogo di elaborazione di un nuovo ordine simbolico che privilegia l’intensificarsi dei rapporti, che rende fluidi ruoli e status, che mostra ad ognuno di noi la fragilità dell’io e l’illusione che l’identità sia un valore permanente di ogni società»5. Il nostro rapporto con la città è profondamente mutato, in misura non dissimile dalle trasformazioni che ha subito il rapporto con il nostro stesso corpo, inerenza soggettiva e oggettiva, realtà che si iscrive sul piano dell’ essere e che viene percepita anche sul piano dell’ avere. Anche se con riferimento riduttivo a una città nettamente circoscritta e percorribile «completamente a piedi», è stato notato come si possa «affermare senza dubbio che la città è la parte estroflessa, il “fuori” del corpo: è la solidificazione, nello spazio vissuto, delle relazioni sociali di largo raggio, relazioni che sono concretamente praticate in modo corporeo, perché appunto la città si percorre (dalla casa alla bottega, dal mercato alla chiesa al palazzo civico) completamente a piedi in tempi di ore e giorni, senza la necessità di aggiunta di protesi meccaniche per aumentare le possibilità di spostamenti del corpo. Non solo, ma la città è usata interamente, nel corso di una vita, dalla casa in cui si nasce alla scuola in cui si apprende al mercato in cui si compra alla chiesa in cui si celebra al cimitero in cui si viene seppelliti. Ma, approfondendo l’analisi, ci rendiamo conto che il rapporto della città con il corpo può essere descritto anche in termini non più materiali, cioè anche in termini più segretamente simbolici. Cosicché, in seconda istanza, possiamo descrivere la città anche come un doppio e un sosia del corpo: simile cioè ad esso, e non solamente come struttura, ma anche, più o meno velatamente, come immagine. Infatti la città è una figura che si staglia rispetto a uno sfondo, perché si riconosce in un ambiente più generale che chiamiamo paesaggio. Ha chiaramente, un confine, le mura, che funziona verso l’esterno con un limite di massa, verso l’interno come limite di spazio, ed assolve nel definire la nostra individualità: in qualche modo le mura delle città sono l’equivalente di ciò che la nostra pelle è per il nostro corpo, qualcosa che appartiene alla sfera prossemica più intima, quella della nozione del sé, qualcosa che contemporaneamente ci dà il senso della separazione di noi stessi dal mondo e il senso della possibilità di osmosi e di comunicazione tra noi stessi e il mondo. Vorrei sottolineare che la pelle - potenziata dagli strati “culturali” fabbricati come abbigliamento - è anche organo di difesa, e di rappresentazione di sé nel mondo. In quanto oggetto confinato, la città è un corpo organizzato: non a caso nell’urbanistica si usano continuamente tutta una serie di metafore biologiche: si parla di cellule, di tessuti, di organi, di sistemi di organi, di sistemi di sistemi. Anche questo sta a testimoniare che noi viviamo la città come un corpo e come simile al nostro corpo. La città si può penetrare profondamente: se ne può praticare il “cuore”. E da essa si può uscire facilmente: si possono varcare le sue porte. C’è quindi, tra il corpo della città e il corpo dei suoi abitanti, un rapporto duale, di reciproca appartenenza, di reciproca indipendenza»6. La città contemporanea è difficilmente delimitabile da confini, frontiere, sì che risulti chiaramente individuato lo spazio dell’appaesamento, continuamente realizzantesi attraverso il conferimento di senso. Oggi non possiamo non essere consapevoli delle molteplici frontiere invisibili della città. «La grande metropoli odierna è attraversata da una miriade di linee di confine, riconoscibili appena, per segni incerti e mutevoli, solo dall’occhio esercitato del nuovo viaggiatore metropolitano. Questi confini invisibili tracciano una geografia strana e talvolta pericolosa, tagliano in modo apparentemente insensato