BIOETICA La privacy genetica e i bisogni della RICERCA di Livia Romano I grandi database che raggruppano informazioni sulle caratteristiche genetiche degli individui sono strumenti indispensabili per i ricercatori ma la loro regolamentazione è oggetto di dibattito L’ARTICOLO IN BREVE gnuno di noi è dotato di È il caso dell’Islanda, ma anche caratteristiche genetiche di isole come la Sardegna o di peculiari, informazioni alcune enclave dove è invalso scritte nel proprio DNA che l’uso di sposarsi tra conoscenti determinano non solo l’aspetto e parenti lontani, come certe corporeo – il colore degli occhi aree della Calabria. o dei capelli – ma anche le malattie a cui rischia di andare INFORMAZIONI incontro. Per questo, da quan- NECESSARIE do è possibile decodificare il La creazione di banche dati patrimonio genetico di un genetiche, che contengono cioè individuo, le informazioni tutte le informazioni disponibiottenute costituiscono materia- li ottenute da soggetti sani le di studio ma anche da prezioso per gli pazienti, ha Le banche dati scienziati. Ciò sollevato molti sono preziose è vero in partidubbi e interper individuare rogativi: bencolare per i dati genetici di l’origine di malattie ché si tratti di popolazioni informazioni isolate o in cui gli individui necessarie alla ricerca – in sono fortemente imparentati grado, per esempio, di consenfra loro, perché i tratti genetici tire di individuare geni respon(e i loro effetti) risaltano con sabili, tra l’altro, di forme più forza dal quadro d’insieme. tumorali – non è chiaro ancora, O 14 Fondamentale gennaio 2010 Dopo che nel 1998 l’Islanda ha istituito il primo database nazionale di informazioni genetiche, la comunità scientifica e quella bioetica si sono interrogate sui diritti individuali in materia di protezione del proprio DNA. A dieci anni di distanza non si è ancora giunti a una valutazione univoca, anche se alcune sentenze vanno nella direzione della tutela della privacy individuale e del diritto al consenso informato nel momento del prelievo del materiale genetico. dal punto di vista etico e legale, a chi appartengano e che effetti potrebbero avere in futuro. “Facciamo l’esempio di una figlia di genitori portatori di un gene che predispone alla comparsa di una malattia grave. E se lei non volesse sapere quale sarà il suo destino? Oppure, se ci fossero due sorelle e una volesse sapere e l’altra no, che effetti avrebbe sul diritto a non sapere l’esistenza di una banca dati che contiene l’informazione?” si interroga Giovanni Boniolo, direttore del dottorato di ricerca in bioetica orga- nizzato da IFOM e dall’Università di Milano. Le questioni sollevate da questi strumenti di ricerca riguardano anche l’intera società, poiché in futuro potrebbe essere possibile conoscere la predisposizione ad ammalarsi di un individuo, anche a sua insaputa, con evidenti ricadute negative sul piano personale (per esempio sulla possibilità di contrarre un’assicurazione sanitaria o sulla vita, o nella scelta di un compagno o una compagna con cui fare figli), e sul piano lavorativo (i datori di lavoro potrebbero Una storia che viene dal freddo essere restii ad assumere una persona con un rischio più elevato della media). CENSITI PER LEGGE La questione della cosiddetta privacy genetica è stata sollevata per la prima volta in relazione alla creazione di una banca dati genetica nazionale in Islanda (per conoscere la storia, vedi il riquadro in questa pagina). “La novità del caso Islanda non sta né nell’interesse dei genetisti per queste informazioni né nella raccolta dei dati con strumenti informatici, ma nel fatto assolutamente inedito che un parlamento sovrano autorizzi per legge un’impresa privata a raccogliere la totalità dei dati sulla storia sanitaria e sulla costituzione biologica dei propri cittadini” spiega Amedeo Santosuosso, giudice di Corte d’Appello a Milano e direttore dello European Centre for Life Sciences, Health and the Courts dell’Università di Pavia. “La legge islandese non prevede in alcun punto la necessità del consenso informato da parte delle persone di cui si raccolgono i dati, e questo perché ammette esplicitamente che sarebbe costato molto sforzo, tempo e denaro. La scelta