. Paul Ricoeur. Trovare Cristo nella fraternità degli uomini, in Cristo nella filosofia contemporanea, a cura di S. Zucal, vol. II, Paoline, Alba 2002, pp. 10091033. Testo per l’exergo “Al centro della religione ebraico-cristiana c’è l’idea che Kant aveva tanto celebrata di qualcuno che dà la sua vita per i suoi amici, senza che lo si costringa a farlo. L’idea dell’offerta d’una vita che è il contrario di quella del capro espiatorio, della vittima espiatoria sacrificata per punizione, per una sorta di rappresaglia di un dio malvagio e geloso. Non si tratta di una figura politica, ma è una figura che, all’orizzonte del politico, può introdurre l’idea d’una generosità, di ciò che io chiamo talvolta l’incognito del perdono, che consiste nella considerazione, nel rispetto di ciò che v’è d’insostituibile in ogni persona. Le persone possono essere dal punto di vista sociale relativamente sostituibili, tuttavia v’è in esse fondamentalmente una sorta di fraternità, che oggi è diventata una fraternità senza padre, la cui sorgente è la singolarità di ognuno come imago dei”. Paul Ricoeur: un parcours philosophique, intervista di François Ewald, “Magazine littéraire”, n. 390, settembre 2000, p. 26 (tr. it. di Domenico Jervolino) Domenico Jervolino Ricoeur: trovare Cristo nella fraternità degli uomini 1. Considerazioni preliminari Parlare del Cristo in Ricoeur può sembrare cosa facile: chi più del pensatore francese nel panorama filosofico contemporaneo potrebbe offrirci l’esempio di una conoscenza profonda delle scritture ebraiche e cristiane, della loro più aggiornata esegesi e della letteratura teologica protestante e cattolica? Tutto lascerebbe pensare ad una coesistenza armoniosa e pacifica in lui di fede biblica cristiana e della più scaltrita ed erudita meditazione filosofica. Ma – appena ci s’inoltra nella ingens silva dell’opera ricoeuriana -, non si tarderà a cogliere che si tratta di cosa meno facile di quanto non sembrava a prima vista, forse proprio perché per adempiere al compito occorrerebbe attraversare l’intera opera di Ricoeur, peraltro tuttora felicemente in itinere¸ ma soprattutto perché egli non ha mai nascosto di voler essere filosofo e non teologo, di non volere “mescolare i generi”, come ama dire, e nello stesso tempo di non concepire la filosofia come chiusa in se stessa, ma come aperta a tutto ciò che non è filosofia, e 1 quindi anche alle religioni, al loro simbolismo, agli apporti dell’esegesi e della teologia, così come a quelli delle scienze del linguaggio, della psicoanalisi, della critica delle ideologie. Di per sé tale scelta comporta l’instaurarsi di una tensione dialettica che non permette mai alla riflessione di riposare in qualche porto beato, lontano o immune dai conflitti. Al conflitto fondamentale tra filosofia e non filosofia si aggiunge, come caso esemplare, quello, antico e nuovo, tra fede e ragione, nonché tutti quei conflitti che sono interni alla coscienza e alla cultura cristiana novecentesca, sia cattolica che protestante, nell’epoca della storia del pensiero che si è aperta con l’annuncio tragico: “Dio è morto!”. E’ per questo motivo che in questo breve intervento sono consapevole di non potermi spingere sino in fondo nell’esplicitazione di un tema che forse nella sua essenzialità resta rinchiuso con sette sigilli nel cuore del pensiero meditante di Ricoeur – il quale, nel tramonto ancora operoso e fecondo di una vita tutta consacrata all’interrogare filosofico, definisce – riprendendo un’espressione di Nabert che proviene, a quanto pare, da Brunschvicg – il proprio cristianesimo “lui-même partiel et partial” come un “christianisme de philosophe”1. Cercherò piuttosto di dare la parola il più possibile al nostro autore, partendo da un testo pressoché sconosciuto della sua giovinezza per poi passare al Ricoeur maturo, e arrivare, infine, ai suoi scritti più recenti. 