strade, quartieri, crocicchi. Dividono anche gli abitatori del giorno dagli abitatori della notte. Delimitano territori di caccia e di rapina e luoghi di tregua e di quiete, in cui cacciatori e prede alla fine si posano inquieti, nell’attesa di una nuova fuga e di un nuovo inseguimento [... ]. Ma nessuno può ritenersi a lungo garantito da esse [frontiere]. Nessuno le conosce una volta per tutte. La loro caratteristica, ciò che le rende appunto invisibili, il loro continuo mutare, la metamorfosi del disegno che esse via via tracciano, continuamente diverso, quasi ogni notte modificato»7. È difficile, pertanto, dissentire da Massimo Ilardi, che sottolinea come sia «una presunzione degli urbanisti e un’illusione dei filosofi pensare di presentarsi alle porte della città e discutere di essa. La città non ha più porte e la metropoli non si sa dove comincia e dove finisce. Sappiamo solo quello che l’esperienza di tutti i giorni ci ha dimostrato: e cioè che la metropoli rappresenta il momento determinante dell’esistenza moderna; e che, dietro questo mondo in perenne movimento e mutamento, non si nasconde alcun ordine naturale, alcun paesaggio fatto di calmi ambienti, di ritmi costanti e regolari, di pace, di tranquillità; e che, infine, davanti non esiste alcuna “città futura” a partire dalla quale si potrà giudicare la città presente. [...] Il passato, il futuro: sono tempi che l’individuo metropolitano non coniuga più. Egli appartiene alla superficie del mondo ed è plasmato dalla mobilità, dai conflitti, dal consumo. Un individuo che rifiuta di autointerpretarsi sulla base di altri ambiti semantici e assiologici (Dio, la Politica, il Lavoro), e si pone invece come forza di riappropriazione del proprio destino. Sono dunque la mobilità, il conflitto, il consumo che ci consentono di definire, seppure approssimativamente, le nuove figure sociali. Ma non è detto che queste figure durino per il fatto che hanno lottato. La metropoli allora non ha solo lo spazio scenico di queste lotte, anche il “luogo” di sparizione dei soggetti, un “luogo” assolutamente fantasmatico di eventi che si accendono e si spengono come cerini»8. Anche il paesaggio sonoro della città moderna e postmoderna appare profondamente modificato rispetto alle scansioni e ai linguaggi della vita concretamente dispiegantesi nelle fasi storiche precedenti. Luigi Russolo, in epoca futurista, notava: «attraversiamo una grande capitale moderna, con le orecchie più attente che gli occhi, e godremo nel distinguere i risucchi d’acqua d’aria o di gas nei tubi metallici, il borbottio dei motori che fiatano e pulsano con una indistinguibile animalità, il palpitare delle valvole, l’andirivieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe metalliche, i balzi del tram sulle rotaie, lo schioccar delle fruste, il garrire delle tende delle bandiere. Ci divertiremo ad orchestrare idealmente insieme il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sbatacchianti, il brusio e lo scalpiccio delle folle, i diversi frastuoni delle stazioni, delle ferriere, delle filande, delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie sotterranee»9. La città è stata oggetto di notazioni narrative e rappresentazioni filmiche, con tutta la loro carica di suggestione, gli esempi potrebbero essere particolarmente numerosi; ci si limiterà ad alcuni di essi, scelti essenzialmente per il loro valore emblematico. Per Victor Hugo, «nella città si poteva scomparire con facilità, ma con la stessa facilità si poteva cadere in trappole imprevedibili. Essa comprendeva una molteplicità di miniere, di “uomini oscuri”, di spettri, di larve. C’é la miniera religiosa, la miniera filosofica, la politica, l’economica e la rivoluzionaria [ ...]