ia dispensa di

annuncio pubblicitario
PROF. BENIAMINO ANDREA PICCONE
(CON LA SUPERVISIONE DEL PROF. ARCUCCI)
A
I DISPENSA DI
ECONOMIA E TECNICA DEGLI
SCAMBI INTERNAZIONALI
L’ATTIVITÀ ECONOMICA INTERNAZIONALE
A.A. 2010- 2011
1
INDICE
L’ATTIVITA’ ECONOMICA INTERNAZIONALE
1. Conoscenze di base dell’economia internazionale:
-
introduzione; i giudizi di valore; variabili fondo, variabili flusso;
-
variabili macroeconomiche e microeconomiche;
-
variabili reali e variabili finanziarie; variabili strutturali e variabili
congiunturali.
2. Le tendenze evolutive dell’economia mondiale e del commercio
internazionale:
-
dimensioni e struttura dell’economia mondiale; la crescita dell’economia
mondiale, della popolazione e del commercio internazionale;
-
struttura della produzione dei vari Paesi e del commercio internazionale;
-
i principali parametri del commercio internazionale dei vari Paesi (peso
specifico, grado di apertura, grado di attrazione degli IDE, rapporto M/X,
ragioni di scambio);
-
le caratteristiche della prima e della seconda rivoluzione industriale e i loro
effetti sul modello del commercio internazionale;
-
evoluzione del commercio internazionale dopo la seconda Guerra Mondiale;
-
gli accordi di Bretton Woods, il sistema multilaterale di libero scambio;
-
l’integrazione economica su base regionale;
-
l’attuale struttura del commercio internazionale per macroaree regionali;
-
i grandi problemi irrisolti dell’economica mondiale: squilibri del Pil procapite, squilibrio nella bilancia dei pagamenti, disoccupazione, immigrazione;
-
cenni sulle tipologie di globalizzazione dei mercati;
-
il ruolo della Cina, dell’India e dei Paesi Emergenti nell’economia
internazionale. Le speranze dell’Africa.
3. La cooperazione internazionale in campo economico-finanziario:
-
i livelli di integrazione regionale;
-
organizzazioni mondiali e regionali.
APPENDICE: Relazione di M. Fortis, L’Italia nella nuova economia del G20
Ringrazio la dott.ssa Chiara Galletta che ha contribuito a questa nuova edizione.
2
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una
volta sola”, Paolo Borsellino1
“Ho incontrato molti ragazzi, studenti, giovani impegnati nello studio e nel lavoro.
Spesso non sono soddisfatti dela loro precaria condizione ma ho osservato che non
cadono nel disincanto o peggio nel cinismo. Affrontano la realtà per quello che è e si
preparano a cambiarla. Questo è per me il punto, il ricambio generazionale, quando
questi giovani chiederanno con vigore ai loro padri: “Ora fatevi da parte”. E’ ciò che
fece la mia generazione all’indomani della guerra. Tra molte difficoltà e incertezze
dicemmo: “Ora tocca a noi”. Ce la facemmo. Anche loro ce la faranno”, Carlo Azeglio
Ciampi2
“Al conservatorio di Pechino dove sono entrato a nove anni, ho
trovato un ambiente molto competitivo, ma anche stimolante. E’
stata una grande sfida. Dovevo emergere su 10 milioni di bambini
che suonavano il pianoforte. Adesso sarebbe peggio: sono in 40
milioni.” Lang Lang3
1
Paolo Borsellino (Palermo, 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano, vittima
della mafia. È considerato un eroe italiano, come Giovanni Falcone, di cui fu amico e collega.
2
Carlo Azeglio Ciampi (Livorno, 1920) è un economista e politico italiano, decimo presidente della
Repubblica dal 18 maggio 1999 al 10 maggio 2006. È stato governatore della Banca d'Italia dal 1979
al 1993, presidente del Consiglio dei ministri e ministro del tesoro (1996-1999). Con la fine del suo
mandato presidenziale è diventato senatore a vita. Ciampi fu anche il secondo presidente eletto dopo
essere stato governatore della Banca d'Italia preceduto da Luigi Einaudi nel 1948. Il passo è tratto dal
libro “Da Livorno al Quirinale”, Il Mulino, 2010
3
Lang Lang (1982) è un pianista cinese. Il passo è tratto da un’intervista a Il Sole 24 Ore del 22
giugno 2010
3
“Se hai trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol
dire che le domande che ti sei posto non erano quelle
giuste”, Oscar Wilde4
“The real secret of success is enthusiasm. You can do
anything if you have enthusiasm. With it there is
accomplishment. Without it there are only alibis”, Luca
Cordero di Montezemolo5
4
Oscar Wilde (Dublino, 1854 – Parigi, 1900) fu uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Autore
dalla scrittura apparentemente semplice e spontanea, ma sostanzialmente molto ricercata ed incline
alla ricerca del bon mot, con uno stile talora sferzante e impertinente egli voleva risvegliare
l'attenzione dei suoi lettori e invitarli alla riflessione. È noto soprattutto per l'uso frequente di aforismi
e paradossi, per i quali è tuttora spesso citato. L'episodio più notevole della sua vita, di cui si trova
ampia traccia nelle cronache del tempo, fu il processo e la condanna a due anni di prigione per avere
violato la legge penale che codificava le regole morali in materia sessuale della sua stessa classe
sociale. Molti i libri scritti sulle sue vicende e sulle sue opere, tra le quali, in particolare, i suoi testi
teatrali sono stati considerati dai critici dei capolavori del teatro dell'800.
5
Luca Cordero di Montezemolo (Bologna, 1947) è un dirigente d'azienda italiano. Presidente della
Ferrari S.p.A. (dal 1991) di cui è stato anche Amministratore Delegato (fino a settembre 2006),
presidente della FIAT S.p.A. (dal 2004 al 2010). Ha fondato Charme, fondo finanziario
imprenditoriale, con cui nel 2003 ha acquisito Poltrona Frau SpA, azienda di arredamento di cui è
anche Consigliere di Amministrazione. È stato presidente di Confindustria dal 25 maggio 2004 al 13
marzo del 2008. Il passo è tratto da un’intervista al Financial Times del 3.7.2010
4
1° CAPITOLO
Conoscenze di base dell’economia
internazionale
I.
CONOSCENZE DI BASE DELL’ECONOMIA
INTERNAZIONALE
“Il principio in gioco è la trasparenza del potere.
Un potere avvolto nel segreto è un potere totalmente antidemocratico. Solo Dio nasconde il suo volto: ma non direi
5
che Dio possa essere assunto come esempio di
democrazia”, Gustavo Zagrebelsky6
“Un giornalista deve
essera una persona perbene, con la schiena dritta, non
avere soggezione, e non avere paura della solitudine”,
Enzo Biagi7
INTRODUZIONE
I giudizi di valore
Economia e Tecnica degli Scambi Internazionali è una disciplina composita e
assai discrezionale nei contenuti. Si tratta di una materia che comprende vari aspetti
di natura economica, commerciale, finanziaria, valutaria, doganale e di politica
commerciale dei vari Paesi. In un certo senso si può parlare di economia
6
Gustavo Zagrebelsky (1943) è un giurista italiano, Giudice della Corte costituzionale dal 1995 al
2004. Il passo è tratto da un’intervista a L’Espresso, n. 25, anno LVI, 24 giugno 2010
7
Enzo Biagi (Pianaccio di Lizzano in Belvedere, 1920 – Milano, 2007) è stato un giornalista, scrittore
e conduttore televisivo italiano. È considerato uno dei giornalisti italiani più popolari del XX secolo.”
6
internazionale applicata, intesa come lo studio dell’effettivo svolgersi dei fatti e dei
rapporti commerciali e finanziari internazionali.
Il corso presenta pertanto collegamenti con filoni culturali diversi della
Facoltà di Economia: macroeconomico, microeconomico e aziendale, giuridico e
normativo, matematico e statistico.
Gli argomenti verranno analizzati spesso in una triplice ottica: in prospettiva
storica, nella situazione attuale e nella possibile evoluzione futura. Il corso, inoltre,
sarà svolto tenendo conto di alcuni giudizi di valore, ossia di postulati angolati sulla
nostra materia. Tali giudizi di valore vengono esplicitati nei termini seguenti.
Il primo giudizio di valore è che abbiamo una preferenza per lo sviluppo
economico rispetto al sottosviluppo. Il concetto di sviluppo economico appartiene ad
una porzione relativamente breve e recente della storia delle civiltà. Esso è infatti
figlio della rivoluzione industriale che ha avuto inizio in Inghilterra nella seconda
metà del sec. XVIII; fino ad allora le generazioni si erano susseguite in condizioni di
sostanziale stabilità economica e demografica in quanto non vi erano i mezzi
necessari a sostenere un aumento significativo della popolazione. Inoltre,
nell’ideologia dominante l’accumulo di ricchezza era visto con sospetto. La riforma
protestante, prima, l’illuminismo, poi, e la rivoluzione industriale cambiarono
radicalmente il carattere dell’economia e del sistema sociale nonché le condizioni
demografiche e ambientali (formazione di un’etica del lavoro; divisione del lavoro;
separazione fra proprietà dei mezzi di produzione e produttori diretti; manodopera
salariata accentrata in un unico luogo di lavoro, la fabbrica; produzione di massa per
il mercato; utilizzo sistematico e intensivo di macchine utensili azionate da motori;
massicce migrazioni della popolazione dalla campagna verso le aree industriali
urbane). Da quel momento si iniziò dunque a parlare di sviluppo economico, di
crescita economica di un Paese e di tutte le grandezze che a questi concetti si
collegano.
Il grado di sviluppo economico di un Paese si misura generalmente con la
grandezza “Prodotto Interno Lordo”
rapportata alla popolazione
(PIL pro-capite) e con il PIL in termini assoluti (che corrisponde al valore monetario
7
dei beni e servizi prodotti in un certo periodo di tempo entro i confini di un Paese). Il
PIL in termini assoluti fornisce un’idea della grandezza dell’economia cui si
riferisce, non necessariamente del grado di sviluppo (sotto tabella di Repubblica,
28.7.10).
Ad esempio, l’Italia ha un PIL assoluto tale che la colloca senza problemi nel
gruppo degli otto maggiori Paesi industrializzati - il cosiddetto G8
8
- mentre come PIL pro-capite viene declassata attorno alla ventesima posizione. A
8
Recentemente il G7 è diventato G8 con l'aggiunta della Russia. Tuttavia la Russia non è un Paese
industrializzato per cui, sotto il profilo economico, si potrebbe continuare a parlare di G7. Il G8 è un
forum dei governi di otto tra i principali paesi industrializzati del mondo: membri del G8 sono:
•
Stati Uniti
•
Giappone
•
Germania
8
livello europeo siamo 13esimi, secondo Eurostat (sotto tabella de Il Sole 24 Ore del
22 giugno 2010).
Ecco una lista dei primi dieci paesi per PIL pro capite espressi in valore nominale e
in valori aggiustati tenendo conto della parità dei poteri di acquisto per l'anno 2007:
PIL (nominale) pro capite
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Lussemburgo
Norvegia
Qatar
Svizzera
Irlanda
Islanda
Danimarca
Svezia
Finlandia
Paesi Bassi
104.673
83.922
72.849
63.830
59.924
58.084
57.261
49.655
46.602
46.261
•
Regno Unito
•
Francia
•
Italia
•
Canada
•
Russia
PIL (PPA) pro
capite
Qatar
Lussemburgo
Malta
Norvegia
Brunei
Singapore
Cipro
Stati Uniti
Irlanda
Hong Kong
80.870
80.457
53.359
53.037
51.005
49.714
46.865
45.845
43.144
41.994
Il suo predecessore G7 (G8 senza la Russia), in vigore dal 1976, riunisce ancora oggi i ministri
dell'economia dei primi sette Paesi. Inizialmente esistevano il G6 e , con l'ingresso del Canada, il G7,
il quale è poi stato a sua volta allargato alla Russia in virtù della sua potenza militare e della sua
importanza politica, grazie alle quali può influire sugli equilibri mondiali. Durante i summit, i
rappresentanti dei Paesi membri discutono di importanti questioni di politica internazionale, per
definire i futuri assetti del mondo. Secondo le stime del PIL 2008, gli otto Paesi del forum figurano ai
primi 12 posti per ricchezza prodotta.
9
Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database,
Segue la lista dei primi 50 Paesi del mondo a livello di PIL (nominale e PPA)
Pos.
nom.
Pos.
PPA
-
-
-
-
1
Paese
Mondo
PIL
nominale
PIL (PPA)
60.689.812
68.996.849
Unione europea
18.394.115
15.247.163
1
Stati Uniti
14.264.600
14.264.600
2
3
Giappone
4.923.761
4.354.368
3
2
Cina
4.401.614
7.916.429
4
5
Germania
3.667.513
2.910.490
5
8
Francia
2.865.737
2.130.383
6
7
Regno Unito
2.674.085
2.230.549
7
10
Italia
2.313.893
1.814.557
8
6
Russia
1.676.586
2.260.907
9
12
Spagna
1.611.767
1.396.881
10
9
Brasile
1.572.839
1.981.207
11
14
Canada
1.510.957
1.303.234
12
4
India
1.209.686
3.288.345
13
11
Messico
1.088.128
1.548.007
14
18
Australia
1.010.699
795.305
15
13
Corea del Sud
947.010
1.342.338
10
16
20
Paesi Bassi
868.940
675.375
17
15
Turchia
729.443
915.184
18
21
Polonia
525.735
666.052
19
16
Indonesia
511.765
908.242
20
29
Belgio
506.392
389.518
21
38
Svizzera
492.595
312.753
22
32
Svezia
484.550
341.869
23
22
Arabia Saudita
481.631
593.385
24
42
Norvegia
456.226
256.523
25
35
Austria
415.321
328.571
26
19
Taiwan
392.552
711.418
27
33
Grecia
357.549
341.127
28
17
Iran
344.820
819.799
29
50
Danimarca
342.925
204.060
30
23
Argentina
326.474
572.860
31
31
Venezuela
319.443
358.623
32
25
Sudafrica
277.188
492.684
33
53
Finlandia
273.980
190.862
34
54
Irlanda
273.328
188.112
35
24
Thailandia
273.248
546.095
36
55
Emirati Arabi Uniti
260.141
184.984
37
47
Portogallo
244.492
235.904
11
38
28
Colombia
240.654
396.579
39
30
Malesia
222.219
384.119
40
41
Repubblica Ceca
217.077
262.169
41
39
Hong Kong
215.559
307.065
42
37
Nigeria
214.403
315.401
43
51
Israele
201.761
200.630
44
40
Romania
199.673
270.330
45
46
Singapore
181.939
238.755
46
34
Ucraina
179.725
336.851
47
44
Cile
169.573
243.044
48
36
Filippine
168.580
320.384
49
27
Pakistan
167.640
439.558
50
26
Egitto
162.164
442.640
Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante. Pricewater House
(PWC) – una delle più importanti società di consulenza al mondo - ha pubblicato un
paper dove si ipotizzano i livelli di PIL nel 2050.
Secondo PWC Nel 2050 il G7 sarà composta da, in ordine di importanza:
Cina, India, Stati Uniti, Brasile, Giappone, Russia, Messico.
12
Secondo il rapporto, per avere un termine di paragone, l’economia britannica
crescerà mediamente solo del 2,3% l’anno tra il 2011 e il 2050, mentre quella della
Cina crescerà nello stesso periodo del 5,9% annuo e quella dell’India dell’8,1%.
I sorpassi: l’economia dell’India supererà quella del Giappone nel 2011, il
Brasile supererà la Gran Bretagna nel 2013, nel 2018 la Cina supererà gli Stati Uniti.
Nel 2031 l’economia del Messico supererà quella del Regno Unito. Nel 2047
l’Indonesia avrà un’economia più grande della Germania.
Ancora, ci atterremo al giudizio di valore in base al quale si dà la preferenza
ai meccanismi dell’economia di mercato rispetto a quelli dell’economia centralizzata
(anche detta economia di piano). Con l’espressione “mercato” si intende far
riferimento al complesso delle decisioni (negoziazioni) decentrate sull’uso delle
risorse (produzione, consumo, risparmio, investimento, esportazioni, importazioni) e
quindi sullo scambio delle stesse in funzione delle informazioni disponibili. Si tratta
di uno strumento di allocazione delle risorse attraverso il prezzo. Nell’economia
centralizzata,
invece,
le
decisioni
di
consumo
e
di
investimento
sono
prevalentemente stabilite da un piano centrale. Proprio tali decisioni accentrate hanno
il grave inconveniente di provocare uno scollamento tra domanda e offerta: si assiste
cioè ad uno spreco di risorse dovuto al miss-matching tra ciò che la domanda chiede
e ciò che l’offerta produce. Questo fatto, fra l’altro, porta come conseguenza lo
sviluppo del “mercato nero” dei prodotti che il consumatore cerca ma che il piano
non ha previsto di produrre. L’impostazione dell’economia “a decisioni accentrate”,
tipica dei Paesi socialisti facenti parte del blocco dell’ex Unione Sovietica, ha di fatto
dimostrato di non riuscire a reggere la “concorrenza” con l’economia di mercato. Il
13
vantaggio principale di quest’ultima è la flessibilità (è un’economia “a decisioni
decentrate”, cioè affidate alle unità economiche che compongono la domanda e
l’offerta), al quale però si accompagna il grosso difetto dell’instabilità. L’economia
di mercato è risultata comunque di gran lunga la migliore soluzione in quanto è stata
capace di produrre sviluppo economico più velocemente e meglio della prima9,
specie nel contesto della seconda rivoluzione industriale: quella dell’informazione.
Infine, dei circa 220 Paesi del mondo, si tratterà principalmente di quelli
industrializzati (circa 40), tipicamente produttori ed esportatori di manufatti,
privilegiando l’analisi delle strutture economiche, commerciali, finanziarie e
monetarie dei medesimi. Solo più raramente il riferimento sarà fatto ai Paesi in
economia di transizione (quelli che hanno in corso un processo di trasformazione da
economia pianificata in economia di mercato) e ai Paesi in via di sviluppo in genere
produttori ed esportatori di materie prime.
9
A questo proposito, W. Churchill – Primo Ministro Inglese degli Anni ’40 - ebbe modo di dire:
“L’economia di mercato è la forma peggiore di gestione dell’economia … salvo tutte le altre”.
Sir Winston Leonard Spencer Churchill (Blenheim Palace, 30 novembre 1874 – Londra, 24
gennaio 1965) è stato un politico, storico e giornalista britannico. Conosciuto principalmente per aver
guidato la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, è stato primo ministro del Regno Unito
dal 1940 al 1945 e successivamente dal 1951 al 1955. Noto statista, oratore e stratega, Churchill fu
inoltre un ufficiale dell'esercito britannico. Autore prolifico, vinse il Premio Nobel per la Letteratura
nel 1953 per i suoi scritti storici. Durante la sua carriera nell'esercito, Churchill combatté con il corpo
di spedizione chiamato Malakand Field Force nella battaglia di Omdurman in Sudan e durante la
seconda guerra Boera in Sud Africa. In questo periodo riuscì inoltre a raggiungere la fama come
corrispondente di guerra. Sulla scena politica per quasi sessant'anni, ricoprì numerose cariche
politiche e di governo. Nei primi anni del Novecento, durante i governi liberali, fu a capo del
Ministero per il commercio e l'industria (Board of Trade) e Segretario di Stato [1] per gli Affari interni
(Home Secretary). Durante la prima guerra mondiale fu, tra l'altro, Primo Lord dell'Ammiragliato,
Ministro delle Munizioni, Segretario di Stato per la Guerra e Segretario di Stato per l'Aviazione.
Combatté anche con l'esercito sul fronte occidentale e comandò il 6th Battalion of the Royal Scots
Fusiliers. Nel periodo tra le due guerre fu Cancelliere dello Scacchiere (il Ministro delle Finanze
britannico). Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Churchill fu nominato Primo Lord
dell'Ammiragliato. Successivamente in seguito alle dimissioni di Neville Chamberlain il 10 maggio
1940, diventò Primo Ministro del Regno Unito e guidò la Gran Bretagna alla vittoria contro le Potenze
dell'Asse. I suoi discorsi furono di grande ispirazione alle forze alleate impegnate in combattimento.
Dopo la sconfitta alle elezioni del 1945, Churchill diventò leader dell'opposizione. Nel 1951 diventò
nuovamente Primo Ministro fino al ritiro definitivo dalla scena politica nel 1955. Alla sua morte la
Regina gli concesse gli onori del funerale di stato, al quale parteciparono un gran numero di statisti.
14
1.
Domanda, Offerta e Prezzo
I concetti economici di base che qui illustriamo hanno la finalità di aiutare a
mettere a punto la rete concettuale di base che ci sarà utile per i successivi
ragionamenti. La prima nozione fondamentale che si deve avere in economia è quella
di domanda, di offerta e di prezzo. La domanda corrisponde all’impiego di risorse,
l’offerta alla disponibilità delle stesse. Per effetto della scarsità di risorse (concetto
insito nella definizione stessa di bene economico), la domanda tendenzialmente
supera l’offerta e solo attraverso il prezzo si ricostituisce l’equilibrio tra le due
grandezze. Vista da un’altra angolatura, un fatto può definirsi economicamente
rilevante allorché si abbia tendenzialmente la seguente disequazione:
Impiego di risorse (Domanda) > Disponibilità di risorse (Offerta)
(c.d. principio di scarsità)
Se un bene non identifica una disequazione del genere allora tale bene non potrà
definirsi economico (l’aria è il classico esempio di bene non economico, in tal caso
infatti l’offerta supera abbondantemente la domanda). La trasformazione del segno di
disuguaglianza in identità avviene grazie alla componente prezzo, come si evince
dalle classiche curve di domanda e offerta.
prezzo
Domanda
Offerta
prezzo
p*
Offerta
Domanda
p*
q*
quantità
q*
(situazione “statica”)
quantità
(situazione “dinamica”)
15
I due grafici mostrano situazioni di mercato esattamente opposte in quanto a curve di
domanda e offerta. Il grafico di sinistra può rappresentare l’andamento classico delle
variabili prezzo/quantità per la maggior parte dei beni in un contesto “statico”; il
grafico di destra, invece, descrive ciò che avviene talvolta in un contesto “dinamico”,
ossia che al crescere dei prezzi la domanda tende ad aumentare e viceversa (in queste
condizioni si dice anche che il mercato si “avvita”). Quest’ultima situazione si
riscontra in particolare per alcuni beni di investimento (immobili, obbligazioni e
soprattutto azioni) in certe fasi di mercato. In tal caso, la classica legge della
domanda e dell’offerta viene temporaneamente “congelata” (si può dire allora che si
è in presenza di bolle speculative10). Alla fine, anche in quest’ultimo caso, il prezzo
ritorna comunque ad essere l’elemento equilibratore.
L’instabilità caratteristica dell’economia di mercato, citata più sopra fra i
giudizi di valore, deriva proprio dal fatto che molto spesso, nella realtà, il mercato
oscilla, con ampiezze più o meno elevate, fra le due situazioni estreme tratteggiate
dai grafici sopra esposti. Il mercato cioè passa da una situazione “statica” che
risponde alla normale legge della domanda e dell’offerta (ossia, all’aumentare del
prezzo la domanda si riduce e l’offerta aumenta, e viceversa) ad una situazione
“dinamica”, in cui all’aumentare del prezzo la domanda cresce, mentre l’offerta
diminuisce (si riscontra cioè un comportamento “irrazionale” negli operatori).
Quest’ultima situazione di “avvitamento” del mercato, continuerà fino al punto in cui
il livello raggiunto dal prezzo non avrà convinto molti operatori a prendere beneficio
dei guadagni realizzati, incominciando a vendere parte delle attività acquistate nella
fase “rialzista” (in tal caso il mercato tornerà quindi momentaneamente in situazione
10
Per approfondimenti si consiglia la lettura di: Robert J. Shiller
, Euforia
irrazionale, Il Mulino, 2000; Carmen M. Reinhart, Kenneth S. Rogoff, This time is different, Princeton
, Ascesa e declino del denaro: una
University Press, 2009; Niall Ferguson
storia finanziaria del mondo, Mondadori, 2009.
16
“statica”, nella quale il comportamento degli operatori si riscontra essere
“razionale”). Lo stesso discorso vale nel caso opposto, in cui cioè il prezzo avrà
raggiunto livelli così bassi da innescare l’inversione del trend (“qualcuno” inizierà ad
acquistare, ritenendo i prezzi appetibili per una nuova fase di accumulazione di
attività, con la conseguenza di riportare temporaneamente il mercato nella situazione
“statica”).
Il prezzo è la variabile più complessa dell’economia. Infatti, teoricamente si
forma sul mercato solo per effetto dell’incontro tra domanda e offerta; di fatto, visto
che la libera concorrenza esiste solo in situazioni ideali, si può dire che nella realtà
sono operanti altre determinanti del prezzo, esogene rispetto al mercato, quali:
− la Pubblica Amministrazione;
− le corporations (intese come grandi aziende);
− i sindacati;
− l’estero.
La Pubblica Amministrazione tende ad orientare il prezzo di determinati beni
e servizi (ad esempio medicinali, trasporti pubblici, affitti, ecc.), in funzione di certi
obiettivi che si è posta, normalmente nel segno di un interesse pubblico prevalente.
Anche le imprese di maggiori dimensioni sono portate a controllare il flusso
dei loro ricavi esercitando un’influenza, talvolta anche dominante, sul prezzo. In certi
casi tali aziende sono effettivamente in grado di realizzare questa politica (si parla
infatti di monopoli globali o regionali); in molti altri casi si tratta semplicemente di
uno sforzo in tal senso, ma con risultati limitati. Questo tipo di comportamento si
giustifica, almeno in parte, con gli ingenti investimenti produttivi necessari in
determinati settori i quali richiedono, come contropartita, una certa stabilità dei flussi
finanziari in entrata sotto forma di ricavi di vendita e ciò al fine di ammortizzare
opportunamente i costi pluriennali sostenuti inizialmente. L’evoluzione dei prezzi dei
beni prodotti da queste aziende non potrà essere legata esclusivamente alle
condizioni di mercato, ma verrà controllata almeno in parte dall’impresa stessa.
Per quanto riguarda i sindacati, è noto che se il mercato del lavoro fosse
abbandonato a se stesso, darebbe luogo a grandissime oscillazioni del salario (prezzo
17
del lavoro) anche in senso negativo per i loro percettori (lavoratori). Di conseguenza
le organizzazioni sindacali, da quando si sono costituite alcuni decenni fa, hanno
sempre cercato di irrigidire il più possibile il prezzo del lavoro attraverso tutti gli
strumenti che la legislazione metteva loro a disposizione.
Infine, anche l’estero rappresenta un vincolo alla libera determinazione del
prezzo, poiché occorre fare i conti con la struttura dei prezzi che si determina
all’estero. Il mercato interno, nelle sue componenti di domanda e offerta, sarà infatti
influenzato anche da fattori provenienti dall’estero, intendendo con ciò sia il mercato
estero (nelle sue determinanti di domanda e offerta), che altri elementi esterni al
Paese considerato (quali le autorità pubbliche, i sindacati, le corporations estere).
Riassumendo, può dirsi che il motivo principale per cui altri fattori, oltre al
mercato, influiscono sulla determinazione del prezzo, è da ricercarsi nella esigenza di
stabilità e di minori fluttuazioni dello stesso rispetto a quelle condizioni che sono
tipiche del mercato in situazione di concorrenza perfetta.
Partendo da queste premesse di carattere generale e facendo riferimento ad un
sistema economico aperto all’estero, è facile individuare la domanda nelle
esportazioni, in quanto impiego di risorse, e l’offerta nelle importazioni, viste come
disponibilità di risorse, come si ricava dall’equazione del reddito che ricordiamo
essere:
PIL + M = C + ∆AR + X
OFFERTA (risorse disponibili)=DOMANDA (risorse impiegate)
La grandezza PIL è una disponibilità di risorse quindi fa parte, assieme alle
importazioni (M), dell’offerta; consumi (C) e investimenti in attività reali (presi
come variazione, ∆AR) costituiscono invece impiego di risorse e, con le esportazioni
(X), compongono la domanda. Inoltre, in un sistema economico chiuso si ha:
PIL = C + I (dove I = ∆AR)
e
da cui si trae che:
S=I
(S = ∆AR)
18
PIL = C + S
2.
Variabili Economiche
2.1 Variabili fondo e variabili flusso
Le variabili flusso riguardano la misurazione di un fenomeno economico con
riferimento ad un periodo di tempo. Ad esempio, in un anno si è guadagnato un
reddito di Y euro, oppure in un anno si sono effettuate spese per consumi per C euro;
ciò significa che in quell’anno il flusso di risparmio (S) è stato di (Y – C) euro. Altri
esempi di quantità flusso sono dati dalle spese effettuate in un certo periodo di tempo
per l’acquisto di attività reali (∆AR) oppure di attività finanziarie (∆AF)11. Lo stesso
vale per le emissioni di passività finanziarie effettuate durante un certo periodo di
tempo (∆PF).
Poiché nel tempo si assiste ad una stratificazione o accumulazione dei flussi
(al netto di eventuali flussi di segno contrario) è possibile prendere in considerazione
una quantità che è appunto la somma algebrica di tali flussi, misurata ad un certo
istante di tempo: tale grandezza viene definita variabile fondo. Ad esempio, ad una
certa data, si può calcolare la somma netta dei flussi di investimento (I = ∆AR)
effettuati durante i periodi precedenti, arrivando in questo modo a misurare la
consistenza delle attività reali in essere, cioè:
n
AR1 + Σ ∆ARi = ARn
i=1
dove: ∆AR1 = AR2 – AR1
n
Σ ∆ARi = ∆AR1 + ∆AR2 + … + ∆ARn
i=1
Analogamente, la sommatoria dei flussi di risparmio, calcolata ad una certa data,
costituisce il netto patrimoniale che è un concetto fondo e che può essere definito
come il complesso di risorse non derivanti da emissioni di passività finanziarie.
11
Quando una variabile viene presentata come flusso e non come fondo viene preceduta dal segno di
variazione “∆”.
19
Quanto detto vale anche per attività e passività finanziarie, per cui si avrà:
n
AF1 + Σ ∆AFi = AFn
(es. accumulazione di un portafoglio titoli)
i=1
n
PF1 + Σ ∆PFi = PFn
(es. consistenza dei depositi nel bilancio di una banca)
i=1
Si può pertanto associare la quantità flusso al concetto di variazione e quindi
riferita ad un arco di tempo e la quantità fondo al concetto di consistenza e pertanto
connessa ad un istante di tempo.
FLUSSO
VARIAZIONE
PERIODO
FONDO
CONSISTENZA
ISTANTE
In quest’ottica, ad esempio, il patrimonio (o ricchezza) risulta essere una
consistenza e la sua variazione è rappresentata dal reddito. Oppure, il livello generale
dei prezzi è una consistenza mentre la sua variazione è misurata dall’inflazione.
Ancora, lo stock di capitale esistente ad un dato istante è una consistenza, la sua
variazione è l’investimento.
In generale, in campo economico si da più importanza allo studio delle
variazioni piuttosto che a quello delle consistenze. Anzi, addirittura si considerano
come rilevanti le “variazioni delle variazioni” (variazioni delle variabili flusso).
Spesso, infatti, nell’interpretazione di molti fenomeni economici, l’aumento del PIL,
la riduzione del deficit, l’inflazione tendenziale (tutti esempi di variazioni delle
variabili flusso) hanno un peso maggiore rispettivamente del livello del PIL,
dell’ammontare del disavanzo e dell’inflazione media (tutte variabili flusso).
2.2 Variabili
macroeconomiche
microeconomiche
20
e
variabili
«Secondo una definizione classica, l’economia si interessa del modo in cui
vengono impiegate le risorse tra usi alternativi al fine di soddisfare i bisogni umani.
Generalmente viene suddivisa in due parti: microeconomia e macroeconomia. La
prima studia il comportamento economico delle unità individuali quali i consumatori,
le imprese e i proprietari di risorse. Uno degli scopi più importanti di essa consiste
nel facilitare la comprensione del funzionamento e degli effetti del sistema dei
prezzi»12. La seconda «si occupa invece dell’andamento del sistema economico nel
suo insieme: delle fasi di espansione e recessione, della produzione globale dei beni e
servizi e della crescita della produzione, dei tassi d’inflazione e di disoccupazione,
della bilancia dei pagamenti e dei tassi di cambio»13.
Se ne conclude che le quantità macroeconomiche sono quelle che attengono
all’intero
Italia
sistema
economico
(quale
può
essere,
ad
esempio,
l’azienda
). Ci si riferisce invece alla microeconomia allorché si
studiano i settori o le singole aziende di un sistema economico.
Questa distinzione è molto agevole quando, ad esempio, si parla, da una
parte, di un’impresa e, dall’altra, di una nazione. E’ invece meno agevole quando si
considera un grande settore dell’economia quale la Pubblica Amministrazione
centrale di un Paese. Ci si può porre quindi il quesito se i conti e le quantità che vi
fanno capo sono di tipo macroeconomico o microeconomico. La risposta è che siamo
di fronte a variabili microeconomiche, per quanto grandi esse siano nell’ambito del
sistema economico nazionale. La Pubblica Amministrazione, infatti, non è altro che
un’azienda di grandissime dimensioni che ha delle entrate (prelievo fiscale) e delle
uscite (spese correnti e di investimento). E’ però un’azienda che, rispetto al settore
privato, gode di due importanti privilegi: può aumentare “d’ufficio” il proprio
fatturato attraverso la leva fiscale (impoverendo in tal modo i settori privati da cui
12
4
E. Mansfield, Microeconomia, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 24.
R. Dornbusch – S. Fischer, Macroeconomia, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 13.
21
proviene il gettito); può utilizzare come strumento per finanziare le proprie attività la
moneta emessa dalla Banca Centrale nazionale. E’ quindi un’azienda che ha il potere
di influenzare alcune variabili macroeconomiche (imposizione fiscale, moneta). Il
debito della Pubblica Amministrazione è dunque una variabile microeconomica, ma
con
forti
connotazioni
macroeconomiche;
prova
ne
14
Maastricht
è
il
Trattato
di
(firmato il 7 febbraio
1992 dagli Stati aderenti all’Unione Europea, con l’obiettivo primario di creare una
completa unione economica e monetaria) nel quale la grandezza “debito pubblico” è
stata inserita fra le condizioni di stabilità macroeconomica di un Paese.
Le variabili macroeconomiche sono tenute particolarmente in considerazione
dagli osservatori internazionali per giudicare lo stato di salute dell’economia di un
Paese. A questo proposito, esistono condizioni fondamentali di equilibrio
macroeconomico con le quali un Paese deve confrontarsi se aspira ad ottenere
credibilità e rispetto nel panorama economico mondiale. Fra le principali condizioni
di stabilità macroeconomica – i cosiddetti fondamentali o fundamentals
14
Il Trattato di Maastricht (noto anche come Trattato sull'Unione europea, TUE) venne firmato il
7 febbraio 1992, sulle rive della Mosa, nella cittadina olandese di Maastricht, dai 12 paesi membri
dell'allora Comunità Europea, oggi Unione Europea ed è entrato in vigore il 1º novembre 1993. Il
Trattato di Maastricht comprendeva 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni. L'Unione
europea così creata veniva edificata sui tre pilastri del progetto Santer, il cui principale sarebbe stato
quello noto come “Comunità europea” (CE, in sostituzione della CEE), l'unico a carattere federale
rispetto agli altri due – sulla PESC e sugli affari interni – di carattere intergovernativo. L'Unione
dispone di un quadro istituzionale unico in quanto le sue istituzioni sono comuni a tutti e tre i pilastri;
oltre a quelle canoniche, viene ufficialmente riconosciuto il Consiglio europeo come organo di
sviluppo politico. L'Unione europea restava tuttavia una struttura anomala in quanto priva di
personalità giuridica e di risorse proprie, a parte quelle della CEE di cui tuttavia non avrebbe potuto
disporre. Fonte: Wikipedia
22
-
si
possono annoverare:
a) lo sviluppo economico come tendenza di fondo (la dinamica del PIL non deve
cioè essere autolimitata in modo artificioso da un Paese attraverso misure
restrittive su consumi, investimenti ed esportazioni);
b) l’occupazione (il mercato del lavoro, per favorire il più possibile l’assorbimento
della popolazione attiva, deve essere flessibile e non di esclusivo dominio del
potere sindacale);
c) la bilancia dei pagamenti (la dinamica dell’import/export di un Paese deve essere
possibilmente equilibrata, deve cioè evitare di mantenere saldi dello stesso segno
per lunghi periodi di tempo che porterebbero l’economia nazionale ad
accumulare eccessivo debito o credito verso l’esterno: in entrambe i casi, infatti,
gli altri Paesi ne verrebbero danneggiati);
d) l’inflazione (deve essere allineata con quella dei Paesi confrontabili ed è bene
che, anche in termini assoluti, sia mantenuta bassa);
e) il tasso di interesse (mutatis mutandis, vale il medesimo discorso di cui al punto
precedente riguardo la variabile inflazione);
23
f) il tasso di cambio (la buona gestione dell’economia di un Paese la si misura
anche con la stabilità del cambio o, comunque, con un cambio che semmai ha la
tendenza ad apprezzarsi);
g) il rapporto deficit pubblico/PIL (quando questo rapporto è elevato si verificano
tre fenomeni negativi: a) lo spiazzamento della domanda di credito per
investimenti privati; b) una pressione al rialzo sui tassi di interesse; c) la caduta
nella trappola del debito attraverso il moltiplicatore dell’accumulazione degli
interessi, il debito assume cioè una sua vita propria e si ingigantisce anche
quando si evita l’accensione di nuovi debiti);
h) il rapporto debito pubblico/PIL (questa variabile è collegata con quella di cui al
punto precedente e con il verificarsi della trappola del debito).