2. Cristo, il primo testimone Circa il primo testo, debbo il possesso di una trascrizione dattiloscritta dell’originale alla generosità di uno degli amici di Ricoeur, il suo bibliografo, il francescano belga padre Frans Dirk Vansina. Si tratta di una meditazione proposta a un pubblico di giovani credenti sul tema Vérité: Jésus et Ponce Pilate¸ pubblicata sulla rivista “Le Semeur”, nel 19462. “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo; per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce. Gli dice Pilato: Che cos’è la verità?” Gv 18, 37-383. Questo è il brano biblico commentato dal giovane professore da poco rientrato dalla prigionia in Germania. Sono gli anni in cui Ricoeur preparava le sue due tesi dottorali, insegnando nel collegio quacchero di Chambon-sur-Lignon, un villaggio di montagna nell’Alta Loira, dove si era trasferito con la moglie Simone e i figli, villaggio la cui popolazione, per il novanta per cento protestante, guidata dai suoi coraggiosi pastori, era riuscita a salvare centinaia di ebrei durante la guerra e che era sede di un’esperienza educativa d’avanguardia, in un clima comunitario sereno e fortemente partecipato. Il tema della meditazione, proposta in un incontro della Federazione degli studenti cristiani, è la Verità, tema in cui la vocazione della ragione s’incontra con le 1 Cfr. Paul Ricoeur, Préface a Domenico Jervolino, Ricoeur. L’amore difficile, Roma, Studium, 1995, p. 16. “Le Semeur. Tribune libre de la Fédération Française des Associations Chrétiennes d’Étudiants (XXVIIIe Congrès National)”, n. 4-5, febbraio-marzo, 44 (1946), pp. 381-394. 3 Utilizzo per questo e per gli altri brani biblici citati la traduzione italiana della Cei. 2 2 ragioni della fede. In un mondo travagliato come il nostro, afferma Ricoeur, il cristianesimo non può essere un rifugio, un asilo per spiriti deboli, ma è come un’armatura da soldato. Non è vero che questa considerazione riguardi solo l’azione, solo l’impegno militante per la giustizia, essa coinvolge anche la ricerca della verità. Così, la risposta di Pilato a Gesù, vale a dire l’atteggiamento di fronte alla verità che essa presuppone, è una di quelle affermazioni, negazioni o domande che uccidono o lasciano uccidere. Nel caso specifico essa contribuisce a crocifiggere Gesù, che andava liberato non perché figlio di Dio, ma perché innocente. Non è dunque vano né senza pericolo il fatto che noi siamo vincitori o vinti nella lotta per la verità. Qual è dunque la verità secondo Gesù? E quale la nostra lotta per la verità? Nel Vangelo di Giovanni, la verità ha un senso che trascende le nostre abitudini di pensiero e di linguaggio così come quelle di Pilato: non è qualcosa che dipende dalle nostre capacità di sperimentare, di verificare o di ragionare. E’ piuttosto ciò di cui Gesù rende testimonianaza e che si esprime nelle due metafore della luce e della vita: noi siamo in vita così come siamo nella luce, ma non produciamo né padroneggiamo né la vita né la luce. Così la verità secondo Giovanni è una verità che viene dall’alto, è Qualcuno, è l’essere misterioso di Dio, è un mistero fra Dio e Dio: è il Padre e il suo rapporto col Figlio e con lo Spirito Consolatore. Di tale Verità Cristo è il primo testimone, mentre lo Spirito di verità che egli ha promesso ai suoi discepoli fa di questi, a loro volta, dei testimoni. Così tutto comincia dall’alto e ritorna in alto nella partecipazione dei discepoli di Cristo alla stessa vita divina, trinitaria… Ma partire da questo primato assoluto della Trascendenza (come non riconoscere qui in Ricoeur e nei giovani protestanti ai quali si rivolge l’eco della grande lezione di Barth e della “Chiesa confessante”?), significa anche affrontare il discorso dell’impegno cristiano, del combattimento cristiano che è un paradossale combattimento che parte dalla contemplazione, da una visione trascendente di pace per giungere alla lotta e all’impegno nel mondo. Il Vangelo di Giovanni è anche il Vangelo della contraddizione, perché il Vangelo è sempre anche Vangelo della Crocefissione: il primo testimone della Verità è stato messo a morte. Messo a morte in seguito a una domanda sulla verità. Ecco allora la domanda di Ricoeur: in che cosa consiste per noi, soprattutto per noi professori e studenti, questa lotta per la verità che è anche una lotta che parte dalla verità? La sua risposta è che il contrario della verità non è l’errore, ma la menzogna: bisogna liberarsi dallo spirito di menzogna. Lo sviluppo di questo tema nel testo giovanile del filosofo è ricco di suggestioni per noi che conosciamo la sua opera. Non sono menzognere le scienze in se stesse, che anzi si avvalgono di un solido corpo di verità scientifiche, ma è ingannevole la nostra pretesa di dominio sulle cose e sugli uomini attraverso i nostri saperi e le nostre abilità tecniche, è ingannevole la nostra pretesa di fare della nostra scienza e della nostra libertà (una libertà “disperata e solitaria”, sono gli anni dell’esistenzialismo) un assoluto, una parola definitiva oltre la quale non c’è