. Chi scava con le idee, chi con le cifre, chi con la collera, e si richiamano e si rispondono da una catacomba all’altra […]. Voltaire, sotto Voltaire Condorcet, sotto Condorcet c’é Robespierre, sotto Robespierre Marat, sotto Marat Babeuf; e l’elenco continua […]. Più giù in modo confuso, sul limite che divide l’indistinto dall’invisibile, si scorgono altri uomini oscuri che forse non esistono ancora. Quelli di ieri sono spettri, quelli di domani larve […]. Saint-Simon, Owen, Fourier ci sono anch’essi, ma in escavazioni laterali […]»10. Val la pena ricordare, a questo proposito, le osservazioni di Gilbert Durand: «Bachelard cita altrove un passaggio del W. Shakespeare di V Hugo nel quale il ventre in generale è considerato come “l’otre dei vizi”. La psicanalisi del poeta viene a confermare il ruolo negativo che ricopre in Hugo la cavità, ventre o fogna. È la famosa fogna del romanzo I Miserabili, ventre della città dove si cristallizzano le immagini del disgusto e dello spaventevole “polipo tenebroso tortuoso... da dove si sprigionano le pesti... fauci… del drago che soffia l’inferno sugli uomini”. La Corte dei Miracoli, in Notre-Dame de Paris, la fogna della capitale, così nei Lavoratori del mare la corte infetta e brulicante della Jacressade. In tutta l’opera di Hugo il bassofondo morale richiama il simbolismo della fogna, dell’immondizia e le immagini digestive e anali. Il labirinto, seguendo l’isomorfismo teriomorfo delle immagini negative, ha tendenza ad animarsi, diventando Drago o “scolopendra di quindici piedi di lunghezza”. L’ intestino, fogna vivente, unisce l’immagine del Drago mitico e divora in un capitolo dei Miserabili che si intitola l’intestino del Leviatano, luogo del peccato, otre di vizi, “apparato digestivo di Babilonia”. L’uomo che ride riprende a sua volta l’isomorfismo anale dell’abisso, la fogna vi è descritta come un “budello tortuoso”, e il romanziere, ben conscio dei temi immaginari che lo trascinano, nota: “tutti i visceri sono tortuosi”. Infine, se passiamo dal romanzo alla poesia, vediamo il fiume infernale, simbolo alla seconda potenza dell’acqua nera e nefasta, assimilata alla “fogna”, Stige dove piove l’eterna immondizia11. In Dark Laugtber è detto: «la mia città è un mormorio di voci che escono da un abisso»12. Italo Calvino tra le sue «città invisibili» ci presenta la città di Tamara. «Ci si addentra per vie fitte d’insegne sporgono dai muri. L’occhio non vede cose ma figure cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa del cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo guardia, la stadera l’erbivendola. Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle: segno che qualcosa chissà cosa ha per segno un leone o delfino o torre o stella. Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito - entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte - e di ciò che è lecito - abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri parenti. Dalla porta dei templi si vedono le statue de dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscere e volgere loro preghiere giuste. Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello. Anche le mercanzie che i venditori mettono mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà. Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti. Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo. Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte s’apre il cielo dove corrono le nuvole. Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante...»l3. Ancora Calvino, «se nascosta in qualche rocca o ruga di questo slabbrato circondario esista una Pantasilea riconoscibile e ricordabile da chi c’è stato, oppure se Pantasilea è solo periferia di se stessa e ha il suo centro in ogni luogo, hai rinunciato a capirlo. La domanda che adesso comincia a rodere è nella tua testa è più angosciosa: fuori da Pantasilea esiste un fuori? O per quanto ti allontani dalla città non fai che ... da un limbo all’altro e non arrivi a uscire?»14. Infine, « dal mio discorso avrei tratto la conclusione che la vera Berenice una successione nel tempo di città diverse, alternativamente giuste e ingiuste. Ma la cosa di cui volevo avvertirvi è un’altra: che tutte le Berenici future sono già presenti in questo istante, avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistinguibili»15. Anche la cinematografia ha rivolto il proprio sguardo alla città, rappresentandola secondo ottiche e tagli ideologici estremamente differenziati. In numerosi film dei decenni precedenti «la città è un a priori topografico - visivo, sul cui sfondo dobbiamo immaginare il successivo svolgersi degli eventi. Molti film della classicità hollywoodiana cominciano così. Quelli di John Huston, ad esempio. O alcuni di quelli di Howard Hawks. Ma anche quelli di molti cineasti europei si rifanno al medesimo stereotipo: Sous les toits de Paris di René Clair inizia con una lunga carrellata sui tetti della città, fino a raggiungere la strada dove sta cantando il protagonista. In tutti questi casi, il percorso dello sguardo va dall’universale al particolare, dall’insieme a una delle parti o dei dettagli che lo costituiscono. La città così presupposta, in genere, una città solida, ordinata, massiccia, razionale. I brividi di irrazionalità che la attraversano la sfiorano appena. Il disordine non le è consustanziale. Se c’è, è dovuto agli eventi o ai personaggi che la popolano, e i conflitti che vi si svolgono sono indipendenti dalla sua morfologia. Da Scarface (Howard Hawks, 1932) a Giungla d’asfalto (John Huston, 1950) la città é leggibile ed estranea. Esterna. Sfondo solido e imperturbato di intrighi che si generano a prescindere da lei. La città del cinema contemporaneo, al contrario, una città magmatica, fluida, informe, mutante. Non tale per effetto dei conflitti che la dilaniano. È la sua forma (o assenza di forma) a produrre e generare conflitti, disorientamenti, derive. La città teatro di macroconflitti diventa “macchina” per la produzione di conflitti diffusi e parcellizzati. Anche il modo di approccio cambia. O forse la città stessa che cambia col mutare dell’approccio visivo che lo sguardo del cinema realizza nei suoi confronti. La città del cinema contemporaneo non la si osserva più nel suo insieme, la si penetra. La si conosce consumandola. Standovi dentro agendo nel suo tempo (e nei suoi ritmi) più che nel suo spazio statico e definito una volta per tutte. […] È la città replicante di Blade Runner (Ridley Scott, 1982) oceano di luce pulviscolare che si riflette nell’occhio, nebulosa multimediale e polifonica di messaggi, impulsi, codici che si incrociano e si sovrappongono, la città del cinema contemporaneo non può essere contemplata né ipotizzata, ma soltanto agita, percorsa, attraversata. La sua fruizione inevitabilmente dinamica. La sua struttura polimorfa, dispersiva, puntiforme. […] La città […] sembra avviata a uno strano destino: quello di ridursi a svolgere le funzioni che un tempo erano svolte da una sua parte. Fuga da New York tutta Manhattan è ridotta a carcere. L’ implacabile: tutta la città è ridotta a stadio-circo in cui si svolgono i giochi neogladiatori televisivi. Robocop: l’intera metropoli diventa un quartiere da demolire. Street Trash: l’intera New York diventa l’immondezzaio discarica di rifiuti. Questo processo di transizione metonimica, per cui una parte si identifica con il tutto, ovviamente sconvolge i nostri consueti codici di fruizione e consumo cinematografico della città. Grande il disordine sotto il cielo: nessun punto di vista dall’alto ci può dare un quadro chiaro, unitario, coeso. Perfino gli angeli wendersiani di Il Cielo sopra Berlino (1987) scendono sulla terra e fruiscono l’urbano per frammenti, o per visioni parziali, approssimative. [...] In questo quadro, l’immagine della città diventa caotica, magmatica, confusa, non ci sono più mappe che ne sappiano fissare la pianta una volta