è stata quella di criptare le informazioni, rendendole anonime (ma non si può mai essere certi di questo)”. Un problema, quello dell’anonimato, ben noto anche a chi svolge indagini epidemiologiche, per esempio sulla relazione tra abitudini di vita e insorgenza dei tumori, per le quali è necessario rendere le schede di rilevazione assolutamente impersonali. “In Italia, chiediamo sempre il consenso informato anche per le indagini genetiche ed epidemiologiche, se effettuate su materiale raccolto nel corso di esami diagnostici o di terapie” spiega Marco Pierotti, direttore scientifico dell’Istituto nazionale tumori di Milano. La soluzione per facilitare sia il lavoro dei ricercatori (assolutamente necessario per un progresso nelle terapie) sia il diritto dei singoli alla privacy genetica potrebbe essere quello di considerare le indagini genetiche, così come quelle epidemiologiche, alla stregua delle sperimentazioni non umane, cioè effettuate su puri dati e non direttamente su persone. “Dal punto di vista legislativo è una questione ancora in discussione, perché molte delle rilevazioni genetiche si fanno comunque nell’ambito di una relazione tra medico e paziente, che prevede obbligatoriamente il consenso informato” spiega ancora Santosuosso. Il caso Islanda non è poi così lontano da noi, se si tiene conto del fatto che sono nate diverse società, pubbliche e private, che intendono studiare i profili genetici di popolazioni particolari, per esempio dei sardi, con lo scopo nobile di individuare l’origine e una possibile cura per malattie molto gravi, ma comunque con importanti questioni etiche ancora da risolvere. “Il problema è che in Italia, ma in generale in Europa, non se ne parla abbastanza, con la scusa che si tratta di questioni troppo complesse per il pubblico generale” afferma Giovanni Boniolo. “E così le leggi vengono promulgate senza che vi sia, nella popolazione, una adeguata consapevolezza delle conseguenze di certe scelte, siano esse positive o negative. Le leggi, in ambito bioetico, devono sempre essere il risultato di una discussione ampia e condivisa”. Nel 1998 l’Islanda, grazie a una legge approvata a larga maggioranza dal Parlamento, istituisce una banca dati genetica che raccoglie le informazioni su tutti i cittadini dell’isola (circa 300 mila). Due anni dopo, davanti all’impegno economico dell’impresa, l’intero database viene affidato a una compagnia privata, la deCode genetics, fondata da un genetista islandese ma affiliata a una nota casa farmaceutica. La banca dati è ovviamente anonima ma incrociando diversi file un esperto potrebbe facilmente risalire ai singoli individui. Dopo questa decisione, circa 20 mila cittadini islandesi hanno chiesto di essere esclusi dalla raccolta di informazioni, in quando ritengono non etica la cessione a un privato. Alcuni di loro, tra l’altro, rivendicano il diritto di non fornire dati e persino di non ricevere informazioni su rischi desunti dallo studio di geni di parenti e familiari. Nel 2003 una ragazza allora minorenne, Ragnhildur Guomunsdottir, si è rivolta, tramite la madre, alla Corte suprema del Paese per impedire che i dati genetici del padre, nel frattempo deceduto, venissero inseriti nel database. Il presupposto è che una figlia, poiché condivide il 50 per cento dei geni paterni, è proprietaria del diritto di veto, mentre una moglie, che non condivide geni comuni, non può appellarvisi. La Corte suprema le ha dato ragione, poiché ha riconosciuto che attraverso i geni del padre è possibile ottenere informazioni anche su di lei, stabilendo di fatto, per la prima volta in Europa, un diritto alla privacy genetica. Il 19 novembre del 2009, la deCode Genetics ha dichiarato fallimento, travolta dalla bancarotta in cui versa l’intero Paese. Da quando è nata, infatti, non è riuscita a generare profitti se non quelli ottenuti grazie a contratti con case farmaceutiche per la messa a punto di nuove terapie mirate o per l’identificazione di eventuali bersagli. Ora l’intero patrimonio di informazioni (comprendente il genoma di circa 140 mila islandesi) è in vendita e si è fatta avanti una nota casa farmaceutica britannica, conosciuta anche per la sua imponente attività di ricerca.