nessun orizzonte di ulteriore ricerca. In questo caso ancora una volta il Pilato che è dentro di noi scambierà Gesù con Barabba. Ma, attenzione!, se la critica di tutti gli idoli è un elemento irrinunciabile della lotta evangelica per la verità, non ci si può limitare a questa denuncia, sostituendo 3 semplicemente agli idoli la dottrina evangelica. Un atteggiamento del genere comporterebbe ancora un’infedeltà: la verità evangelica non è solo una critica escatologica, ma è anche fermento, lievito e sale. Questo forse è il punto più importante del testo, che anticipa, nella radicalità evangelica del Ricoeur giovane, l’apertura ecumenica, universalistica che sempre più caratterizzerà il Ricoeur maturo e quello felicemente vivo e operante ancora oggi nella sua età più tarda. Questa parte della meditazione viene intitolata significativamente “la lotta per i segni”. Il “no” del cristiano non è come il “no” dello scettico o del disperato, è un “no” in vista di un “sì”. Dio non è solo il totalmente altro, ma è anche Colui di cui noi siamo l’immagine. “Tutto il nostro pensiero deve poter essere un’imitazione di Dio nel nome dell’imitazione di Cristo”. Le parabole evangeliche dicono: il Regno è simile a…: noi dobbiamo essere capaci di scorgere i segni del Regno. “Che le mie verità siano immagini della verità increata!”. Ecco alcuni esempi di questa “lotta per i segni” che fa del cristiano un costruttore di verità (al plurale). Innanzitutto, nel secolo XX (ricordiamo che Ricoeur parla nel 1946) la semplice difesa della ragione, della verità oggettiva, “nuda”, di fronte alle pretese dei poteri oppressivi, è diventata una forma di testimonianza resa alla verità di Dio. La vocazione dell’intelligenza è riconoscere la verità dovunque essa si trovi. Ma c’è qualcosa di più. Il compito della ragione è ritrovare il senso perduto della creazione, la sua bontà originaria: “L’atto più alto del pensiero è l’ammirazione, la lode”. Rispetto alle filosofie dell’assurdo l’atteggiamento del credente è quello di affermare che c’è una positività di fondo nel mondo, nella storia e in noi stessi che è più forte delle tracce della corruzione e del peccato, più forte di tutto ciò che ci può indurre alla disperazione e alla nausea. Non possiamo più credere ingenuamente al mito del progresso, ma non dobbiamo spingere questo atteggiamento fino all’estremo di un pessimismo globale. Questi due motivi, difesa della libera ragione e riscoperta del senso della creazione, considerati insieme fanno sì che si possa affermare che la lotta per la verità è lotta per un nuovo umanesimo. La nostra testimonianza (cristiana) come intellettuali, dice Ricoeur nel 1946, consiste nel ritrovare valori ad altezza d’uomo, quali la ragione, la morale comune, il diritto, la democrazia, il socialismo, e forse di stabilire delle alleanze “precarie e prudenti” con coloro che condividono quei valori, pur “senza avere la visione di un ordine della creazione da ritrovare attraverso dei segni balbettanti e senza il sentimento che quei valori debbono incessantemente morire per resuscitare con Cristo”. La verità del Figlio deve dunque restituirci la verità della creazione che è celebrazione e gloria. Io che insegno la filosofia, afferma il giovane professore, intendo nella Parola di Dio un appello a testimoniare la verità del Padre tutte le volte che parlo dell’uomo, del corpo, dei bisogni, dell’abitudine, del tempo, del valore della scienza, della volontà. Si tratta di una testimonianza indiretta che non esonera peraltro dalla testimonianza diretta della confessione di fede. L’uomo, il corpo, il tempo, la volontà… Non si può senza emozione leggere ora quest’elenco di temi filosofici, nei quali c’è già il presentimento dell’opera di tutta una vita. Ma la 4 meditazione di Ricoeur non termina su questa nota personale, e filosofica; essa invece ritorna al punto di partenza, alla contemplazione di quella visione di pace che è la verità giovannea della Parola che nasce da Dio e a Dio ritorna. Verità di Gesù, il Cristo, il Verbo di Dio. La verità cristiana non è essenzialmente polemica e il combattimento dell’esistenza credente ha le sue radici nella pace. Si tratta di una verità che si comunica nel silenzio e nel segreto, nel momento dell’adorazione e del sacramento, nell’ora della “nuova infanzia” spirituale e della “semplice colomba”: “Quanto più il pensiero del nostro tempo invoca l’angoscia, l’assurdo, la frenesia – questa è la conclusione del