per tutte, fornendo utili indicazioni topografiche o punti di riferimento. In questa città di flussi e di movimenti le mappe non servono più. Servono piuttosto attraversarle in fretta, consumarle, usarle. Ce l’ha insegnato, definitivamente, ancora una volta John Carpenter in quel film “aurorale” che è 1997, Fuga da New York. Il personaggio che nel film si chiama Mente (Henry Dean Stanton) e che evoca fin dal nome la “vecchia razionalità” salta per aria su un ponte minato di cui credeva di possedere la mappa. Si salva invece l’eroe-serpente (Jena Plissken), che si muove nella città spinto dall’ossessione del tempo più che da quella dello spazio, e che fa del suo sguardo bendato e monoculare […] l’unica bussola di orientamento possibile»16. La letteratura scientifica si è a lungo esercitata sulla città, sulle trasformazioni della sua realtà e delle sue rappresentazioni. R. Park ha notato: «Le città in generale e le città americane in particolare comprendono un caleidoscopio di genti, di cultura e di modi di vita molto diversi, tra cui spesso c’è solo il contatto più debole, la più grande indifferenza, la più larga tolleranza, occasionalmente l’aspra contesa, ma sempre il più acuto contrasto»17. Il rapporto tra rappresentazioni e pratiche della città esce senz’altro, come è stato sottolineato, dal dominio delle carte mentali, per quanto costruite con la massima raffinatezza; se non altro queste carte mentali della città assumono il loro senso attraverso modi di abitare, modelli culturali e non solo attraverso atti visivi. La rappresentazione della città s’iscrive dunque in un’etnostoria, così come la critica delle ideologie. Essa accorda ampio spazio ai comportamenti dei gruppi sociali, al modo in cui si trasmettono o si acquisiscono le abitudini, gli atti le rappresentazioni; si preoccupa dell’accumularsi dei gesti e dei riti, ancorati nell’inconscio; esse s’interessano alle giustificazioni sociali date da queste pratiche, alla valorizzazione connessa ai luoghi, alla combinazione degli spazi e degli avvenimenti, a tutto quanto nella città è “memoria”»18 . Per quanto riguarda le discipline demo-etno-antropologiche, basti ricordare come nel loro ambito si sia andato sviluppando uno specifico settore di studi l’antropologia urbana, che ha elaborato prospettive critiche, tagli metodologici, ipotesi interpretativi di tale complessa problematica19. Alberto Sobrero si sofferma su Images of City di Kelvin Lynch rilevando come, per questo autore, «la pianta della città si disegna nella mente dei suoi abitanti per “percorsi”, “confini”, “nodi”, “quartieri”. Ognuno mette in atto il riconoscimento della città, stende sulla città una sorta di “rete”. Si badi bene, tuttavia, che non è solo una questione di interpretazione, i ‘percorsi’ sono realmente “i canali lungo i quali l’osservatore si muove abitualmente, strade, vie pedonali, linee di trasporti pubblici” […]; i margini sono “interruzioni lineari di continuità […] barriere più o meno penetrabili che dividono una zona dall’altra.[…]”; i nodi sono “punti, luoghi strategici, nei quali un osservatore può entrare, fuochi intensivi verso i quali e dai quali si muove […]”. Nell’imageability gli elementi fisici e la loro interpretazione si intrecciano in modo tale che è difficile dire dove finiscano gli uni e dove cominciano gli altri. È sulla fisicità della città, sulla forma reale delle sue piazze, dei suoi quartieri, dei suoi sobborghi, dei suoi ghetti, che si distende l’interpretazione dei suoi abitanti. Non c’è autore che quanto Lynch mal sopporti la fuga delle interpretazioni, la mitica del labirinto e del piacere del perdersi. C’é ovviamente qualche pregio nell’illusorietà, nel labirinto, nella sorpresa di un ambiente. Molti di noi amano la Casa degli Specchi, e le strade tortuose di Boston posseggono un certo fascino. Questo è vero, ma solo a due condizioni. La sorpresa