Al fine di realizzare l’euro
, la moneta unica europea, il
Trattato di Maastricht ha previsto che vi fosse il rispetto da parte dei Paesi membri di
cinque degli otto punti sopra elencati (stabilità dei prezzi, stabilità dei cambi,
convergenza dei tassi di interesse e rapporti deficit e debito pubblico su PIL)15.
Sviluppo economico, occupazione e bilancia dei pagamenti non siano stati inclusi,
nonostante rappresentino elementi fondamentali per poter esprimere in maniera
esauriente un giudizio sulla stabilità macroeconomica di un Paese.
2.3 Variabili
strutturali
e
variabili
congiunturali
Le variabili economiche possono essere ancora distinte in variabili strutturali
e variabili congiunturali. Le prime riguardano la tendenza di fondo dell’economia
15
I contenuti del Trattato di Maastricht verranno analizzati in dettaglio nella Parte Seconda dedicata
all’Unione Europea, con dispensa ad hoc.
24
(trend). Variabili strutturali sono innanzi tutto lo stock di risorse umane e di beni
capitali disponibili a livello del sistema produttivo, suddivisi tra settore agricolo,
industriale e dei servizi, oltre alle tendenze di fondo di quell’economia.
Le variabili congiunturali riguardano invece l’andamento ciclico della vita
economica di un Paese. Congiuntura
significa, infatti, situazione pro-
tempore dell’economia: essa individua cioè la posizione dell’economia nell’ambito
di un ciclo economico.
A questo proposito bisogna ricordare che il ciclo economico si sovrappone
alla tendenza economica di fondo di un Paese. Quest’ultima, ad esempio, potrebbe
avere la tendenza a svilupparsi ad un ritmo del 2,5%, mentre ci potranno essere fasi
di sviluppo al 6% e fasi di contrazione fino a valori negativi dell’1% e oltre. La
situazione dei rapporti con l’estero cambierà a seconda che un Paese si trovi nell’una
o nell’altra fase.
Tale discorso sulla differenza fra struttura e congiuntura può essere riferito a
produzione, consumo, investimento, risparmio, importazioni ed esportazioni, cioè
può darsi che ci sia, ad esempio, una fase di espansione del consumo all’interno del
Paese, ma una contrazione delle esportazioni così forte da determinare una
diminuzione del Prodotto Interno Lordo. Da ciò l’importanza di individuare le
componenti del PIL in quanto ciascuna di esse può attraversare una fase di
espansione o di contrazione. Nel complesso, infatti, solo la risultante delle
componenti in espansione o in contrazione che concorrono a formare il PIL, ne
determina la contrazione o la espansione complessiva rispetto al trend di fondo
dell’economia che, invece, può considerarsi una variabile strutturale.
La figura successiva mostra graficamente quanto detto in precedenza. Trend
di fondo e ciclicità sono due “misure” dello stesso fenomeno (nell’esempio,
l’andamento del PIL).
25
(esempio di posizione
congiunturale)
PIL
recessione
espansione
incontrollata
trendline
depressione
(bust )
espansione
durata media di un
ciclo completo:
tempo
circa 4 anni
Il trend di fondo viene normalmente raffigurato da una retta (trendline), che
può essere di regressione piuttosto che congiungente due punti di minimo o massimo
relativi (la pendenza della retta rappresenta sostanzialmente la “media” dello
sviluppo economico); la ciclicità ha di norma un andamento sinusoidale e un ciclo
completo viene convenzionalmente suddiviso in quattro fasi, mediamente della
durata di un anno ciascuna: espansione, espansione incontrollata (boom), recessione,
depressione (bust).
La ciclicità di cui si è detto (4/5 anni in media per compiere un ciclo
completo) riguarda principalmente l’industria e i servizi. Per il settore
dell’agricoltura si ha invece una ciclicità più semplice, scandita dal tempo
“astronomico”, ed è quella che viene definita “stagionalità”. Poiché ormai
l’agricoltura incide per una minima parte sull’attività produttiva dei Paesi
industrializzati, gli economisti studiosi delle fluttuazioni cicliche s’interessano
principalmente della congiuntura dei settori secondario e terziario (sono i c.d.
“congiunturalisti”). Esistono anche alcuni economisti (i c.d. “strutturalisti”) che si
occupano dello studio delle variabili strutturali, che attengono come si è detto al
26
trend di fondo (approssimativamente su dieci studiosi dei cicli economici, solo uno è
strutturalista, mentre i rimanenti nove sono congiunturalisti16).
Gli studiosi congiunturalisti si sono divisi storicamente in due grandi scuole
di pensiero: la scuola “monetarista” (M. Friedman
) e la scuola
). I monetaristi considerano il ciclo
“interventista” (J. M. Keynes
economico come un fatto inevitabile, fisiologico, al quale non contrapporre “forze”
eccessive per attenuarne le oscillazioni naturali. Secondo questi economisti le
pubbliche autorità di un Paese dovrebbero solo impostare le grandi linee della
politica economica e monetaria (in particolare, per quest’ultima la banca centrale
dovrebbe promuovere l’espansione fissa della massa monetaria), lasciando fare, per
il resto, al mercato. Posizioni di questo tipo sono condivise, in genere, dagli
schieramenti c.d. “di destra” che governano i vari Paesi del mondo industrializzato
(negli Stati Uniti sono i repubblicani). I monetaristi sostengono che l’intervento
esterno al mercato operato dalla “mano” pubblica per attenuare o eliminare la
ciclicità abbia come risultato addirittura l’amplificazione delle oscillazioni. Questo
anche perché non è possibile sapere con assoluta certezza in che punto ci si trova del
ciclo economico: si possono fare studi più o meno dettagliati, ma mai il fenomeno
potrà essere “fotografato” con precisione. In base alla teoria monetarista, quindi, per
attenuare le fluttuazioni dell’economia è opportuno che le autorità pubbliche
favoriscano la creazione di condizioni di stabilità di fondo (es. espansione fissa della
16
Per approfondimenti sul tema della congiuntura si consiglia: Innocenzo Cipolletta
Congiuntura economica e previsione. Teoria e pratica dell'analisi congiunturale, Il Mulino
27
,
base monetaria) e lì si fermino, poiché saranno poi le libere forze del mercato a
compiere l’importante azione stabilizzatrice.
Gli economisti interventisti (keynesiani), invece, vedono nell’intervento dello
Stato, attraverso la spesa pubblica, la via ottimale per stabilizzare il ciclo economico.
Secondo la teoria keynesiana, i pubblici poteri debbono operare sulle fluttuazioni
cicliche con una politica economica espansiva nelle fasi di recessione/depressione, in
modo da contrastare con la spesa pubblica (c.d. deficit spending) la flessione che si
verifica nel settore privato. Così facendo, la somma delle voci costituenti il PIL di un
Paese rimane pressoché invariata e l’obiettivo della stabilizzazione del ciclo è
raggiunto.
PIL = Consumi + Investimenti in attività reali + Spesa pubblica
Queste posizioni interventiste, sebbene siano teoricamente ineccepibili, hanno molto
spesso dimostrato, nella realtà, di esasperare piuttosto che di smorzare le fasi del
ciclo. E’ molto difficile, infatti, che l’intervento pubblico risulti “sincronizzato” con
l’inizio della recessione per la quale esso è stato deciso. In tal modo, oltre a mancare
l’obiettivo della stabilizzazione, si provocano sgradevoli “guai” aggiuntivi (tensioni
inflattive, spiazzamento dei consumi privati, ecc.). Nelle teorie keynesiane si
identificano perlopiù i programmi dei governi c.d. “di sinistra” (negli Stati Uniti, le
posizioni interventiste sono proprie dello schieramento democratico).
Oltre agli economisti di cui si è discusso finora (strutturalisti, congiunturalisti
a loro volta suddivisi in monetaristi e interventisti) vi è una categoria di studiosi che
analizza l’andamento dei cicli lunghi (o cicli generazionali). Il primo a proporre
l’affascinante
Kondratieff
teoria
dei
cicli
lunghi
fu
l’economista
sovietico
, il quale sostenne che la grave crisi che colpì il sistema
capitalistico occidentale nel 1929 non era altro che la fine di una fase di crescita
dell’economia che durava ormai da molti anni, non certo la fine e il fallimento del
28
capitalismo come aveva preconizzato invece il “collega” Karl Marx
. E la storia, almeno in linea di principio, diede ragione a Kondratieff. Quest’ultimo
sosteneva che lo sviluppo economico seguiva andamenti ciclici lunghi (di 36 anni di
durata complessiva), composti da fasi di espansione/crescita e da fasi di
recessione/depressione di durata quasi eguale. La crisi del ’29 segnò l’inizio di una
lunga discesa che sarebbe terminata solo 18-20 anni più tardi, con la ripresa
economica del secondo dopoguerra (gli anni Cinquanta).
Interpretare in modo coerente i cicli lunghi dell’ultimo secolo è certamente
un’impresa velleitaria, ma questo non ha impedito ad alcuni studiosi di dare delle
letture soddisfacenti e accattivanti delle epoche trascorse. La più convincente pare
essere quella proposta recentemente dallo studioso americano Christopher
Carolan
, il quale è pervenuto alla conclusione che nell’arco temporale
degli ultimi cent’anni di storia sono individuabili due andamenti ciclici, sfasati ed
interconnessi l’uno all’altro (il grafico di seguito riportato cerca di schematizzarne
l’andamento). Questo spiegherebbe molte delle contraddizioni che si riscontrano
normalmente quando si confrontano fra loro le diverse conclusioni cui sono giunti gli
studiosi dei cicli lunghi.
29
1901
1930
1937
1966
1973
2002
2009
ciclo
secondario
ciclo
principale
1910
1917
1946
1953
1982
1989
2018
Come appare subito evidente dall’analisi del grafico, sia la curva in grassetto
(ciclo principale) che la curva sottile (ciclo secondario) hanno medesima durata in
quanto a ciclo completo (36 anni, che corrisponde alla tipica durata del ciclo
kondrateviano) e a fasi ascendente (20 anni) e discendente (16 anni). Le fasi
sfavorevoli del ciclo principale sono tre (1930-1946; 1966-1982; 2002-2018) così
come quelle del ciclo secondario (1901-1917; 1937-1953; 1973-1989). L’azione
combinata dei due cicli kondrateviani interconnessi fa si che nei periodi 1937-1946,
1973-1982 e (in previsione) 2009-2018 si registrino mediamente andamenti pessimi
dell’economia mondiale. All’opposto, i periodi di maggiore positività si individuano
negli anni 1917-1930, 1953-1966 e 1989-2002.
Sulla scorta degli andamenti ciclici lunghi testé delineati, il periodo che
stiamo vivendo si colloca quindi in prossimità del punto di svolta del ciclo principale
(2002), analogo in questo al 1930 (anno di svolta che segnò l’inizio della grande
depressione) e al 1966 (anno in cui si preparò il periodo di grave disagio sociale che
va sotto il nome di Sessantotto). In base al modello presentato, dunque, gli anni
successivi al 2002 dovrebbero portare una situazione di iniziale discesa che verrà
però in parte attutita dal trend ancora positivo del ciclo secondario; il quadro si
aggraverà in modo pesante dopo il 2009, anno in cui i due cicli lunghi sommeranno
le loro forze entrambe di segno negativo. La grande incognita sarà se questa fase
30
molto negativa avrà le sembianze della grande depressione degli anni Trenta o
della “rivoluzione sociale” del Sessantotto. Oppure sarà invece qualche cosa di
completamente nuovo.
Lo studio dei cicli lunghi, come è facile intuire, non ha un’utilità immediata e
diretta per fare previsioni accurate in termini di giorni, settimane o mesi. A questo
scopo sono preposte altre metodologie d’analisi. L’obiettivo perseguibile attraverso i
cicli lunghi è soprattutto quello di evidenziare i grandi punti di svolta (top e bottom)
secolari dell’economia nel suo complesso. Il crash del 1987 che apparve ai più come
un grande punto di svolta, in realtà non lo era poiché risultava inserito in un periodo
che da favorevole stava diventando favorevolissimo (il ciclo principale era in piena
fase di ascesa). Perciò, l’analisi dei cicli lunghi dev’essere vista come uno strumento
d’indagine che affianca e completa il quadro relativo allo studio dell’andamento delle
variabili economiche strutturali e congiunturali, di cui si è detto in precedenza.
2.4 Variabili reali e variabili finanziarie
Per trattare in modo esaustivo l’argomento concernente le variabili reali
(economia reale) e le variabili finanziarie (finanza), e comprenderne al meglio le
differenze è utile far riferimento al metodo dei flussi di fondi. Poiché tale metodo di
analisi è atto ad introdurre l’approfondimento sul tema della finanza internazionale, è
stato opportunamente inserito in apertura della Parte Terza (Finanza Internazionale),
come primo paragrafo del Capitolo I, dedicato allo studio della struttura finanziaria
dei Paesi industrializzati e dei Paesi in via di sviluppo. Pertanto, ad esso si fa rinvio.
31
2° CAPITOLO
Le tendenze evolutive
dell'economia
mondiale e del commercio
internazionale
32
luce
“La luce del sole è il miglior disinfettante, la
elettrica è il miglior poliziotto”, Louis
Brandeis17
“L’India ha duecento milioni di giovani tra i 15
e i 24 anni di età, cioè più dell’interea popolazione del
Brasile e il 70% dei suoi abitanti ha meno di 35 anni”
David Bloom18
“Patria di quasi la metà della popolazione della
Terra, e di sei tra le nazioni più popolose del pianeta,
L’Asia ha fornito al mondo più di un quinto del suo
prodotto interno lordo, quasi il 30% del totale delle sue
esportazioni e un terzo dei flussi di capitali sio mercati
globali”, Bill Emmott19
“The lazier the cat, the happier is he is”, Carlo
20
Bastasin
17
Louis Brandeis (Louisville, 1856 –1941) è stato un avvocato e giurista statunitense, membro della
Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939. È ricordato per aver perseguito gratuitamente
tematiche di grande rilevanza sociale, promuovendo l'avanzamento del diritto in vari campi e la tutela
delle libertà civili.
18
David Bloom, Demografo di Harvard University, Chair, Department of Global Health and
Population. La citazione è tratta da F. Rampini, La speranza Indiana, Mondadori, 2007
19
Bill Emmott (1956) è un giornalista e saggista britannico. Corrispondente da Tokyo nel 1980, dal
1999 al 2006 è stato direttore della prestigiosa rivista britannica The Economist e durante il suo
periodo di controllo la rivista ha più volte criticato Silvio Berlusconi definendolo "inadatto a
governare"
20
Carlo Bastasin, giornalista italiano, tratto da “Italy: Fat PIIG or Lazy Cat?”, April 15th, Peterson
Institute
33
II.
LE TENDENZE EVOLUTIVE DELL’ECONOMIA
MONDIALE
E
DEL
COMMERCIO
INTERNAZIONALE
1.
La mappa e la crescita dell’economia
mondiale e del commercio internazionale
a) La mappa
L’attuale quadro dell’economia mondiale si compone di Paesi industrializzati,
di Paesi produttori ed esportatori di materie prime e di Paesi ad economia di
transizione.
Paesi industrializzati: si possono a loro volta suddividere in tre categorie. La
prima è costituita dai Paesi che dispongono di un sistema economico di ampie
dimensioni, derivante sia da un elevato reddito pro-capite che da un numero di
abitanti cospicuo ed in generale superiore ai 50 milioni di persone (con l’eccezione
del Canada). Volendo individuare brevemente le caratteristiche dei Paesi
appartenenti a questa categoria, bisogna osservare che Germania
Francia
,
Gran
Bretagna
34
,
e
Italia
sono molto simili, sia in termini di sistema economico, che di entità
si discosta invece da questi ultimi,
della popolazione. Il Canada
risultando infatti più affine agli Stati Uniti
: lo si può quasi
considerare una loro “appendice”. Il Giappone
, che pur avendo
iniziato a costruire le basi del suo attuale sviluppo solo dopo il secondo conflitto
mondiale, pur soffrendo della carenza di materie prime e dovendo affrontare il
problema della ricostruzione postbellica, è riuscito a raggiungere la posizione di terza
potenza industriale del mondo.
35
Una menzione particolare per i nuovi protagonisti della crescita mondiale:
India
21
22
e Cina
, che rappresentano il nuovo
baricentro economico del mondo. Nel 2010 la Cina rappresenta il 12% del PIL
mondiale. Nel 2009 la Cina è leader della produzione mondiale industriale con la sua
quota del 21,5%. Gli Stati Uniti dal 24,8% del 2001 sono scesi al 15%. Il Giappone
si è quasi dimezzato dal 15,1% all’8,5%. Questo il commento di L. Summers e T.
Geithner23
– principali collaboratori di Obama sul fronte economico-
in occasione del G20 di Toronto (27.6.10): “In this new era, when emerging markets
21
Si consiglia la lettura di F. Rampini, La Speranza Indiana, Mondadori, 2007
22
F. Rampini
, inviato di Repubblica in Cina, ha coniato il termine CINDIA. Si
consiglia la lettura di F. Rampini, L’impero di Cindia, Mondadori, 2004
23
Timothy Geithner (New York, 1961) è un politico statunitense. È dal 26 gennaio 2009 Segretario
al Tesoro degli Stati Uniti nell'Amministrazione Obama. Precedentemente aveva ricoperto il ruolo di
presidente della sezione di New York della Federal Reserve e di vice-presidente del Federal Open
Market Committee (FOMC).
36
account for two-thirds of global growth, concerted action by the G-20 is the only
effective way to confront the challenges that lie ahead. As world leaders arrive in
Toronto, we must renew the sense of common purpose and collective urgency that
has served the world so well over the past year and a half”.
Sia Cina che India fanno parte dei BRIC24, i Paesi a forte crescita individuati
anni fa dal capoeconomista di Goldman Sachs Jim O’Neill. Lo sviluppo e la crescita
economica sono in Asia. E così – ce ne siamo dimenticati – è stato nel passato. Nel
1820, secondo lo storico economico Angus Maddison25, nel 1829 Cina e India, da
sole, coprivano oltre la metà della produzione mondiale globale. Si sta avverando la
previsione di Napoleone due secoli fa, che disse: “Lasciate dormire la Cina, perchè
quando si sveglia farà tremare il mondo”.
24
BRIC è un acronimo utilizzato in economia internazionale per riferirsi congiuntamente a:
•
Brasile
Russia
India
Cina
Questi paesi condividono una grande popolazione (Russia e Brasile oltre il centinaio di milioni di
abitanti, Cina e India oltre il miliardo di abitanti), un immenso territorio, abbondanti risorse naturali
strategiche e, cosa più importante, sono stati caratterizzati da una forte crescita del PIL e della quota
nel commercio mondiale, soprattutto nella fase iniziale del XXI secolo.
25
Angus Maddison (1926 –2010) è stato un economista britannico, professore emerito presso la
facoltà di Economia dell'Università di Groningen. Membro della Organisation for Economic Cooperation and Development, è stato a capo della Divisione Economia dal 1953 al 1962. Autore di
numerosi lavori di analisi economica.
37
QUADRO DI APPROFONDIMENTO NEW LESSONS FOR RESILIENT ASIA
38
39
Nella seconda categoria sono da ricomprendersi Paesi che in taluni casi hanno
un reddito pro-capite spesso più elevato di quello dei Paesi del primo gruppo (si
pensi ad esempio alla Svizzera
), ma che hanno una popolazione
inferiore ai 10-15 milioni di abitanti. Quindi il fatto che siano stati collocati al
secondo posto nella nostra graduatoria non è dovuto al minor grado di sviluppo che li
caratterizza, bensì al minor numero di abitanti che li popola. Considerando infatti il
loro grado di sviluppo, si può rilevare che spesso sono ai primi posti per quanto
concerne il livello di industrializzazione. A tale proposito, è utile ricordare quali sono
i due indici più comunemente utilizzati per stabilire il grado di industrializzazione e
di sviluppo di un Paese (quest’ultimo, tra l’altro, è già stato evidenziato in
precedenza quando si è parlato del primo giudizio di valore):
capitale totale impiegato nell’industria
grado di industrializzazione = _____________________________________
numero totale degli addetti
Prodotto Interno Lordo
grado di sviluppo = _____________________
popolazione
Crediamo interessante far notare che l’Italia si colloca – a livello di
produzione industriale pro-capite - come la seconda nazione più industrializzata del
mondo26: “Davanti all’Italia, con un notevole vantaggio c’è la Germania. Al terzo
26
Marco Vitale
in Responsabilità dell’imprenditore, all’interno di Responsabilità
nell’impresa, Piccola Biblioteca INAZ, 2010
40
posto c’è il Giappone e al quarto gli USA. Molto staccate Francia, Gran Bretagna,
Spagna”.
La prima potenza industriale del mondo è saldamente insediata la Cina con il
21,5%(dati 2009), a fronte del 9% di nove anni fa. USA secondi con il 24,8%.
Giappone terzo con il 15,8%. Quarta la Germania con il 6,5%. Quinta l’Italia con il
3,9% della produzione industriale mondiale.
Per alcuni Paesi rientranti nella seconda categoria, questi due indici sono più
elevati di quelli corrispondenti alla maggior parte dei Paesi industrializzati maggiori.
Come vedremo, i Paesi industrializzati minori hanno inoltre generalmente un
elevatissimo grado di apertura dell’economia al resto del mondo, caratteristica questa
che è difficile invece riscontrare in modo così marcato nelle economie dei Paesi
maggiori.
La terza categoria di Paesi industrializzati è molto particolare. Si tratta di un
certo numero di Paesi (in passato soprannominati “NIC”, acronimo di Newly
), soprattutto del sud-est asiatico, che
Industrialized Countries
fino a 20 anni fa non poteva certamente essere ricompreso nel gruppo in parola (sono
le c.d. “Piccole e Grandi Tigri Asiatiche”, ovvero Thailandia
,
Filippine
,
, Malesia
, Indonesia
41
Hong
Kong
Sud
,
Taiwan
e Singapore
,
Corea
del
). Tali Paesi si distinguono da
quelli degli altri due gruppi non solo per la recente industrializzazione, ma anche per
le peculiarità del loro sviluppo legato ad una cultura non occidentale e quindi assai
diversa dalla nostra e, poiché l’industrializzazione è sempre stata figlia direttamente
o indirettamente dell’Occidente europeo, i caratteri di questa nuova forma di
industrializzazione sono per noi più difficili da interpretare. Ciò che caratterizza i
NIC non è un elevato reddito pro-capite, ma sono le straordinarie capacità di
risparmio, la disponibilità ad un lavoro particolarmente intenso da parte delle
maestranze, il basso costo del lavoro, la formidabile capacità di esportazione
soprattutto di prodotti che incorporano alta tecnologia e nella cui produzione i NIC
hanno raggiunto una posizione che spesso è di assoluto primato.
Paesi produttori ed esportatori di materie prime: si tratta di un gruppo molto
meno omogeneo e dai caratteri molto meno definiti rispetto al gruppo sinora visto.
Per l’analisi che seguirà, si ritiene opportuno operare una suddivisione dei Paesi in
quattro categorie:
1 Paesi produttori ed esportatori di materie prime aventi un tenore di vita
molto simile ai Paesi industrializzati e che, in molti casi, si potrebbero
confondere con essi. Si tratta in particolare di nazioni come
42
l’Australia
,
la
Finlandia
Grecia
, la Nuova Zelanda
Africa
e la Spagna
,
la
, il Sud
. Tali Paesi
sono percepiti, dalla comunità internazionale come Paesi industrializzati
senza che essi lo siano. Infatti si tratta di Paesi caratterizzati da un reddito
talora molto elevato, ma non sorretto da un adeguato sviluppo industriale
e di conseguenza non rientranti a pieno titolo nella categoria dei Paesi
produttori ed esportatori di manufatti.
2 Si tratta in generale di nazioni che sono riuscite a sviluppare una limitata
industrializzazione o che hanno beneficiato di particolari situazioni di
ricchezza del sottosuolo (escludendo le risorse energetiche suscettibili di
creare il raggruppamento dei Paesi dell’OPEC di cui parleremo
successivamente). Ci si riferisce, fra gli altri, all’Argentina, Cile, Turchia,
Portogallo.
2. Paesi africani ricchi di materie prime: Sud Africa (risorse minerarie: oro,
diamanti,
platino,
ferro,
uranio,
43
carbone,
cromo,
carbone),
Nigeria
(Paese inserito da Goldman Sachs nella lista
dei Next 11 tra i più promettenti del mondo, ricco di petrolio) e Sudan
(dove a gennaio 2011 si è tenuto un referendum per
l’eventuale divisione di nord e sud), grande produttore di petrolio e prodotti
petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero e bestiame. Paesi
. L’ENI è
asiatici come il Kazakistan27
uno dei più importanti partner privati del Kazakistan. Le relazioni con la compagnia
italiana risalgono al 1992, quando venne firmato il primo accordo di ripartizione
27
Il Kazakistan, è uno stato transcontinentale, a cavallo tra Europa ed Asia, ed è un'ex repubblica
dell'Unione Sovietica. Confina con la Russia, la Cina, e alcuni paesi dell'Asia centrale, quali il
Kirghizistan, l'Uzbekistan e il Turkmenistan ed è delimitato per un tratto dalle coste del Mar Caspio.
In termini di risorse naturali il Kazakistan è probabilmente il paese con la maggiore ricchezza pro
capite al mondo. Il problema è condurre serie politiche di sviluppo e distribuire la ricchezza tra la
popolazione, il che non è assolutamente facile in un paese dove la corruzione e il regionalismo sono
profondamente radicati. Il paese possiede circa il 60% delle risorse minerarie dell'ex Unione
Sovietica; vengono estratte grandi quantità di ferro nel bacino di Kustanaj nel nord-ovest, notevoli
quantità di carbone nei dintorni di Karaganda e Ekibastuz, e inoltre petrolio, metano e diversi metalli
usati nell'elettronica, nell'ingegneria nucleare e nella missilistica. Fonte: wikipedia
44
della produzione del campo di Karachaganak, nel nord del paese, di cui dal 1997
l’Agip è operatore e da cui già estrae il petrolio con una licenza per quaranta anni.
Scoperto nel 1979 questo campo copre un'area di 450 km² e le compagnie si sono
organizzate nel consorzio Karachaganak Integrated Organization (KIO) che vede la
partecipazione di: ENI/Agip e British Gas (co-operatori al 32.5%), ChevronTexaco
(20%) e la compagnia russa Lukoil (15%). Il progetto mira ad espandere la
produzione del campo, attiva dal 1984, dagli attuali 100,000 barili al giorno a più di
220,000 e ad aumentare la produzione di gas parallelamente. Dall’Azerbajan – ricco
di gas, in particolare dal Shan Deniz II field dovrebbe partire il gasdotto Nabucco28
che attraverserà Turchia, Bulgaria,
Romania, Ungheria e Austria.
4. Sono Paesi molto eterogenei fra loro. Si tratta dei Paesi dell’OPEC (Organization
of
Petroleum
Exporting
),
Countries
organizzazione
che
racchiude i Paesi arabi petroliferi e alcuni Paesi petroliferi non arabi. L’OPEC venne
fondata
a
Baghdad
nel
1960
da
28
Arabia
Saudita
,
Il gasdotto Nabucco è un progetto volto alla realizzazione di una nuova via di importazione del gas
naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente.
Collegherà la Turchia con l'Austria. Fra gli obiettivi dichiarati del nuovo gasdotto c'è il rafforzamento
della sicurezza dell'approvvigionamento per i Paesi componenti il consorzio e per l'Unione Europea
nel suo complesso. A gasdotto ultimato, infatti, il gas che affluirà sul mercato comunitario proverrà da
nuovi fornitori attraverso un nuovo corridoio di approvvigionamento. Fonte Wikipedia.
45
Iraq
,
Iran
,
Kuwait
e
con l’intento di difendere le rispettive economie dalla
Venezuela
flessione del prezzo del petrolio imposta dalle grandi compagnie petrolifere
internazionali. All’organizzazione aderirono in seguito altri Paesi, fra cui la Libia, la
Nigeria, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, l’Algeria, l’Ecuador, il Gabon, l’Indonesia.
Per completare il disegno della mappa dell’economia mondiale, è utile
sottolineare che gli Stati Uniti hanno caratteristiche tali che li rendono classificabili
sia come Paese produttore ed esportatore di manufatti che come produttore ed
esportatore di materie prime. Solo in tal modo si spiega il particolare e a volte
ambiguo atteggiamento degli Stati Uniti in campo economico e commerciale. Infatti
essi si schierano talvolta con i Paesi industrializzati, talaltra con i Paesi OPEC oppure
con i Paesi meno sviluppati che producono e commerciano materie prime, avendo
interessi contemporaneamente analoghi a quelli di ognuno dei tre raggruppamenti.
b) La crescita
Limitando l’analisi della crescita economica e degli scambi mondiali
all’ultimo secolo, è agevole notare come il grado di interdipendenza economica fra i
vari Paesi sia cresciuto enormemente dopo la seconda guerra mondiale. L’impennata
dell’interscambio mondiale di questo periodo veniva dopo la battuta d’arresto
determinata dalla grande crisi e dalle strategie autarchiche degli anni Venti e Trenta.
Il processo di liberalizzazione degli scambi e l’adozione delle regole che
costituiscono
il
sistema
monetario
46
internazionale
di
Bretton
Woods
, hanno favorito una crescita del commercio internazionale
che è stata pari in media a circa il 7-8% annuo. Poiché la produzione interna dei
singoli Paesi è cresciuta intorno al 3-4% annuo, l’importanza degli scambi è
aumentata enormemente in relazione alla produzione nazionale (il tasso di crescita
del commercio internazionale è risultato essere mediamente il doppio rispetto a
quello della crescita interna dei Paesi nel mondo). Inoltre, aumentando in media del
7-8% ogni anno, significa che il commercio internazionale in dieci anni raddoppia le
proprie consistenze, contro un ben più modesto incremento (circa 1,4 volte), nello
stesso lasso di tempo, della produzione mondiale (per raddoppiare ci vogliono circa
vent’anni).
Per avere una misura delle dimensioni raggiunte negli ultimi anni dal sistema
economico mondiale nel suo insieme, va innanzitutto detto che lo stesso può essere
considerato come la somma dei sistemi economici nazionali. Di conseguenza, il
prodotto lordo mondiale è ottenibile come somma dei prodotti interni lordi dei
singoli Paesi (circa 220) che compongono il sistema economico mondiale. Il risultato
che ne deriva è un reddito mondiale annuo che si aggira attorno ai 61.000 miliardi di
dollari29. In termini reali, le dimensioni dell’economia mondiale si sono quintuplicate
negli ultimi quarant’anni: questo significa che il tasso di sviluppo medio è stato di
circa il 3,5% all’anno, malgrado tre fasi di rallentamento: quella del 1973/75 (crisi
petrolifera), quella del 1980/82 (stretta creditizia), la fase di recessione all'inizio degli
anni Novanta (Crisi del Golfo, 1990; crisi dello SME, 1992), la crisi della New
Economy (2000; 2001, Attacco alle Torri Gemelle); la crisi finanziaria (2007-8).
Per commercio internazionale s’intende l’insieme degli scambi di beni e
servizi tra paesi diversi. Per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni di un
paese, esse sono registrate nella bilancia commerciale (in cui i beni e i servizi
scambiati con l’estero, insieme ai movimenti di capitale finanziario, formano la
bilancia dei pagamenti, ovvero il conto nazionale in cui sono registrate tutte le
transazioni economiche avvenute con l’estero; la bilancia dei pagamenti si compone
di alcune sezione: la prima registra le importazioni e le esportazioni di merci ed è
47
denominata bilancia commerciale; allo stesso modo gli scambi di servizi e di capitali
sono registrati rispettivamente nella bilancia dei servizi e nella bilancia in conto
capitale). Quindi è un importante indicatore della salute dell’economia nel suo
complesso, fornisce indicazioni sull’andamento dell’interscambio di merci e sulla
competitività internazionale dei settori produttivi di un paese.
Segue una tabella sul commercio intenazionale la cui fonte è: Il mondo in cifre, Economist, 2010
29
Fonte: The Economist, Il mondo in cifre, 2010
48
In passato si parlava di Occidente industrializzato e di Oriente come insieme di Paesi
in via di sviluppo. Questi ormai sono concetti sbagliati! Vediamo a tal fine in
dettaglio alcuni numeri sulla crescita
49
cinese
(foto di Pudong, Shanghai):
1. Cresce a livello di PIL di un 10% l'anno da più di un decennio;
2. è il più grande esportatore del mondo;
3. è il più grande importatore del mondo;
4. è il primo mercato di auto (Volkswagen e BMW fanno sfracelli in Cina), dei treni
ad alta velocità del mondo;
5. ha il numero di laureati maggiore al mondo;
Il supercomputer Tianhe-1A
6. l’Università nazionale di Pechino per la tecnologia della difesa – un centro
direttamente legato alle forze armate – ha di recente sviluppato un nuovo
supercomputer made in China – denominato Tianhe-1A - che ha il 40% di potenza in
più rispetto al precedente numero uno, un computer americano nato nei laboratori
dell’University of Tennessee. Riportiamo un’agenzia di stampa: “The fully
operational Tianhe-1A, located at the National Supercomputer Center in Tianjin,
scored 2.507 petaflops as measured by the LINPACK benchmark. That moves it past
Cray's 2.3 petaflops Jaguar located at Oak Ridge National Lab in Tennessee.
Tianhe-1A achieved the record using 7,168 NVIDIA Tesla M2050 GPUs and 14,336
Intel
Xeon
CPUs
consuming
50
4.04
megawatts”.
C’è ancora qualcuno che pensa che la Cina sia forte solo nei settori a basso valore
aggiunto?
Fonte: Il mondo in cifre, Economist, 2010
Il commercio internazionale è il pilastro fondamentale del globalizzazione
dell’economia; l’intensificazione delle relazioni internazionali dopo la 2° guerra
mondiale ha portato (tra 1950 - 90) ad un incremento degli scambi mondiali di circa
9 volte in volume e 30 volte in valore. Oggi il grado d’interdipendenza delle
economie dei vari paesi è tale che nessun Stato o nessuna impresa prende iniziative
commerciali importanti senza tenere conto della situazione geoeconomica e
geopolitica internazionale. Quasi tutti i paesi del mondo negli ultimi decenni hanno
aumentato il loro grado di apertura commerciale incrementando la % di prodotto
interno esportata e ricorrendo a importazioni per esigenze interne non soddisfatte da
produzioni nazionali. Questa progressiva liberazione del commercio non è
generalizzata e totale. In alcune aree e per dei prodotti, ci sono dazi e barriere
doganali per proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza esterna.