discorso - tanto più comprendo che la verità di Gesù è la fine dell’angoscia, dell’assurdo, della frenesia. Per un cristiano il tragico non è né ultimo né primo. Il cristiano non è un uomo tormentato, ma un cuore semplice”. Questo testo giovanile di Ricoeur non potrebbe certamente essere assunto come esempio della sua opera complessiva né della sua scrittura filosofica; si tratta tra l’altro di un discorso rivolto da credente a credenti, quasi di un sermone, che non nasconde la sua origine di discorso orale. Nella esplicitezza della confessione di fede esso è lontano dalla prudenza e dal riserbo di cui il Ricoeur più maturo circonda i riferimenti alla propria posizione di credente e dall’insistenza con cui sottolinea la necessità di non mescolare i generi. Tuttavia già da ora è delineata una dialettica feconda fra affermazione della Trascendenza e sollecitudine per l’umano. In termini cristologici fra il Cristo-Verbo di Dio e le parole di umanità che come uomini impegnati nella storia siamo chiamati a pronunciare. 3. Gesù il Cristo, nella storia e nel conflitto delle interpretazioni Tra questo Ricoeur poco più che trentenne e quello che oggi ci parla c’è l’arco di una vita e di un’enorme e rigorosa produzione filosofica. Per chi ritenesse troppo temerario il salto dagli anni Quaranta ai nostri giorni, ci permettiamo di indicare una tappa cronologicamente intermedia in uno scritto ben noto e facilmente disponibile del nostro autore: la prefazione alla traduzione francese del Gesù di Bultmann, inclusa poi nella raccolta Le conflit des interprétations4. Questo testo è importante non solo per il confronto col problema della demitizzazione e con la proposta bultmanniana, ma anche perché in alcune densissime pagine espone le ragioni di fondo per le quali c’è sempre un problema ermeneutico nel cristianesimo, benché oggi il problema ermeneutico ci si presenti in forme nuove. In effetti, il cuore del problema dell’ermeneutica cristiana consiste nel rapporto originario tra l’evento dell’annuncio evangelico e la sua fissazione in scritture, che richiedono costitutivamente di essere rilette e riconvertite sempre di nuovo in parola viva nel corso della storia. In questo senso la storia del cristianesimo coincide con la storia delle sue interpretazioni. Di più, l’evento cristiano è a sua volta l’interpretante 4 Cfr. Paul Ricoeur, Le conflit des interprétations. Essais d’herméneutique, Paris, Seuil, 1969, pp. 373-392 (tr. it. di Rodolfo Balzarotti, Francesco Botturri e Giuseppe Colombo, Milano, Jaca Book,1977, pp. 393-413). Si tratta della prefazione al volume di Rudolf Bultmann, Jèsus, mythologie et démythologisation, Paris, Seuil, 1968, che comprende oltre al Gesù del 1926 anche le conferenze del 1951 su Gesù Cristo e la mitologia. 5 delle scritture anteriori, il compimento di un senso rimasto in sospeso, la realizzazione di una promessa antica. “Entrando in questo modo in una connessione storica, l’evento entra anche in un legame intellegibile […]. L’evento diviene avvento: assumendo il tempo, acquista senso. Comprendendo se stesso indirettamente attraverso il trasferimento dell’antico nel nuovo, si sottopone ad una intelligenza dei rapporti: Gesù Cristo stesso, esegesi ed esegeta della Scrittura, si manifesta come Logos aprendo l’intelligenza delle scritture” 5. Una seconda radice della centralità dell’ermeneutica nell’esperienza cristiana consiste nel fatto che, a partire da Paolo fino alla teologia contemporanea, in particolare con Bultmann, interpretazione delle scritture e interpretazione della vita si corrispondono reciprocamente, originando una forma peculiare di circolo ermeneutico. L’uditore della Parola è invitato a interpretare la propria esistenza alla luce della Passione e della Resurrezione di Cristo. Morte e resurrezione vengono a loro volta reinterpretate sulla base di una esegesi dell’esistenza umana. Ricoeur connette a questa seconda radice dell’ermeneutica cristiana anche la dottrina medioevale dei quattro sensi della Scrittura per concludere con l’affermazione che il fine di questo secondo senso dell’ermeneutica è quello di giungere a una adeguazione sempre più compiuta fra la comprensione articolata dei testi scritturali e una interpretazione globale della vita e della realtà tutta: eguagliare il multiplex intellectus all’intellectus de misterio Christi. Tra i quattro sensi medioevali ha un posto peculiare il senso morale, che viene ben espresso dalla metafora dello specchio: si tratta di decifrare la nostra esistenza, facendoci conformi a Cristo, rispecchiandone l’incomparabile vicenda nella nostra vita. La terza radice del problema ermeneutico nel cristianesimo è stata invece, secondo il nostro autore, compresa solamente dai moderni, in seguito al pieno sviluppo della metodologia critica propria alle moderne discipline storiche e filologiche, anche se questa comprensione tardiva ci mostra qualcosa che appartiene alla situazione del credente fin dalle origini. L’annuncio evangelico è testimonianza, ad opera della primitiva comunità di credenti, che ha per contenuto non un testo o una dottrina, ma una persona che è Gesù, che viene riconosciuta nella fede come il Cristo. Ma già la prima espressione di tale testimonianza, fissata ben presto in testi, rappresentava un primo livello d’interpretazione. Noi riceviamo questa testimonianza, e possiamo farla nostra, solo in quanto a nostra volta interpretiamo un testo che è esso stesso già un’interpretazione. Come uomini che apparteniamo alla modernità, abbiamo una coscienza più acuta della distanza che ci separa dai primi testimoni, ma non si tratta di una situazione esclusivamente nostra, in quanto i testi comportano sempre una distanza. Una distanza rispetto ai primi testimoni c’è stata anche per tutte le generazioni cristiane pre-moderne e una distanza rispetto all’oggetto dell’annuncio c’era già anche per i primi testimoni, nella misura in cui la loro testimonianza era fin dall’inizio un atto d’interpretazione. La “situazione ermeneutica” è dunque costitutiva dell’esistenza credente in quanto tale. E si tratta di un’ermeneutica – occorre sottolinearlo - che comporta sempre un elemento critico, 5 Ibid. , pp. 375-376 (tr. it., leggermente modificata, p. 396) 6 che rifiuta qualsiasi irrazionalismo di una comprensione avulsa dal rigore metodologico delle discipline esegetiche. La stessa esigenza di demitizzazione, prima ancora di diventare una domanda dell’uomo contemporaneo, è contenuta nel kerygma : la visione mitica, prescientifica del mondo, divenuta insostenibile per noi, è solo uno scandalo supplementare, rispetto al vero scandalo che è tale per tutti i tempi, vale a dire la “follia della Croce”, l’evento di salvezza in Gesù Cristo. L’oggetto della fede è ciò che guida il processo dell’interpretazione nel circolo ermeneutico (“credere per comprendere, comprendere per credere”) e guida anche quell’aspetto del processo che è la demitizzazione, che, a differenza della mera demistificazione, vuole non già distruggere, ma comprendere meglio ciò che nel testo viene annunciato. E’ per questo che bisogna proseguire l’opera di Bultmann, andando oltre Bultmann, sulla base di una concezione più ricca del linguaggio (proseguendo nella lettura di Heidegger oltre l’antropologismo nel quale si arresta la lettura bultmanniana) e del mito, che non è solo un tentativo di spiegazione del mondo, ma anche espressione di un tentativo di comprendere l’esistenza e i suoi limiti. Non è qui il luogo per approfondire i termini di questo confronto (che del resto il nostro autore porta avanti anche con l’ermeneutica teologica post-bultmanniana e la teologia protestante contemporanea: si pensi in particolare a nomi come Ebeling, Moltmann, Jüngel). Ci possiamo qui limitare a sottolineare come la coscienza ermeneutica esplicita e radicale che caratterizza tutta l’opera del Ricoeur maturo tanto nelle sedi strettamente filosofiche, quanto nei testi che si collocano alla frontiera fra filosofia, esegesi biblica e dialogo con la letteratura teologica - è ciò che fa la differenza rispetto al testo vibrante e appassionato della giovinezza che abbiamo prima esaminato (che comunque – ricordiamolo ancora una volta - rappresentava un “genere” diverso: non un lavoro “scientifico” ma una meditazione, dove peraltro veniva affermato, anche dal punto di vista del credente, il valore della ricerca della verità ad ogni livello). La stessa esperienza del credente deve passare, secondo Ricoeur, al vaglio di un’esegesi raffinata ed esigente, istruita dalle scienze del linguaggio e della storia e dal confronto coi “maestri del sospetto”: Marx, Nietzsche, Freud. Fra gli uomini del nostro tempo e la possibilità di sviluppare un discorso sensato sulla fede cristiana si frappone un lungo cammino di decifrazione di testi, si frappone il passaggio arduo fra i “conflitti delle interpretazioni” e le ermeneutiche rivali. Questa è la lunga via che Ricoeur s’impone di percorrere, assumendola come compito proprio alla sua vocazione filosofica, via che coinvolge anche il Ricoeur che riflette sul cristianesimo e sulle scritture cristiane, senza mai dimenticare di essere filosofo (e al quale è estranea l’idea di una “filosofia cristiana”). 