deve capitare in seno a uno schema generale: lo sconcertamento deve essere limitato a piccole parti di un insieme leggibile. E in secondo luogo, il labirinto o il mistero devono possedere in se stessi qualche forma che può venir esplorata e un po’ alla volta appresa. Il caos completo senza traccia alcuna di connessione non è mai piacevole»20. Massimo Cacciari ha affermato: «La nostra vita urbana non può che svolgersi oltre ogni limite tradizionale, ogni confine dell’urbs. Non sarà mai più geometricamente circoscrivibile. Non sarà mai più “terranea”. La sua dimensione mentale»21. Alberto Sobrero opportunamente aggiunge: «apparentemente solo mentale, la dimensione della differenza riesce a celarsi, a simularsi, fino al punto di negare in ambito urbano la stessa esistenza dell’alterità. Ancora possiamo riconoscere le radici della differenza quando abbiamo a che fare con il diverso per provenienza, per razza - benché il rimescolamento sia oramai così esteso e di dimensioni tanto crescenti, che, anche in questo caso, la discriminante sarà sempre meno fisica e sempre più mentale e ideologica. E certo - passando al secondo livello - più mentale che terranea la stessa ragione che spinge ad aggregarsi: non perché l’essere giovani, l’essere barboni, o semplicemente “vicini”, non sia prima di tutto una condizione fisica, ma perché è evidente che passare da quella ragione fisica a “quella mentalità” è in primo luogo una scelta e un atto di adesione di valori. Difficile, comunque, riconoscere una qualche terraneità nei fenomeni della modernità dispiegata che abbiamo collocato nell’ultima delle nostre rubriche. In base a quali riferimenti di classe, o di ceto, in base a quali logiche dell’insediamento urbano o di generazione, è possibile ricondurre a una qualche fisica della società il consumo dei mass media, l’universalità del pensiero, la moda, e i loro rispettivi fantasmi, le leggende urbane, il razzismo, il narcisismo? Ogni sensazione di naturalità del comportamento è persa. Sembra di trovarsi, per un verso, di fronte a puri sistemi di regole, di fronte a sistemi di convenzioni sociali che non hanno altra ragione di esistere che non sia l’accettazione generale, e, per altro verso, di fronte alla tentazione di barare, al timore, al rischio e alla paura che qualcuno venga meno alle regole del gioco. A quest’ultimo livello la differenza è più difficile da isolare e controllare: bisogna conoscere le regole e sapersi mascherare, bisogna sapere entrare e uscire dai ruoli, simulare, cambiare mille vesti, vestire mille volti: “Il camaleontismo diventa un tratto saliente del vivere contemporaneo. Si fa avanti il paesaggio di un corpo che assorbe come una porosa spugna l’eterogeneità dell’esistente […]...»22. In una prospettiva così delineata, lo studioso ritiene di potere affermare: «La città come totalità, come civitas, come urbs è persa irrimediabilmente e con essa anche la città come etbos, come unità culturale. Ciò non toglie che almeno in tre direzioni si delinei l’oggetto di un’antropologia possibile: a) in direzione delle moltiplicate etnicità e dei nuovi e non conosciuti esiti dei futuri sincretismi culturali; b) lungo le nuove reti di rapporti, di comportamento e di valori, nei nuovi vicinati, nelle nuove solidarietà, in quella periferia sempre più estesa che nella vita di ognuno si oppone alla centralità fagocitante della metropoli; c) in direzione della stessa mancata realizzazione della cultura della modernità, delle sue paure, dei contrasti che genera, delle sue ansie. [...] La città sollecita le fughe interpretative. Dal crollo delle teorie meccanicistiche e della cultura come rispecchiamento, dalla rinnovata consapevolezza che il piano dell’interpretazione è un piano obbligato attraverso cui passare per comprendere la novità e l’originalità dell’organizzazione del mondo contemporaneo, si è scivolati, nella scienza come nel senso comune, verso la convinzione che la regola non ci sia, verso la convinzione che tutto sia possibile, che i beni siano infiniti, che si tratti solo di una questione di scelte, che volendo si possa tornare indietro, che la stessa dimensione del tempo, dello spazio della vita sia solo una questione mentale.