L’interdipendenza economica tra Stati è aumentata ed è dimostrazione di come uno
Stato più rimanere isolato.
Esempio d’interdipendenza. L’Italia importa il metano dall’Algeria e dalla Russia,
quindi dipende da questi stati, deve avere rapporti diplomatici con ambedue e
51
avvengono anche scambi, ma è anche dipendente. Ma può accadere anche che la
Russia o l’Algeria importino dall’Italia e per questo si parla d’interdipendenza.
2. Volume e dinamica del commercio internazionale, peso
specifico, grado di apertura, grado di copertura delle
importazioni, ragioni di scambio
Prima di addentrarci in ulteriori considerazioni più circoscritte sull’argomento
commercio internazionale, è opportuno introdurre da subito una serie di concetti che
renderanno più agevole il prosieguo dell’analisi.
1 volume del commercio internazionale: esprime l’entità degli scambi
internazionali denominati in dollari USA e in volumi.
2 dinamica del commercio internazionale: individua le variazioni nel tempo di
importazioni ed esportazioni.
Da questi primi semplici dati si evince immediatamente che, dal punto di
vista del commercio internazionale, la distinzione fondamentale fra i Paesi non
riguarda tanto se essi siano industrializzati o in via di sviluppo, quanto se essi siano
produttori ed esportatori di manufatti o produttori ed esportatori di materie prime
(compresi i prodotti energetici). Il commercio internazionale, infatti, è ancora
dominato dalla dicotomia fra le merci manufatte (provenienti dal settore secondario)
e le materie prime (derivate dal settore primario) suddivise in prodotti agricoli,
coloniali, minerali ferrosi e non ferrosi, metalli preziosi, prodotti energetici, ecc.
Il valore dei servizi scambiati internazionalmente, anche se in rapida crescita,
è pari ancora a circa il 30% di quello delle merci. Questa distribuzione 70%-30% è
stridente rispetto a quella esistente su scala nazionale dove, specie con riferimento ai
Paesi industrializzati, la distribuzione in parola è mediamente pari a circa 35%
(merci) e 65% (servizi). I servizi sono infatti dominanti negli Stati Uniti (75% del
PIL e dell’occupazione), in Francia (66%), in Italia (59%), in Germania (58%), in
Giappone (55%). Questo dimostra due cose: la prima è che i servizi sono oggetto di
negoziazioni internazionali in misura assai minore, per loro natura, di quanto lo siano
le merci; la seconda è che nel campo dei servizi permane una “cultura”
protezionistica assai dura a morire, nonostante gli sforzi effettuati in epoca recente
52
per consentirne l’esportazione. E’ probabile comunque che, malgrado le difficoltà in
parola, il commercio internazionale nei prossimi anni registri una crescita dei servizi
(telecomunicazioni, servizi IT, trasporti, servizi finanziari, turismo) più accentuata di
quella dei manufatti. Ciò significa che i dati forniti dagli uffici doganali saranno
sempre meno in grado di esprimere il valore effettivo dell’interscambio mondiale.
E’ importante, a questo punto, individuare alcuni parametri fondamentali
dell’economia mondiale che sono basilari ai nostri scopi conoscitivi:
1
peso specifico di un Paese nell’ambito dell’economia mondiale:
esso si ottiene dal rapporto tra il Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale e il
PIL mondiale:
PIL nazionale
peso specifico = __________________
PIL mondiale
Il peso specifico di un Paese, quindi, risulta essere tanto maggiore quanto
maggiore è il risultato numerico del rapporto sopra indicato.
Gli Stati Uniti rappresentano la prima economia del mondo (23%)con un Pil
con circa 14.000 miliardi $ (dati 2009) di Pil.
La zona Euro (16 Paesi) rappresenta – con 13.000 miliardi $ su 60.690 di Pil
mondiale - quindi il 20%.
Segue la Cina – seconda economia del mondo (se non aggreghiamo
l’Eurozona) e primo esportatore del mondo - e poi il Giappone, superato dalla Cina
nel corso del 2010. Poi la Germania (come Paese singolo).
2
grado di apertura di un Paese (o “grado di interdipendenza”) nei confronti
del resto del mondo: dato dal rapporto fra la media aritmetica dei flussi in entrata
(importazioni = M) ed in uscita (esportazioni = X) di un Paese ed il suo PIL
nazionale:
(X + M)/2
grado di apertura = ___________
PIL
53
Il grado di apertura del mondo (commercio internazionale : produzione interna)
nel suo insieme è pari a circa il 22%, suddiviso in 15% di merci e 7% di servizi. In
base all’entità del grado di apertura (g. di a.), è possibile classificare i Paesi in tre
grandi categorie:
a) g. di a. > 30%: Paesi apertissimi;
b) 15% < g. di a. < 30%: Paesi aperti;
c) g. di a. < 15%: Paesi chiusi.
I Paesi maggiormente aperti sono in genere i Paesi territorialmente poco estesi
che, per loro natura, non possono che essere più dipendenti dal commercio
internazionale. In questa categoria rientrano, fra gli altri, Svizzera, Olanda, Malesia,
Singapore, Irlanda, Malta, Belgio, Lussemburgo.
Fra i Paesi aperti sono da ricomprendere Germania, Italia e Gran Bretagna che hanno
valori del grado di apertura più o meno analoghi; la Francia, pur essendo considerata
un Paese aperto, mostra una più limitata propensione agli scambi e ciò dipende dalla
relativa autonomia economica di cui dispone, legata al fatto che è un Paese sia
agricolo che industriale. Volendo fare un paragone, si può affermare che essa
riproduce a livello europeo ciò che gli Stati Uniti rappresentano a livello mondiale e
cioè la funzione di produttore ed esportatore sia di manufatti che di materie prime.
Paesi chiusi sono tendenzialmente i Paesi di grandi dimensioni. Primo fra tutti
gli Stati Uniti, con un grado di apertura pari al 7%. Si tratta infatti di un Paese che
dipende limitatamente dal commercio internazionale, vista la varietà di materie prime
e di manufatti di cui dispone, favorita anche dalla sua estensione territoriale. Per le
medesime ragioni, anche l’Unione Europea si può considerare Paese chiuso, con un
grado di apertura che dovrebbe aggirarsi attorno al 10% (il processo d’integrazione
europea, inoltre, ha ridotto i volumi del commercio internazionale di circa il 20%,
pari a circa 1.500 miliardi di dollari annui di scambi che da internazionali divengono
nazionali). Il Canada, che abbiamo detto essere per molti aspetti un’“appendice”
degli Stati Uniti, presenta un’apertura agli scambi un po’ superiore al valore
riscontrato per gli Stati Uniti.
54
Il basso grado di apertura non è comunque sempre e solo collegato alla
dimensione geografica di un Paese. Vi sono infatti altri fattori che possono
influenzare la scarsa propensione a scambiare con il resto del mondo. Il Giappone, ad
esempio, con un valore pari all’8% è classificato come Paese chiuso (esporta molto,
ma importa poco) e questo può a prima vista sorprendere: trattandosi infatti di
un’isola, per definizione dovrebbe essere molto dipendente dal commercio
internazionale. Di fatto, essendo molto popolato (circa 130 milioni di abitanti) e
presentando una diversa struttura di prezzi e costi di produzione (struttura che è figlia
di un modus vivendi tipicamente giapponese), si può spiegare perché presenti un
valore così basso. Esiste infatti una stretta relazione tra popolazione, produzione e
scambi internazionali: tanto più la prima è grande, tanto più alta è la domanda interna
la quale assorbe la produzione nazionale e non necessita di importazioni se non in
misura limitata (nel caso del Giappone le importazioni saranno essenzialmente di
materie prime). A questo si deve inoltre aggiungere l’“avversione” che i giapponesi
manifestano normalmente nelle loro scelte di consumo verso i prodotti che non siano
di origine nazionale: questo atteggiamento deriva dalla radicata “cultura
nazionalistica” che da sempre contraddistingue il popolo giapponese.
Altri fattori che ostacolano l’apertura di un Paese agli scambi con l’estero
sono ravvisabili nella mancanza di fondi e di finanziamenti (questo avviene
tipicamente per i Paesi poveri, fra cui la Somalia, il Sudan, il Ruanda, il Perù,
l’Etiopia, per i quali la volontà di scambiare con il resto del mondo rimane tale per
mancanza di mezzi finanziari) o anche nella presenza di una religione che cresce i
propri adepti instillando loro una cultura fondamentalmente xenofoba.
Come già si è avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, il grado di
apertura della maggior parte dei Paesi industrializzati ha subito una notevole
impennata nel secondo dopoguerra (anni Cinquanta e Sessanta). Spostando l’analisi
del fenomeno più in là nel tempo, è agevole verificare come l’interdipendenza
internazionale sia fenomeno non solo del Ventesimo secolo, ma presente in modo
significativo in larga parte delle economie oggi sviluppate a partire dal
Diciannovesimo secolo (vedi tabella).
Incidenza percentuale dell’interscambio di merci (export + import) sul reddito
nazionale, 1800-1971.
55
Secolo XIX
Stati Uniti
Regno
Unito
Giappone
Francia
Germania
Italia
Danimarca
Norvegia
Svezia
Argentina
Australia
Canada
Inizio
Fine
15
20
14
56
Periodo fra le due
guerre mondiali
Anni
Anni
Venti
Trenta
11
8
42
34
_
16
28
_
_
_
_
_
_
_
16
33
35
22
55
44
35
_
40
28
37
51
34
26
57
43
32
_
35
36
36
24
20
28
49
36
25
36
_
26
Secondo dopoguerra
1955
1963
1971
8
44
7
33
9
37
25
24
37
26
60
63
46
30
38
28
20
22
32
28
55
58
41
18
29
34
22
28
38
33
52
59
44
14
26
41
Nota: data la crescente importanza dei servizi sui consumi finali aggregati, una misura corretta
dell’interdipendenza nei periodi recenti va espressa in termini di beni e servizi. Per confronti di lungo
periodo si è tuttavia generalmente costretti a misurare l’interdipendenza come rapporto fra
interscambio di sole merci e flusso di reddito nazionale (che include i servizi), data la carenza di
statistiche storiche sugli scambi internazionali di servizi: in tal modo il grado di interdipendenza viene
sistematicamente sottovalutato.
Schematizzando, anche sulla scorta dei dati riportati nella tabella, si può
affermare che:
a) già
agli
inizi
del
Diciannovesimo
secolo,
l’incidenza
percentuale
dell’interscambio di merci (export + import) sul reddito nazionale segnava valori
significativi per Paesi come gli Stati Uniti (15%), il Regno Unito (20%), la
Francia (16%) e la Germania (28%);
b) la riduzione delle tariffe doganali seguita alle guerre napoleoniche alimentò la
crescita degli scambi fino al 1870-1880, mentre nel periodo successivo e fino alla
seconda guerra mondiale si avvertì il peso di politiche protezionistiche, in
particolare durante la difficile transizione fra le due guerre mondiali;
c) se è vero che nel lungo periodo l’interdipendenza tende a crescere, il processo si
arresta, oltre che nei periodi di conflitto politico-commerciale generalizzato, in
quelle particolari fasi di ogni Paese in cui il decollo dell’industrializzazione viene
perseguito mediante protezione delle industrie nascenti (ad esempio, Stati Uniti e
Australia nel periodo precedente la prima guerra mondiale);
56
d) la crescita dell’interdipendenza produttiva e finanziaria fra Paesi ha registrato
tassi eccezionalmente elevati nel secondo dopoguerra, sotto la spinta della
progressiva liberalizzazione alle dogane, nonché dell’effetto diffusivo delle
imprese multinazionali.
La spinta all’interdipendenza non è stata indebolita dalle difficili condizioni
dell’economia internazionale venutesi a creare dopo gli shock petroliferi degli anni
Settanta. L’effetto della “tassa petrolifera” è stato una forte decelerazione nel tasso di
crescita della produzione e della domanda dei Paesi importatori di petrolio e dal 1982
un effetto negativo di rimbalzo sugli stessi Paesi esportatori di petrolio (caduta della
domanda e del prezzo reale del petrolio). La crescita nel volume degli scambi di
prodotti primari non agricoli degli anni Sessanta si è trasformata in netto calo dopo il
1973, riflettendo il risparmio energetico e il drastico ridimensionamento delle
industrie di base consumatrici di prodotti dell’industria estrattiva (a causa
dell’eccesso di capacità accumulato all’inizio degli anni Settanta). Ma l’interscambio
mondiale di prodotti agricoli è addirittura cresciuto negli anni Settanta, a causa dei
cattivi raccolti asiatici che hanno alimentato le esportazioni dei Paesi a vocazione
cerealicola (Stati Uniti, Argentina, Australia). La produzione manifatturiera ha
decelerato, mostrando i segni evidenti della recessione, e il volume delle esportazioni
mondiali di manufatti ha decelerato di conseguenza, ma senza manifestare alcuna
riduzione nel rapporto (elasticità) fra i due tassi di crescita. Negli anni Ottanta,
nonostante l’indiscutibile riemergere di pressioni neo-protezionistiche e di barriere
doganali (tariffarie e non), le esportazioni mondiali manifatturiere hanno continuato a
crescere ad un tasso più di una volta e mezza superiore a quello della produzione
manifatturiera, con una elasticità superiore a quella di lungo periodo.
Gli shock petroliferi, del resto, hanno agito da motore più che da freno degli
scambi mondiali. I Paesi petroliferi, dotati di nuovo potere d’acquisto, hanno
accresciuto le proprie importazioni di manufatti e di servizi a ritmi superiori ad ogni
previsione. D’altra parte, i Paesi colpiti dal maggiore disavanzo petrolifero nella
bilancia commerciale hanno cercato nuovi sbocchi per le loro esportazioni e, nel caso
di Paesi avanzati, una maggiore complementarità fra importazioni di semilavorati a
basso costo ed esportazioni di prodotti finiti. Il risultato di tutto ciò è che l’elasticità
57
rispetto alla produzione industriale dell’import-export di merci a prezzi costanti è
sensibilmente cresciuta dopo il 1973, salvo il menzionato abbassa-mento della
propensione a importare petrolio e prodotti primari, e che il grado di apertura
misurato a prezzi correnti è cresciuto negli anni Settanta a velocità ancora superiore a
quella dei due decenni precedenti.
In un confronto a cross section di più Paesi emerge la conferma econometrica
che il grado di apertura tende ad essere tanto maggiore quanto più piccole sono le
dimensioni geografiche, demografiche ed economiche dei Paesi. Infatti, al crescere
della dimensione geografica cresce la probabilità che i flussi commerciali tra
famiglie e imprese avvengano entro i confini nazionali, secondo l’indicazione dei
modelli di attività economica nel territorio. Inoltre, al crescere del reddito pro capite
tende a crescere la quota sul PIL dei servizi non traded. Tuttavia, vi sono tendenze di
segno esattamente opposto, per cui al crescere del reddito pro capite aumenta la
domanda di “varietà di prodotti”, si diversifica la capacità di specializzazione per
prodotti, aumenta la mobilità internazionale del capitale e del lavoro.
Infatti, un’attenta verifica econometrica delle “leggi dell’interdipendenza”
deve accuratamente tenere conto delle differenze strutturali fra Paesi, e stimare tali
relazioni entro gruppi (clusters) di Paesi variamente selezionati.
Vi è un aspetto importante su cui merita di soffermare l’attenzione per
valutare nella giusta prospettiva i problemi del vincolo esterno allo sviluppo dei
Paesi attualmente emergenti, in particolare di quelli oggi maggiormente indebitati a
seguito delle circostanze eccezionalmente a loro sfavorevoli che si sono verificate a
partire dagli anni Ottanta. Rapportato alla dimensione del rispettivo reddito
nazionale, il commercio estero rappresenta di regola una percentuale assai più
elevata per i Paesi in via di sviluppo nel nostro secolo, di quanto non fosse per i Paesi
oggi avanzati nell’epoca immediatamente precedente il proprio decollo. Il rapporto
export/PIL si aggira oggi sul 20%, per la media dei Paesi emergenti ed era intorno al
58
15% all’inizio del Ventesimo secolo. Secondo stime di Paul Bairoch30
, tale
rapporto era meno del 5% per i Paesi di prima industrializzazione a cavallo fra la fine
del Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo secolo.
Diversi sono i motivi che possono spiegare tale differenza di estrema
importanza sotto il profilo della storia dello sviluppo:
a) l’abbassamento dei costi del trasporto, registrato nel Diciannovesimo secolo
e favorito dalle nuove tecnologie di trasporto a vapore per mare e per terra,
provocò un rapido abbassamento delle “barriere naturali” agli scambi. Tra il
1820 e il 1910 il costo dei noli in termini reali diminuì di sette volte. Fu tale
caduta dei costi di trasporto a stimolare lo scambio internazionale di derrate
pesanti, come il grano e altri prodotti alimentari, favorendo il decollo di Paesi
a vocazione agricola (Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina) e
corrispettivamente la specializzazione industriale del Regno Unito prima, e
dell’Europa continentale in seguito;
b) il minore ruolo della rivoluzione agricola nei Paesi emergenti del nostro
secolo e, pertanto, gli assai frequenti problemi di disavanzo alimentare non
appena il reddito pro capite e dei consumi iniziano a salire;
c) la minor pressione demografica a cui furono soggetti gli attuali Paesi
avanzati nella loro fase di decollo e che oggi caratterizza i Paesi emergenti
del Ventesimo secolo;
d) gli effetti distruttivi del fenomeno della colonizzazione. Se, infatti, i massacri
delle popolazioni indigene compiuti dai conquistadores ed il traffico degli
schiavi furono un tragico antidoto alla sovrappopolazione di molte colonie, il
30
Nato nel 1930 ad Antwerpen (Belgio), Paul Bairoch è attualmente cittadino svizzero. Dopo avere
svolto ricerche all’École pratique des hautes études di Parigi e al Budget and Research Department
dell’American Joint Distribution Committee di Ginevra, è stato ricercatore – dal 1959 al 1966 –
all’Istituto di Sociologia dell’Université libre di Bruxelles, e dal 1966 è professore associato presso la
stessa università. Dal 1967 al 1969 è stato consigliere economico al GATT, a Ginevra. Dal l969 al
l971 ha insegnato al Dipartimento di Economia dell’Università Sir George Williams di Montreal. Nel
1972 è diventato professore al Dipartimento di Storia Economica dell’Università di Ginevra, che ha
diretto in due occasioni dal 1976 al 1983 e dal 1989 al 1991. Dal l995 è professore emerito. Dal 1991
dirige il Centre d’histoire économique internationale di Ginevra.
59
decollo economico di queste aree fu gravemente ritardato dagli effetti
distruttivi che la colonizzazione generalmente produsse sul loro tessuto
agricolo e artigianale. Il potenziamento delle piantagioni di cotone e di
prodotti tropicali non producibili nelle zone temperate (zucchero, caffè,
spezie) nonché delle attività estrattive (metalli preziosi) causò in molte aree il
declino dell’artigianato locale, senza stimolare miglioramenti di produttività
nei comparti agro-alimentari. Le conseguenze di questo “modello di
sviluppo” sono ancora avvertibili nel nostro secolo (il Ventesimo).
Fra i (pochi) segni positivi lasciati dai regimi coloniali vi sono certamente le
infrastrutture di trasporto, funzionali al movimento delle merci e degli stessi
coloni;
e) la differenza di costo degli investimenti fra l’antica e la nuova
industrializzazione. Le moderne tecnologie, per quanto adatte alle esigenze
dei Paesi riceventi, richiedono unità produttive incomparabilmente più
elevate, rispetto al basso livello di produttività e di reddito del settore
agricolo e artigiano, che non le tecnologie della prima rivoluzione industriale;
f) il basso costo dell’investimento, all’epoca della prima rivoluzione
industriale, dipendeva principalmente dalla semplicità tecnica delle macchine
di allora. Questa, a sua volta, rendeva relativamente facile l’imitazione e
comportava costi ridotti per l’istruzione della manodopera.
La rapida diffusione del progresso tecnico comporta sia una minore
dipendenza dalle importazioni, sia una maggiore specializzazione produttiva
basata su costi del lavoro e della materia prima, che in ultima analisi conduce
a maggiori esportazioni e importazioni;
g) Le maggiori complicazioni di carattere economico ed istituzionale a cui
vanno in contro gli attuali Paesi emergenti rispetto a due secoli fa. A titolo di
esempio si pensi agli elevati fabbisogni di importazione legati all’emergere di
modelli di consumo “occidentali” nella misura in cui il decollo industriale si
accompagna a crescita delle aree urbane, la rigidità di alcune strutture sociali
(come le caste indiane), l’esodo di cervelli e capitale umano attratto da
impieghi all’estero, gli ostacoli nascenti dall’ipertrofia di molti apparati della
pubblica amministrazione ed, infine, la legislazione (fortunatamente!) meno
60
permissiva
femminile
verso
lo
sfruttamento
del
lavoro
minorile
e
.
Proseguendo nell’individuazione dei parametri fondamentali dell’economia
mondiale dal rapporto testé analizzato, che esprime il grado di apertura, se ne ricava
poi un altro particolarmente utile:
3 interscambio nazionale rispetto a quello mondiale =
X+M
2
commercio internazionale mondiale
E’ interessante notare che il motivo per cui al numeratore troviamo la media
aritmetica fra esportazioni ed importazioni e non la loro semplice somma algebrica,
risiede nel fatto che è facile rintracciare le importazioni (uscite) ma non le
esportazioni (entrate), anche a causa delle fughe clandestine di capitali che si
annidano in quest’ultima voce. Infatti, a livello mondiale, teoricamente, le
esportazioni eguagliano le importazioni (X = M) ma, di fatto, a causa delle
menzionate fuoriuscite di capitale e dei diversi criteri di imputazione delle due voci
in uso nei vari Paesi si verifica che, in termini di valore, i due ammontari siano
divergenti (X ≠ M).
4 grado di copertura delle importazioni con le esportazioni:
X
____
M
61
Tale parametro indica, quando è uguale all’unità, la capacità di un Paese di
finanziare le sue importazioni con le esportazioni. Quando invece tale valore è
inferiore all’unità, si può dire che il finanziamento delle importazioni deve essere
assicurato con altre forme e, quindi, si sta manifestando uno squilibrio nella
competitività del Paese.
5 ragioni di scambio o terms of trade: rappresenta l’ultimo parametro della serie
indicata nel titolo del presente paragrafo, ed è dato dal rapporto fra le variazioni
dei prezzi medi all’esportazione (PX) e le variazioni dei prezzi medi
all’importazione (PM):
∆PX
PX
__________________
∆PM
PM
Un altro modo per definire le ragioni di scambio è quello di riferirsi alla
differenza fra il valore medio unitario delle esportazioni e quello delle importazioni.
Le ragioni di scambio di un Paese migliorano se i prezzi delle esportazioni
aumentano più dei prezzi delle importazioni, e peggiorano se i prezzi delle
esportazioni aumentano meno dei prezzi delle importazioni. L’altra faccia del
miglioramento delle ragioni di scambio è evidentemente la perdita di competitività.
Prescindendo da quest’ultima, se un Paese con un certo volume di
importazioni e esportazioni si trova ad avere in un anno dei prezzi all’esportazione
che crescono un po’ più rapidamente di quelli all’importazione, si troverà nella
condizione di poter importare più beni a parità di beni esportati e conseguentemente
si avvarrà di maggiori merci e servizi; il contrario avverrà nel caso in cui fossero i
prezzi all’importazione a crescere più rapidamente di quelli all’esportazione. Perciò,
quando un Paese migliora le proprie ragioni di scambio e, nonostante ciò, riesce a
fare in modo che tale miglioramento non influenzi negativamente le esportazioni, lo
stesso ne trarrà ampi benefici in termini di aumento di ricchezza. Si può anche dire
che un Paese che migliora sistematicamente le proprie ragioni di scambio è un Paese
in cui il commercio internazionale ha un effetto positivo; viceversa, un Paese che
62
peggiora sistematicamente le proprie ragioni di scambio, è un Paese in cui il
commercio internazionale ha un effetto negativo.
I Paesi che puntano sulla svalutazione della propria moneta per guadagnare in
competitività vedono, per contro, peggiorare le proprie ragioni di scambio. Alla
lunga, questa situazione finisce per essere meno pagante di quella della moneta forte:
si è potuto constatare, infatti, che i Paesi creditori (quelli con esportazioni > delle
importazioni) sono stati quelli che sono riusciti a restare competitivi pur in presenza
di un cambio forte, mentre i Paesi debitori hanno avuto la tendenza a non diventare
competitivi nemmeno in presenza di un cambio debole ed hanno visto peggiorare le
loro ragioni di scambio e quindi si sono impoveriti.
L’Italia, dal canto suo, negli ultimi vent’anni (a parte la parentesi ’92-’96) ha
avuto tendenzialmente ragioni di scambio discrete nonostante non abbia avuto una
moneta forte: questo grazie al fatto che, da un lato, i prezzi delle materie prime, dei
prodotti agricoli e del petrolio (che costituiscono la maggior parte delle sue
importazioni) non hanno subito aumenti considerevoli e, dall’altro, il dollaro non si è
apprezzato di molto (questa è infatti la moneta che viene utilizzata per regolare la
maggior parte delle transazioni internazionali di merci). Gli anni dal ’92 al ’96,
invece,
lira
sono
stati
anni
“poveri”
per
l’Italia:
in
questo
periodo
la
uscì dal Sistema Monetario Europeo31
31
Il Sistema monetario europeo era un progetto stabilito nel 1979 in cui la maggior parte delle nazioni
della Comunità economica europea vincolavano le loro monete onde prevenire troppo ampie
fluttuazioni reciproche. Dopo il collasso del Sistema di Bretton Woods nel 1971, i Paesi della CEE si
accordarono nel 1972 per mantenere stabili i tassi di cambio attraverso operazioni, dando vita al
cosiddetto «Serpente Monetario». Nel marzo del 1979, questo sistema fu rimpiazzato dal Sistema
Monetario Europeo. L’elemento centrale era l'ECU o Unità di conto europea: un paniere di monete,
che fluttuavano entro il 2.25% (6% per la lira, a causa dell'elevato tasso di inflazione) attorno alla
parità nei tassi di cambio bilaterali con altri paesi membri.
Il Sistema Monetario Europeo non fu sempre funzionale finché nel maggio del 1998 i paesi membri
fissarono irrevocabilmente e definitivamente i loro tassi di cambio reciproci (prendendo come
riferimento la griglia di parità centrali negoziate all’Ecofin del novembre 1996) in vista della
partecipazione all'Euro. Il suo successore comunque, lo SME 2, veniva inaugurato nel 1999. In esso il
paniere ECU è stato abbandonato e la nuova moneta unica, l'Euro, è diventata un'ancora per le altre
monete che partecipavano allo SME 2.
63
(SME o Exchange Rate Mechanism, ERM)) e si svalutò notevolmente, peggiorando
di molto le ragioni di scambio. La lira rientrò nello SME nel novembre 1996 dopo
una serrata negoziazione con la Germania guidata dal Governatore della Bundesbank
Tietmeyer. Grazia alla credibilità e all’incredibile abilità di Carlo Azeglio Ciampi,
l’Italia rientrò con una parità – 990 lire contro 1 marco - non eccessivamente
penalizzante per l’export italiano (sopra l’articolo del Financial Times del
26.11.1996, dove si elogia l’allora Ministro del Tesoro Ciampi tra l’altro venne
riportata l’affermazione di un diplomatico presente all’Ecofin: “Ciampi gave the
performance of his life”).
Dall’1° gennaio 1999 – data di introduzione della moneta unica - l’euro
ha mosso i primi passi come moneta strutturalmente forte che può
attraversare periodi di debolezza – il giorno dell’introduzione dell’euro, il cambio
contro dollaro era intorno a 1,16, nel gennaio 2011 quota intorno a 1,30. Una moneta
forte migliora per sua natura le ragioni di scambio.
64
Per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, è assai controverso il ruolo
delle ragioni di scambio come vincolo al loro sviluppo nell’ultimo secolo. Sotto il
profilo strettamente statistico, vi sono calcoli che giungono a risultati assai diversi,
talora opposti, unicamente per la diversa scelta dei particolari indici di prezzo e dei
periodi di riferimento. I Paesi in via di sviluppo esportano soprattutto prodotti
primari (75-80% del loro export) ed importano soprattutto manufatti (70% del loro
import), per cui l’andamento delle loro ragioni di scambio è strettamente legato
all’andamento dei prezzi relativi “materie prime/manufatti”.
Complessivamente, i prezzi relativi “manufatti/materie prime” mostrano un
tendenziale declino almeno fino alla seconda guerra mondiale. Tale tendenza si
accompagna specularmente ad una progressiva incidenza dei manufatti sulla
produzione e sulle esportazioni mondiali. L’unico periodo in cui le ragioni di
scambio dei Paesi in via di sviluppo appaiono progressivamente cadute va dagli inizi
degli anni Cinquanta (ciclo coreano) alla fine degli anni Sessanta. Durante gli anni
Settanta il doppio shock petrolifero, l’impennata dei prezzi delle materie prime non
energetiche nel 1972-1973 e l’accentuata sensibilità del ciclo delle scorte nei Paesi
industrializzati hanno complessivamente causato un aumento di intensità senza
precedenti nei prezzi relativi dei prodotti primari, anche se già a partire dal 1978 le
ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo non esportatori di petrolio hanno
iniziato una flessione prolungatasi fino agli anni Novanta.
Nell’insieme, dunque, la tesi del deterioramento secolare delle ragioni di
scambio dei Paesi in via di sviluppo appare abbastanza infondata. Del resto, molte
delle argomentazioni addotte a supporto della tesi stessa, pur valide in teoria (bassa
elasticità-reddito della domanda mondiale di materie prime, sostituzione di prodotti
naturali con manufatti sintetici, minor potere di mercato dei Paesi in via di sviluppo
rispetto ai Paesi industriali, sostegno politico dei prezzi agricoli dei Paesi industriali
accoppiato con misure restrittive nei confronti delle esportazioni dei Paesi in via di
sviluppo), tendono a dimenticare le tendenze di lungo periodo. Molti di questi
fenomeni richiamati dalla teoria esistono già dagli inizi della rivoluzione industriale.
Prodotti agricoli privi di diretti sostituti (come caffè, tè, cacao) hanno
registrato flessioni di prezzo simili o anche maggiori rispetto ai prodotti primari
soggetti alla concorrenza dei manufatti sintetici. D’altra parte la produttività agricola
65
è cresciuta assai più nei Paesi industriali che nei Paesi in via di sviluppo, per note
cause strutturali, e gli eccezionali incrementi nella produttività dell’industria
manifatturiera non sono andati tutti a vantaggio dei profitti, della rendita e dei salari
dei Paesi industriali, data la concorrenza che si è venuta a creare fra i principali
esportatori.
Uno dei fenomeni dominanti le tendenze di lungo periodo degli scambi
internazionali è il crescente peso dei manufatti. Il fenomeno assume una rapidità
impressionante nel secondo dopoguerra e trova ben note spiegazioni:
1
il veloce ritmo del progresso tecnologico e la sua diffusione orizzontale
fra settori diversi,
2
il
ricorrente
circolo
Kaldor
virtuoso
produzione-produttività
(legge
di
-Verdoorn), generato dai continui spostamenti nella
composizione dell’offerta verso settori a più elevata crescita potenziale
della produttività,
3
l’abbattimento degli ostacoli doganali fra i Paesi,
4
l’elevata elasticità-reddito della domanda.
Il crescente peso delle esportazioni manifatturiere esprime la quota crescente
del prodotto lordo manifatturiero sul PIL dei vari Paesi, fenomeno ben noto nei
patterns of growth, almeno fino ad elevati livelli di reddito pro-capite oltre i quali
cresce solo la quota delle attività terziarie. La quota manifatturiera sul totale delle
importazioni non appare invece significativamente sensibile alla variazione della
composizione del PIL poiché, almeno nelle fasi di decollo economico, i Paesi
tendono a sostituire con produzioni nazionali parte delle importazioni manifatturiere.
Il crescente peso dei manufatti negli scambi mondiali del recente dopoguerra,
almeno fino allo shock dei prezzi del petrolio nel 1973-1974, trova corrispondenza
nella tendenza alla polarizzazione degli scambi mondiali attorno ai Paesi industriali.
66
Mentre nella prima metà del Ventesimo secolo il peso dei Paesi in via di
sviluppo sulle esportazioni mondiali si era pressoché raddoppiato, nel ventennio
precedente il 1973 la tendenza si è invertita. Gli scambi intra-area dei Paesi in via di
sviluppo sono calati a meno di un quinto degli scambi mondiali, mentre gli scambi
intra-area dei Paesi industriali sono saliti al 50%. I Paesi in via di sviluppo
rappresentano, agli inizi degli anni Settanta, circa un quinto delle esportazioni dei
Paesi industriali (l’incidenza è ovviamente più alta per le esportazioni degli Stati
Uniti e del Giappone che per quella delle esportazioni europee, data l’elevata
integrazione intra-europea), ma meno del 2% del loro PIL. Per contro, più di due
terzi dell’interscambio dei Paesi in via di sviluppo avviene con i Paesi industriali.
Gli shock petroliferi e la conseguente ridistribuzione della domanda mondiale
hanno capovolto per un certo tempo la tendenza, provocando nel 1973-1982 un
accresciuto peso degli scambi Nord-Sud e Sud-Sud. Tuttavia il commercio
internazionale, di manufatti in particolare, resta dominato dai Paesi industriali come
motore dell’economia mondiale.
Negli ultimi anni, il commercio internazionale è divenuto invece sempre
meno un interscambio Nord-Sud e sempre più un interscambio tra Paesi aventi un
simile grado di sviluppo economico (Nord-Nord). Il peso dei prodotti agricoli nel
commercio internazionale è sceso nettamente (dal 45% al 14%) e lo stesso dicasi,
pure fra alti e bassi di prezzo, del peso delle materie prime e dei prodotti energetici.
Il commercio internazionale da inter-settoriale è diventato prevalentemente
intra-settoriale.
Anche nel campo dei servizi, la rivoluzione dell’informazione sta
modificando le cose, sia a livello interno, che a livello del commercio internazionale.
I servizi oggetto di interscambio a livello mondiale si sono evoluti: da quelli del
turismo, dei noli, dei trasporti in genere si è passati a quelli assicurativi, finanziari,
bancari, servizi informatici e telematici, di ingegneria, di assistenza tecnica, di
management che contengono in modo intensivo informazioni e competenze
sofisticate.
Poiché è inevitabile che la quota dei servizi nell’interscambio mondiale
cresca sensibilmente, quale effetto della maggiore importanza che i servizi rivestono
nell’economia delle nazioni più avanzate, è certo che i Paesi che godono di un
67
vantaggio competitivo nella produzione e nella vendita di questi servizi avanzati, si
affermeranno a livello internazionale a scapito di quei Paesi (fra cui l’Italia) che in
tali settori hanno invece accumulato un grande ritardo.
Da quanto si è detto nel presente paragrafo, si può concludere che il
commercio internazionale è di fatto uno straordinario strumento di sviluppo
economico poiché si inserisce nella crescita del PIL con il ruolo di fattore trainante
(dal momento che cresce a tassi doppi rispetto a quelli del PIL stesso), oltre che agire
da diffusore delle tecnologie, delle innovazioni, dei modelli di consumi e di
omogeneizzazione delle diverse culture. Per questi motivi, e visto che fra i nostri
giudizi di valore abbiamo la preferenza per lo sviluppo economico rispetto al
sottosviluppo, esso è sicuramente un valore da preservare e da potenziare sempre più,
nonostante alcune riserve che verranno presentate più avanti.
3. I caratteri della prima e della seconda rivoluzione
industriale e i vantaggi competitivi nel commercio
internazionale connessi a quest’ultima.
3.1 La prima e la seconda rivoluzione industriale.
Il contesto economico internazionale, nella parte finale del xx secolo, è stato
caratterizzato dal passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale.
La prima rivoluzione industriale, originatasi in Inghilterra nella seconda metà
del secolo XVIII, aveva come elemento caratteristico l’importanza dell’acciaio, del
cemento, della chimica di base, della trasformazione di grandi quantità di materie
prime e dell’impiego di fonti energetiche “sporche”. Era una industrializzazione
pesante e realizzata attraverso processi produttivi rigidi. Inoltre, in merito ad altre sue
particolarità, si può dire che:
•
la sua matrice è sempre stata l’Occidente industrializzato così come il suo centro
è sempre stato la cultura anglosassone;
68
•
il suo modello di commercio internazionale, teorizzato dagli economisti classici
(D. Ricardo
Samuelson
) e neoclassici (E. Heckscher, B. Ohlin, P.