4. “Un qualunque membro sofferente di Gesù Cristo”. Nell’opera presentata dallo stesso autore come una ricapitolazione del suo contributo filosofico, Soi-même comme un autre del 1990, Ricoeur spiega le ragioni dell’esclusione dal volume, dedicato all’ermeneutica del sé nel suo rapporto costitutivo con l’alterità, delle due conferenze finali di argomento biblico che pure 7 concludevano la serie delle Gifford Lectures, pronunciate ad Edimburgo nel 1986, che avevano costituito la prima stesura della ricerca. Si tratta innanzitutto di salvaguardare l’autonomia della ricerca filosofica in quanto tale, per una sorta di “ascetismo dell’argomentazione” che, afferma Ricoeur, “credo caratterizzi tutta la mia opera filosofica” e “conduce a un tipo di filosofia dalla quale la maniera effettiva di dire Dio è assente e in cui la questione di Dio, in quanto questione filosofica, rimane in una sospensione che si può dire agnostica”6. Si tratta di un’affermazione che sorprenderà certamente tutti coloro che hanno considerato il nostro autore essenzialmente come un pensatore religioso, e ci sarebbe da aggiungere che ciò è avvenuto sovente in Italia, utilizzando tale caratterizzazione in modo sommario anche per motivare la mancata lettura e ricezione del filosofo. Certamente Ricoeur ha tutte le ragioni, allorché rivendica il significato rigorosamente filosofico della sua ricerca: eppure egli stesso offre subito degli elementi che ci mostrano che questo stesso rigore comporta, più che un’assenza di rapporti, una forma originale e feconda di rapporto fra filosofia e cristianesimo. Quest’ultimo interviene, rispetto al discorso filosofico autonomo dell’ermeneutica del sé, a tre livelli: il livello delle motivazioni profonde della problematica, quello della messa in prospettiva secondo l’ottica nuova dell’agape cristiana della morale comune a tutti gli uomini e infine quello della ricapitolazione delle determinazioni del sé risultanti dall’itinerario filosofico-ermeneutico che sono ribadite e intensificate dalla concezione biblico-cristiana dell’uomo, senza che questa peraltro pretenda alcun privilegio rispetto ad altre scelte. Si tratta di una “fede senza garanzie” che trasforma, attraverso una scelta consapevole, in destino il carattere contingente dei riferimenti simbolici di cui essa è intessuta7. Va sottolineata la coerenza di questa fede senza garanzie con la concezione di un sé decentrato, concezione consapevolmente alternativa alle filosofie del soggetto che si pretende come trasparente a se stesso e si pone come fondamento ultimo. Ricoeur in questa fase più recente del suo pensiero accentua questa contingenza delle radici religiose e culturali di ciascun essere umano, che peraltro sono costitutive dell’identità personale: le singole religioni sono paragonate alle diverse lingue. Come esercitiamo la facoltà del linguaggio solo grazie a una lingua particolare, così attraverso le singole visioni religiose ci poniamo in rapporto con ciò che il nostro autore chiama il fondamentale. Il paragone con le lingue fa risaltare il ruolo della traduzione come paradigma dell’ermeneutica e come mediazione indispensabile nel dialogo interculturale e interreligioso8. Le dichiarazioni dell’anziano filosofo relative alle proprie convinzioni in materia di fede e alle proprie letture dei testi biblici e cristiani sono toccanti ed ammirevoli per la pietas personale 6 Paul Ricoeur, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, p. 36 (tr. it. di Daniella Iannotta, Milano, Jaca Book, 1993, p. 101). 7 Cfr. ibid., pp. 35-38 (tr. it., 99-102). Ho discusso questa problematica in Ricoeur. L’amore difficile…, cit., pp. 51-66. 8 Cfr. Paul Ricoeur, La critique et la conviction. Entretiens avec François Azouvi et Marc de Launay, Paris, KalmannLévy, 1995, pp. 220-222 (tr. it. di Daniella Iannotta, Milano, Jaca Book, 1997, pp. 204-206). Sul tema della traduzione si veda anche Paul Ricoeur, Le paradigme de la traduction, “Esprit”, n. 253, giugno 1999, pp. 8-19 (in via di pubblicazione in italiano nella traduzione di Mara Gasbarrone con altri testi ricoeuriani sulla traduzione in un volume della Morcelliana da me curato). 