[...] Sentiamo il fascino del labirinto, se per esso si intende la sollecitazione al viaggio, all’esperienza, al rischio intellettuale, ma nella convinzione di Kevin Lynch, nella convinzione che il non conosciuto deve possedere in se stesso qualche forma che può venir esplorata e un po’ alla volta appresa e nella sensazione che il caos completo senza traccia alcuna di connessione non è mai piacevole»23 . Non è un caso che luoghi, realistici o simbolici, culturalmente plasmati per l’incontro e il dialogo, spesso, nella temperie attuale, si trasformino in incontri fittizi e in monologhi truccati. Marc Augé ci ha invitato da tanto a dedicare la nostra attenzione anche ai nonluoghi, sottolineando che nella realtà concreta del mondo di oggi, i luoghi e gli spazi, «i luoghi e i nonluoghi si incastrano, si compenetrano reciprocamente. […] Luoghi e non luoghi si oppongono (o si evocano) come i termini e le nozioni che permettono di descriverli»24. Pertanto […] il labirinto si dilata, borgesianamente, sino a coincidere con l’universo, spazio nel quale sperimentiamo il nostro “essere gettati” senza un saldo ancoraggio di finalità e senso. Ma comunque il nostro labirinto, nel quale è irretita, e non può non esserlo, la nostra vita. Il re degli arabi dice al re di Babilonia, dopo averlo portato nel deserto: «“In Babilonia mi volesti perdere in un labirinto di bronzo con molte scale, porte e muri; ora l’Onnipotente ha voluto ch’io ti mostrassi il mio dove non ci sono scale da salire, né pone da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo.” Poi gli sciolse i legami e lo abbandonò in mezzo al deserto dove quegli morì di fame e di sete»25. In questa prospettiva, anche il labirinto può dispiegarsi, ambivalentemente, come spazio dell’incubo e della rassicurazione. «Il labirinto è spesso tema di incubo, ma la casa è labirinto rassicurante, amato malgrado la qualità di leggera paura che può sustissistere nel suo mistero»26. Non sorprende allora l’invocazione di Pasolini Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini… La nostra realtà puntuale non è dissimle da quella descritta dai versi brechtiani: Le nostre città hanno sotto le fogne dentro nulla e di sopra lo smog. Nulla abbiamo goduto e ancora le abitiamo: esse lentamente, noi rapidamente deperiamo. eppure non sembra illegittimo, […] ritenere possibile anche per noi, nonostante questo nostro tempo e questa nostra condizione, i versi montaliani: nel futuro, che s’apre le mattine sono ancorato come barche in rada. note 1 F. Rella, Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero, Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 7-8. 2 K. Kerény, Nel labirinto, a cura di C. Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1983, pp. 95-96. 3 lvi, p. 53. 4 L. M. Lombardi Satriani - M. Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud, Palermo, Sellerio, 1982, p. 12. 5 M. Callari Galli, Lo spazio dell’incontro, Roma, Meltemi, 1996, pp. 101-102. 6 D. Mazzoleni, Ciclope, in M. Galbati, Proiezioni urbane. La realtà dell’immaginario, Milano, Tranchida Ed., 1989, pp.39-57, pp. 45-46. 7 F. Rella, Metamorfosi, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 67. 8 M. Ilardi, L’individuo tra le macerie della città, in Id. (a cura di), La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Genova, Costa & Nola1990, pp. 13-34, 13-15 9 L. Russolo, L’arte dei rumori, in G. F. Maffina, Luigi Russolo e l’arte dei rumori. Con tutti gli scritti musicali, Torino, Martano, 1978, pp. 129-131, cit. in R. M. Schafer, Il paesaggio sonoro, Milano, Unicopli, 1985, p. 159. 