), è stato quello dello scambio fra Paesi produttori di
manufatti e Paesi produttori di materie prime in condizioni di concorrenza
perfetta, assenza di economie di scala, pieno impiego;
•
i vantaggi competitivi sono stati generati, da un lato, dalla disponibilità di
materie prime e di lavoro a basso costo e, dall’altro, dalla disponibilità di
manodopera specializzata e di capitali.
Per quanto riguarda il finanziamento degli investimenti nella prima rivolu-
zione industriale, l’Europa continentale seguì una strada assai diversa (per necessità,
più che per scelta) rispetto a quella seguita dal mondo anglosassone. Quest’ultimo
poté contare sulle grosse capacità di autofinanziamento delle sue imprese. Le
imprese anglosassoni, infatti, ebbero l’opportunità di instaurare di fatto grandi
monopoli a livello mondiale soprattutto grazie al considerevole vantaggio temporale
di cui le stesse poterono godere per molti decenni su tutti i potenziali concorrenti del
resto del mondo. Le imprese dell’Europa continentale entrarono sul mercato con
notevole ritardo rispetto a quelle anglosassoni (dando loro tutto il tempo per
consolidare la propria forza sui mercati) per cui si trovarono costrette, visti i ridotti
margini d’autofinanziamento, ad attingere ad altre fonti di finanziamento. In
particolare, i finanziamenti maggiori alle imprese continentali furono assicurati dal
risparmio delle famiglie intermediato dalla c.d. banca universale (modello di sistema
bancario tipico dei Paesi europei continentali, in cui la banca svolge sia la funzione
di banca di deposito che di banca di investimento); ad essi si aggiunsero spesso
69
anche finanziamenti dallo Stato nei quali lo stesso ravvisava l’interesse pubblico alla
creazione di nuova occupazione.
Inoltre, l’Europa continentale, pur professando nell’Ottocento e nella prima
metà del Novecento l’adesione a teorie liberoscambiste, cercò spesso di favorire le
proprie imprese attraverso un accentuato protezionismo doganale, agendo talora sul
versante prezzi (dazi doganali) talaltra sulle quantità (contingenti, quote) con il
medesimo fine di limitare le importazioni.
A questa prima rivoluzione industriale è succeduta negli ultimi decenni una
seconda
rivoluzione,
che
viene
normalmente
denominata
“rivoluzione
dell’informazione”, nella quale ciò che conta è produrre, gestire, diffondere
l’informazione, mentre il supporto reale diventa sempre più sottile e flessibile cioè
capace di processi produttivi senza inerzia. In questa seconda rivoluzione industriale
conta meno il bene del servizio con le sue mille possibili applicazioni, e il bene conta
soprattutto per la quantità di informazioni che esso contiene.
Mentre nella prima rivoluzione industriale si poteva anche concepire la
superiorità di un sistema economico a decisioni accentrate (tipicamente quello dei
Paesi dell’ex blocco sovietico) rispetto ad uno a decisioni decentrate, perché si
trattava di primeggiare nella produzione di tonnellate di acciaio, di cemento, di
prodotti chimici, di milioni di automobili e di elettrodomestici, ecc., nella seconda
rivoluzione l’economia di mercato non ha rivali poiché capace di organizzare
l’attività econo-mica adattandola incessantemente all’informazione.
La domanda si diversifica: non è più importante l’automobile, intesa come
semplice mezzo di trasporto («di quale colore non importa, purché sia
nera
», diceva Henry Ford
), quanto la
quantità di informazioni in materia di sicurezza, eleganza, maneggevolezza in ogni
condizione di strada, adattabilità alle manutenzioni, ecc., che essa contiene.
Nella seconda rivoluzione industriale contano sempre meno la materia prima,
il capitale, la tecnologia, in quanto sono ormai risorse abbondanti e reperibili
ovunque. Contano, invece, di più le competenze acquisite dalla classe dirigente e
70
dalla classe lavoratrice e la capacità di farle rendere in termini economici
(ricavi/costi), principale compito dei managers.
Se è vero che la figura dell’imprenditore individuale o istituzionale (quello
delle public companies32) non è molto cambiata nella prima e nella seconda
rivoluzione industriale - imprenditore è colui che basandosi sul proprio patrimonio, o
anche a debito, produce ricchezza - si è modificato profondamente, sia il rapporto tra
imprenditore e manager, sia il contenuto dell’attività del manager.
Questa seconda rivoluzione industriale, inoltre, non è appannaggio
dell’Occidente e del mondo anglosassone, ma dei Paesi che sanno primeggiare nei
settori avanzati nei quali maggiore è il contenuto di informazione: microelettronica,
biotecnologie, nuovi materiali, aviazione civile, telecomunicazioni, robotica e
macchine utensili, informatica.
Si tratta di settori industriali nei quali ciò che conta è la ricerca e
l’applicazione della ricerca. I Paesi capaci di sviluppare all’interno e attirare
dall’esterno questo brainpower godono di un vantaggio competitivo rispetto agli altri
Paesi che li fa primeggiare nella concorrenza internazionale.
Va precisato comunque che la seconda rivoluzione industriale non è sorta
sulle “ceneri” della prima, ma anzi su questa si è “incastrata”: gli effetti della prima
rivoluzione industriale sono infatti ancora oggi presenti in molti Paesi e in molti
settori dell’economia, per cui la stessa non può certamente dirsi conclusa. Vi sono
tuttavia Paesi (in particolare i Paesi arabi) che non hanno partecipato alla prima
rivoluzione industriale e nemmeno sembrano propensi a far parte della seconda e
Paesi (i c.d. NIC dell’Estremo Oriente) che, invece, sono fra i principali attori della
seconda rivoluzione industriale pur non avendo partecipato alla prima.
Per prendere parte alla seconda rivoluzione non è infatti indispensabile essere
passati attraverso la prima; anzi molte volte l’aver partecipato alla prima è risultato
essere più un handicap che un vantaggio in quanto le vecchie strutture produttive non
32
Public company è un termine inglese che si utilizza per indicare le aziende che consentono la
vendita al pubblico dei loro titoli mobiliari (azioni, obbligazioni, ecc). Di solito ciò avviene attraverso
una borsa valori, oppure attraverso l'Over The Counter (OTC). Nonostante l'aggettivo "pubblico" la
public company è società di diritto privato e di proprietà privata: per indicare una società pubblica (di
proprietà dello Stato o di un altro ente statale) in inglese non viene utilizzato il termine public
company ma government-owned corporation. In Italia, a volte, il termine public company viene
utilizzato per designare la società ad azionariato diffuso. Fonte: Wikipedia
71
più redditizie, e quindi da smantellare, hanno spesso impiegato - e, in alcune realtà,
ancora oggi impiegano - importanti risorse che invece potrebbero essere utilmente
indirizzate verso gli investimenti nei nuovi settori produttivi. I NIC sono appunto
l’esempio evidente di Paesi che hanno iniziato il loro cammino di sviluppo
economico direttamente con la seconda rivoluzione industriale, con il conseguente e non indifferente - vantaggio di non doversi liberare dagli ingombranti “ceppi”
(materiali e culturali) della prima rivoluzione, sempre molto difficili da sradicare.
Con la nuova industrializzazione, inoltre, sono state introdotte nuove forme di
protezionismo certamente meno evidenti rispetto a quelle utilizzate in passato, ma
molto spesso più efficaci. Il protezionismo doganale “vecchio stile”, come si è detto
più sopra per l’Europa continentale, veniva attuato attraverso strumenti di facile
evidenza, quali dazi sui prezzi e/o contingenti sulle quantità importate. Oggi,
nonostante la generalità dei Paesi abbia abbracciato il liberoscambismo, il
protezionismo esiste ancora ed è messo in pratica attraverso le c.d. “barriere non
tariffarie” (c.d. managed trade), che assumono la forma, ad esempio, di particolari
certificazioni sul prodotto o di specifiche richieste di omologazione o collaudo
eseguiti da determinati istituti nazionali preposti a questo scopo, ovvero di
limitazioni all’accesso a gare di appalto per la realizzazione di lavori pubblici, e così
via.
Nel sottoparagrafo che segue vengono analizzati un po’ più in dettaglio i
vantaggi competitivi connessi alla seconda rivoluzione industriale che già sono stati a
grandi linee identificati precedentemente.
3.2 I nuovi vantaggi competitivi
Il contesto economico internazionale è caratterizzato dall’emergere di una
triade di potenze economiche che si battono per la supremazia nell’economia
mondiale (Stati Uniti o NAFTA33, Unione Europea e Cina). A decidere il risultato di
33
Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio),
conosciuto anche con l'acronimo NAFTA e, nei paesi di lingua spagnola, come TLCAN (Tratado de
Libre Comercio de América del Norte o più semplicemente TLC), è un trattato di libero scambio
commerciale stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico e modellato sul già esistente accordo di libero
72
questa competizione, come in parte si è già detto più sopra, non saranno più i
vantaggi competitivi del passato come le risorse naturali, la disponibilità di capitale e
la tecnologia. Le risorse naturali per unità di PIL sono, infatti, sempre meno usate:
l’America usa meno acciaio adesso di quanto ne abbia usato nel 1960, allorché il PIL
era pari al 40% rispetto ad oggi ed è probabile che con la rivoluzione prodotta dalla
scienza dei materiali ci si debba attendere ulteriori riduzioni nell’uso delle materie
prime per unità di PIL. Anzi, nel secolo Ventunesimo la mancanza di risorse naturali
per ogni Paese potrebbe essere un vantaggio perché si potranno acquistare altrove
nella qualità migliore ed al prezzo più competitivo.
Anche la disponibilità di capitale non sarà più un vantaggio decisivo. Mentre
fino a poco tempo fa tale abbondanza significava anche un maggior capitale investito
per lavoratore e ciò comportava una più alta produttività e più alti salari, oggi la
disponibilità di capitale all’interno del Paese, pur importante, non costituisce più un
netto vantaggio competitivo per due motivi:
1. il mercato dei capitali è diventato globale con la progressiva
scomparsa delle barriere nazionali che segmentavano lo stesso
mercato dei capitali.
Le principali cause di questa globalizzazione sono tre:
o la liberalizzazione, o deregulation, ossia la riduzione della
presenza dello Stato nella vita economica, specie nella finanza
e nei rapporti con l’estero;
o l’evoluzione
tecnologica
che
consente
di
trasferire
rapidamente capitali da una parte all’altra del globo e rende
possibile la diffusione delle informazioni finanziarie a livello
mondiale;
commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA), a sua volta ispirato al modello dell'Unione Europea.
L'Accordo venne firmato dai Capi di Stato dei tre paesi (il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il
Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo Ministro Canadese Brian Mulroney) il 17
dicembre 1992 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1994. Il giorno stesso della firma, simbolicamente
iniziava nello stato messicano del Chiapas la rivolta zapatista da parte delle popolazioni indigene che
vedevano nell'accordo (anche sulla base di precedenti esperienze simili) un ulteriore mezzo volto a
trasferire la ricchezza dalle zone povere del Messico verso il Canada e, soprattutto, verso gli Stati
Uniti. L’aspetto che maggiormente caratterizza il NAFTA è sicuramente legato alla progressiva
eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderiscono all’accordo. Fonte: Wikipedia
73
o le innovazioni finanziarie che hanno consentito lo sviluppo di
prodotti finanziari sempre meno adatti ad essere negoziati a
livello nazionale e sempre più adatti ad essere utilizzati su
scala internazionale;
2. la disponibilità di capitale non è più così importante come in passato,
perché le società multinazionali sono in grado nel loro interno di
costruire strutture produttive avanzatissime anche in Paesi con bassa
intensità di capitale.
I miglioramenti nelle telecomunicazioni, la diffusione dei computer, dei
trasporti aerei, hanno provocato una rivoluzione nella logistica che rende possibile
rifornirsi da qualunque Paese e anche conveniente farlo. Le fabbriche dove si
produce elettronica di consumo in Corea non sono molto diverse da quelle esistenti
in Giappone nonostante il fatto che il Giappone abbia sei volte il PIL pro-capite della
Corea. L’unica eccezione riguarda quei Paesi che sono altamente indebitati e che
l’elevato rischio Paese esclude dai circuiti del mercato dei capitali. Vi è poi da
considerare che il mercato dei capitali è globale quasi solo per le grandi società,
mentre le piccole e medie imprese sono ancora soggette, di fatto, alle limitazioni del
mercato del credito nazionale. Comunque sia, può dirsi che le differenze nell’accesso
al capitale fra Paesi ricchi in capitale e altri Paesi si sono sensibilmente ridotte.
Anche la tecnologia costituisce un vantaggio competitivo meno determinante
che in passato, quando ogni attività produttiva aveva la sua localizzazione naturale. Il
cotone era coltivato nel Sud degli Stati Uniti perché il clima, il terreno e
l’abbondanza della forza lavoro rendeva questa attività produttiva meglio localizzata
in quella regione, mentre veniva filato nel New England perché vi erano i capitali e
le risorse energetiche sufficienti.
I sette settori industriali del futuro (microelettronica, biotecnologia, industria
dei nuovi materiali, aviazione civile, telecomunicazioni, robotica e macchine utensili,
computers e software) non hanno una localizzazione naturale. Non è più tanto
importante la tecnologia in se stessa, quanto la capacità di organizzare le risorse di
capitali e di lavoro per produrre tecnologia. Ricerca e sviluppo sono importantissimi
soprattut-to se applicati non ai nuovi prodotti, ma ai processi tecnologici per giungere
74
ai pro-dotti (i giapponesi hanno dimostrato l’importanza di essere non inventori, ma
miglio-ratori). La cosa più importante non è inventare la tecnologia, ma essere i più
compe-titivi nella tecnologia inventata. Ciò è dimostrato dal fatto che la paga degli
ingegneri produttori, che un tempo era la più alta, è oggi decaduta di importanza
rispetto a quella di esperti di altri settori. Dei direttori generali delle prime 500
società del mondo circa il 35% viene dal marketing, il 25% dalla finanza, il 25%
dall’organizza-zione e solo il 5% dalla produzione.
Il vantaggio competitivo decisivo su cui si baseranno i risultati di questa
competizione fra le tre potenze della triade sta quindi nelle competenze (skills) per
impadronirsi della tecnologia di processo dei managers, delle maestranze e della
classe lavoratrice. Non bastano cioè la ricerca e la tecnologia, occorre anche il lavoro
specializzato capace di impiegarla ai più bassi costi possibili per trasformarla in
produzione di classe mondiale. Ecco il vero vantaggio competitivo. Le aziende
devono trovare una classe lavoratrice capace di impiegare nuove tecnologie CADCAM (Computer Aided Design - Computer Aided Manufacturing), adottare controlli
di qualità in base a metodologie statistiche, gestire magazzini di scorte secondo il
principio del just-in-time (che si basa sulla minimizzazione del magazzino in ogni
stadio del processo di produzione in quanto le eccedenze di magazzino vengono
considerate capitale non utilizzato), far funzionare sistemi di produzione flessibili e
fornire efficienti servizi di manutenzione.
Il lavoratore medio deve disporre di un livello di istruzione ben più alto che in
passato. In un’economia globale, dove i beni possono essere prodotti anche nei Paesi
poveri, l’offerta di lavoro si è espansa enormemente ed il lavoratore, dovunque egli si
trovi, può offrire solo due cose: o le competenze giuste, o la sua disponibilità a
lavorare per un salario così basso da fare la concorrenza ai lavoratori dei Paesi
poveri.
Diversamente, i posti di lavoro che non richiedono competenze emigrano
verso i Paesi poveri. Ecco come nasce la disoccupazione che affligge in maniera
drammatica soprattutto quei Paesi che non si stanno adeguando alle nuove richieste
del mercato o che comunque lo stanno facendo molto lentamente e fra mille
renitenze.
75
Prima ancora delle risorse naturali, dei capitali e della tecnologia, un Paese
che voglia essere competitivo a livello globale deve, dunque, prevedere elevati
investimenti in un’appropriata qualificazione della propria forza lavoro. Inoltre,
mentre i primi tre fattori (materie prime, capitali, tecnologie) si possono spostare
rapidamente per il mondo senza particolari problemi, le persone in genere
acconsentono a trasferirsi in altri Paesi con maggiore resistenza e comunque a un
prezzo elevato: per questo la formazione del personale è d’importanza fondamentale
sia per la singola azienda che per l’intero Paese.
La tabella alla pagina successiva, infine, riassume schematicamente
(attraverso sezioni contrapposte) le caratteristiche principali delle due rivoluzioni
industriali che abbiamo descritto nel presente paragrafo.
76
Principali caratteristiche della prima e della seconda rivoluzione industriale
Prima rivoluzione industriale
• Nasce in Inghilterra verso la metà del
1700 (si diffonde nell’Europa
continentale verso il 1850 e verso il 1900
in Italia)
• Egemonia occidentale a matrice
anglosassone, a scapito del mondo
orientale e turco-musulmano
• E’ una rivoluzione “pesante”
(produzione di grandi quantità di acciaio,
cemento, prodotti della chimica di base,
materie prime in generale)
• E’ rigida nei processi produttivi
Seconda rivoluzione industriale
• Inizia attorno alla metà del 1900 e in
pochi decenni si diffonde in molti Paesi
• Competizione fra tre macro-aree (c.d.
“Triade”): Stati Uniti (+ Canada), Unione
Europea, Giappone (+ NIC)
• E’ una rivoluzione “leggera”
(produzione, ricerca, gestione, diffusione
delle informazioni)
• E’ molto flessibile nei processi
produttivi
• Lenta
• Veloce
• Imprecisa e “sporca” (impiego di grandi • Precisa e “pulita” (non necessita di
quantità di fonti energetiche altamente
molta energia per funzionare e non
inquinanti e produzione di molti materiali produce “scarti” inquinanti da smaltire,
di scarto nocivi per l’ambiente)
per cui è rispettosa della causa ecologica
sollevata negli ultimi decenni)
• Settori produttivi: − Settori industriali • Principali settori produttivi:
tradizionali (chimica, meccanica,
− Microelettronica; − Biotecnologie;
metallurgia, cemento, tessile,
− Nuovi materiali; − Aviazione civile;
automobilistico, farmaceutico, ecc.);
− Telecomunicazioni; − Robotica e
− servizi tradizionali (trasporti, turismo, macchine utensili; − Informatica
ecc.).
(hardware e software).
• Modello di commercio internazionale: • Modello di commercio internazionale:
scambio intersettoriale (materie prime
scambio intrasettoriale (manufatti contro
contro manufatti, che presuppone
manufatti, che presuppone tipicamente un
tipicamente un interscambio Nord-Sud). interscambio fra Paesi simili, NordE’ perciò un modello improntato alla
Nord). E’ perciò un modello improntato
“specializzazione”.
alla “despecializzazione”.
• Principali teorie che ispirano i modelli • Nuove teorie che ispirano i modelli di
di commercio internazionale: − teoria
commercio internazionale: − teoria
classica (Ricardo); − teoria neoclassica
dell’innovazione; − teoria del ciclo di vita
(Heckscher, Ohlin, Samuelson).
del prodotto; − teoria delle
multinazionali.
4.
Cenni sulle teorie del commercio internazionale
Ha scritto una famosa economista che non vi è branca dell’economia in cui il
distacco fra dottrina ortodossa e realtà sia più ampio che nella teoria del commercio
internazionale. Nel tentativo di spiegare il perché di tale dicotomia, essa ha rilevato
che la menzionata teoria è ancora oggi svolta in termini di confronti fra posizioni di
77
equilibrio nelle quali le risorse di capitale e di lavoro sono predeterminate e sempre
completamente utilizzate.
Se non si considerano, per mancanza di spazio, gli apporti dei filosofi antichi
o le riflessioni degli studiosi cosiddetti mercantilisti34 o dei fisiocratici35, occorre
riconoscere che il primo a formulare una teoria generale del commercio
internazionale fu l’economista inglese David Ricardo
(1772-1823).
34
Il Mercantilismo fu una politica economica che prevalse in Europa dal XVI al XVIII secolo, basata
sul concetto che la potenza di una nazione sia accresciuta dalla prevalenza delle esportazioni sulle
importazioni. Nelle società europee di quei secoli, dietro gli aspetti di uniformità del mercantilismo,
furono attuate differenti politiche a seconda della specializzazione economica naturale (agricola,
manifatturiera, commerciale) e all'idea di ricchezza (oro, popolazione, bilancia commerciale). Benché
la battaglia intellettuale sia stata vinta dal liberismo già nella prima metà del XIX secolo, il
mercantilismo si è dimostrato una forza persistente nel campo della politica economica, anche sotto il
nome di protezionismo. Alcuni sostengono che anche oggi, mentre le dichiarazioni ufficiali si ispirano
al liberismo, i comportamenti concreti dei paesi economicamente più sviluppati siano piuttosto
mercantilisti. Specularmente, alcune critiche no-global (o più precisamente new-global) sono di fatto
più anti-mercantiliste che anti-liberiste
35
La fisiocrazia è una dottrina economica che si affermò in Francia verso la metà del XVIII secolo
(principalmente nel triennio 1756 - 1758), in chiara opposizione al mercantilismo e con lo scopo di
risollevare le sorti delle scarse finanze francesi. Secondo la dottrina fisiocratica (diffusa in Francia
dalle opere del medico ed economista François Quesnay, che scrisse nell'Encyclopédie le due voci
"Fittavolo" e "Grani", il cui Tableau économique (1758) costituì la base della dottrina), l'agricoltura è
la vera base di ogni altra attività economica: solo l'agricoltura è infatti in grado di produrre beni,
mentre l'industria si limita a trasformare e il commercio a distribuire. La fisiocrazia assume quindi il
momento della produzione dei beni e non il momento dello scambio come situazione in cui viene
creata ricchezza. Tutto il ciclo economico della fisiocrazia ha come fine ultimo quello di creare un
surplus (o prodotto netto), che poi verrà investito nuovamente nell'agricoltura (per aumentare la
produttività di un terreno, avere a disposizione più manodopera, compiere ricerche nel campo delle
macchine agricole), attraverso una condizione di libero mercato. Le classi sociali vanno anch'esse
viste in rapporto alla funzione che svolgono all'interno del ciclo produttivo: chi investe il capitale
iniziale e vive del prodotto netto fa parte della classe proprietaria o oziosa; i contadini, la classe che
coltiva la terra e crea attivamente ricchezza, costituiscono la classe produttiva; chi trasforma i beni in
prodotti finiti o si limita a consumarli fa parte infine della classe sterile. La fisiocrazia ebbe una
notevole influenza durante gli anni Settanta del Settecento e quest'idea di libero mercato ispirò Adam
Smith. Tuttavia, la visione fisiocratica dell'agricoltura venne rifiutata proprio da Smith e da David
Ricardo: la teoria del valore basato sul lavoro, contrapposta a quella fisiocratica, ha appunto origine
dalle opere di questi due economisti. I fisiocratici furono i primi a teorizzare la nascita di un buon
governo basato sul dispotismo. I pensatori classici che si erano susseguiti fino ad allora, avevano
sempre inserito, nella classificazione delle forme di governo, il dispotismo tra quelle corrotte. I
seguaci di Quesnay, tuttavia ritennero che la migliore tipologia di governo era quella basata
sull'essenza naturale dell'uomo. Un unico individuo, illuminato, che avrebbe guidato i suoi sudditi
verso il bene. Il dispotismo diventa in questo caso un "dispotismo illuminato"
78
Partendo dall’idea che il lavoro è l’unica causa della ricchezza e della
produzione, nei suoi scritti egli dimostra che la divisione internazionale del lavoro e
lo scambio fra i Paesi che si sono divisi le produzioni, nasce dalle differenze delle
produttività relative del lavoro medesimo in diversi Paesi.
Ricardo però dava per scontata la distinzione fra un Paese (il suo), che già nel
Settecento era uscito dall’arretratezza dell’economia agricola ed era passato
attraverso la rivoluzione industriale, e tutti gli altri Paesi che non avevano seguito
questo iter. Sulla base di ciò affermava che vi è convenienza per ogni Paese a
specializzarsi nei beni nei quali ciascuno sopporta costi comparati minori.
Se ad esempio in Inghilterra:
•
una unità di lavoro produce due unità di materie prime (2MP) oppure quattro
unità di manufatti (4MA), il valore di scambio sarà 1MP = 2MA.
Se, invece, in un altro Paese:
•
una unità di lavoro produce due unità di materie prime (2MP) oppure una unità
di manufatti (1MA), il valore di scambio sarà 1MP = ½MA.
Ebbene, si può dimostrare che, ad un qualsiasi valore di scambio di
½MA < 1MP < 2MA, entrambi i Paesi traggono vantaggio dal commercio
internazionale.
Si supponga, ad esempio, che 1MP = 1,5MA. In tal caso l’Inghilterra avrà
convenienza a produrre con 1 unità di lavoro 4MA e scambierà, ad esempio, 3MA
ottenendo in contropartita 2MP, effettuato lo scambio avrà 2MP + 1MA. Tenendo
conto che in assenza di scambio internazionale la struttura dei prezzi era tale che
1MP = 2MA, ci si troverà ad avere un valore di 2MP = 4MA e, quindi, disporrà di
1MA in più. In pratica, una unità di lavoro (in condizioni di divisione internazionale
del lavoro) avrà prodotto in un certo senso 5MA invece di 4MA.
Nell’altro Paese, dove si sono prodotti 2MP, dopo lo scambio si avrà
1,5MA + 1MP. Tenendo conto che in assenza di scambio i vecchi prezzi erano
½MA = 1MP, ci si troverà con 2MA in più che possono essere visti, in un certo
senso, come 4MP e, quindi, si disporrà di 2MP in più rispetto a quelli che l’unità di
lavoro avrebbe prodotto senza la divisione del lavoro e lo scambio internazionale.
79
E’ possibile dimostrare che questa migliore allocazione di risorse, si ottiene
non solo nel caso in cui ogni Paese si specializzi nella produzione nella quale
sostiene un costo comparato minore, ma anche nel caso in cui uno dei due Paesi sia
meno efficiente in entrambe le produzioni.
In quest'ipotesi, ogni Paese ottiene egualmente un vantaggio purché quello
sfavorito si specializzi nella produzione del bene in cui lo svantaggio sia
comparativamente minore e purché quello favorito si specializzi nella produzione in
cui il suo vantaggio è maggiore.
Il modello ricardiano classico, tuttavia, non ricercava le origini di queste
differenze di produttività del lavoro e, per tale carenza, fu rivisto e sottoposto a
critica dalla teoria neoclassica che produsse un nuovo modello detto Heckscher-
Ohlin
(H-O).
Il modello H-O può sintetizzarsi nella proposizione secondo la quale ogni
Paese gode di un vantaggio comparato nella produzione di quei beni per ottenere i
quali si richiedono quantità relativamente più elevate del fattore di produzione di cui
esso dispone in misura relativamente più abbondante e a costi minori; saranno questi
i beni che esso venderà agli altri Paesi. Alla base del commercio internazionale vi è
quindi la differenza nella dotazione fattoriale dei Paesi e nella intensità fattoriale
della produzione. A sua volta, però, il modello H-O si presta a molte critiche.
In primo luogo, vi sono critiche alla validità di molte delle condizioni di
concorrenza perfetta e di piena occupazione dei fattori produttivi che sono poste alla
base della teoria H-O (così come di quella ricardiana).
In secondo luogo, il modello H-O è contraddetto dal paradosso di
Leontief
. Questo studioso (in due saggi pubblicati nel 1954 e nel 1956)
dimostrò che, contrariamente alle aspettative, gli Stati Uniti mostrano una tendenza
80
alla specializzazione nella vendita all’estero dei beni che impiegano più lavoro e
meno capitale.
In terzo luogo, l’evidenza statistica dimostra che il commercio internazionale
solo per circa un terzo (e non per la quasi totalità come previsto nelle teorie
ricardiana e H-O) si svolge fra Paesi produttori ed esportatori di manufatti e Paesi
produttori ed esportatori di materie prime. I restanti due terzi riguardano lo scambio
di manufatti all’interno del gruppo dei Paesi industrializzati.
In quarto luogo, le teorie classica e neoclassica ipotizzano un primato
indiscusso del liberoscambismo sul protezionismo quasi che il libero scambio
conducesse automaticamente, sia all’equilibrio delle bilance commerciali di tutti i
Paesi ricchi e poveri, sia al loro massimo benessere. Tale assunto non è sempre
verificato nella realtà. Questa neutralità delle teorie economiche classica e
neoclassica del commercio internazionale, per cui sarebbe stato indifferente trovarsi
nello scambio dalla parte dei Paesi industrializzati o da quella dei Paesi in via di
sviluppo, contrastano con la realtà storica dei diversi vantaggi o svantaggi insiti
nell’assunzione da parte di un Paese di una posizione oppure dell’altra.
Essere nel gruppo dei Paesi industrializzati oppure in quello dei Paesi in via
di sviluppo è molto diverso e tale diversità è così grande che c’è addirittura da porsi
il problema se il commercio internazionale sia sempre uno strumento di migliore
allocazione delle risorse e di sviluppo economico, come sostiene la teoria
tradizionale, o invece, in certi casi, uno strumento di conservazione dei divari di
sviluppo economico.
Le teorie economiche classiche e neoclassiche, cioè avrebbero il difetto di
essere troppo “inglesi” e di trascurare soprattutto due circostanze:
A. Non rilevano alcuni danni del commercio internazionale in quanto
elemento di conservazione dei divari economici fra le nazioni;
B. Non spiegano la realtà storica che ha visto da un lato, l’Inghilterra
effettuare grandi sforzi per conservare la sua posizione di unico Paese
produttore di manufatti e, dall’altro, alcuni Paesi intraprendere molte
iniziative per opporsi a questo disegno della Gran Bretagna.
In altre parole, il processo di inserimento di altri Paesi nell’area dei Paesi
industrializzati (inizialmente occupata dalla sola Inghilterra) incontrò sempre
81
l’opposizione inglese, ma si svolse egualmente contraddicendo, sia pure
paradossalmente, i principi del liberoscambismo che si insegnavano nelle aule
universitarie dei Paesi che avevano avanzato la loro candidatura ad occupare
quell’area.
Per accelerare il proprio sviluppo economico cioè, i Paesi mano a mano
emergenti dal 1700 alla seconda guerra mondiale (in un ordine non tassativo: Stati
Uniti, Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Italia, Russia e Spagna per
limitarci all’Occidente) dovettero seguire pratiche economiche e di commercio
internazionale completamente diverse da quelle postulate dalle teorie classica e
neoclassica e dal liberoscambismo che esse propugnavano.
All’Inghilterra, che si imponeva nel campo dei manufatti secondo una logica
monopolistica e che si era sviluppata utilizzando l’autofinanziamento delle imprese
per effettuare i propri investimenti, altri Paesi del continente europeo contrapposero
un modello di sviluppo che utilizzava tre strumenti: il risparmio familiare come base
dell’accumulazione
capitalistica
e,
quindi,
degli
investimenti
necessari
all’industrializzazione, l’intermediazione finanziaria, imperniata sulle aziende di
credito anche nella forma di banche miste, ed il protezionismo doganale (concetti già
in parte espressi nel paragrafo precedente quando si è parlato del finanziamento della
prima rivoluzione industriale).
In questo modo, e non seguendo la logica dei “gains from trade” impliciti
nelle teorie classiche e neoclassiche del commercio internazionale e nelle loro
varianti più o meno ingegnose (staple theory, vent for surplus theory), si sono
industrializzati di mano in mano i principali Paesi dell’Europa occidentale. Alcuni
Paesi, ancora più arretrati ed in particolare la Russia, non riuscendo a decollare
nemmeno usando questo secondo tipo di motore a tre stadi (risparmio familiare,
banche e protezionismo) si sono rivolti ad un terzo tipo di motore dello sviluppo e
cioè al risparmio della pubblica amministrazione (che aveva imposto le sue regole
ferree di accumulazione alle famiglie e alle imprese) ed al protezionismo.
Questo gruppo di Paesi non è però riuscito a cooptarsi nell’area dei Paesi
industrializzati in contrapposizione al vasto numero di Paesi produttori ed esportatori
di materie prime, ma ha costituito un raggruppamento a parte che veniva chiamato
82
per semplicità quello dei Paesi del Comecon
(dal nome dell’accordo
che li legava).
Al di là delle differenze ideologiche, politiche e sociali che distinguevano i
Paesi del Comecon
dagli altri Paesi del mondo (suddivisi in Paesi
industrializzati e Paesi in via di sviluppo) e sulle quali non ci si vuole pronunciare, è
certo che in questi Paesi si riscontrano ancora oggi ostacoli e difficoltà nell’accettare
la possibilità di svilupparsi in base alla logica del liberoscambismo e della divisione
internazionale del lavoro postulata dalle teorie classica e neoclassica.
Al di là della critica radicale sul commercio internazionale, in quanto
strumento di conservazione dei divari di sviluppo, che è stata qui brevemente
tratteggiata, può dirsi che è si è dovuto integrare le due teorie (classica e neoclassica)
con altre nuove e parziali teorie del commercio internazionale (quindi non aventi
carattere generale) che fossero in grado di spiegare meglio la realtà concreta
dell’interscambio mondiale.
Pur restando nella logica del liberoscambismo e nel filone di pensiero
classico e neoclassico, l’attenzione degli economisti si è rivolta ad un fatto nuovo e
cioè che la produzione in molti casi avveniva in condizioni di rendimenti crescenti (e
non decrescenti). Le economie di scala hanno cominciato a diventare, quindi, il
secondo fattore esplicativo degli scambi internazionali subito dopo quello
rappresentato dalle diverse dotazioni di fattori produttivi.
La diminuzione cioè dei costi unitari di produzione, connessa al maggior
volume di prodotto ottenuto con una determinata tecnologia, spinge le imprese ad
esportare per accrescere il volume del prodotto medesimo. Il commercio
internazionale cioè, si spiega sempre meno in termini di libera concorrenza e sempre
più in termini di monopolio per i seguenti motivi:
83
1. le aziende che operano sul mercato internazionale sono quelle in grado di
effettuare considerevoli investimenti iniziali che limitano di fatto le
possibilità di entrata sul mercato;
2. a livello internazionale, data la più ampia gamma di varietà nei gusti dei
consumatori, esistono maggiori possibilità di differenziazione dei prodotti e
di discriminazione dei prezzi;
3. la limitata mobilità internazionale dei fattori produttivi rappresenta un’altra
circostanza che favorisce forme di mercato non concorrenziali.
Partendo da questo assunto, sono nate alcune teorie non più generali (di stampo
walrasiano), ma parziali (di stampo marshalliano) con obiettivi più limitati, ma
capaci di spiegare più in concreto le caratteristiche effettive del commercio
internazionale moderno.
Numerose sono queste teorie particolari ed i contributi degli autori sono stati
molteplici. Ci si limita in questa sede a ricordare i più importanti.
A. Linder36 in particolare, ha proposto l’importanza del mercato interno
come vincolo alla crescita della capacità di esportazione. Quest’ultima
cioè, per essere ancora più espliciti, presuppone l’efficienza dell’industria
nazionale rispetto ai concorrenti esteri sui mercati internazionali ed è
largamente determinata dalla domanda interna. Non si possono, ad
esempio, esportare elettrodomestici se non si ha un ampio mercato interno
di elettrodomestici. Se, seguendo una logica anticonsumistica, si limitano
certi consumi interni “opulenti” e si adottano quelli di Paesi più poveri,
non ci si potrà lamentare se non si riuscirà ad esportare nei Paesi più
ricchi. Ne consegue che più la struttura della domanda aggregata di due
Paesi è simile, più intenso sarà il loro interscambio. Poiché la struttura
della domanda dipende essenzialmente dal livello di reddito pro capite e
dalla distribuzione del reddito fra le diverse categorie sociali, due Paesi
36
Hans Martin Staffan Burenstam Linder (born H. M. S. Linder, (1931-2000 in Djursholm) was a
Swedish economist and conservative politician. He was Swedish Minister for Trade from 1976–78
and from 1979-81. As an adult, Staffan Linder began to use the name Burenstam to preserve this old
name of nobility, whose last male bearer, his grandfather Friedrich Burenstam, had died without a
male heir in 1949. In the scholarly world, Burenstam Linder is known under the name Linder (e.g.