8 e per l’intelligenza profonda del senso che esse manifestano e nello stesso tempo hanno un carattere di rottura, consapevolmente “minoritario”, rispetto a molte delle credenze diffuse e sostenute ufficialmente nelle chiese cristiane (anche se non sono forse molto lontane, invece, dalle convinzioni e dalle ipotesi di ricerca di tanta parte della teologia contemporanea, protestante e non solo protestante). Il lettore potrà giudicare da solo, anche partendo dalle pagine che proponiamo nella parte antologica. Qual è in questo contesto il destino della figura di Cristo? La sua unicità non rischia di scomparire in un afflato interreligioso nel quale sembrano perdere rilevanza le differenze fra le diverse tradizioni? A questa domanda non bisogna, a mio avviso, avere troppa fretta di rispondere. Anche qui s’impone una “lunga marcia”. Forse come accade sempre allorché si affronta il nodo arduo dell’unità del vero e del pluralismo religioso. Intanto, per questo Ricoeur ultimo vorrei evocare la sua vicinanza spirituale – in un ideale dialogo che attraversa i secoli – con alcuni giganti del pensiero cristiano: un primo autore, da lui esplicitamente citato, è lo Eckhart del “distacco” - distacco da ogni preoccupazione per il proprio sé, persino per la propria sopravvivenza come singolo -; l’altro autore che si presenta alla mente e che appartiene allo stesso periodo dell’ “autunno del Medioevo” e di una cristianità non ancora divisa dalla Riforma, ma che già è travagliata da una crisi profonda, è Nicolò Cusano, con la visione universalistica del De pace fidei: non c’è che una sola religione nella diversità dei riti. E accanto a questi due autori, un altro la cui presenza ha sempre accompagnato il cammino del nostro filosofo: Kant. In una intervista recentissima Ricoeur afferma: “Al centro della religione ebraico-cristiana c’è l’idea che Kant aveva tanto celebrata di qualcuno che dà la sua vita per i suoi amici, senza che lo si costringa a farlo. L’idea dell’offerta d’una vita che è il contrario di quella del capro espiatorio, della vittima espiatoria sacrificata per punizione, per una sorta di rappresaglia di un dio malvagio e geloso. Non si tratta di una figura politica, ma è una figura che, all’orizzonte del politico, può introdurre l’idea d’una generosità, di ciò che io chiamo talvolta l’incognito del perdono, che consiste nella considerazione, nel rispetto di ciò che v’è d’insostituibile in ogni persona. Le persone possono essere dal punto di vista sociale relativamente sostituibili, tuttavia v’è in esse fondamentalmente una sorta di fraternità, che oggi è diventata una fraternità senza padre, la cui sorgente è la singolarità di ognuno come imago dei”9. Queste considerazioni vanno confrontate con la breve nota di Soi-même comme un autre nella quale l’autore dichiara di essere affascinato dalle parole del giovane curato protagonista del romanzo di Bernanos “Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stesso, allo stesso modo di qualunque 9 Paul Ricoeur: un parcours philosophique, intervista di François Ewald, “Magazine littéraire”, n. 390, settembre 2000, p. 26. 9 altro membro sofferente di Gesù Cristo”10. E’ stato questo testo, per quel che mi riguarda, a guidarmi nella ricerca dell’Amore difficile, che è appunto il retto amore di sé senza egoismo né narcisismo, nella condivisione fraterna con l’altro di una comune condizione umana. Possiamo sommessamente avanzare un’ìpotesi: che la cristologia dell’ultimo Ricoeur si concentri nella ricerca di un Christus absconditus in quel “qualunque altro membro” della comunità umana, nell’uomo sofferente e sfigurato in cui però è sempre possibile cercare una traccia dell’ imago dei. Un Cristo che vive, soffre e ama nella comunità dei fratelli, chiedendo a ciascuno la sua testimonianza non solo a livello della professione di fede, ma anche e forse soprattutto a quello della retta prassi, chiedendo a ciascuno di diventare suo luogotenente nell’agonismo etico proprio alla vita cristiana e nella donazione generosa di sé. Emerge qui il tema paolino della “conformità all’immagine cristica”, tema commentato nella seconda delle due conferenze finali che concludono le Gifford Lectures e che l’autore ha preferito pubblicare a parte, escludendole – come già si è detto - dalla stesura finale delle Lectures che è costituita dal ponderoso volume Soi-même comme un autre, per non incorrere nella temuta commistione dei generi 11. “E noi tutti, a viso scoperto [al contrario di