10 V. Hugo, I Miserabili, Roma, Ed. Paoline, 1959, p. 756. 11 G. Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Bari, Dedalo, 1972, pp. 111-112. 12 S. Anderson, Dark Laugtber, 1925. 13 I. Calvino, Le città invisibili. Romanzi e racconti, coll. I Meridiani, 2 voll., Milano, Mondadori, 1992, vol. 1, pp. 357-498, pp. 367-368. 14 Ivi, p. 492. 15 Ivi, p. 496. 16 G. Canova, Lo sguardo sulla città, in M. Galbiati, op. cit., pp. 78-85, 79-84. 17 R. Park, The City: Suggestions for the Investigation of Human Behavior in tbe Urban Environment in «The America journal of Sociology», 5, 1915, trad. it. The City, Milano, Comunità, 1967. 18 M. Roncayolo, Città, in Enciclopedia, vol. 111, Torino, Einaudi, 1978, pp. 3-84, p. 77. 19 Della vastissima letteratura, oltre ai testi già citati mi limito a segnalare: R. Basham, Urban Antropology: Tbe Cross-CulturalStudy of Complex Societtes, Palo Alto Mayfield Pulishing Company, 1978; M. Canevacci, La città polifonica. Saggio sull’antropologia della comunicazione urbana, Roma, Ed. SEAM, 19942; P. Chiozzi (a cura di), Antropologia urbana e relazioni interetniche, Firenze, Pontecorboli, 1991; E. Eames - J. Goode, The Antropology of tbe City: An Introduction to Urban Antropology, Englewood Cliffs (NJ.), Prentice Hall, 1977; E. Eddy (ed.), Urban Antropology Research, Perspectives, Strategies, Athens, University of Gerorgia Press, 1968; B. Glowczewshi- J.F.Matteudi, La cité des Cataphiles. Mission anthropologique dans les sotterrains de Paris, Paris, Librairie des méridiens, 1983; J. Gulik, Urban Antropology: Its Present and Future, in New York Academy of Sciences, vol. 25, 1962; P. Gutwirth, Bibliografy on Urban Antbropology, in A. Southafl (ed.), Urban Antbropology, New York, Oxford University Press, 1973; P. Gutkind (ed.), Urban Anthropology: Perspectives on Third World, Urbanization and Urbanisml, New York, Bames & Noble, 1974; J. Gutwirth, Jalons pour l’anthropologie urbaine, in “L’Homme”, 4, 1982 - l. Gutwirth C. Ptonet (eds.), I Chemins de la ville: enqutes ethnologiques, Paris, Ed. du Comit des Travaux historiques et scientifiques, 1987; U. Hannerz, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, a cura di A. Bagnasco, Bologna, Il Mulino, 1992; C. Pitto (a cura di), Antropologia urbana, Milano, Feltrinelli, 1980; L. Rodwin - R. M. Hollister, City of tbe Mind, New York-London, Plenum Press, 1984; J. Rykwert, Tbe Idea of tbe City, Princeton, Princeton University Press, 1976 (trad. it. L’idea della città, Torino, Einaudi, 1981); A. Signorelli (a cura di), Antropologia urbana, numero monografico de “La ricerca folklorica”, n. 20, 1989; T. Tentori-P. Guidicini, Borgo, quartiere, città, Milano, Angeli, 1972; D. Uzzel - R. Provencher, Urban Antbropology, Dubuque (Iowa), William C. Brown, 1976; M. Weber, Die Staadt, in Wirtschft und Gesellschaft, Tübingen, Mohr, 1922 (trad. it. La città, Milano, Comunità, 1950); L. Wirth, The Ghetto, Chicago, University of Chicago Press, 1928 (trad it. Il ghetto, Milano, Comunità, 1966; S. Zukin, Landscapes of Power-from Detrott to Disey World, Berkeley - Los Angeles, University of California Press, 1993. 20 A. M. Sobrero, Antropologia della città, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993 (rist.), p. 224; il brano citato dall’autore di K. Lynch, Image of the City, Cambridge, MIT Presse, 1960 (tr. it. L’immagine della città, Padova, Marsilio, 1964). 21 M. Cacciari, Ethos e Metropoli, in “Micromega”, 1990, 1. 22 A. M. Sobrero, op. cit., pp. 228-229. Il brano citato dall’autore è tratto da A. Castellani, Contaminati dalla merce, in M. Ilardi (a cura di), op. cit., pp. 143 -168. 23 Ivi, pp. 231-234. 24 M. Augé, Non luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Eluthera, 1993, pp. 97-98. 25 L. Borges, I due re e i due labirinti, in L’ Aleph, Milano, Feltrinelli, 1985, pp. 134-135. 26 G. Durand, op. cit., p. 244.