Linder's Hypothesis). It wasn't till the 1980s that his family legally changed their name to Burenstam
Linder.
84
omogenei per reddito nazionale e distribuzione saranno i reciproci
partners commerciali più importanti (un esempio sono Italia, Francia e
Germania).
Il contributo di Linder, in particolare, spiega perché tanta parte del
commercio internazionale è “Nord-Nord” invece che “Nord-Sud”. Egli va
contro l’idea che il commercio internazionale derivi solo dalla
specializzazione. Il commercio internazionale viene visto invece come
una estensione al di là delle frontiere nazionali della rete di attività
economiche del proprio Paese, naturalmente in un’ottica in cui le
economie di scala sono molto importanti.
Questa teoria spiega la crescente interdipendenza fra Paesi industrializzati
ed il fatto che, dopo la seconda guerra mondiale, si sia manifestata
un’elasticità (M/PIL) > 1 e (X/PIL) > 1 e, quindi, un grado di apertura
crescente dei vari Paesi industrializzati al crescere del loro PIL, ma non
spiega quali “gains from trade” possano venire dal commercio
internazionale e quali modelli di specializzazione settoriale si
accompagnino alla crescita economica dei vari Paesi.
I tentativi effettuati per risolvere questo secondo quesito, riformulando in
vari modi la teoria H-O, non hanno prodotto risultati definitivi.
B. Posner, con la sua teoria del gap tecnologico, offre un interessante
contributo teorico. A suo parere, infatti, i vantaggi comparati non
dipendono da dotazioni e costi fattoriali, ma dall’innovazione che procura
un vantaggio temporaneo di monopolio. Successivamente, attraverso
l’inseguimento tecnologico, si ha una inversione delle correnti del
commercio internazionale.
85
C. Il contributo di Posner trova una sua più completa applicazione nel
modello del ciclo di vita del prodotto del Vernon. Tale studioso, in
sintesi, sostiene che le fasi della vita di un prodotto sono sostanzialmente
tre.
1. Fase iniziale o innovativa.
Vi è una particolare tendenza dell’imprenditore a sviluppare prodotti
nuovi, o per soddisfare i bisogni di consumatori ricchi, oppure per
aumentare il rapporto fra il numero dei beni prodotti e le unità di lavoro
impiegate. Tale fase infatti si manifesta soprattutto nei Paesi dove i
consumatori sono ad alto reddito e i costi di lavoro sono elevati rispetto al
costo del capitale (tipicamente negli Stati Uniti, in Giappone o
nell’Unione Europea). Tale sviluppo di prodotti nuovi (innovazione)
avverrà di solito sulla base di principi scientifici disponibili a tutti, ma
investendo capitali ingenti. In questa fase iniziale la funzione di
produzione è ancora instabile e la domanda è anch’essa instabile, ma non
elastica rispetto al prezzo, mentre è elastica rispetto al reddito. I fattori di
competitività sono diversi dal prezzo; in particolare si basano sulla novità,
qualità delle prestazioni, affidabilità e marketing. La produzione è
realizzata interamente dove ha sede l’impresa innovatrice e tutto ciò che si
consuma nel resto del mondo è frutto di esportazioni.
2. Fase di sviluppo.
La produzione si stabilizza, si formano standards internazionali ben
definiti, aumentano le economie di scala e l’industria tende a concentrarsi
per sfruttarle.
La produzione si diffonde anche in altri Paesi e i produttori dei Paesi
originari incominciano ad investire anche all’estero. La domanda
comincia a presentare un’elevata elasticità rispetto al prezzo.
3. Fase di maturità e standardizzazione.
Si accentuano i caratteri della seconda fase fino a che la produzione si
trasferisce nei Paesi meno sviluppati che, con salari relativamente più
bassi, potranno occupare quote crescenti di mercato dei prodotti giunti a
maturità.
86
D. In base ad un’altra teoria del commercio internazionale, si sottolinea non
tanto la specializzazione dei Paesi per settori (interindustriale o
intersettoriale), quanto la specializzazione dei Paesi per prodotti entro i
settori (intraindustriale o intrasettoriale), e si vede in ciò un modo per
superare
la
contraddizione
fra
la
concezione
del
commercio
internazionale basata sulla specializzazione (teorie classica e neoclassica)
e quella basata sulla despecializzazione e sulla omogeneità della domanda
aggregata (teoria di Linder).
In questo senso, si riuscirebbero anche a superare i problemi insiti nella
contrapposizione fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo ed
infine si porrebbero le basi per spiegare la funzione dei NIC nel
commercio internazionale.
In base a questa teoria si afferma che, con il venire meno degli ostacoli
doganali, si assiste ad una crescita intrasettoriale più accentuata di quella
intersettoriale. La teoria del commercio internazionale diviene così
sempre meno teoria della specializzazione e della despecializzazione in
senso
tradizionale,
mentre
diventa
sempre
più
importante
la
specializzazione per tipo di prodotti all’interno dei diversi settori
produttivi. Alla luce di ciò, il commercio internazionale intrasettoriale
viene sempre più visto sia come fenomeno di “border trade” quando vi
sono fattori di somiglianza etnico-linguistico-culturale, sia come scambio
di prodotti sostituibili nell’uso (vermouth italiano/champagne francese;
cognac francese/whisky scozzese; formaggi francesi/ formaggi tedeschi;
ecc.), sia in rapporto a clausole di reciprocità, sia come frutto della
distinzione all’interno di un settore fra parti, componenti e prodotti finiti,
sia come scambi interaziendali.
Questi ultimi rappresentano un caso ancora più lontano rispetto allo
schema classico della specializzazione tradizionale (vino contro tessuti) e
costituiscono un esempio di specializzazione del tutto nuova condizionata
dalla politica dell’azienda.
87
In particolare con riferimento agli Stati Uniti si può dire che circa il 40%
delle esportazioni manifatturiere è diretto verso filiali estere di case madri
USA e circa la stessa percentuale di importazioni deriva da flussi
interaziendali.
In conclusione di quanto detto finora, si può affermare che la divisione
internazionale del lavoro è un fenomeno le cui determinanti prossime (differenze nei
prezzi relativi delle merci e dei fattori produttivi) rinviano alle determinanti remote
di tali differenze e cioè alla teoria dello sviluppo economico e delle trasformazioni
strutturali intervenute nel processo di sviluppo medesimo. La divisione
internazionale del lavoro origina una interazione fra diverse scarsità dei fattori
produttivi, rendimenti crescenti al crescere delle dimensioni, mercati non
perfettamente concorrenziali, modelli di domanda e costi di trasporto.
Vi è quindi più la coesistenza di teorie diverse che l’elaborazione di una
teoria generale del tipo di quella di Ricardo o di quella H-O.
Il mondo che osserviamo è intessuto di fenomeni di specializzazione (alla
Ricardo) e despecializzazione (alla Linder). Molto utili sono anche le analisi
microeconomiche miranti a stabilire i comportamenti delle imprese e le strutture
concrete dei mercati.
Anche l’esame degli investimenti diretti all’estero (IDE) e lo studio dei
comportamenti delle imprese multinazionali sono molto proficui.
Non si può cioè disporre di un quadro completo delle variabili che spiegano
la specializzazione internazionale e il commercio internazionale senza conoscere
almeno alcuni elementi della tipologia, delle determinanti e degli effetti dei
movimenti internazionali del capitale.
I movimenti internazionali (non bancari) di capitale si distinguono in: prestiti
obbligazionari, investimenti di portafoglio e investimenti diretti.
88
5. Protezionismo e strumenti del protezionismo,
liberoscambismo e managed trade: l’evoluzione del
commercio internazionale dal secondo dopoguerra
Il commercio internazionale dopo la seconda guerra mondiale, sulla spinta
degli accordi di Bretton Woods, si è giovato della riduzione delle barriere tariffarie
per dar luogo ad una espansione senza precedenti. Gli anni Trenta, anni della Grande
Depressione, che da poco erano passati, avevano segnato una drastica contrazione
degli scambi internazionali (ridottisi di circa l’80%) a causa delle politiche
protezionistiche che un po’ ovunque vennero attuate.
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
Il protezionismo ed i suoi strumenti
Il protezionismo è una linea di condotta governativa tendente, con vari mezzi, a
proteggere settori economici nazionali dalla concorrenza estera. Gli strumenti
principali del protezionismo hanno lo scopo di rendere più costose, limitare o
vietare
le
importazioni
di
beni
dall'estero,
e
sono:
* tariffe doganali, di modo che il prezzo di vendita di un bene importato è
aumentato
da
una
imposta
fiscale;
* quote doganali, di modo che la quantità totale che può essere importata di un
bene estero è limitata.
In certi casi, il protezionismo venne addirittura visto non come una necessità,
ma come elemento di una ideologia (ciò che è avvenuto in quegli anni con
l’autarchia) che arrivava al punto di teorizzare l’importanza del protezionismo stesso
nel commercio internazionale.
Alle barriere commerciali si affiancarono stretti controlli sui tassi di cambio.
Il modo di regolare gli scambi commerciali fra i diversi Paesi era, per lo più,
individuato nel cosiddetto “sistema di compensazioni” (clearing system) che poteva
essere bilaterale o multilaterale. Questo sistema di regolazione degli scambi tra due o
più Paesi, consisteva nell’uguagliare i valori delle importazioni e delle esportazioni
al fine di evitare lo scambio di valuta. Dopo Bretton Woods gli accordi di clearing
(che creavano, fra l’altro, grosse complicazioni a livello di tassi di cambio i quali
dovevano essere stabiliti diversamente a seconda del settore per cui vigeva l’accordo)
furono via via sempre meno utilizzati e gli scambi internazionali vennero regolati
89
attraverso la logica del sistema monetario internazionale, ossia tramite valuta
liberamente acquistata sul mercato dei cambi (come accade ancora oggi).
Con Bretton Woods venne, infatti, reintrodotto quel sistema monetario
internazionale che si era di fatto interrotto negli anni Trenta e che certamente
favoriva la multilateralità degli scambi mondiali.
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
Gli accordi di Bretton Woods
La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1º al 22 luglio 1944
nell'omonima cittadina appartenente alla giurisdizione della città di Carroll (New
Hampshire, USA), stabilì regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i
principali paesi industrializzati del mondo. Gli accordi di Bretton Woods furono il
primo esempio nella storia del mondo di un ordine monetario totalmente concordato,
pensato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Dopo un
acceso dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono gli Accordi di Bretton
Woods.
Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria
internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due; la prima,
l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di
cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale,
consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; la seconda, il compito di
equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo
Monetario Internazionale (o FMI).
Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo
(detta anche Banca mondiale o World Bank). Queste istituzioni sarebbero diventate
operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l'accordo. Ciò
avvenne nel 1946.
Nel 1947 fu poi firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo
Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca
mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale.
In pratica il sistema progettato a Bretton Woods era un gold exchange standard,
basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua
volta era agganciato all'oro.
La straordinaria espansione del commercio internazionale che si è avuta dopo
Bretton Woods ha seguito tendenzialmente due vie.
La prima è stata quella del sistema multilaterale di libero scambio promosso
dal GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) attraverso una serie ininterrotta
90
di “Rounds” (otto). Gli ultimi due Round, rispettivamente il Tokyo Round (1973’79) e soprattutto l’Uruguay Round concluso il 15 dicembre 1993, hanno affrontato
anche il nodo delle barriere non tariffarie, dell’inserimento dei servizi nell’ambito dei
negoziati, dei prodotti agricoli, dei tessili e dell’abbigliamento. Come si vedrà meglio
in seguito, la fine dei Rounds non segnò il declino di accordi che regolassero il
commercio internazionale, bensì con l’ultimodei Round, l’Uruguay Round appunto,
si aprirono le porte sull’istituzione di una vera propria organizzazione mondiale che
si occupasse di tali problematiche: nasce così, con accordo siglato nel 1994, la World
Trade Organization (WTO), nota anche come Organizzazione Mondiale del
Commercio (OMC).
La seconda è stata quella di fare crescente ricorso ad accordi preferenziali a
livello regionale con la creazione di zone di libero scambio, unioni doganali, mercati
comuni o addirittura, come nel caso dei Paesi dell’Unione Europea, di processi di
integrazione commerciali completi (mercati interni) e successivamente di unioni
economiche e monetarie.
Secondo taluni questa seconda via rappresenta una minaccia al principio del
multilateralismo, in base al quale il sistema di libero scambio deve procedere a
riduzioni del grado di protezionismo in modo simultaneo e multilaterale. Si
sottolinea al riguardo il potenziale di discriminazione dei concorrenti esterni all’area
interessata dall’accordo in parola.
Questa conclusione sarebbe valida solo se a livello del “contenitore” globale
(GATT e successivamente WTO) dominasse un atteggiamento conflittuale: in questo
caso un ridotto numero di partecipanti agli scambi internazionali, connesso con la
formazione di unioni doganali, aumenterebbe la propensione alle rappresaglie
commerciali e favorirebbe le spinte all’isolamento delle economie regionali,
divenute, per così dire, più “autosufficienti”.
Se invece permane un clima di cooperazione generale, la formazione di aree
commerciali integrate consente di realizzare a livello di partners maggiormente
omogenei, ciò che difficilmente sarebbe realizzabile su scala planetaria e gli effetti di
creazione di commercio all’interno dell’unione doganale, superano quelli di
diversione connessi con le barriere tariffarie e soprattutto non tariffarie che vengono
opposte alle merci e ai servizi provenienti da Paesi terzi.
91
La regionalizzazione perciò deve essere considerata come una soluzione (e
sia pure di second best, ossia la migliore ma non l’ideale) per il potenziamento
dell’assetto liberoscambista del mondo.
La tendenza alla regionalizzazione del commercio internazionale prese
inizialmente forma della creazione di tre grandi aree (che compongono la cosiddetta
“Triade”): l’Unione Europea (formata inizialmente da 15 Stati ma composta ad oggi
da ben 27 Stati), cui si aggiungono alcuni Paesi dell’EFTA (European Free Trade
Association, costituita nel 1960 a Stoccolma principalmente su iniziativa inglese in
risposta alla creazione della CEE, oggi composta da Norvegia, Svizzera, Islanda e
Liechtenstein) con la creazione dello Spazio Economico Europeo (SEE), poi evoltosi
in un unione economica e monetaria; il NAFTA (North American Free Trade
Agreement), costituito nel 1993 fra Stati Uniti, Canada e Messico; il Giappone con le
sue, grandi e piccole, otto “tigri”
Dati pil e densità delle 3 aree
In queste aree, e specialmente nelle prime due, il grado di integrazione
commerciale interna (GICI) tende ad aumentare. L’interscambio all’interno del Nord
America per i tre Paesi del NAFTA tende a crescere rispetto al commercio totale dei
tre Paesi e soprattutto rispetto al commercio che ha luogo tra i Paesi del continente
americano. L’interscambio fra i Paesi dell’Unione Europea (EU27) è elevato (circa
65%) e ancora in crescita rispetto all’interscambio con Paesi terzi.
Merchandise trade of the United States by origin and destination, 2008
(Billion dollars and percentage)
Exports
Destination
Value Share
2008
Region
World
North America
Asia
Europe
South and
Central America
Middle East
Africa
1287,4
413,2
329,4
311,1
135,0
55,0
28,8
Imports
Share
2000
2008
100,0 100,0
37,0 32,1
27,6 25,6
23,6 24,2
7,5
2,4
1,4
10,5
4,3
2,2
Annual
percentage
change
Origin
2007 2008
12
6
11
16
12
7
8
14
21
21
28
28
22
20
92
Value
2008
Region
World
Asia
North America
Europe
South and Central
America
Africa
Middle East
2169,5
762,4
559,0
409,6
167,4
117,3
115,3
Annual
percentage
change
Share
2000
2008
100,0 100,0
37,8 35,1
29,4 25,8
20,3 18,9
6,2
2,3
3,2
7,7
5,4
5,3
2007 2008
5
5
5
6
7
1
5
4
1
14
8
18
23
44
CIS
Economy
European
Union (27)
Canada
Mexico
China
Japan
Above 5
Korea,
Republic of
13,8
0,4
1,1
49
32
CIS
Economy
38,5
0,8
1,8
5
45
271,8
260,9
151,2
69,7
65,1
818,8
21,6
22,6
14,3
2,1
8,4
68,9
21,1
20,3
11,7
5,4
5,1
63,6
15
8
2
17
5
-
11
5
11
11
7
-
European Union (27) 377,9
China
356,6
Canada
339,1
Mexico
218,6
Japan
143,6
Above 5
1435,8
18,7
8,5
18,5
10,9
12,0
68,6
17,4
16,4
15,6
10,1
6,6
66,2
7
11
3
6
-2
-
4
5
7
3
-4
-
34,8
3,6
2,7
7
0
57,0
1,2
2,6
12
53
Brazil
32,3
Singapore
28,8
Taipei, Chinese
25,3
Australia
22,4
Switzerland
22,0
Hong Kong,
China
21,6
India
17,7
United Arab
Emirates
15,7
Israel
14,5
Malaysia
13,0
Bolivarian Rep.
of Venezuela
12,6
Saudi Arabia
12,5
Chile
12,1
Colombia
11,4
Turkey
10,4
Russian
Federation
9,3
Thailand
9,1
Philippines
8,3
Argentina
7,5
Dominican
Republic
6,6
South Africa
6,5
Peru
6,2
Egypt
6,0
Indonesia
5,9
Costa Rica
5,7
Panama
4,9
Honduras
4,8
Guatemala
4,7
Nigeria
4,1
Ecuador
3,4
Norway
3,4
Qatar
3,1
Netherlands
Antilles
3,0
Viet Nam
2,8
Above 40
1231,3
2,0
2,3
3,1
1,6
1,3
2,5
2,2
2,0
1,7
1,7
28
6
14
8
18
34
10
-4
17
29
52,6
49,8
39,2
37,7
32,1
1,6
3,3
0,9
3,4
1,2
2,4
2,3
1,8
1,7
1,5
7
4
17
0
-3
28
1
16
-5
18
1,9
0,5
1,7
1,4
13
55
8
18
Malaysia
Russian Federation
31,6
27,9
2,1
0,6
1,5
1,3
-10
-2
-6
38
0,3
1,0
1,4
1,2
1,1
1,0
-3
19
-7
36
11
11
India
Thailand
Iraq
27,0
24,6
23,1
0,9
1,4
0,5
1,2
1,1
1,1
9
0
-3
7
3
94
0,7
0,8
0,4
0,5
0,5
1,0
1,0
0,9
0,9
0,8
13
33
22
28
15
24
20
46
34
59
Israel
Algeria
Angola
Switzerland
Indonesia
22,6
20,0
19,5
18,2
16,7
1,0
0,2
0,3
0,8
0,9
1,0
0,9
0,9
0,8
0,8
9
15
6
3
6
7
9
51
20
10
0,3
0,9
1,1
0,6
0,7
0,7
0,6
0,6
55
4
1
23
28
7
8
29
Singapore
Viet Nam
Colombia
Australia
16,2
13,9
13,8
10,9
1,6
0,1
0,6
0,5
0,7
0,6
0,6
0,5
3
23
2
5
-14
21
38
22
0,6
0,4
0,2
0,4
0,3
0,3
0,2
0,3
0,2
0,1
0,1
0,2
0,0
0,5
0,5
0,5
0,5
0,5
0,4
0,4
0,4
0,4
0,3
0,3
0,3
0,2
14
24
41
30
38
11
38
21
16
25
8
27
108
8
18
50
13
40
24
32
9
16
47
18
11
11
0,3
0,2
0,2
1,1
0,3
0,5
0,2
1,0
0,3
0,2
0,0
0,3
0,0
0,5
0,4
0,4
0,4
0,4
0,4
0,3
0,3
0,3
0,3
0,2
0,2
0,2
20
-14
6
-3
-5
3
3
-12
13
-11
0
-15
162
9
46
1
-7
-8
0
72
-8
28
12
63
1
131
0,1
0,0
97,1
0,2
0,2
95,6
40
73
-
42
47
-
South Africa
10,1
Ecuador
9,5
Trinidad and Tobago
9,5
Philippines
9,1
Chile
9,0
Norway
7,6
Kuwait
7,4
Hong Kong, China
6,7
Argentina
6,2
Peru
6,1
Congo
5,2
Turkey
5,0
Azerbaijan
4,5
Libyan Arab
Jamahiriya
4,4
Honduras
4,2
Above 40
2094,8
...
0,3
96,5
0,2
0,2
96,6
35
5
-
23
3
-
Fonte: WTO Statistics
93
Saudi Arabia
Bolivarian Rep. of
Venezuela
Korea, Republic of
Nigeria
Taipei, Chinese
Brazil
I Paesi dell’Estremo Oriente tendono ad accrescere, seppure in misura
relativamente più modesta, il grado di integrazione interna. Il GICI è cresciuto da
circa il 33% all’inizio degli anni Settanta al 38% all’inizio degli anni Novanta.
L’assenza di una struttura di integrazione paragonabile all’Unione Europea o al
NAFTA e il peso dell’interscambio fra ogni singolo Paese e gli Stati Uniti hanno
ostacolato la creazione di una vera e propria area commerciale regionale, per cui non
a caso quando si parla di grandi potenze economiche si citano l’Unione Europea, il
NAFTA e il Giappone.
A onor del vero è giusto ricordare come, se si fa riferimento ai poli di
maggior peso, Nord America, Estremo Oriente e Unione Europea, si nota che
quest’ultima tende a rimanere relativamente esclusa dal processo di integrazione
(non a caso si parla di “fortezza Europa”) che avviene soprattutto nelle aree Nord
America - Estremo Oriente. Si ricorda a tal proposito l’accordo APEC, siglato nel
1989 fra i Paesi NAFTA e i Paesi dell’Estremo Oriente, fra cui il Giappone, stipulato
proprio per promuovere questo processo di integrazione.
Merchandise trade of Japan by origin and destination, 2008
(Billion dollars and percentage)
Exports
Destination
Value
2008
Region
World
Asia
North America
Europe
Middle East
CIS
South and Central America
Africa
Economy
China
United States
European Union (27)
Imports
Annual
percenta
ge
change
Share
Origin
200 200
7
8
2000
2008
782,0
406,2
158,1
119,3
34,0
100,0
43,3
32,7
17,8
2,0
100,0
51,9
20,2
15,3
4,4
10
12
0
12
37
9
13
-4
6
30
19,3
19,2
12,5
0,2
1,7
0,9
2,5
2,5
1,6
51
25
22
54
28
19
146,2
137,4
8,9
30,0
18,7
17,6
16
-1
13
-4
110,2
16,8
14,1
12
5
94
Value
2008
Region
World
Asia
Middle East
North America
Europe
South and
Central America
Africa
CIS
Economy
China
United States
European
Union (27)
Annual
percentage
change
Share
2000
2008
2007
2008
762,6
361,1
166,7
94,3
79,6
100,0
46,4
13,0
22,0
13,9
100,0
47,4
21,9
12,4
10,4
7
7
5
5
9
23
19
46
12
10
22,2
21,4
14,8
2,2
1,3
1,3
2,9
2,8
1,9
21
14
57
13
40
28
143,3
77,7
14,5
19,1
18,8
10,2
8
4
12
9
70,3
12,6
9,2
9
8
Korea, Republic of
Taipei, Chinese
Above 5
59,5
46,1
499,4
6,4
7,5
69,6
7,6
5,9
63,9
8
2
-
9
3
-
Hong Kong, China a
Thailand
40,3
29,4
2,8
3,8
7
12
4
15
Singapore
Australia
Russian Federation
26,6
17,3
16,5
4,3
1,8
0,1
3,4
2,2
2,1
13
14
53
22
22
53
Malaysia
Indonesia
16,4
12,6
2,9
1,6
2,1
1,6
14
23
9
39
Panama
United Arab Emirates
10,9
10,8
1,3
0,5
1,4
1,4
7
33
26
35
Canada
Philippines
Mexico
India
Saudi Arabia
Viet Nam
Brazil
South Africa
Switzerland
Oman
Turkey
10,8
10,0
9,9
7,9
7,9
7,8
5,9
4,6
4,3
3,9
3,1
1,6
2,1
1,1
0,5
0,6
0,4
0,5
0,4
0,4
0,2
0,3
1,4
1,3
1,3
1,0
1,0
1,0
0,8
0,6
0,6
0,5
0,4
6
5
11
39
45
37
31
14
25
46
15
2
5
-3
28
17
38
48
1
44
56
13
Chile
New Zealand
Israel
Kuwait
Ukraine
Qatar
Iran, Islamic Rep. of
Egypt
2,7
2,5
2,2
2,1
2,0
2,0
1,9
1,9
0,1
0,3
0,3
0,1
0,0
0,1
0,1
0,2
0,4
0,3
0,3
0,3
0,3
0,3
0,2
0,2
45
19
58
40
61
26
14
13
74
1
15
26
87
9
42
44
Bahamas
Pakistan
1,8
1,5
0,1
0,1
0,2
0,2
2
-11
45
-7
Norway
Colombia
Algeria
1,3
1,1
1,1
0,2
0,1
0,0
0,2
0,1
0,1
-31
29
96
18
-15
24
Argentina
Peru
Above 40 a
1,0
1,0
782,5
0,2
0,1
-
0,1
0,1
-
27
44
-
18
79
-
Saudi Arabia
Australia
Above 5
United Arab
Emirates
Indonesia
Korea,
Republic of
Qatar
Malaysia
Taipei,
Chinese
Thailand
Iran, Islamic
Rep. of
Kuwait
Russian
Federation
Canada
Viet Nam
South Africa
Brazil
Philippines
Chile
Singapore
Switzerland
Oman
India
Brunei
Darussalam
Sudan
Mexico
New Zealand
Peru
Norway
Nigeria
Egypt
Hong Kong,
China
Iraq
Equatorial
Guinea
Algeria
Israel
Papua New
Guinea
Kazakhstan
Above 40
51,1
47,5
389,9
3,7
3,9
53,8
6,7
6,2
51,1
-5
12
-
45
52
-
47,1
32,6
3,9
4,3
6,2
4,3
2
10
45
23
29,5
26,6
23,2
5,4
1,5
3,8
3,9
3,5
3,0
0
14
12
8
57
33
21,8
20,8
4,7
2,8
2,9
2,7
-2
9
10
13
18,3
15,3
1,4
1,3
2,4
2,0
14
9
45
54
13,3
12,8
9,1
9,0
8,7
8,4
7,9
7,9
6,4
5,6
5,2
1,2
2,3
0,7
0,8
0,8
1,9
0,7
1,7
0,9
0,5
0,7
1,7
1,7
1,2
1,2
1,1
1,1
1,0
1,0
0,8
0,7
0,7
59
4
16
17
18
10
12
-6
2
34
3
26
28
49
16
45
-3
-3
12
23
56
26
4,5
4,3
3,8
2,9
2,1
2,1
1,8
1,6
0,4
0,1
0,6
0,6
0,1
0,3
0,1
0,0
0,6
0,6
0,5
0,4
0,3
0,3
0,2
0,2
7
-11
12
6
69
37
-18
111
81
59
21
8
-5
24
168
91
1,6
1,5
0,4
0,2
0,2
0,2
-5
12
7
49
1,1
1,0
0,9
0,0
0,0
0,2
0,1
0,1
0,1
82
200
8
94
160
2
0,9
0,8
750,3
0,1
0,0
98,5
0,1
0,1
98,4
27
20
-
8
111
-
a Includes significant shipments recorded as exports to Hong Kong, China with China as final destination.
Fonte: WTO Statistics
Stati Uniti e Giappone, pure nell’enorme diversità delle due culture,
presentano caratteristiche economiche complementari e quindi i due poli si vanno
95
rafforzando al loro interno anche mediante accordi bilaterali miranti ad accentuare la
reciproca integrazione commerciale ed economica. In questo senso si è parlato del
rischio che l’Unione Europea si trasformi in una “fortezza Europa”.
Merchandise trade of the European Union (27) by origin and destination, 2008
(Billion dollars and percentage)
Exports
Destination
Value Share
2008
Region
World
Europe
Asia
North America
CIS
Africa
5898,4
4313,5
440,5
434,7
218,3
171,8
Middle East
156,1
South and Central
America
89,0
Economy
European Union
(27)
3973,5
United States
362,7
Russian Federation 153,2
Switzerland
China
Above 5
Turkey
Norway
Japan
United Arab
Emirates
India
Canada
Korea, Republic of
Brazil
Australia
Ukraine
Singapore
Mexico
Saudi Arabia
Hong Kong, China
Imports
Annual
percentage
change
Share
2000
2008
100,0 100,0
73,5 73,1
7,5
7,5
10,3
7,4
1,3
3,7
2,4
2,9
Origin
2007 2008
16
16
17
7
33
22
10
9
11
4
25
24
2,2
2,6
17
18
1,7
1,5
21
20
68,0
8,9
0,8
67,4
6,1
2,6
16
6
34
9
2
27
143,7
113,7
4746,7
79,8
64,3
60,4
2,7
1,0
81,4
1,2
1,0
1,7
2,4
1,9
80,5
1,4
1,1
1,0
15
23
15
24
6
13
17
11
8
3
46,6
45,6
0,5
0,5
0,8
0,8
16
32
27
15
38,4
37,7
37,6
37,0
37,0
32,3
32,0
31,3
31,0
0,8
0,6
0,6
0,6
0,2
0,6
0,5
0,5
0,8
0,7
0,6
0,6
0,6
0,6
0,5
0,5
0,5
0,5
6
18
30
17
34
14
20
25
6
8
11
32
19
21
15
13
14
8
96
Value
2008
Region
World
Europe
Asia
CIS
North America
Africa
South and Central
America
Middle East
Economy
European Union
(27)
China
United States
Russian
Federation
Norway
Above 5
Switzerland
Japan
Turkey
Korea, Republic of
Brazil
Libyan Arab
Jamahiriya
India
Algeria
Taipei, Chinese
Canada
South Africa
Saudi Arabia
Malaysia
Kazakhstan
6255,8
4298,9
784,5
329,5
323,7
214,2
Annual
percentage
change
Share
2000
2008
100,0 100,0
69,2 68,7
12,0 12,5
2,7
5,3
8,3
5,2
2,9
3,4
2007 2008
16
16
19
12
15
12
12
10
9
31
9
30
128,6
1,7
2,1
17
17
111,0
1,9
1,8
7
19
3973,5
363,7
268,3
64,5
2,7
7,3
63,5
5,8
4,3
16
30
13
9
15
8
254,0
135,3
4994,7
117,8
109,9
67,5
2,2
1,7
78,4
2,2
3,3
0,7
4,1
2,2
79,8
1,9
1,8
1,1
11
6
17
11
23
28
29
12
2
5
57,9
52,1
1,0
0,7
0,9
0,8
11
31
2
16
50,3
43,2
41,7
35,4
35,0
32,3
31,1
25,8
25,6
0,5
0,5
0,6
1,0
0,7
0,5
0,6
0,7
0,1
0,8
0,7
0,7
0,6
0,6
0,5
0,5
0,4
0,4
15
28
-7
6
29
23
-14
11
5
34
19
48
-1
10
14
23
4
39
South Africa
Algeria
Morocco
Croatia
28,9
22,5
21,2
21,1
0,4
0,2
0,3
0,2
0,5
0,4
0,4
0,4
12
23
29
17
5
46
25
16
Israel
Egypt
Taipei, Chinese
Malaysia
Iran, Islamic Rep.
20,7
18,7
17,1
17,0
0,6
0,3
0,6
0,3
0,4
0,3
0,3
0,3
12
25
10
21
6
31
-6
9
16,7
16,5
14,6
13,3
12,5
9,7
9,4
8,9
8,8
0,2
0,2
0,3
...
0,3
0,1
0,1
0,2
0,2
0,3
0,3
0,2
0,2
0,2
0,2
0,2
0,2
0,1
-2
32
19
51
18
34
20
34
19
21
42
12
21
15
13
41
9
18
8,4
8,3
0,1
0,1
0,1
0,1
23
32
48
1
7,8
7,5
5667,5
0,0
0,1
96,2
0,1
0,1
96,1
44
22
-
41
15
-
of
Nigeria
Tunisia
Serbia
Thailand
Qatar
Belarus
Argentina
Indonesia
Libyan Arab
Jamahiriya
Kazakhstan
Angola
Chile
Above 40
of
Thailand
Singapore
Nigeria
Ukraine
Iran, Islamic Rep.
25,2
23,8
22,6
21,1
0,5
0,6
0,2
0,2
0,4
0,4
0,4
0,3
23
4
3
37
11
-6
62
24
Mexico
Indonesia
Hong Kong, China
21,1
20,2
19,9
16,9
0,3
0,3
0,4
0,4
0,3
0,3
0,3
0,3
5
25
14
-2
11
22
13
12
Chile
Australia
Israel
Azerbaijan
Argentina
Tunisia
Iraq
Viet Nam
Morocco
16,6
16,5
16,5
15,5
15,5
14,0
13,4
12,6
12,3
0,2
0,3
0,4
0,0
0,2
0,2
0,2
0,2
0,2
0,3
0,3
0,3
0,2
0,2
0,2
0,2
0,2
0,2
10
15
24
47
26
29
48
25
22
-4
2
6
54
32
13
44
17
11
11,9
11,4
0,1
0,1
0,2
0,2
0
111
23
99
9,3
8,9
6065,5
0,1
0,0
96,5
0,1
0,1
97,0
-3
7
-
25
49
-
Egypt
Angola
Bolivarian Rep. of
Venezuela
Belarus
Above 40
The figures are affected by the "INTRASTAT" system of recording trade between EU member States. Intra-EU (27) imports are underrecorded. To compensate for this under-recording,
intra-EU (27) exports have been used to obtain total (World) imports.
Fonte: WTO statistics
Oltre all’Unione Europea e al NAFTA, esistono nel mondo altri accordi
preferenziali a livello regionale, fra i quali spiccano, nel continente sudamericano, il
Mercosur (mercato comune tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay) e, nel SudEst asiatico, l’ASEAN (a cui aderiscono Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia,
Brunei, Singapore, Vietnam, Laos e Birmania).
Fino ad oggi, la forma di integrazione regionale più compiuta e avanzata
rimane comunque l’Unione Europea, con quasi cinquant’anni di vita e un processo di
unificazione che ha seguito in modo coerente e graduale i diversi passaggi
indispensabili per una corretta integrazione: area di libero scambio, unione doganale,
mercato comune e unione economica e monetaria (il passo finale sarà l’unione politica, con la costituzione di un’unione federale tra i sui membri). Il NAFTA è un
accordo di integrazione meno definito e strutturato rispetto all’Unione Europea e,
inoltre, in esso vi sono gli Stati Uniti che hanno un peso assolutamente predominante
97
(80%) sugli altri due Paesi (contro il 30% della Germania quale Paese più importante
nell’Unione Europea).
Sulla scia delle positive esperienze americana e soprattutto europea sembra,
dunque, che la via del regionalismo sia quella che anche per il futuro caratterizzerà
sempre più il sistema dell’interscambio mondiale: il risultato sarà una sorta di
“mosaico” composto da pochi “pezzi” di grosse dimensioni che, più o meno
lentamente, tenderanno a mutare i propri confini nel tempo fino ad inglobare ogni
angolo del pianeta.
La stessa Unione Europea ha messo ai primi posti dei propri programmi futuri
l’allargamento dei confini sia verso Est che verso Sud: fra cinquant’anni o forse più
si avrà molto probabilmente un Europa a 30-40 Stati che si estenderà da Capo Nord
ai Paesi del Nord Africa e, ad Est, in molte parti dell’ex blocco sovietico. Sono molti
infatti i Paesi che hanno percepito l’importanza di far parte di questo processo
d’integrazione ed hanno avanzato le loro richieste di adesione (anche se per alcuni di
essi - specialmente i Paesi arabi - vi sono non poche perplessità a causa
dell’eccessiva “non omogeneità” con i Paesi già integrati).
Essere membro di grandi mercati unificati significa acquisire maggiore forza
e rispetto in fase di negoziazione delle regole del commercio internazionale e,
all’opposto, non esserne partecipe porta invece ad una inevitabile emarginazione dal
tavolo delle trattative.