Mosé che si metteva un velo sul viso], riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore” 2 Cor 3, 18. Si tratta pur sempre di una “gloria discendente”, gloria di Dio raffigurata in Cristo, gloria del cristiano diventato cristomorfo. Di tale cristomorfismo – metafora fondamentale dell’esistenza cristiana - Ricoeur esamina due variazioni, due filiazioni storiche: la figura del “maestro interiore” e la testimonianza della “coscienza”, la prima ci riporta ad un’epoca del pensiero cristiano patristico e medioevale in cui si consuma l’incontro con la filosofia antica, la seconda caratterizza in modo particolare la condizione cristiana moderna e contemporanea, nella quale diventa particolarmente acuta la tensione fra l’autonomia della coscienza e l’obbedienza della fede. Il cristiano è colui che discerne la conformità all’immagine di Cristo nell’appello della coscienza, grazie a un lavoro d’interpretazione, che produce una sintesi che è sempre un rischio, che tuttavia platonicamente è un “bel rischio”, che vale la pena di affrontare. E’ nell’onestà intellettuale di questo lavoro d’interpretazione che occorre saper ascoltare la voce di Ricoeur e la sua meditazione sul Cristo. Sarei tentato di dire che l’accento – dalla giovinezza all’età più tarda – tende a spostarsi dalla proclamazione della Verità cristiana come testimonianza che il Figlio rende al Padre alla presenza misteriosa e operosa dello Spirito di Cristo nella comunità post-pasquale dei credenti –; ma sappiamo anche che, nelle profondità della fede, lo Spirito è presente fin dall’inizio, così come la condizione di una fraternità senza padre evocata sopra, che è 10 Georges Bernanos, Journal d’un curé de campagne, Paris, Plon, 1974, p. 311 (tr. it. di Adriano Grande, Milano, Mondadori, 1965, p. 272). Cfr. anche Paul Ricoeur, Soi-même…, cit., p. 36 nota (tr. it., 100-101 nota). 11 Cfr. Paul Ricoeur, Le sujet convoqué. A l’école des récits de vocation prophétique, “Revue de l’Institut Catholique de Paris”, ottobre-dicembre 1988, pp. 83-99 (tr. it. di Rita Messori, in Ricoeur. L’amore difficile, cit., pp. 155-178). 10 retaggio del nostro tempo, è forse solo il velo di un rapporto più segreto con quel fondamentale che si nasconde e si rivela nel simbolo del Padre. L’uomo come imago dei – si diceva precedentemente - e non come simulacro del nulla. Intanto il Ricoeur che ancora oggi produce opere di sapienza filosofica, ancora di nuovo ci offre nuovi modi per accostarci alla sapienza cristiana. L’ultimo grande libro dedicato a La mémoire, l’histoire, l’oubli si conclude con la citazione di una parabola di Gesù, commentata da un grande pensatore cristiano: “Guardate gli uccelli del cielo […]. Osservate come crescono i gigli del campo!”. Si tratta di Mt 6, 24-34, testo al quale Kierkegaard ha dedicato nel 1849 tre suoi “discorsi edificanti” 12. Che cosa c’insegnano quegli umili maestri che sono gli uccelli dell’aria e i gigli del campo? Per Kierkegaard come per Ricoeur, essi c’insegnano a liberarci dall’affanno per la soddisfazione dei nostri molteplici bisogni quotidiani autentici o presunti, per concentrarci in un abbandono fiducioso sull’essenzialità della vita che ci viene donata. Se gli uccelli del cielo che non seminano e non mietono ricevono il loro nutrimento, se i gigli del campo che non lavorano e non filano hanno vesti più splendide di quelle del re Salomone in tutta la sua gloria, essi insegnano agli esseri umani che la loro umanità in quanto tale vale più di ogni ricchezza e di tutto ciò che essi possono presumere di conquistare coi propri sforzi. Essi c’insegnano come è magnifico essere uomini. Sottolineiamo, insieme con Ricoeur, quest’ultima notazione. Nel testo giovanile egli concludeva la sua meditazione sull’esistenza cristiana, ricordando che il cristiano non è un uomo tormentato, ma un cuore semplice. Ora, a conclusione dell’ultima opera, troviamo l’insegnamento di semplicità e di gioiosa accettazione della condizione umana degli uccelli del cielo e dei gigli del campo. Sembra essere un approdo che è anche un ritorno, dopo le lunghe peripezie dell’interpretazione, a quella “grazia delle grazie” che consiste nel riconoscersi e nell’accettarsi come “un qualunque membro sofferente di Gesù Cristo”. 12 Soren Kierkegaard, Il giglio nel campo e l’uccello nel cielo. Discorsi 1849-1851, a cura di Ettore Rocca, Roma, Donzelli, 1998. Cfr. Paul Ricoeur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000, p. 656. 11