World merchandise exports by region and selected economy, 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003 and 2008
(Billion dollars
and percentage)
1948
1953
1963
1973
1983
1993
2003
2008
3676
7377 15717
Value
World
59
84
157
579
1838
Share
World
100,0 100,0 100,0
North America
28,1
98
24,8
19,9
100,0 100,0 100,0 100,0
17,3
16,8
18,0
15,8
100,0
13,0
United States
Canada
Mexico
21,7
5,5
0,9
18,8
5,2
0,7
14,9
4,3
0,6
12,3
4,6
0,4
11,2
4,2
1,4
12,6
4,0
1,4
9,8
3,7
2,2
8,2
2,9
1,9
South and Central America
Brazil
Argentina
11,3
2,0
2,8
9,7
1,8
1,3
6,4
0,9
0,9
4,3
1,1
0,6
4,4
1,2
0,4
3,0
1,0
0,4
3,0
1,0
0,4
3,8
1,3
0,4
Europe
Germany a
France
Italy
United Kingdom
35,1
1,4
3,4
11,3
1,8
39,4
5,3
4,8
9,0
1,8
47,8
9,3
5,2
7,8
3,2
50,9
11,6
6,3
5,1
3,8
43,5
9,2
5,2
4,0
5,0
45,4
10,3
6,0
4,6
4,9
45,9
10,2
5,3
4,1
4,1
41,0
9,3
3,9
3,4
2,9
-
-
-
-
-
-
2,6
4,5
Africa
South Africa c
7,3
2,0
6,5
1,6
5,7
1,5
4,8
1,0
4,5
1,0
2,5
0,7
2,4
0,5
3,5
0,5
Middle East
2,0
2,7
3,2
4,1
6,8
3,5
4,1
6,5
Asia
China
Japan
India
Australia and New Zealand
Six East Asian traders
14,0
0,9
0,4
2,2
3,7
3,4
13,4
1,2
1,5
1,3
3,2
3,0
12,5
1,3
3,5
1,0
2,4
2,4
14,9
1,0
6,4
0,5
2,1
3,4
19,1
1,2
8,0
0,5
1,4
5,8
26,1
2,5
9,9
0,6
1,4
9,7
26,2
5,9
6,4
0,8
1,2
9,6
27,7
9,1
5,0
1,1
1,4
9,0
Memorandum item:
EU d
USSR, former
GATT/WTO Members e
2,2
62,8
3,5
69,6
27,5
4,6
75,0
38,6
3,7
84,1
31,3
5,0
77,0
37,4
89,4
42,4
94,3
37,5
93,4
Commonwealth of Independent States (CIS) b
a Figures refer to the Fed. Rep. of Germany from 1948 through 1983.
b Figures are significantly affected by i) changes in the country composition of the region and major adjustment in trade conversion factors between 1983 and 1993; and ii) including the
mutual trade flows of the Baltic States and the CIS between 1993 and 2003.
c Beginning with 1998, figures refer to South Africa only and no longer to the Southern African Customs Union.
d Figures refer to the EEC(6) in 1963, EC(9) in 1973, EC(10) in 1983, EU(12) in 1993, EU(25) in 2003 and EU(27) in 2008.
e Membership as of the year stated.
Note: Between 1973 and 1983 and between 1993 and 2003 export shares were significantly influenced by oil price developments.
Fonte: WTO Statistics
World merchandise imports by region and selected economy, 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003 and 2008
(Billion dollars and percentage)
1948
1953
1963
85
164
1973
1983
1993
2003
2008
3787
7692 16127
Value
World
62
595
1882
Share
World
100,0 100,0 100,0
99
100,0 100,0 100,0 100,0
100,0
North America
United States
18,5
13,0
20,5
13,9
16,1
11,4
17,2
12,3
18,5
14,3
21,4
15,9
22,5
16,9
18,1
13,5
Canada
4,4
5,5
3,9
4,2
3,4
3,7
3,2
2,6
Mexico
1,0
0,9
0,8
0,6
0,7
1,8
2,3
2,0
10,4
1,8
8,3
1,6
6,0
0,9
4,4
1,2
3,8
0,9
3,3
0,7
2,5
0,7
3,7
1,1
Argentina
2,5
0,9
0,6
0,4
0,2
0,4
0,2
0,4
Europe
Germany a
45,3
2,2
43,7
4,5
52,0
8,0
53,3
9,2
44,2
8,1
44,6
9,0
45,0
7,9
42,3
7,5
South and Central America
Brazil
France
13,4
11,0
8,5
6,5
5,6
5,7
5,2
4,4
United Kingdom
5,5
4,9
5,3
6,3
5,3
5,5
5,2
3,9
Italy
2,5
2,8
4,6
4,7
4,2
3,9
3,9
3,4
Commonwealth of Independent States (CIS) b
-
-
-
-
-
-
1,7
3,1
Africa
South Africa c
8,1
2,5
7,0
1,5
5,2
1,1
3,9
0,9
4,6
0,8
2,6
0,5
2,1
0,5
2,9
0,6
Middle East
1,8
2,1
2,3
2,7
6,2
3,3
2,7
3,6
13,9
0,6
15,1
1,6
14,1
0,9
14,9
0,9
18,5
1,1
23,6
2,7
23,5
5,4
26,4
7,0
Asia
China
Japan
1,1
2,8
4,1
6,5
6,7
6,4
5,0
4,7
India
2,3
1,4
1,5
0,5
0,7
0,6
0,9
1,8
Australia and New Zealand
2,9
2,3
2,2
1,6
1,4
1,5
1,4
1,5
Six East Asian traders
3,5
3,7
3,1
3,7
6,1
10,3
8,6
8,9
Memorandum item:
EU d
USSR, former
GATT/WTO Members e
-
-
29,0
39,2
31,4
36,1
41,8
38,8
1,9
3,3
4,3
3,5
4,3
-
-
-
52,9
66,0
74,2
89,1
79,8
89,5
96,1
95,8
a Figures refer to the Fed. Rep. of Germany from 1948 through 1983.
b Figures are significantly affected by i) changes in the country composition of the region and major adjustment in trade conversion factors between 1983 and 1993; and ii) including the mutual
trade flows of the Baltic States and the CIS between 1993 and 2003.
c Beginning with 1998, figures refer to South Africa only and no longer to the Southern African Customs Union.
d Figures refer to the EEC(6) in 1963, EC(9) in 1973, EC(10) in 1983, EU(12) in 1993, EU(25) in 2003 and EU(27) in 2008.
e Membership as of the year stated.
Note: Between 1973 and 1983 and between 1993 and 2003 export shares were significantly influenced by oil price developments.
8. Lo sviluppo dell’economia mondiale verso una
configurazione tripolare costituita dai blocchi Nord
America, Europa, Asia
100
A contendersi oggi la supremazia economica planetaria si schierano tre grandi
blocchi continentali: i Paesi NAFTA (Stati Uniti, Canada e Messico), l’Unione
Europea (costituita ad oggi, a seguito dell’inglobamento progressivo dei paesi
dell’Est, da 27 paesi: Germania , Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo,
Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Portogallo, Spagna, Austria, Finlandia,
Svezia, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca,
Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria e Romania) e il blocco asiatico, dominato
da Cina e Giappone,
affiancate dalle grandi e piccole “tigri” asiatiche
(rispettivamente Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Thailandia,
Filippine, Malesia, Indonesia).
Questo assetto tripolare dell’economia mondiale (e sta avanzando
prepotentemente il Sud America con il Brasile in testa) ha mutato profondamente gli
equilibri che si erano formati e consolidati sulla base della prima rivoluzione
industriale. Esso scaturisce sostanzialmente dai profondi cambiamenti che la seconda
rivoluzione industriale (cfr. paragrafo 3) ha generato nello scenario competitivo
internazionale.
Gli Stati Uniti erano abituati fino al recente passato a godere di enormi
vantaggi competitivi. In primo luogo, fra i Paesi industrializzati essi disponevano del
mercato di gran lunga più grande, delle più grandi società del mondo, delle banche
più grandi del mondo. Non è più cosi. Il mondo è cambiato profondamente. Dal 2000
al 2010 è cambiato radicalmente. Il mondo è diventato piatto, senza barriere, come
dice un grandissimo analista e columnist del New York Times Thomas L. Friedman37
37
Thomas L. Friedman (1953) is an American journalist, columnist and author. He writes a twiceweekly column for The New York Times. He has written extensively on foreign affairs including
global trade, the Middle East and environmental issues and has won the Pulitzer Prize three times.
Fonte: wikipedia http://www.thomaslfriedman.com/
101
nel suo magnifico “Il mondo è piatto.
Breve storia del
ventunesimo secolo” (Mondadori, 2006).
La globalizzazione è descritta da Friedman
come un fenomeno di
appiattimento del mondo (da cui il titolo del libro) dal punto di vista dei rapporti
sociali ed economici. La globalizzazione secondo Friedman ha permesso di livellare
il divario esistente tra i paesi industrializzati e quelli definiti emergenti come India e
Cina. Il libro mette in luce il ruolo che Internet e le innovazioni tecnologiche ad esso
legate stanno avendo nel rompere le barriere culturali, temporali e logistiche tra paesi
diversi. Seppur non citato nel libro, che l'autore ha in parte integrato dopo l'edizione
originale del 2005, il tema del Web 2.0 può essere facilmente riconosciuto in molti
degli esempi citati.
Friedman individua 10 forze principali che avrebbero contribuito a questo
appiattimento globale:
1. La caduta del muro di Berlino con la conseguente fine della contrapposizione
del blocco sovietico con quello occidentale che ha dato la possibilità ai vari
paesi di intrecciare nuovi rapporti. Il mondo ora è un unico mercato, un
singolo ecosistema, una singola comunità.
2. La quotazione di Netscape. La data di questo avvenimento viene presa come
l'inizio dell'era di internet che ha portato alla comunicazione globale di cui
vediamo quotidianamente gli effetti. È il browser commerciale che ha
102
determinato la grande diffusione di internet e del web come strumenti di
comunicazione e di lavoro.
3. La creazione di software per il workflow in quanto incoraggiano lo sviluppo
di procedure standardizzate per certi tipi di lavoro e transazioni commerciali
permettendo ad un numero di individui sempre maggiore di collaborare sui
reciproci contenuti digitali con una facilità senza precedenti.
4. L'avvento dell'uploading per mezzo del quale le persone mettono in
condivisione con il resto del mondo le proprie conoscenze senza essere
costretti a passare attraverso le tradizionali gerarchie organizzative o
istituzionali.
5. L'outsourcing dall'America all'India.
6. L'offshoring. La delocalizzazione in Cina.
7. Il supply chaining. Ossia la collaborazione orizzontale tra fornitori, venditori
e clienti.
8. L'insourcing. Il piccolo può agire come se fosse grande e le grandi imprese
possono agire come se fossero piccole. Far gestire da terzi la propria filiera.
9. L'in-forming.
È
l'analogo,
a
livello
individuale,
dell'uploading,
dell'outsourcing, dell'insourcing, del supply-chaining e dell'offshoring. È la
capacità di dispiegare la propria supply-chain individuale.
10. Gli steroidi, intese come le ulteriori possibilità, date dalle nuove tecnologie
come il wireless, di connettersi a internet e quindi di scambiare dati anche
quando si è in movimento e non solo da casa o dall'ufficio, potenziando così
le altre 9 forze appiattitrici.
Oltre al mercato più grande e al vantaggio tecnologico, gli Stati Uniti
disponevano di grandi risorse naturali e si è visto (cfr. paragrafo iii.) come oggi
questo fattore sia meno importante che in passato e costituisca anzi un elemento di
freno piuttosto che un vantaggio competitivo. Inoltre, l’America disponeva delle
103
scuole di management americane (business schools of administration) dove si
formava la migliore classe di dirigenti del mondo e la classe lavoratrice era anche
mediamente meglio istruita e più attiva.
Questi vantaggi competitivi non esistono più perché Europa, Cina e Giappone
hanno fatto passi da gigante in tutti i settori menzionati (salvo quello delle risorse
naturali) anche perché sono stati capaci di diventare nazioni con elevati tassi di
risparmio e quindi di investimenti cosa che gli Stati Uniti non sono mai riusciti a
diventare a causa della bassa propensione al consumo e dell’endemica posizione
deficitaria della loro bilancia dei pagamenti (si è parlato per anni dei twin deficits, dei
deficit gemelli, ossia del decifit commerciale e del deficit pubblico).
Ma è soprattutto nei livelli di istruzione intermedi che gli Stati Uniti non sono
riusciti a tenere il passo delle altre due potenze della Triade: scarso livello di
istruzione elementare e media, scarsa propensione all’educazione scientifica (molti
avvocati, ma pochi ingegneri e scienziati), scarso training sul posto di lavoro, hanno
determinato un grado di istruzione medio della classe lavoratrice americana più basso
di quello dei Paesi concorrenti. Solo i migliori college americani sono su standard
d’istruzione elevati e sfornano annualmente un buon numero di laureati di prima
qualità.
Passando ora a considerare l’Unione Europea di 27 Paesi, ci limitiamo a dire che
stiamo parlando della seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti. Per
approfondimenti rimandiamo alla dispensa ad hoc.
104
Unione europea[1]
Bandiera dell'Unione europea
Motto: Unita nella diversità[2]
27:
Austria,
Belgio,
Bulgaria,
Cipro,
Danimarca,
Estonia,
Finlandia,
Francia,
Germania,
Grecia,
Irlanda,
Italia,
Lettonia,
Lituania,
Lussemburgo,
Malta,
Paesi Bassi,
Polonia,
Portogallo,
Regno Unito,
Repubblica Ceca,
Romania,
Slovacchia,
Slovenia,
Spagna,
Svezia,
Ungheria
Paesi membri
4:
[3]
Paesi candidati
Lingue ufficiali
Croazia,
Islanda,
Macedonia,
Turchia
23[4]:
bulgaro, ceco, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese,
italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, romeno,
slovacco, sloveno, svedese, spagnolo, tedesco, ungherese.
Bruxelles
Commissione europea
Consiglio dell'Unione europea
Parlamento europeo (solo poche sedute)
Lussemburgo
Sedi istituzionali
Corte di giustizia dell'Unione europea
Tribunale dell'Unione europea
Segretariato Generale del Parlamento europeo
Strasburgo
Parlamento europeo (sede)
Presidente della Commissione
José Manuel Durão Barroso
Presidente del Parlamento
Jerzy Buzek
Presidente del Consiglio europeo
Herman Van Rompuy
Presidenza del Consiglio dell'Unione
Europea[5]
Primo ministro Ungherese
Superficie
4 326 253 km² (7ª nel mondo*)
Popolazione (2009)
- Densità
499 723 520 (3ª
105nel mondo*)
114 ab./km²
(fino al 30 ottobre 2014)
(fino al 14 gennaio 2012)
(fino al 31 maggio 2012)
- Ungheria- (fino al 30 giugno 2011)
Euro (€) (EUR) in 16 Paesi
In relazione al Giappone, possiamo dire che è la terza economia del mondo
dopo Stati Uniti e Cina (a livello di Pil), il terzo esportatore del mondo (dopo Cina e
Germania).
A livello culturale, esiste la pratica di basare i salari sull’anzianità e non sul
merito. Il fatto di avere una moneta nazionale che si apprezza fortemente, dovrebbe
costituire un fattore negativo per le esportazioni e invece sembra avere l’effetto
contrario sulla bilancia commerciale giapponese.
E’ certo comunque che la propensione del Giappone ad importare è pari a 1/4
di quella degli Stati Uniti ed è pari ad 1/12 di quella della Germania per cui, ceteris
paribus, le importazioni giapponesi sono circa il 35% in meno di quello che
sarebbero se il Giappone fosse un Paese occidentale. I prezzi dei prodotti non
commerciabili internazionalmente sono circa il 90% più alti in Giappone che negli
Stati Uniti, ma chi ha cercato di trarre profitto da questa enorme potenziale
sopravvalutazione del cambio dello yen ha sempre fallito.
Il modello di capitalismo occidentale si basa sull’individualismo, sulla
convenienza a consumare i prodotti più a buon mercato, sull’interesse individuale,
sulla massimizzazione del profitto. Lo spirito del Giappone è tipicamente
collettivista.
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
Individualismo vs collettivismo
L’individualismo è radicato nelle culture occidentali, nelle società più
ricche e urbanizzate. I suoi valori di riferimento sono: unicità,
edonismo, successo personale, competizione sociale, attenzione
all’immagine di sé. Nelle culture individualiste i rapporti reciproci fra gli
individui non sono stretti: tutti s’occupano soltanto di se stessi e dei
loro parenti stretti.
Il collettivismo è radicato nelle culture orientali, nelle società agricole
e nelle classi socio-economiche più modeste. Sono considerati valori
tipici del collettivismo: armonia sociale, cooperazione, integrità della
famiglia, ricerca di consenso, atteggiamento di modestia e umiltà. Nelle
società collettiviste gli individui sono, dalla nascita, accolti in gruppi
forti e stabili che gli offrono protezione in cambio di lealtà
incondizionata. Il collettivismo enfatizza l'interdipendenza di ogni
essere umano all'interno di un gruppo collettivo e la priorità delle
finalità di gruppo sulle finalità individuali. I collettivisti si focalizzano
sui concetti di comunità e società. Le basi filosofiche del collettivismo
sono infatti collegate all'olismo o all'organicismo, la visione secondo la
quale l'intero è maggiore della somma delle sue parti. Specificatamente,
una società nel suo intero può essere vista come portatrice di un
maggior significato o valore rispetto agli individui separati che la
106
compongono.
I giapponesi sono mossi dal desiderio di appartenere ad una potenza
economica vincente: il loro obiettivo è la massimizzazione della quota di mercato e
del valore aggiunto (profitti + salari). In essi prevale il senso di “animale da branco”,
invece che di “animale individuale”: anche per questo le aziende tendono a
conservare lo stesso personale per tutta la vita.
Il sistema economico nipponico è basato sul binomio “alto risparmio/elevato
investimento”. Il Giappone ha investito negli ultimi anni circa il 35% del suo PIL,
mentre negli Stati Uniti il rapporto in parola è pari a circa il 15%, (e di questo 15%
gran parte va all’edilizia piuttosto che alle infrastrut-ture e agli impianti e
macchinari). Inoltre, solo il 16% dei giapponesi sostiene che “è meglio consumare
prodotti importati se essi costano meno”.
Normalmente, la propensione ad allungare l’orizzonte temporale e ad
accettare un basso rendimento richiede che gli azionisti impazienti siano tenuti a
freno. I gruppi aziendali (Keiretsu) mirano proprio a questo: essi controllano il 78%
delle azioni quotate alla borsa di Tokyo attraverso una selva di partecipazioni
incrociate in modo che gli outsiders non riescono ad esercitare nessun controllo. I
membri del Keiretsu hanno i vantaggi (la dimensione e il coordinamento) di società
conglo-merate senza averne gli svantaggi (troppa centralizzazione e mancanza di
focalizzazione).
Per i giapponesi, l’obiettivo principale di una società non è quello di dare un
rendimento sul capitale investito dagli azionisti (richiamo alla teoria degli
shareholders, formalmente ritenuta ormai superata ma più che radicata nel
capitalismo di tipo occidentale). Al primo posto sono i dipendenti, poi i clienti e gli
azionisti vengono al terzo posto. Quest’obiettivo richiama alla memoria la teoria, di
stampo manageriale, degli stakeholders, secondo la quale obiettivo dell’impresa è
creare valore per tutti i portatori di interesse, coinvolti in un modo o nell’altro nella
vita dell’impresa.
A metà degli anni Novanta tuttavia il Giappone è entrato in una crisi
profonda, connessa con le molte inefficienze del sistema e con lo scoppio di una
bolla speculativa dei prezzi delle azioni e del mercato immobiliare, che non sembra
solo congiunturale, ma anche strutturale. E’ un Paese in letargo (2011), che non
cresce più, il cui debito pubblico è pari a oltre il 200% del Pil.
107
VANTAGGI E SVANTAGGI COMPETITIVI
Unemployment rates
Fonte: Eurostat
108
Fonte: Eurostat
109
Balance of payments
Fonte: Eurostat
110
Fonte: Eurostat
111
9. Il ruolo della Cina come attore di primo piano sulla
scena dell’economia internazionale
“La pazienza è potere: con il tempo e la pazienza,
il gelso si tramuta in seta.”
(proverbio cinese)
La Cina è diventato nel 2010 il secondo Paese al mondo a livello di Prodotto
Interno Lordo, superando il Giappone, passato terzo in classifica. Gli Stati Uniti
permangono in testa.
Per far capire a quale velocità va oggi il mondo e come le cose cambino in
fretta, riporto un passo di Visetti – corrispondente di Repubblica in Cina38:
“Quarant’anni dopo l’avvio delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti, il
presidente Hu Jintao atterra domani a Washington con un’agenda inimmaginabile,
rispetto a quella che Mao Zedong presentò a Richard Nixon. Nel 1972 il leader di
una nazione fallita chiese esplicitamente all’America un piano di aiuti per salvare
820 milioni di contadini dalla fame. Domani il capo di un Paese dei record, che si
appresta a salvare e guirdare il mondo in questo secolo, baderà invece a rassicurare
la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto USA. I ruoli non sono
ancora invertiti, ma oggi è Barack Obama a dover chiedere alla Cina un programma
di salvataggio per gli Stati Uniti e per l’Occidente, cercando di capire non se, ma
quando Pechino supererà anche Waghington iniziando a controllare il mondo che
gli USA rappresentano”. Lo stesso 17.1.11, su Repubblica Rampini39 scrive: “Il 47%
degli americani è convinto che il sorpasso tra Cina e Stati Uniti sia già avvenuto. In
38
G. Visetti, I padroni del mondo, La Repubblica, 17 gennaio 2011
39
Federico Rampini (1956) è un giornalista e scrittore italiano. Come corrispondente ha raccontato
dapprima le vicende della Silicon Valley; ha lasciato poi gli Stati Uniti per aprire l'ufficio di
corrispondenza di Pechino. Ha insegnato alla Berkeley University in California e alla Shanghai
University of Finance and Economics. Nel 2009 torna a fare l'inviato de La Repubblica negli Stati
Uniti. Si consiglia la lettura di : Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del
mondo, Mondadori, 2005; L'impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre
miliardi e mezzo di persone, Mondadori, 2006; L'ombra di Mao. Sulle tracce del grande timoniere per
capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo, Mondadori, 2006; La speranza
indiana. Storie di uomini, città e denaro dalla più grande democrazia del mondo, Mondadori 2007;
Centomila punture di spillo. Come l'Italia può tornare a correre, con Carlo De Benedetti e Francesco
Daveri, Mondadori 2008; Con gli occhi dell'Oriente, Mondadori, 2009; Occidente estremo; Il nostro
futuro tra l'ascesa dell'impero cinese e il declino della potenza americana, Mondadori 2010.
112
realtà nelle proiezioni più ottimiste l’economia cinese non raggiungerà le dimensioni
americane prima del 2018 (altri rinviano lo storico aggancio verso il 2030). Ma le
percezioni contano, e di percezioni è fatto questo G2, il vertice sino-americano che si
apre domani sera a Waghington...Hu rappresenta un Paese che ha sfondato i 250
miliardi di dollari di attivo commerciale annuo con gli Stati Uniti nel dicembre
2010. Il 21% di tutti i debiti esteri del Tesoro USA sono detenuti da Pechino, per un
totale di 850 miliardi. E la banca centrale cinese con 2.850 miliardi nelle sue casse
(la massima parte in dollari) ha il 25% delle riserve valutarie mondiali”. Seguono
alcune tabelle de “Il Sole 24 Ore del 15 e 16.1.11.
113
114
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
La Cina non è Oriente, è Occidente avanzato, tratto dal blog Faust e il
Governatore, 29.10.10
Shanghai
La Cina è diventato il secondo Paese al mondo a livello di Prodotto Interno Lordo,
superando il Giappone, passato terzo in classifica. Gli Stati Uniti permangono in
testa.
Peraltro il PIL pro-capite cinese – dati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e
della Banca Mondiale – è nell’intorno di 6.800 dollari, ben al di sotto delle potenze
industriali occidentali, ma in forte crescita.
L’economista Raghuram Rajan – ex capo economista del FMI – ci ha spiegato nel
suo ultimo libro – Fault lines. How hidden fractures still threaten the world
economy (Princeton University Press, 2010) - che molte nazioni oggi sono ricche
perchè hanno avuto una crescita stabile nel tempo, non perchè sono cresciuti
particolarmente veloce.
115
Gli Stati Uniti dal 1820 al 1870 sono cresciuti in media dell’1,3%. Il Giappone - che
nel 1850 aveva un PIL pro-capite inferiore a quello del Messico – tra il 1950 e il
1973 ha vissuto una crescita del PIL pro-capite di circa l’8% medio annuo: “No
country has grown as fast as Japan did between 1950 and 1973".
Bene. La Cina sta superando le performance del Giappone. E' l'unico caso di Paese
che cresce in modo stabile con alti tassi di crescita.
Se facciamo una proiezione dei dati del 2009 a dieci anni – con una crescita media
dell’8% - vediamo che nel 2020 il PIL pro-capite cinese sarà pari a 15.855$ (2,3
volte quello del 2009), livello attuale del Portogallo.
Statene certi! Se la Cina si fissa degli obiettivi, li rispetta. Un esempio? Nel lontano
2001 la Cina dichiarò che all’EXPO di Shanghai del 2010 avrebbe superato i 70
milioni di visitatori. Così il Sole 24 Ore
http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-10-25/lexpo-shanghai-supera-tutti113635.shtml?uuid=AYD7TzdC del 25 ottobre: “Il biglietto con il numero 70
seguito da sei zeri è stato staccato alle 10.17 di ieri mattina. Il target di 70 milioni di
visitatori per il Shanghai World Expo 2010 è stato raggiunto nell'ultima settimana,
quella precedente ai sei mesi dall'apertura. Nella sola giornata di domenica i
vistiatori sono stati 727.600. La maggior parte di nazionalità cinese”.
Juan ed Evita Peròn
Non è sempre così. Un esempio negativo? L’Argentina. Così l'economista d'impresa
Marco Vitale nel 1991
http://www.marcovitale.it/articoli/1991/clubISTUD_29011991.pdf : “E se vogliamo
116
stare sul leggero il colonnello Juan Peròn quando nel 1943 fu nominato ministro del
lavoro era giovane, bello, aveva una bellissima voce, una grande abilità oratoria,
era campione di sci e di scherma, era uno pseudointellettuale, era forte e impetuoso,
aveva, insomma, un enorme carisma personale. Ma allora l’Argentina era uno dei
paesi più ricchi del mondo, con 1500 milioni di dollari e sterline di riserve. Era la
grande speranza, il Canada dell’America Latina. In poco più di dieci anni il
peronismo ridusse l’Argenitna a pezzi, condannandola, sembra definitivamente
all’arretratezza economica, sociale e politica”. Aggiungiamo a titolo ironico che
vista l'inefficienza cronica di Telecom Argentina, alcune imprese assumevano
persone "whose sole job was to hold a telephone handset for hours on end until thay
heard a dial tone" (Rajan, p. 54).
Confrontandomi durante il mio viaggio a Shanghai con alcuni esponenti della
business comunity, tutti mi hanno confermato che la classe dirigente cinese è di
primissimo ordine. Il nepotismo? Se esiste è solo per i ruoli inferiori e non
determinanti. Niente impedisce a un governo statale di distribuire favori ad amici o
parenti incompetenti, ma in Cina siamo su un altro pianeta. La meritocrazia impera.
Zhou Xiaochuan, banchiere centrale cinese
Prendiamo il Governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. "He is one
of the most influential economic figures in the world and was ranked 9th by Foreign
Policy in the Top 100 Global Thinkers report. He is generally considered the most
academically capable of the current Chinese leadership, being praised for his
intellect and diplomacy. He has been called "China's most able technocrat" and is
the only highly-ranked Chinese politician to have been published in a Western
117
academic journal. Although he has yet to reach the highest rungs of decisionmaking
within the State Council, he is considered a strong and vocal advocate of further
liberalization in the financial sector. He has increasingly displayed an openness to
the press - rare for a senior Chinese official - and is most famous for the motto: "If
the market can solve the problem, let the market do it. I am just a referee. I am
neither a sportsman nor a coach."(Wikipedia)
Shanghai non è Oriente. E’ Occidente avanzato. Arrivati a Shanghai non si vive
alcuno shock culturale. Solo la sensazione di una macchina oliata e perfetta in forte
avanzamento.
Senofonte
Sempre Vitale puntualizza che nell’Economico di Senofonte, Socrate attribuiva
grande importanza alla capacità di comando: “Comandare a gente che obbedisca
volentieri è cosa che pare divina”. Ecco, in Cina la gente obbedisce volentieri. Senza
nessun dubbio. Non siamo certo all’anarchia italica. Tutti vanno nella stessa
direzione. E se lo fanno 1 miliardo e quattrocento milioni di persone, i risultati sono
sotto i nostri occhi.
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
Il Nobel a una sedia vuota. Ma la Cina non è una dittatura, tratto dal
blog Faust e il Governatore, 14.12.10
118
Quando venerdì scorso è stato consegnato il Nobel per la pace, la sedia di Liu
Xiaobo, dissidente, promotore di “Charta 08”, è rimasta vuota. Xiaobo è stato
condannato a undici anni per “istigazione alla sovversione” e rinchiuso nel carcere
della
Manciuria.
E’ stato un brutto spettacolo. E’ brutto che i primi ministri europei si siano fatti
intimidire dalla Cina e non abbiamo osato chiedere la liberazione di Xiaobo.
L'architetto Ai Weiwei
L’archistar e artista dissidente Ai Weiwei – arrestato perchè voleva festeggiare con
un party la demolizione forzata del suo studio a Shanghai, liberato dopo tre giorni ai
domiciliari - ha dichiarato: “Humour is a necessary ingredient when you are living
under an authoritarian society. I’m in a battle against any system that tries to limit
our imagination. Only with humour and art do we have a superior advantage, and
we sill win every time....La Cina è un luogo dove non esiste libertà di espressione,
dove l’accesso alle informazioni è limitato dalla censura, dove non si svolgono
elezioni e dove la giustizia dipende dalla violenza del potere. Il mondo deve capire
cosa significa trasformare un luogo simile nella prima potenza del pianeta”. E
prosegue – decisamente incazzato: “L’atteggiamento internazionale fa pietà.
Arrivano in Cina capi di Stato e di governo e nessuno osa pronunciare in pubblico le
parole “diritti umani”. Come possono essere così miopi? I grandi leader, dopo il
Nobel per la pace, non si arrischiano nemmeno a dire il nome di Liu Xiaobo. I figli
dell’Occidente malediranno questo errore”.
119
A fronte della sedia vuota di Xiaobo e delle affermazioni di Weiwei, la reazione
sarebbe
di
considerare
la
Cina
una
dittatura.
Non
è
così.
Il nostro sempiterno riferimento Marco Vitale in un recente commento scrive: “In
primo luogo la Cina è un paese governato da una classe dirigente che coltiva una
cultura del fare vera e non parolaia, come da noi. In secondo luogo la peculiare
democrazia cinese, così diversa dalla nostra, con il ruolo centrale del partito,
facilita il processo decisionale anche se in Cina vi sono talora divergenze forti fra
autorità locali e centrali e se la presenza di un’opinione pubblica attenta è in
crescita. Immagino che molti si risentano del fatto che ho usato la parola
democrazia cinese, ma penso che sia un grande errore continuare a classificare la
Cina come un Paese totalitario. Nell’interno del partito esiste una forte dialettica e
forme di competizione democratica. L’opinione pubblica incomincia a contare. Gran
parte della strada verso un Paese di diritto è stata percorsa. Molti meccanismi di
bilanciamento di poteri sono in atto, che rendono possibile parlare di democrazia sia
pure controllata e fortemente guidata dalle oligarchie del partito che resta tetragono
ad ogni democratizzazione. Forse, provocatoriamente, si potrebbe parlare di
autoritarismo
democratico”.
120
Slavoj Zizek
Interessanti anche alcune considerazioni del filosofo sloveno – gran provocatore,
visiting professor in numerose università dal mondo - Slavoj Zizek: “Dovendo
immaginare in onore di chi si costruiranno statue tra un secolo, penso a Lee Kwan
Yew, per oltre trent’anni primo ministro di Singapore. E’ stato lui a inventare quella
pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare “capitalismo
asiatico”: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, ma
che può fare a meno della democrazia, e anzi funziona meglio senza democrazia.
Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le sue riforme, e si
convinse
che
quel
modello
andava
applicato
alla
Cina”.
Poi Zizek tocca un punto importante, la fine della connessione tra democrazia e
capitalismo: “Credo che i meccanismi democratici non siano più sufficienti ad
affrontare il tipo di conflitti che si prospettano all’orizzonte. Sembrano richiedere un
“governo di esperti” molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare, e lo
metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi. Ma il punto non è criticare la
democrazia
in
sè;
bisogna
comprendere
come
la
democrazia
si
stia
autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta
delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il
sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico”.
Io sono indotto a pensare che non bisogna prendere scorciatoie. Noi europei ci
abbiamo messo circa duemila anni per approdare alla democrazia, non possiamo
pretendere che questo salto storico altri lo facciano in un solo giorno. Abbiamo visto
come esportare la democrazia sia assai complicato e nefasto. Ogni popolo deve
121
trovare dentro di sè le energie per liberarsi dei propri tiranni, altrimenti diventerà
schiavo del suo liberatore.
Si sbaglia di grosso chi pensa che la guerra sia la via più veloce per risolvere un
problema. Dopo una guerra il problema è ancora intatto. E la guerra per esportare la
democrazia è stata un fallimento clamoroso. Dopo l’invasione dell’Afghanistan
nell’ottobre
2001,
la
situazione
è
migliorata?
Consiglio a tutti la visione del film Bhutto sulla storia della famiglia Bhutto e in
particolare di Benazir, gran donna, con un coraggio ammirevole, primo ministro due
volte del Pakistan, assassinata il 27 dicembre 2007.
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
Comandano in nove e lavorano in un miliardo e quattro, tratto dal blog Faust e
il Governatore, 12.11.10
Shanghai
Nel mio recente viaggio a Shanghai ho conosciuto Alessandro Asperti, un giovane
manager, 31 anni, con le strapalle, rappresentante in Cina della famiglia bresciana dei
122
Lonati.
Alessandro è partito per l’avventura cinese alcuni anni or sono, a 25 anni e tanta
voglia di imparare. Mentre eravamo a cena in uno splendido ristorante cinese vicino
alla zona più trendy di Shanghai – il Bund – Alessandro ha preso la parola e ha detto
con grande lucidità (dimostra molto più dei suoi anni): “Decidono in tre e lavorano
in un miliardo e quattro”. Fulminante. Da qui il titolo del post di oggi.
Nel suo recente "The Party. The secret world of China’s Communist rulers" (Harper
Collins, 2010), il giornalista statunitense Richard McGregor racconta il mondo
segreto del vertice politico cinese. E conferma l’incipit di Asperti: “Comandano in
nove. Nove sono i membri del Comitato permanente dell’Ufficio Politico del
Comitato Centrale del Partito comunista cinese. Hu Jintao fra questi nove è un
primus inter pares, un primo tra pari. Io li descriverei seduti interno ad un tavolo
rotondo del quale il presidente occupa il posto principale, ma in cerchio con gli
altri”.
Giovedì scorso la nota rivista americana Forbes ha incoronato Hu Jintao come
l’uomo più potente del mondo. Si chiude così un 2010 eccezionale per la Cina, che
ha frantumato tutti i record ed è tornata dopo alcuni secoli ad essere l’epicentro del
mondo. L’anno della Tigre si è aperto con il sorpasso sul Giappone a livello di PIL,
poi la continua crescita delle esportazioni cinesi, la forza del renmimbi, la crescita
delle riserve ufficiali di valuta estera, il successo dell’EXPO di Shanghai hanno fatto
il resto.
123
Questa la motivazione di Forbes nell’attribuire il premio al presidente del partito
comunista cinese: “Hu Jintao è il leader politico fondamentale più di qualunque
altro per il maggior numero di persone, in quanto esercita un controllo dittatoriale
su un quinto della popolazione mondiale, è alla guida del più grande esercito della
Terra. E’ in grado di spostare fiumi, costruire e trasferire metropoli, mettere in
carcere dissidenti, censurare internet senza ingerenze burocratiche”.
A tarda sera l’Agenzia di Stato ufficiale cinese ha risposto seccamente con il
seguente comunicato: “All’imperialismo occidentale non restano che premi simbolici
per tentare di fermare la crescita dell’Oriente”.
La reazione piccata di Pechino all’attribuzione del premio Nobel al dissidente cinese
Liu Xiaobo ha mostrato al mondo la fragilità del sistema politico cinese, che dovrà
dimostrare in futuro – specialmente il successore di Hu Jintao, Xi Jinping, che non
appartiene alla classe di “tecnocrati riformisti”, ma a quella avversaria, formata dai
“principi rossi conservatori” – di saper coniugare crescita economica e richieste della
società civile.
Ma la Cina è lontana? No, vicinissima. Nel loro splendido articolo sul Corriere della
Sera, Stella e Rizzo, link
http://archiviostorico.corriere.it/2010/novembre/06/Arte_banchieri_capitale_che_per
duta_co_9_101106011.shtml , ci raccontano come a Prato “Incalzano i cinesi (che
non vivono di passato)”: “Prato ha 186mila abitanti. Un boom demografico senza
precedenti: tra il 1951 e il 2010 la popolazione è cresciuta del 165%. Prima
arrivarono i meridionali. Poi, ancora più numerosi i cinesi. Tutti o quasi dalla
provincia contadina del Wenzhou. Quanti sono? Quelli legali, 12 mila. Quelli
124
illegali, almeno 25 mila. Ma nessuno davvero lo sa. La più grande di clandestini
sotto la luce del sole. Aumentano a dismisura prima con il tacito ammiccamento
degli italiani, poi contro.
Capoluogo dal 1992 dell’omonima e inutile provincia italiana, Prato offre il 27% di
tutta la produzione tessile italiana. Un giro di affari di quattro miliardi di euro,
come il Pil della Somalia. Più altri due miliardi, però dei cinesi. Chiariamo: sono
stime. Perchè qui il colore preferito è quello delle automobili - nella Chinatown
pratese sfila ininterrotta la processione di Porsche Carrera, Suv Mercedes, e Audi
R8, tutte rigorosamente nere".
Chiudiamo segnalandovi Silvia Pieraccini e il suo “L’assedio cinese” (Il Sole 24 Ore,
2010), dove si legge che un ufficio Money tranfer di Prato “Gestito da un immigrato,
in 18 mesi di attività, ha trasferito in Cina 550 milioni di euro attraverso 60.000
operazioni di importo inferiore a 12.500 euro” (limite per la segnalazione all’Ufficio
di Informazione Finanziaria UIF, di Banca d’Italia). Come vedete, i cinesi – che
siano in Cina o in Italia – risparmiano oltre il 50% del reddito disponibile, con il
quale aprono nuovi centri massaggi - "falegnamerie" per gli addetti ai lavori - nel
centro di Milano, assai redditizi.
125
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
La determinazione cinese, Terzani e l’operazione Yao Ming, tratto dal blog
Faust e il Governatore, 4.11.10
Ripensando al post precedente sulla Cina - La Cina non è Oriente, è Occidente
avanzato - corre l’obbligo riportare la view di Gideon Rachman (ben più quotato del
sottoscritto), editorialista del Financial Times – China can no longer pread poverty,
October 26 2010: “Anybody who talks regularly to Chinese officials will be familiar
with the mantra that “China is a developing country”. But Shanghai, which I visited
last week, mocks this modest description. With its eight-lane highways, its modern
and efficient subway, its forest of neon-lit skyscrapers, giant new airport and chic
hotels, China’s commercial capital is defiantly developed…China’s insistence that it
is
a
poor,
developing
nation
is
beginning
to
wear
a
little
thin”.
Il drago cinese – di cui Napoleone si era preoccupato che si svegliasse – si è
svegliato alla morte di Mao - 1976. Le forze interne sono finalmente emerse. Il
carattere cinese ha potuto finalmente esprimersi, a partire dal 1980 con l’inizio delle
riforme portate avanti da Deng Xiaoping.
126
Tiziano Terzani
In relazione alla forza interiore cinese, ho trovato calzante un racconto tratto da
Tiziano Terzani nel suo magistrale Un indovino mi disse (Tea, 1995), dove riporta il
pensiero di un prete cattolico olandese, padre Willem: “Un indonesiano va a pescare
e prende tantissimi pesci. E’ felice, torna a casa e si doge per giorni quel che ha
guadagnato, pensando che può riposarsi. Un cinese va a pescare e prende tanti
pesci; pensa che quella è una buona stagione, che ha trovato un punto ottimo;
scarica la barca, ritorna a pescare e prende tantissimi altri pesci”.
Ho ripensato alla determinazione del popolo cinese. E mi è tornato alla mente un
libro letto anni fa: Operation Yao Ming (Brook Larmer, Gotham Books, 2005), che
descrive come Yao Ming – campione di basket cinese ingaggiato dagli Houston
Rockets – sia stato progettato in laboratorio, programmato a tavolino.
127
Yao Ming
Il Governo cinese ha indotto i genitori (lei giocatrice di basket, altissima) a sposarsi
poiché ritenuti “adatti” in seguito ad un complicato e ovviamente segretissimo
processo di selezione “naturale” per talento, struttura fisica e atteggiamento mentale.
Una sorta di Frankenstein del parquet dell’NBA (National Basket Association).
Insomma, è stata pianificata con grande commitment una gigantesca operazione
commerciale su scala globale, per rendere più friendly la Cina da parte degli
americani, che erano alla ricerca di un erede di Michael Jordan. Il giornalista Larmer,
ex corrispondente di Newsweek, scrive: “Their mission was simple: to bring honor to
the largest nation on earth, a country that passed centuries of insecurity”.
Penso che abbia ragione Terzani: “La cultura cinese, umiliata dal confronto con
l’Occidente, è moribonda almeno da un secolo e Mao, non a caso cercando di
fondare una “Nuova Cina”, ha finito per ammazzare quel poco della vecchia che
restava. Senza più niente a cui rifarsi, i cinesi ora non sognano che di diventare
americani”.
Napoleone Bonaparte
E la libertà di stampa? Non esiste. In Cina è vietato agli investitori esteri fondare
società editoriali. E’ stato seguito l’insegnamento di Napoleone: “La stampa è un
arsenale che occorre non mettere a disposizione di tutti”. Io leggendo il China Daily
128
– che pubblicava un articolo di un senatore statunitense – ho pensato che avessero
modificato il contenuto perchè è impossibile vedere un parlamentare statunitense
plaudire
all’assenza
di
libertà
di
stampa.
Nel mio viaggio a Shanghai sono rimasto colpito anche dalle piccole innovazioni,
semplici,
che
potrebbero
far
comodo
anche
a
noi
italiani.
Sappiamo che l’evasione fiscale in Italia è un fenomeno diffuso, legittimato a livello
sociale, inestirpabile (fino ad oggi), perchè ampiamente tollerato. Anche l’inflazione
in Italia sembrava invincibile, poi a partire dal decreto di San Valentino del Governo
Craxi (1984) che abolì il punto unico di contingenza (i.e. l’indicizzazione al 100%
dei salari alla crescita dell’inflazione), grazie alle lucide analisi di Ezio Tarantelli –
vedi
post
http://fausteilgovernatore.blogspot.com/2010/10/modigliani-baffi-e-
tarantelli.html – applicate con l’accordo Trentin-Amato del 1992, poi formalizzato da
Ciampi
del
1993,
l'inflazione
è
stata
sconfitta.
E sorridiamo nel 2010 a leggere titoli assurdi sui giornali “E l’inflazione vola”, e
parliamo
dell’1,6%
(non
del
19%
dei
primi
Anni
’80!).
I cinesi danno la possibilità ai cittadini di scaricare dall’imponibile numerose spese
correnti, tra le quali le ricevute dei ristoranti. E quindi tutti porgono i loro dati al
momento del pagamento per avere la ricevuta fiscale. E – sorpresa delle sorprese –
nella ricevuta c’è una lotteria “Gratta e vinci” che dà la possibilità di vincere un
montepremi significativo di renminbi cash.
Luigi Zingales
Sono gli incentivi che governano l’economia. Bisogna solo avere la volontà politica
di farne buon uso. Ah, se Berlusconi avesse tempo di leggere Zingales e Rajan! Ma
ha altro da fare. Bunga bunga.
129
In primo luogo è fondamentale comprendere quali siano i fattori che hanno
permesso il decollo dell’economia cinese. La più grande risorsa di cui dipone la Cina
è certamente la popolazione. La Cina è da sempre contraddistinta per l’elevatissima
popolazione e si posiziona al primo posto nella lista dei paesi più popolati, vantando,
nel 2008, una popolazione di 1 miliardo e 300 milioni di abitanti. Il fattore trainante
dello sviluppo economico Cinese è la possibilità di usufruire di una grande
manodopera, numerosa, preparata e spesso sfruttata. Il mondo globalizzato ha
permesso al resto del mondo di accedere ad una manodopera a basso costo da un
lato, e ha fatto sì che la più grande industria manifatturiera venisse esportata in tutto
il mondo. Oggi è tutto made in China, dagli abiti low cost a quelli dei grandi nomi
della moda internazionale, dall’oggettistica generale a qualunque tipo di prodotto per
la persona.
Oltre che sull’industria manifatturiera, l’economia cinese si basa su
l’industria in genere, risorse forestali e minerarie, allevamento e agricoltura. In
particolare l’agricoltura, nonostante lo sviluppo industriale dell’epoca moderna,
mantiene percentuali interessanti, grazie anche ad una sua riorganizzazione
territoriale e aziendale. La Cina è la prima esportatrice mondiale di riso ed una delle
maggiori esportatrici di mais, frumento, avena, soia, tè, zucchero. Anche per quanto
riguarda la pesca si presenta come uno dei maggiori esportatori del mondo.
La Cina è un Paese con tradizioni secolari, con dei valori forti, con un passato pieno
denso
di
storia
e
filosofia.
Qualche
dato:
1. il PIL della Cina ha raggiunto i 1.337 miliardi di dollari, superando il PIL
giapponese
e
diventando
la
seconda
economia
del
mondo;
2. il PIL nel secondo trimestre 2010 è cresciuto del 10,3% (e noi italiani siamo qui a
trastullarci
sullo
zero
130
virgola);
3. l’indice dei prezzi al consumo è al 3,5% in crescita dal 3,3% (e le minute
pubblicate del meeting di settembre del Federal Open Market Committee della Banca
centrale americana indicano la chiara volontà della FED di creare inflazione perchè i
prezzi non crescono: “Participants noted a number of possible strategies for
affecting short-term inflation expectations, including providing more detailed
information about the rates of inflation the Committee considered consistent with its
dual mandate, targeting a path for the price level rather than the rate of inflation,
and targeting a path for the level of nominal GDP”;
Shanghai
4. la Cina ha due porti – Shanghai e Shenzhen – tra i quattro maggiori del mondo
quanto al numero di container movimentati al giorno;
5. la cinese Suntech Power è la seconda società “solar power” al mondo;
6. in Cina sono presenti più di 900.000 milionari (in dollari), e il numero cresce ogni
anno (come private banker, mi dovrei spostare immediatamente là!);
7. è il primo Paese al mondo dove il produttore di vino Chateau Margaux ha aperto i
suoi uffici;
8. i turisti cinesi nel 2010 spenderanno in Giappone circa 6 miliardi di dollari, e si
stima 60 miliardi entro 10 anni;
9. l’import di orologi svizzeri nel 2010 cresce del 49%;
10. la società quotate trattano a 13 volte gli utili del 2010, sotto la media storica a
livello di p/e (price earning ratio);
131
11. le tre donne self-made più ricche del mondo sono cinesi e 11 delle 20 donne
miliardarie nel mondo vengono dalla Cina
http://www.economist.com/node/17248052?fsrc=scn%2Ffb%2Fwl%2Far%2Fselfma
dewomen
Come sottolinea Jim O’Neill di Goldman Sachs, “China is at the core of a broader
BRIC and N11 group which is going to create between them , between $ 10 -15
trillion Dollars worth of additional consumption this decade. As this happens, there
will be plenty for all producers to benefit from, almost irrelevant of currency values”.
In Italia sembra sia scomparso il lungo termine. Tutti dico tutti stanno dando retta a
Lord Keynes – in the long term we are all dead; siamo affetti da short-termismo
acuto e siamo focalizzati sull’oggi, neanche sul domani o sul dopodomani. Siamo
malati di presentismo.
132
Io (Piccone, ndr) credo che la Cina invece abbia un grande vantaggio competitivo e
culturale. Ha in sè la cultura dei tempi lunghi e riesce a progettare su archi
ventennali. E la dirigenza cinese è di alto livello. E’ intrisa di cultura millenaria.
Segue diligentemente i precetti del Tao del filosofo Lao-Tze, V° secolo a.C.: “Il capo
eccellente ottiene i risultati con pochissimo movimento, insegna non attraverso molte
parole ma attraverso l’esempio. Si tiene informato di tutto. Ma non interferisce quasi
per niente. La sua presenza assicura che le cose siano fatte meglio che se lui non ci
fosse ma quando i suoi uomini hanno successo egli non se ne prende il merito e
poichè non se ne prende il merito, il merito non lo abbandona mai”.
Henry Kissinger e Mao Zedong
E’ utile e divertente ricordare che quando Kissinger – Consigliere per la
sicurezza nazionale dell’Amministrazione Nixon - visitò la Cina ai tempi di Mao nel
1972, il premier cinese Zhou Enlai diede proprio l’idea del lunghissimo termine.
Quando Kissinger gli chiese la sua opinione sull’impatto della Rivoluzione Francese
133
del 1789, Zhou ci pensò intensamente prima di dire: “La Rivoluzione Francese? E’
troppo presto per giudicare”.
Gross domestic product 2009
Ranking
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
22
23
24
25
26
27
28
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
Economy
(millions of US dollars)
United States
14,256,300
Japan
5,067,526
China
4,909,280
Germany
3,346,702
France
2,649,390
United Kingdom
2,174,530
Italy
2,112,780
Brazil
1,571,979
Spain
1,460,250
Canada
1,336,067
India
1,296,085
Russian Federation
1,230,726
Australia
924,843
Mexico
874,902
Korea, Rep.
832,512
Netherlands
792,128
Turkey
617,099
Indonesia
540,277
Switzerland
500,260
Belgium
468,552
Poland
430,076
Sweden
406,072
Austria
384,908
Norway
381,766
Saudi Arabia
369,179
Iran, Islamic Rep.
331,015
Greece
329,924
Venezuela, RB
326,498
Denmark
309,596
Argentina
308,741
South Africa
285,983
Thailand
263,856
United Arab Emirates
261,348
Finland
237,512
Colombia
230,844
Portugal
227,676
Ireland
227,193
Hong Kong SAR, China 215,355
Israel
194,790
Malaysia
191,601
134
Il ruolo dell’India, la più grande democrazia del mondo
L'India,
ufficialmente Repubblica dell'India,
è uno stato dell'Asia meridionale, con capitale Nuova Delhi (o New Delhi). È il
settimo paese per estensione geografica al mondo (3.287.590 km²) e il secondo più
popolato con 1.173.108.018 abitanti (stima effettuata nel 2010).
Questo paese vanta, tra gli altri, un primato non
indifferente: è la più grande democrazia al mondo. Resasi indipendente nel 15 agosto
del 1947, si presenta come una
federazione di stati con parlamenti e governi
autonomi (28 stati federati e 7 territori). A partire dal 1991 importanti riforme
economiche hanno trasformato l'India in uno dei paesi con tassi di crescita
economica fra i più alti del mondo, che hanno contribuito, tanto a livello regionale
che globale, ad aumentare il peso specifico.
È considerata uno dei maggiori paesi emergenti, anche se in realtà verrebbe da dire
che, come gli altri Brics, è già emersa da tempo. Da anni, infatti, gioca un ruolo
deicisivo nell’economia globale; in particolare si parla dell’India come l’ufficio del
mondo (così come la Cina veniva considerata la fabbrica del mondo, almeno fino a
pochi anni fa). Questo paese, che ancora verso la metà del secolo scorso viveva
135
essenzialmente di agricoltura, ha conosciuto uno sviluppo straordinario del settore
dei servizi (call center, centri di ricerca; soprattutto nelle grandi città come
Bangalore): nel 2007 essi contavano per il 60% nella formazione del PIL nazionale.
Molto di questo cambiamento è dovuto agli investimenti esteri (l’India si posizionava
al quindicesimo posto nella classifica delle destinazioni degli IDE); in realtà il valore
assoluto degli investimenti in India non è elevatissimo (nel 2010 il valore dello stock
di IDE è pari a 165 miliardi $, contro i 680 della Cina), ma questo è dovuto al fatto
che gli investimenti in servizi richiedono pochi capitali rispetto a quelli richiesti, ad
esempio, per l’apertura di una fabbrica.
PIL
PIL nominale in (US$ bn)
PIL nominale (Rs bn)
Crescita reale del PIL (%)
Spesa sul PIL (% reale)
Consumi privati
Consumi del Governo
Investimenti lordi fissi
Export di beni e servizi
Import di beni e servizi
Origine del PIL (% reale)
Agricultura
Industria
Servizi
136
2008a
2009b
2010c
2011c
1,260.0
55,745
5.1
1,296.3
62,312
7.7
1,594.8
73,582
8.0
1,832.1
84,001
8.2
6.8
16.7
4.0
19.3
23.0
4.3
10.5
7.2
-6.7
-7.3
6.4
9.3
9.6
13.9
11.6
6.5
9.0
12.2
12.2
12.4
1.6
3.9
9.8
0.2
9.3
8.5
1.1
9.5
9.4
2.3
9.7
9.4
Demografia e reddito
Popolazione (m)
PIL pro-capite (US$ a PPA)
Tasso di disoccupazione (media %)
Indicatori fiscali (% del PIL)
Reddito del Governa centrale
Spesa del Governo centrale
Bilancio di Governo
Debito netto pubblico
Prezzi e indicatori finanziari
Tasso di cambio Rs-US$ (media)
Prezzi al consumo (media; %)
Prezzi alla produzione (media; %)
Tasso di interesse di prestito
(media; %)
Conto corrente (US$ m)
Bilancia commerciale
Merci: export fob
Merci: import fob
Bilancia dei servizi
Bilancia dei redditi
Bilancia dei trasferimenti di conto
Bilancia in conto corrente
Riserve internazionali (US$ m)
Totale delle Riserve internazionali
1,148.0
3,011
-
1,166.1
3,230
-
1,184.1
3,470
-
1,202.1
3,751
-
9.8
15.9
-6.0
54.9
10.3
16.9
-6.5
57.3
10.8
16.3
-5.5
55.4
10.6
15.8
-5.2
54.9
43.51
8.3
9.1
48.41
10.9
2.1
46.16
11.0
9.7
46.00
5.8
5.3
13.3
12.2
12.4
13.2
-124,452
203,069
-323,862
48,044
-3,542
48,751
-30,955
-106,040
168,244
-269,998
36,824
-6,504
49,102
-26,626
-126,370
200,900
-327,270
54,768
-11,636
56,451
-26,788
-150,009
224,000
-374,009
65,508
-17,348
62,654
-39,195
254,024
274,668
285,763
304,338
a Attuale. b Stime Economist Intelligence Unit. c Previsioni Economist Intelligence Unit
.
Fonte: IMF, International Financial Statistics.
Se consideriamo il PIL corretto per la parità del potere di acquisto (PPP), l’India
aveva, nel 2008, il quarto PIL più grande al mondo (pari a 3300 miliardi di dollari), e
le previsioni la vedono salire di una posizione entro il 2020 (con un valore stimato di
13300 miliardi di dollari). Per renderci conto delle dimensioni di questo dato, l’Italia
ha prodotto, nel 2008, un PIL di 1800 miliardi, e si prevede per il 2020 un valore di
2800 miliardi.
137
Le cose cambiano se consideriamo il PIL calcolato al cambio di mercato corrente
(dollaro/rupia): l’India si posiziona in questo caso al 12° posto nel 2008 (1200
miliardi), e si prevede salirà al 7° entro il 2020 (3200 miliardi).
Parlando di crescita, mentre i paesi industrializzati hanno visto nel periodo della crisi
finanziaria tassi di crescita prossimi allo zero, se non addirittura negativi), l’India è
cresciuta dal 2006 al 2010 ad un tasso medio del 6,6%, e si prevede che continuerà a
crescere ad un tasso del 6,5% fino al 2020.
L’India è destinata ad assumere un ruolo sempre maggiore nell’economia globale: si
stima che in essa verranno creati il 30% dei nuovi posti di lavoro da qui al 2020
(132,4 milioni di nuovi posti), con gli USA che conteranno per il 2,6% e l’unione
europea per solo il 1,8%. Anche se guardiamo al tasso di disoccupazione l’India si
trova in un’ottima posizione, con il più basso valore (insieme alla Cina) nelle
maggiori economie: 4,7% nel 2007 (quando l’Italia si attestava intorno all’8%).
Poiché tutti questi posti di lavoro sono sempre maggiormente legati al settore dei
servizi, c’è una forte tendenza a spostarsi dalle aree rurali verso le aree urbane: il
tasso di urbanizzazione, infatti, pari al 29% nel 2005, è previsto crescere fino al 47%
entro il 2025. Questo dato si riflette anche in un altro indicatore dello sviluppo di un
paese, a volte sottovalutato: la crescita nella domanda di energia, che in India
presenta un tasso pari 3,3% annuo, superata solo dalla Cina. Questo perché la
crescita, la costruzione di infrastrutture, di industrie e la richiesta di benessere da
parte di una fetta sempre maggiore della popolazione, richiedono uno straordinario
utilizzo di energia. (informazioni tratte dal libro "Eurasia's Emerging Megamarkets"
di Paul Fisher, edizioni BookSurge 2010).
138
Diamo un’occhiata alla borsa indiana, qui rappresentata dall’Indice Sensex (30 titoli
a
maggiore
capitalizzazione
della
borsa
di
Mumbai).
Il passaggio decisivo per la crescita indiana è stato il Primo Ministro Mr Shri
Narasimha Rao40 (al potere dal 21.6.1991 al 16.5.1996) che – con un grandioso
programma di liberalizzazioni e apertura delle frontiere, che gli valse il soprannone
di Padre delle riforme economiche indiane – trasformò l’India da Paese autarchico a
Paese aperto ai mercati internazionali.
40
Pamulaparti Venkata "Narasimha Rao" (1921–2004) was the 10th Prime Minister of India,
serving from 1991 to 1996. He led one of the most important administrations in India's modern
history, overseeing a major economic transformation. Rao accelerated the dismantling of the Licence
Raj. Rao, also called the "Father of Indian Economic Reforms," is best remembered for launching
India's free market reforms that rescued the almost bankrupt nation from economic collapse. He was
also commonly referred to as the Chanakya of modern India for his ability to steer tough economic
and political legislation through the parliament at a time when he headed a minority government.
Rao's term as Prime Minister was an eventful one in India's history. Besides marking a paradigm shift
from the industrializing, mixed economic model of Jawaharlal Nehru to a market driven one, his years
as Prime Minister also saw the emergence of the Bharatiya Janata Party (BJP), a major right-wing
party, as an alternative to the Indian National Congress which had been governing India for most of its
post-independence history. Rao's term also saw the destruction of the Babri Mosque in Ayodhya
which triggered one of the worst Hindu-Muslim riots in the country since its independence.
139
10. I Paesi Emergenti
Governatore, 15.10.10)
(tratto
dal
blog
Faust
e
il
In un suo speech, Stephen Cecchetti - Economic Adviser and Head of Monetary and
Economic
Department
della
Banca
dei
Regolamenti
Internazionali
-
http://www.bis.org/speeches/sp100903.pdf ha messo in rilievo come nei Paesi
Emergenti la crisi non è mai esistita o quasi. Nelle sue parole: “Indeed, the patient
efforts of many emerging countries, especially in this part of the world, to reform and
strengthen their regulatory frameworks over the past decade are an important
reason why the spillovers from the recent financial crisis in the US and Europe to
these economies have been relatively mild. This is why my BIS colleagues in the
Office for Asia and the Pacific have, from the beginning, corrected my terminology,
insisting that I speak not about the global financial crisis, but about the international
financial crisis. As they have said repeatedly, “There is no financial crisis out here”.
Se ci mettiamo ad analizzare la tabella qui a fianco – tratta dal Financial Times, “A
case not so much of agreeing to differ as just differing”, Martin Wolf, Special Report
World Economy, FT, October 8 2010 – vediamo quale drammatico differenziale di
Rao's later life was marked by political isolation due to his association with corruption charges. Rao
was acquitted on all charges prior to his death in 2004 of a heart attack in New Delhi.
140
crescita ci sia tra i Paesi Sviluppati e i Paesi Emergenti.
Mentre le economie dei Paesi Emergenti pesano oggi per il 30% del PIL mondiale,
gli investitori di Stati Uniti, Europa e Giappone detengono solo tra il 2% e il 7% dei
loro asset – 50.000 miliardi di dollari – nei Paesi Emergenti.
Attualmente le azioni presenti nel MSCI emerging markets scambiano a circa 13
volte gli utili previsti nel 2010 e 11 volte gli utili del 2011 (le azioni americane
trattano a 14 volte gli earnings del 2010). In linea con la media a 5 anni. Non
crediamo si possa parlare di una bolla.
In un intervento a Denver presso la National Association for Business Economics,
l’economista Michael Spence, Premio Nobel per l’economia nel 2001, ha sostenuto
che Brasile, Cina e India (i cosiddetti BRICs, acronimo che comprende anche la
Russia) crescono di più degli Stati Uniti per i seguenti motivi:
1) Queste economie hanno imparato l’amara lezione della crisi 1997-98 che colpì più
i paesi asiatici che le economie avanzate;
2) Sono in “a good initial position” con una leva finanziaria estremamente bassa, e
quindi non stanno assistendo al deleveraging (riduzione della leva) statunitense;
3) Non hanno vissuto la diffusione e la proliferazione dei prodotti finanziari
collateralizzati (Collateral Debt Obligation, alias CDO, mutui subprime
cartolarizzati...);
4) Hanno costituito riserve di valuta estera ingenti.
Mercoledì sono stati pubblicati i dati del III° trimestre 2010 per la sola Cina, che ha
aumentato le sue foreign exchange reserves di 194 miliardi di dollari (in tre mesi!),
portandole a un totale di 2.650 miliardi di dollari.
5) Le loro banche centrali hanno risposto con velocità e agilità al credit tightening
141
(razionamento del credito alle imprese);
6) Gli economic managers hanno dimostrato un livello elevato di competenza.
Alla domanda se si tratti di una crescita sostenibile, Spence ha risposto in modo
affermativo, “I wouldn’t have said that 10 years ago”
Ma quali Paesi Emergenti! Sono già belli che emersi!
11. Le speranze dell’Africa
Mobutu, i Next Eleven e le speranze dell’Africa, tratto dal Blog Faust e il
Governatore, 30.11.10
Mobutu Sese Seko
Quarantacinque anni fa, il 30 novembre 1965, il generale Mobutu si autoproclamava
presidente
della
Repubblica
del
Congo.
Nel 1959, quando re Baldovino del Belgio concede l’indipendenza al Congo,
Mobutu - Mobutu Sese Seko, nome completo Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu
142
Wa Zabanga (letteralmente, "Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza
che nessuno possa fermarlo") - è segretario del leader del movimento indipendentista
Lumumba. Una volta che Lumumba diventa primo ministro e nomina Mobutu
comandante dell’esercito, il gioco è quasi fatto. Mobutu fa fuori Lumumba in un
bagno
di
acido
solforico.
In
breve
diventa
presidente
dittatore.
Visto che il Congo è dotato di miniere di uranio e visto che le potenze mondiali
hanno bisogno dell’uranio per le bombe atomiche, Mobutu è accolto in tutto il
mondo a braccia aperte. Lo si vedrà in televisione alla Casa Bianca con il presidente
Nixon. Lo accoglieranno sia il Generale De Gaulle che la regina d’Inghilterra, sia
Indira Ghandi che Mao Zedong.
Mobutu con Ronald Reagan
Nel 1997 Mobutu muore per un cancro alla prostata, lasciando agli eredi un bel po’
di
conti
cifrati
nelle
banche
svizzere.
Questa è una delle tante storie dell’Africa, dove i Mobutu di turno purtroppo di
alternano con eccessiva facilità. Ma quando potremo vedere l’Africa protagonista
dello
sviluppo
economico
mondiale?
In una ricerca di Jim O’Neill di Goldman Sachs – How exciting is Africa’s potential
– si fa notare come nella lista stilata dei prossimi 11 Paesi top nella crescita – definita
da GS “Next Eleven”, sono due i paesi africani presenti: Egitto e Nigeria.
143
Per capire dai livelli da cui partiamo, oggi il PIL combinato degli 11 paesi più
popolati dell’Africa – Congo, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Nigeria, Sud Africa,
Sudan, Tanzania, Uganda e Zimbabwe – è pari a un decimo del PIL dei Paesi BRIC
– Brasile, Russia, India e Cina. Gli stessi 11 paesi hanno complessivamente
un’economia un po’ più grande del Messico o della Corea del Sud.
Nelle stime di GS, nel 2050 il PIL combinato degli 11 paesi potrebbe raggiungere più
di 13 miliardi di dollari, quindi non maggiore del PIL di Cina o India.
La metà del PIL del 2050 sarebbe originato da Egitto e Nigeria, quindi è dal
progresso di questi due paesi che dipende il potenziale del continente africano. La
Nigeria
potrebbe
diventare
come
la
Germania
di
oggi.
Sempre entro il 2050 la classe media degli 11 African countries potrebbe raggiungere
i 400 milioni di persone, contro i 50 milioni di oggi.
Jim O'Neill di Goldman Sachs
O’Neill scrive: “Eradicating chronic corruption might be the most important step on
the path towards higher productivity and sustanable growth. Improving human
capital, including the most basic level of education and life expectancy, also remains
critical, particularly in Nigeria, Congo and Uganda…Transparency and an
144
environment conducive to business are what African leaders should be concentrating
on. Otherwise, the dream of an African BRIC will remain just that – a dream”.
Visto
che:
1. la crescita economica dell’Egitto è molto importante per il futuro del continente
africano,
2. viste le prossime elezioni in Egitto, dove non l’unico che può succedere a Hosni
Mubarak è suo figlio
le
speranze
di
uscire
dal
torpore
sono
limitate.
Se si riuscisse a far svegliare l'Egitto, l'Africa potrà dare seguito al sogno di Martin
Luther King.
12.
La
globalizzazione
dei
mercati
finanziari e dell’informazione) e gli
medesima sull’economia internazionale
(commerciali,
effetti della
Abbiamo già avuto modo di vedere in precedenza, quando si è parlato della
mobilità internazionale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), come la
globalizzazione (o internazionalizzazione che dir si voglia) sia un fenomeno che
tocchi molti aspetti della vita economica e sociale di un Paese, influenzando temi
145
importanti come la distribuzione del reddito sia a livello nazionale che
internazionale, la disoccupa-zione, l’immigrazione.
Globalizzazione è un termine alla moda, anche impegnativo, ma molto
elastico, dai mille usi, soprattutto dalle mille interpretazioni possibili. Per
cominciare, conviene leggere la definizione che, in termini ufficiali, ne dà
l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE):
«Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano
sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento
di capitale e tecnologia». Volendo dare una definizione concreta e immediata, anche
se molto semplicistica, della globalizzazione si può dire che con questo termine
s’intende l’eliminazione della segmentazione territoriale dei sistemi economici e
quindi la possibilità di produrre, consumare, risparmiare, investire e lavorare un po’
allo stesso modo in tutti i Paesi che rientrano in questo processo. È una progressiva
abolizione di tutti i confini nazionali, un’abbattimento di barriere, fisiche e non, dal
quale deriva una dilatazione dei confini dei singoli paesi, che progressivamente,
stanno inglobando il mondo intero (globo, per l’appunto). Ciò non deve però essere
inteso come se si prefigurasse l’emergere di una armoniosa società mondiale, o di un
processo universale di integrazione globale all’interno del quale si realizzerebbe una
crescente convergenza di culture e civiltà. L’idea che vi sta alle spalle infatti è quella
di un “mercato globale” e non quella di una “società (o cultura) globale”. Da questa
definizione si evince che il contrario della globalizzazione è la segmentazione
nazionale: oggi parlare di mercato-Germania, mercato-Italia, mercato-Francia ha
sempre meno importanza in quanto i fattori, sia dal lato della domanda, che
dell’offerta sono inseriti in un contesto di mercato globale. Le esigenze e gli stili di
vita dei consumatori si stanno sempre più uniformando da Paese a Paese per cui dal
lato dell’offerta non è più così importante produrre diversamente in base al mercato
nazionale in cui si vuole vendere. Le multinazionali, hanno intuito da subito questa
tendenza in atto a livello mondiale e si sono prontamente adeguate fabbricando e
vendendo prodotti con eguali caratteristiche e ad un prezzo simile nei diversi Paesi.
146
Questo accade pur mantenendo ogni nazione la propria identità culturale, che
le deriva dai suoi secoli di storia. Per questo motivo la globalizzazione rimane un
fenomeno che non in tutti i Paesi e non in tutti i settori dell’economia ha esercitato la
propria forza di cambiamento. E’ chiaro che tutt’oggi rimane molto più difficile per
un Paese europeo, esportare merci in Cina piuttosto che in un altro Paese europeo
oppure che trasferire denaro in Svizzera è molto più agevole che non emigrare in
questo Paese per lavoro. La globalizzazione è infatti un processo di trasformazione
della situazione economica, politica e sociale mondiale che ancora oggi non ha
compiutamente portato a termine ovunque la sua azione uniformante. Inoltre essa
non agisce in modo esclusivo, dal momento che combina inevitabilmente i propri
effetti con quelli della cultura e identità nazionale, ma anche con quelli dell’altro
fenomeno che ha caratterizzato l’evoluzione del commercio internazionale dal
secondo dopoguerra (periodo a cui può essere fatta risalire la nascita dello stesso
processo di globalizzazione) ossia il regionalismo.
QUADRO DI APPROFONDIMENTO
REGIONALISMO E MULTILATERALISMO: fenomeni paralleli o
contrastanti? di Bernadetta Marini
I tentativi da parte di un certo numero di paesi di liberalizzare parzialmente o
totalmente il loro commercio, ma su base discriminatoria, ossia escludendo il resto
del
mondo
(i
paesi
non
membri),
hanno
una
lunga
tradizione.
L'integrazione regionale dell'Europa occidentale nel dopoguerra, è il tentativo più
ambizioso finora realizzato. Il regionalismo commerciale ha continuato ad espandersi
147
nel periodo susseguente alla seconda guerra mondiale, nonostante l'emergere di un
sistema di relazioni commerciali ordinato su base multilaterale e basato sull'Accordo
Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT), entrato in vigore nel 1947, che
cercava di limitarne l'utilizzo da parte dei suoi membri. Nella sua prima fase di
espansione, che va pressappoco fino alla metà degli anni settanta, il regionalismo
commerciale si è diffuso prima in America Latina e successivamente in Africa, con
un'espansione del tipo nord-nord (in Europa) o sud-sud (nei paesi in via di sviluppo).
Nonostante questa sua ampia diffusione in termini sia geografici che temporali, il
regionalismo ha sempre coesistito con difficoltà con il multilateralismo commerciale.
Da una parte gli accordi regionali di commercio, pur premessi dal GATT a certe
condizioni (art. XXIV), sono stati sempre considerati come deroghe al principio della
non discriminazione, cardine del nuove ordine commerciale post-bellico; dall'altro, le
motivazioni che stanno alla base degli accordi regionali di commercio, soprattutto
quelli contratti da nazioni aventi un certo peso nel commercio mondiale, sono sempre
state considerate dai non membri almeno in parte come volte ad aumentare il potere
contrattuale del gruppo, o "strategiche", come si usa dire, e quindi viste con sospetto.
Come accennato più sopra non vi è una definizione univoca della
globalizzazione; questo deriva in gran parte dal fatto che il significato stesso del
termine si è modificato nel tempo, in linea con l’evoluzione e la sofisticazione del
mezzi di comunicazione, in particolare modo delle reti informatizzate. In linea con
questa evoluzione è possibile dunque suddividere la “storia della globalizzazione” in
tre periodi, con la premessa che questa “storia”, non si è ancora conclusa.
L’evoluzione storica della globalizzazione può essere suddivisa, in tre fasi
fondamentali:
1. la globalizzazione del commercio
2. la globalizzazione dei movimenti di capitale
3. la globalizzazione dei flussi informativi.
La prima ebbe inizio dopo gli accordi di Bretton Woods che segnarono l’avvio
del processo di liberalizzazione dei mercati attraverso l’abbattimento delle
barriere commerciali. I numerosi accordi GATT, dal secondo dopoguerra in poi,
ridus-sero drasticamente tali barriere dal 40-50% com’erano in media negli anni
Trenta fino all’esiguo 4% degli anni più recenti; come logica conseguenza, si
148
assistette ad un continuo aumento del grado di apertura del mondo. Inoltre,
sempre dal secondo dopoguerra in poi, fiorirono i diversi accordi di libero
scambio a livello regionale (Unione Europea, NAFTA, ASEAN, ecc.) che
diedero un contributo fondamentale all’internazionalizzazione del commercio.
La globalizzazione dei movimenti di capitale e dei mercati finanziari ha invece
una storia più recente. E’ infatti negli anni Ottanta che si registra la forte
accelerazione del fenomeno in parola che porterà, a metà degli anni Novanta, ad
avere per ogni dollaro usato nelle transazioni internazionali di merci, sette-otto
dollari impiegati nelle transazioni finanziarie. Fino ad allora, vi era stato un
sostanziale divieto di muovere capitali senza vincoli fra i vari Paesi che derivava dal
divieto vigente un po’ ovunque di vendere liberamente moneta nazionale per
acquistare mo-neta estera. Con l’eliminazione di questo ostacolo di fatto ha avuto
inizio l’era della globalizzazione dei flussi di capitale.
A dare un forte impulso alla globalizzazione dei movimenti di capitale, hanno
contribuito anche le numerose reti di investimenti diretti all’estero (IDE) che si sono
enormemente sviluppate negli ultimi dieci-quindici anni). Dal momento che
un’impresa decide di effettuare degli IDE laddove ritiene che le condizioni
dell’ambiente produttivo non siano molto dissimili da quelle del Paese di origine, i
Paesi che non vogliono trovarsi ai margini della globalizzazione debbono cercare di
offrire regole il più possibile uniformi fra loro: si arriva in tal modo al punto che
produrre, consumare e investire diventano concetti universali, non più identificabili
in base ai confini geografici.
La terza fase dell’evoluzione della globalizzazione riguarda i flussi di
informazione. Questo fenomeno deve la propria esistenza agli enormi passi avanti
che sono stati compiuti recentemente nel campo della tecnologia delle
comunicazioni. Sistemi sempre più veloci e sofisticati, a prezzi accessibili, hanno
rivoluzionato radicalmente il modo di interagire delle persone a livello mondiale. La
rete informati-ca che avvolge l’intero pianeta ha annullato per molti aspetti le
distanze fisiche, per cui ora non è più così importante il luogo dove si lavora o dove
si consuma. Nella nuova civiltà “digitale” il trasferimento fisico è divenuto ormai per
molti settori (in primis la finanza) un aspetto del tutto secondario. Anche in questo
caso, quindi, il fenomeno contribuisce all’omogeneizzazione dei gusti, delle
149
preferenze, dei modelli di consumo e la visione geografica segmentata dei mercati di
qualche tempo fa, oggi ha perso dunque ogni ragion d’essere.
13. I grandi problemi irrisolti dell’economia mondiale:
la
persistenza
degli
squilibri
nelle
bilance
dei
pagamenti
e
nella
distribuzione
del
reddito,
la
disoccupazione e l’immigrazione
Uno dei caratteri distintivi attuali dell’ambiente economico internazionale,
consiste nella presenza di squilibri nelle bilance dei pagamenti alle partite correnti
che paiono “intrattabili” con gli strumenti tradizionali e cioè, con i processi di
rivalutazione delle monete dei Paesi in avanzo e di svalutazione delle monete dei
Paesi in deficit di bilancia dei pagamenti.
Fino a qualche decennio fa, gli squilibri fra import ed export dei Paesi
industrializzati erano trattati secondo quanto previsto dai testi di economia
internazionale e il riaggiustamento era raggiunto in un lasso di tempo ragionevole. Il
Paese in deficit esercitava una politica monetaria, ed eventualmente fiscale,
restrittiva scoraggiando le importazioni di beni di consumo e di materie prime
attraverso il rallentamento congiunturale indotto dalla manovra economica e, nei casi
più gravi, svalutava la propria moneta per ripristinare condizioni di maggiore
competitività per i propri prodotti e di minore appetibilità per quelli provenienti
dall’estero. Il processo era accompagnato da eventuali restrizioni commerciali sulle
importazioni e sussidi alle esportazioni e da una complessa panoplia di interventi.
Spesso era più lungo di quanto era nei desideri delle banche centrali e soprattutto si
determinava l’insidioso effetto “J” per cui, dopo la svalutazione, per un breve tempo,
i costi delle importazioni (più rigidi) subivano un aumento per effetto
dell’accresciuta domanda di valuta estera, mentre i ricavi delle esportazioni non
beneficiavano, sempre per qualche tempo, di un aumento di volume della domanda
estera.
Spesso, le attese inflazionistiche nel Paese che svalutava erano suscettibili di
ostacolare il riaggiustamento con una rincorsa costi/prezzi che rendeva più difficile
aumentare la penetrazione delle esportazioni sui mercati esteri. Ma, pur con tutte le
150
riserve del caso, gli squilibri di bilancia dei pagamenti fra Paesi industrializzati
dell’Occidente sono rimasti sempre gestibili e riaggiustabili.
Questa situazione è cambiata con l’irrompere sulla scena del commercio
internazionale di Paesi come la Cina e l’Asia in generale che hanno manifestato una
elevata propensione ad esportare prodotti, peraltro di ottima qualità e a basso prezzo,
e
una
bassissima
propensione
ad
importare
beni
specie
di
consumo,
indipendentemente dal prezzo e dalla qualità del prodotto estero rispetto a quello
nazionale.
In questo caso, ci si è trovati in presenza di due diverse culture. Si ricorda
infatti la dicotomia tra individualismo e collettivismo, vista già in precedenza. Da
una parte vi è il consumatore occidentale che persegue finalità di convenienza
individuale e che cerca sul mercato il prodotto più conveniente a parità di qualità,
senza pregiudizi in merito alla provenienza nazionale o estera dello stesso e del
lavoratore occidentale che persegue sue finalità di benessere individuale (libertà
sindacali, vacanze più lunghe, buste paga più pesanti, diritto ad orari di lavoro più
corti, diritto a soste e permessi, diritto di sciopero, diritto all’assistenza sanitaria
gratuita, diritto alla pensione, ecc.), dall’altra il consumatore orientale in genere che
predilige beni di consumo nazionali e del lavoratore giapponese che si è inserito in
un assetto di fedeltà all’azienda con la quale si identifica, per cui non persegue le
finalità di benessere individuale se non nella misura in cui esse coincidono con quelle
aziendali. In particolare, la cura tutta giapponese per la qualità, per realizzare
miglioramenti continui di processo e di prodotto, per aumentare la quota di mercato
ha fatto sì che le esportazioni cinesi e giapponesi si imponessero su innumerevoli
mercati distruggendo la concorrenza straniera anche in presenza di un costante
apprezzamento delle loro rispettive monete (yen e yuan).
Per
Schioppa41
41
chiarire
meglio,
riporto
–
La
un
passo
di
veduta
corta,
Il
http://www.tommasopadoaschioppa.eu/
151
Tommaso
Mulino,
Padoa
2009
(p.
33)
: “Ritengo che senza la globalizzazione la spinta a correggere
gli squilibri americani (elevato disavanzo delle partite correnti, ndr) sarebbe
intervenuta molto prima. Invece il male non è stato avvertito per tempo. La
globalizzazione ha consentito agli Stati Uniti di sopperire alla mancanza di
risparmio con gli attivi commerciali dai paesi da cui importava: la Cina in primo
luogo ma anche l’India e altri mercati emergenti.
E’ il concetto degli squilibri globali, le global imbalances: un eccesso di
debito in alcuni paesi che si riflette in un eccesso di risparmio in altri. Da un lato gli
Stati Uniti, dall’altro la Cina. La storia ha giocato uno scherzo impensabile
vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino: il debitore è capitalista, il creditore è
comunista.
L’avanzo delle partite correnti cinese è molto diverso da quello delle
cosiddette tigri asiatiche. L’evoluzione economica della Cina non riflette il classico
modello della crescita trainata dalle esportazioni, come quello di Taiwan e della
Corea del Sud negli anni Novanta, dell’Italia e del Giappone negli anni Sessanta, un
modello nel quale i salari sono bassi e il paese importa tecnologia ed esporta beni di
conumo o d’investimento. La quota dell’export cinese rispetto al pil non è
anormalmente elevata. La peculiarità cinese (e indiana) sta nell’enorme
popolazione: oltre un miliardo e trecentomilioni di persone.one, la Cina rappresenta
settanta Taiwan, cinque Stati Uniti, venti Italie: è la dimensione del paese la
discriminante rispetto ad altre esperienze storiche. Nell’ultimo seconolo mai
avevamo visto un cambiamento simile”.
Padoa-Schioppa sottolinea un altro punto, per noi molto interessante: non
solo i manufatti, ma anche molti servizi sono ormai commerciabili. La classica
distinzone tra beni commerciabili (tradable) e beni non commerciabili non coincide
152
più con quella tra manufatti e servizi. Molti servizi possono essere offerti a migliaia
di chilometri di distanza e la differenza significativa è tra servizi personali e servizi
impersonali. Solo i primi richiedono la vicinanza fisica; gli altri possono essere
offerti a migliaia di chilometri di distanza. Il call center mondiale di
(la banca più grande
HSBC
42
del mondo) è a Bangalore
– centro IT non solo indiano ma mondiale, dove riside
anche l’Indian Space Research Organisation.
Si tratta di un problema molto complesso che ha le sue radici nella messa a
contatto su larga scala di due civiltà, quella del grano (Occidente) e quella del riso
(Oriente) che sono rimaste separate per circa diecimila anni e che sono così diverse
nelle loro culture da poter generare pericolosi conflitti commerciali. La civiltà
occidentale in particolare, che è stata vincente ed egemone nel mondo dagli albori
della rivoluzione industriale, pare ora in difficoltà: le sue strutture, i sui valori, i costi
del suo funzionamento non appaiono più competitivi, rispetto a quelli dell’Oriente.
Ne risulta una terribile disoccupazione che sta colpendo, come una moderna peste, il
tessuto sociale in particolare del Vecchio Continente, con decine di milioni di
persone disoccupate (dati recenti parlano di un livello di disoccupazione medio in
Europa di poco inferiore al 10% della forza lavoro), specie giovani e donne, a cui il
posto di lavoro è sottratto da persone che vivono nell’area orientale del pianeta. Più
che di disoccupazione che nasce dalla distruzione in assoluto di posti di lavoro si può
quindi parlare di disoccupazione che viene creata soprattutto dalla “migrazione” dei
posti di lavoro oltre confine verso aree produttive più “ospitali” (quelle orientali
appunto).
42
Bangalore è una città dell'India di 4.292.223 abitanti, nel Karnataka di cui è la capitale e la città più
grande. Con l'indipendenza dell'India nel 1947 Bangalore divenne un grande centro industriale con
industrie quali l'Hindustan Aeronautics Limited e l'Indian Space Research Organisation. Negli ultimi
decenni il successo delle aziende ad alta tecnologia di Bangalore ha visto la crescita del settore
dell'Information Technology (IT) in India. Le sole aziende di information technology di Bangalore
impiegano il 30% del milione di dipendenti che l'IT vanta nell'Unione Indiana.
153
Alla diversità culturale delle due civiltà si aggiunge poi il ruolo di “Paese
spenditore” o “Paese impresa” che gli Stati Uniti sono andati assumendo nel tempo a
livello mondiale con i numerosi e ingenti programmi di spesa cui sono impegnati su
tutti i fronti (militare, spaziale, della ricerca scientifica, medica, ecc.): per quanto gli
Stati Uniti risparmino, non riescono comunque a far fronte con le proprie risorse a
tali costosissimi investimenti, per cui è inevitabile che la loro bilancia dei pagamenti
sia costantemente in disavanzo. Gli Stati Uniti sono così diventati il più grande Paese
debitore del mondo ed è in continua crescita. All’opposto, vi sono la Cina e il
Giappone che sono i maggiori creditori al mondo (insieme alla Germania) per
eccellenza, con un credito positivo derivante da oltre due decenni di avanzo nella
bilancia dei pagamenti alle partite correnti.
Al contrario di quanto avveniva precedentemente, la semplice svalutazione
della moneta si dimostra incapace di far ritornare la competitività delle produzioni
dei Paesi occidentali e l’equilibrio nelle loro bilance dei pagamenti. E questo sarà
senz’altro, insieme con quello dello squilibrio delle risorse prodotte e consumate fra
Paesi ricchi e Paesi poveri, il problema dei problemi dei prossimi anni.
La
cristallizzazione
della
situazione
di
squilibrio
nel
commercio
internazionale significa, a conti fatti, che nel mondo ogni anno vi sono Paesi che
accumulano continui surplus nelle proprie bilance dei pagamenti (come si è visto,
Cina, Germania e Giappone su tutti) e altri che, all’opposto, accumulano continui
deficit (gli Stati Uniti su tutti).
154
Questo deficit/surplus corrisponde in sostanza alla finanza internazionale
netta che si forma ogni anno, ovvero ogni anno, se si vuole che il commercio
internazionale esista e funzioni continuamente, occorre che ne venga finanziato il
relativo squilibrio. In altre parole, se un Paese importa molto più di quanto esporta
(Paese debitore) ed ha risorse interne insufficienti a coprire lo squilibrio, occorre
evidentemente che qualche altro Paese gli conceda dei finanziamenti a sostegno del
suo disavanzo verso l’estero. Nel commercio internazionale, finanziamento e
squilibrio si può dire che siano le due facce di una stessa medaglia.
E’ bene che lo squilibrio del commercio internazionale non si elevi troppo e
dunque che attraverso processi di riaggiustamento, i Paesi creditori tendano ad essere
meno in surplus (e magari in certi periodi anche in deficit) e i Paesi debitori meno in
deficit (e magari in certi periodi anche in surplus). Il cambio è lo strumento che viene
normalmente utilizzato per controllare e ridurre, ove possibile, gli squilibri nel
commercio internazionale, anche se non sempre però sortisce gli effetti desiderati,
risultando in talune circostanze un rimedio scarsamente efficace (come si è visto più
sopra a proposito dell’irrompere sulla scena internazionale delle economie orientali
negli ultimi decenni, che ha reso gli squilibri “intrattabili” con i metodi tradizionali
del ciclo economico e della svalutazione del cambio).
Un altro gravissimo problema irrisolto dell’economia mondiale, riguarda la
persistenza di squilibri nella distribuzione internazionale del reddito. Fino ad un
ventennio fa, il 15% della popolazione mondiale (circa 1 miliardo di persone)
produceva e consumava il 75% del PIL mondiale, per cui alla maggioranza della
popolazione (l’85%) rimaneva un esiguo 25% del PIL. Negli ultimi anni, la
situazione è andata progressivamente migliorando per effetto della globalizzazione
dei mercati che ha modificato profondamente le economie di diverse zone povere del
pianeta (fra cui America Latina, Cina, India, Europa Orientale), attraendole
nell’orbita dell’economia di mercato dei Paesi ricchi. Così, pur con tutte le
distinzioni del caso, oggi sono circa 3 miliardi le persone nel mondo che si può dire
vivano a livelli di benessere accettabili. Il problema serio della povertà permane
comunque ancora per altrettanti miliardi di persone che vivono ai margini del mondo
globalizzato, in una situazione di estremo disagio economico con consumi ai limiti
della sussistenza (redditi pro-capite abbondantemente al di sotto di 1.000 dollari
155
annui). In fondo al paragrafo viene riportata una tabella dei redditi pro-capite per
singolo paese, dato riassuntivo, anche se non esaustivo (in quanto non considera
fattori quali il grado di istruzione, il grado di mortalità, le condizioni igienicosanitarie, la sperequazione sociale all’interno dello stesso paese ecc), del benessere
della popolazione nei singoli paesi.
La globalizzazione, oltre ad aver favorito l’ingresso nell’economia di mercato di
nuove aree del pianeta, ha allo stesso tempo messo a stretto contatto sistemi economici molto diversi fra loro, caratterizzati dalla presenza di livelli salariali medi
fortemente disallineati. Il risultato è stato un progressivo ed inevitabile livellamento
mondiale dei prezzi dei fattori produttivi (capitale e lavoro, inteso come lavoro
esecutivo). Un tempo, un lavoratore di un Paese ricco (per esempio Stati Uniti o altri
Paesi del G8) che faceva un lavoro analogo a quello di un lavoratore di un Paese in
via di sviluppo, poteva godere di un salario nettamente superiore a quest’ultimo
perché: 1) o lavorava con più risorse naturali; 2) o con un maggiore stock di capitale
per addetto; 3) o si integrava con altri lavoratori più qualificati; 4) o disponeva di
tecnologie migliori. Attualmente egli deve accontentarsi di un salario che non può
non essere in progressivo adeguamento a quello dei lavoratori dei Paesi poveri
perché in un sistema globalizzato:
1. il mercato internazionale delle materie prime dà a tutti un uguale accesso;
2. il mercato internazionale dei capitali consente di finanziare gli investimenti dotati
di buone prospettive di produttività;
3. le sinergie con lavoratori più qualificati possono essere ottenute anche nei Paesi
poveri via Internet e altri mezzi di comunicazione;
4. le tecnologie di produzione si spostano in tutto il mondo molto rapidamente.
Questo fatto ha portato non poche conseguenze sulle economie di molti dei
Paesi industrializzati, in particolare in campo occupazionale. In tali Paesi i lavoratori
sono sostanzialmente suddivisi in 20% che occupano posti direttivi e il rimanente
80% in ruoli meramente esecutivi. La globalizzazione ha agito in maniera diversa
sulle due categorie di lavoratori: il salario orario medio dei lavoratori con compiti
esecutivi negli ultimi due decenni è diminuito di oltre il 20% in termini reali, mentre
coloro che esercitano funzioni direttive hanno visto migliorare nettamente le loro
condizioni economiche (le remunerazioni degli alti dirigenti statunitensi sono salite
156
negli ultimi vent’anni di 70 volte). L’economia globalizzata, dunque, allarga il
divario fra i lavoratori privilegiati e i lavoratori generici all’interno dei Paesi ricchi e
riduce il divario fra i lavoratori generici dei Paesi ricchi e quelli dei Paesi poveri
(sono solo quelli generici infatti i lavoratori che la globalizzazione mette in
concorrenza fra loro).
Il prezzo che si paga per non accettare le riduzioni dei salari reali nei lavori
generici si chiama disoccupazione. Alcuni fra i Paesi industrializzati (in particolare
Stati Uniti e Regno Unito) hanno capito questa esigenza ed hanno accettato le
necessarie riduzioni a fronte del mantenimento di elevati livelli occupazionali, altri
(Italia, Francia e in parte Germania) hanno invece optato per il rifiuto ad adeguarsi a
questa nuova realtà e infatti scontano alti tassi di disoccupazione (vedi tabella
sottostante). Questi ultimi Paesi sono caratterizzati dalla presenza di un mercato del
lavoro fortemente sindacalizzato e quindi molto rigido, che tutela principalmente i
diritti di quelle persone che già possiedono un posto di lavoro a scapito di coloro che
invece sono in cerca di una prima occupazione.
Tassi di disoccupazione nei diversi Paesi.
2000
2001 2002
2003
2004
2005
2006 2007
2008 2009
Australia
6.3
6.8
6.4
5.9
5.4
5.0
4.8
4.4
4.2
Austria
3.5
3.6
4.0
4.3
5.0
5.2
4.8
4.4
3.8
4.8
Belgium
7.0
6.6
7.5
8.2
8.4
8.5
8.3
7.5
7.0
7.9
Canada
6.8
7.2
7.7
7.6
7.2
6.8
6.3
6.0
6.1
8.3
Time
Country
157
5.6
Chile
9.7
9.9
9.8
9.5
10.0
9.2
7.8
7.1
7.8
10.8
Czech Republic
8.9
8.2
7.3
7.8
8.3
7.9
7.2
5.3
4.4
6.7
Denmark
4.6
4.6
4.6
5.4
5.5
4.8
3.9
3.8
Finland
9.8
9.1
9.1
9.0
8.8
8.4
7.7
(B)
8.8
6.0
8.2
France
..
..
..
8.5
8.9
Germany
7.8
7.8
8.7
9.6
(B)
Greece
11.4
10.8 10.3
9.8
10.5
Hungary
6.4
5.7
5.8
5.9
6.1
Iceland
2.3
2.3
(B)
3.3 3.4
3.1
Ireland
4.4
3.9
4.5
4.8
4.5
4.4
4.4
4.6
6.1
11.8
Israel
..
9.3
10.3
10.7
10.4
9.0
8.4
7.3
6.1
7.6
Italy
10.2
9.1
8.6
8.5
8.1
7.7
6.8
5.9
6.7
7.8
Japan
4.7
5.0
5.4
5.3
4.7
4.4
4.1
3.9
4.0
5.1
Korea
4.4
4.0
3.3
3.6
3.7
3.7
3.5
3.3
3.2
3.7
Luxembourg
3.3
3.2
3.7
3.7
5.1
4.5
4.7
4.1
5.1
5.2
5.5
(B)
Mexico
8.9
3.3
6.9 6.4
8.0
7.4
9.1
10.3 8.7
7.5
7.7
9.9
8.9
8.3
7.7
9.5
7.2
7.5
7.4
7.8
10.0
2.6
2.9
2.3
3.0
7.2
9.8 11.1
2.8
3.0
3.4
3.9
3.6
3.6
3.7
4.0
Netherlands
3.0
2.3
2.8
3.7
4.6
4.7
3.9
3.2
2.8
3.5
New Zealand
6.2
5.5
5.3
4.8
4.1
3.8
3.9
3.7
4.2
6.1
Norway
3.5
3.6
3.9
4.5
4.5
(B)
4.6 3.5
2.5
2.6
3.2
Poland
16.1
18.3 19.9
19.7
19.0
17.8
13.9 9.6
7.1
8.2
Portugal
3.9
4.0
6.3
6.6
7.6
7.7
7.6
9.5
Slovak Republic
18.8
19.3 18.7
17.6
18.3
16.3
13.4 11.2
9.5
12.0
Slovenia
6.8
6.2
6.7
6.3
6.5
6.0
4.9
4.4
5.9
11.5
11.0
9.2
8.5
8.3
11.3 18.0
(B)
Spain
2.5
5.0
6.4
13.9 10.6 11.5
Sweden
4.7
4.0
4.0
4.9
5.5
(B)
Switzerland
2.5
2.5
3.1
4.1
4.2
4.3
(B)
(B)
7.1 7.1
3.8
8.0
(B)
6.0 6.2
8.3
3.4
4.2
3.5
Turkey
6.5
8.4
10.3
United Kingdom
5.4
5.1
5.2
5.0
4.8
4.8
5.4
5.3
5.7
7.6
United States
4.0
4.7
5.8
6.0
5.5
5.1
4.6
4.6
5.8
9.3
Euro area (16 countries)
8.5
8.0
8.4
8.8
9.0
9.0
8.4
7.5
7.5
9.4
9.0
(B)
8.2
European Union (27 countries)
Non-OECD Member
Economies
8.9
10.5
9.9 10.6
10.3 10.3
11.0 14.1
9.2
8.6
7.1
7.0
8.9
Brazil
12.7
11.2 11.7
12.3
11.5
9.8
10.0 9.3
7.9
8.1
Estonia
13.6
12.6 10.3
10.0
9.7
7.9
5.9
4.7
5.5
13.8
10.4 9.4
8.4
8.0
7.2
6.4
8.4
Indonesia
6.1
8.1
9.1
9.7
(B)
Russian
Federation
10.5
9.0
8.0
8.6
8.2
9.2 8.9
9.9 10.8
7.6
6.1
Data extracted from OECD.Stat
Per
combattere
efficacemente
il
problema
della
disoccupazione
è
indispensabile che il mercato del lavoro possieda due importanti prerogative:
moderazione salariale (di cui si è appena parlato) ed elevata flessibilità. Quest’ultima
concerne diversi aspetti del mercato del lavoro, fra cui la determinazione dei salari
158
(con un sistema di contrattazione meno rigido e più decentralizzato), la descrizione
delle mansioni dei lavoratori (nel limite del possibile, mansioni modificabili per
tenere conto delle diverse necessità), la determinazione della durata dei contratti di
lavoro (consentire più contratti a tempo determinato e parziale), la mobilità della
forza lavoro (facilitazioni nella mobilità da una regione all’altra e da un’impresa
all’altra secondo le esigenze). Un mercato del lavoro governato dal sindacato, in
genere, è lungi dal possedere tali qualità e pure in prospettiva difficilmente tende ad
accettare modifiche in tal senso.
Dai due grandi problemi irrisolti che si sono appena analizzati, ossia la
disoccupazione e soprattutto la povertà di vaste aree del pianeta, ne deriva un altro di
portata altrettanto consistente: l’immigrazione. Non è certamente questo un
fenomeno solo dei nostri tempi, ma con la globalizzazione esso è andato assumendo
proporzioni sempre più imponenti. Abbiamo già visto come in un sistema
globalizzato i fattori produttivi (capitale e lavoro) siano molto mobili per cui
accettare di far parte di questo sistema significa fatalmente aprirsi ad un certo flusso
immigratorio, proveniente perlopiù dai Paesi poveri. I lavoratori di questi Paesi,
infatti, tenderanno a spostarsi e stabilirsi in quei luoghi del globo (aree
industrializzate) ove sono meglio remunerati (è ciò che avviene anche per il fattore
capitale).
Oltre alla mobilità dei fattori tipica dell’economia globalizzata, l’altra causa
che ha contribuito ad intensificare i movimenti migratori è senz’altro identificabile
nel problema demografico che interessa più o meno tutti i Paesi ricchi. Nell’Unione
Europea la dinamica della popolazione non solo tende a zero, ma addirittura nei
prossimi cinquant’anni è stimato che la popolazione si ridurrà di circa il 30%. Nei
Paesi poveri (circa 4 miliardi di persone), dove l’economia è ancora prevalentemente
agricola (a bassi salari) e quindi tanti figli significano tanta forza in più a sostegno
della famiglia, il tasso di crescita della popolazione è positivo e mediamente
nell’ordine del 2% all’anno (a questo tasso in 30-35 anni la popolazione raddoppia).
E’ facile intuire come una situazione di questo tipo, con un problema di denatalità da
un lato e uno di sovrappopolazione dall’altro, porti ineluttabilmente ad un aumento
dei flussi migratori dai Paesi poveri ai Paesi ricchi.
159
Rispetto al problema dell’immigrazione, i Paesi dei diversi blocchi si trovano
su posizioni alquanto diverse fra loro. Gli Stati Uniti erano e sono tradizionalmente
un Paese predisposto ad accogliere flussi migratori dall’esterno. La loro popolazione
si può suddividere in tre tipologie: a) il nucleo storico; b) gli etnici; c) le minoranze.
Il nucleo storico è sostanzialmente rappresentato da due gruppi: il gruppo inglese
(discendenti dei vecchi colonizzatori) e il gruppo germanico. Del nucleo storico
fanno parte cioè tutti coloro che si sentono bianchi, anglosassoni e protestanti
(WASP, White, Anglo-Saxon and Protestant). Gli etnici sono invece tutte quelle
persone non inglesi e non germaniche che hanno origine europea, fra cui: italiani,
greci, polacchi, irlandesi, olandesi, ebrei, russi, scandinavi, ucraini, francesi (molto
pochi). In realtà, questa divisione netta, fra nucleo storico e etnici, valeva forse molto
più 40-50 anni fa, dal momento che negli ultimi anni molti di questi gruppi etnici
hanno raggiunto un livello di integrazione tale che li fa sentire a pieno titolo parte del
nucleo storico. Vi sono infine le minoranze, suddivisibili in quattro raggruppamenti:
ispanici, neri, orientali, indiani d’America. Le minoranze hanno culture molto
diverse fra loro e molto lontane dalle prime due tipologie viste sopra, per cui sembra
difficile pensare che in futuro si possa assistere ad una loro integrazione come si è
avuta negli ultimi decenni per gli etnici di origine europea.
I fenomeni migratori negli Stati Uniti stanno modificando progressivamente
la composizione della loro popolazione: negli anni Cinquanta si aveva l’89% di
bianchi, il 10% di neri, l’1% di altri; nel Duemila i bianchi sono scesi al 73%, i neri
sono il 12%, i latino-americani pure il 12%, gli "altri" il 3%; le previsioni per il 2050
vedono i bianchi ridursi drasticamente al 50%, i neri salire al 15%, i latino-americani
in netta crescita al 30%, altri al 5%. L’immigrazione che si registra oggi negli Stati
Uniti è diversa rispetto a quella di un secolo fa: allora le popolazioni immigranti
erano tendenzialmente mono-culturali e per molti aspetti affini al nucleo storico,
quindi erano facilmente integrabili nel contesto sociale americano; oggi gli immigrati
provengono da molte culture diverse e in essi il popolo dei latino-americani sta
assumendo un peso sempre più importante con il conseguente rischio di creare una
“nazione nella nazione” (i latino-americani parlano una stessa lingua e tendono ad
imporla). Quest’ultimo aspetto potrà in futuro generare non pochi problemi anche ad
160
un Paese come gli Stati Uniti che sono da sempre un “crogiolo” di razze e culture
(c.d. melting pot) che ben si presta all’accoglienza.
Un Paese che invece non è certamente melting pot è l’Europa (è sempre stato
un Paese di emigranti e solo da poco si trova nel ruolo opposto di Paese ricevente). In
rapporto al problema dell’immigrazione essa si trova nella situazione peggiore: da un
lato il calo demografico che richiede importazione della forza lavoro mancante,
dall’altro una società e delle strutture non adeguate ad accogliere i nuovi ingressi.
Nei prossimi anni, la situazione rischia di sfuggire di mano se le autorità non
adotteranno presto dei provvedimenti che regolamentino in modo chiaro e
ragionevole l’afflusso degli immigrati extra-comunitari e la loro integrazione. Le
reazioni xenofobe sono la punta estrema di un atteggiamento diffuso di diffidenza
che nasce, fra l’altro, dalla consapevolezza che l’immigrazione non regolamentata
porta spesso con sé nuova criminalità. Per questo è bene che la politica europea metta
ai primi posti l’impegno per risolvere questo delicato problema, magari traendo
spunto anche dalla realtà già ben collaudata degli Stati Uniti. Le decisioni delle
istituzioni saranno veramente efficaci, quando riusciranno a trasmettere ai cittadini
l’idea che l’immigrazione ben organizzata rappresenta una risorsa da preservare e
non un cancro da estirpare.
Infine, a differenza di Stati Uniti (tradizionalmente aperti e culturalmente
preparati) ed Europa (aperti per necessità, ma strutturalmente impreparati), il
Giappone – la Cina con oltre un miliardo e 300 milioni di persone deve pensare a
come gestire l’urbanizzazione - presenta come Paese estremamente chiuso
all’immigrazione. Più che da un fatto culturale, tale chiusura deriva soprattutto
dall’elevata densità di popolazione che caratterizza da sempre questo Paese: su un
territorio poco più esteso di quello dell’Italia (372 mila km2 contro 301 mila km2)
vive un numero più del doppio di abitanti (circa 125 milioni contro 57 milioni). In
particolare, l’agglomerato urbano di Tokyo registra una densità di popolazione fra le
più alte al mondo con i suoi circa 13 mila abitanti per chilometro quadrato. In queste
condizioni, è assai improbabile che il Paese abbia spazi non coperti tali da richiedere
significativi flussi dall’esterno: per il momento cioè, il popolo giapponese riesce da
solo a far fronte al fabbisogno di risorse umane di cui il Paese necessita per il suo
funzionamento. Sembra comunque che per il futuro anche il Giappone dovrà fare i
161
conti con il problema del calo demografico associato al continuo invecchiamento
della popolazione (due fenomeni tipici dei Paesi industrializzati), e allora
l’immigrazione diverrà anche per questo Paese uno strumento indispensabile e
prezioso.
Classifica dei redditi pro-capite per Paese (World Bank)
Rank
1
Country
Luxembourg
2
Norway
3
US$
105,350
64
South Africa
5,798
79,089
65
Saint Lucia
5,496
Denmark
55,992
66
Jamaica
5,438
4
Ireland
51,049
67
5
6
7
Netherlands
United States
Austria
47,917
46,436
46,019
Saint Vincent and the
Grenadines
Dominica
68
69
Belarus
70
Colombia
—
Faroe Islands
Finland
Sweden
Belgium
Australia
France
Germany
Japan
Canada
45,188
71
Azerbaijan
4,899
44,491
43,654
43,430
42,279
41,051
40,873
39,727
39,599
72
73
74
75
76
77
78
79
Dominican Republic
Bosnia and Herzegovina
Iran
Macedonia,Republic of
Maldives
Peru
Namibia
Ecuador
4,618
4,546
4,540
4,515
4,384
4,345
4,338
4,202
38,029
80
Algeria
4,029
17
18
19
20
Iceland
Singapore
United Kingdom
Italy
Spain
36,537
35,165
35,084
31,774
81
82
83
84
Turkmenistan
Thailand
Jordan
Tunisia
3,904
3,894
3,829
3,792
21
Greece
29,240
85
3,750
22
New Zealand
29,000
86
Albania
China, People's Republic
23
Israel
Slovenia
Portugal
26,175
87
Angola
3,734
23,726
21,414
88
89
El Salvador
Fiji
3,598
3,573
8
9
10
11
12
13
14
15
16
24
25
162
of
5,335
5,132
5,069
5,056
3,744
26
27
Czech Republic
Korea, South
18,139
17,078
90
91
Cape Verde
Tonga
3,064
2,991
28
Slovakia
16,176
92
Kosovo
2,965
15,753
93
Armenia
2,826
15,397
94
Morocco[10]
2,795
14,540
14,238
14,222
95
96
97
Samoa
Vanuatu
Guatemala
2,776
2,713
2,623
12,920
98
Marshall Islands
2,504
12,868
11,616
11,503
11,273
11,141
99
100
101
102
103
Swaziland
Syria
Ukraine
Georgia[11]
Paraguay
2,478
2,474
2,468
2,447
2,365
10,988 104
Congo,Republic of the
2,361
10,790
9,714
9,645
9,345
8,688
8,676
8,594
8,248
8,157
8,144
8,114
7,666
Indonesia
Micronesia
Egypt
Iraq
Sri Lanka
Honduras
Bhutan
Bolivia
Philippines
Mongolia
Moldova[12]
Kiribati
2,349
2,319
2,269
2,090
2,068
1,960
1,831
1,758
1,745
1,573
1,516
1,325
29
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
41
42
43
44
45
46
—
47
48
49
50
51
Trinidad and
Tobago
Equatorial
Guinea
Saudi Arabia
Estonia
Croatia
Antigua and
Barbuda
Hungary
Latvia
Venezuela
Poland
Lithuania
Saint Kitts and
Nevis
Uruguay
Libya
Chile
Palau
Seychelles
Russia
World
Turkey
Lebanon
Mexico
Brazil
Argentina
105
106
107
108
109
110
111
112
113
114
115
116
7,502 117
Sudan
1,293
53
54
55
56
Gabon
Romania
Panama
Malaysia
Kazakhstan
7,500
7,155
6,975
6,870
Solomon Islands
Djibouti
São Tomé and Príncipe
Uzbekistan
1,257
1,214
1,184
1,182
57
Mauritius
6,742 122
1,172
58
Montenegro
6,546 123
Papua New Guinea
India
52
118
119
120
121
163
1,134
59
60
61
62
63
130
131
132
133
134
135
136
137
138
139
140
141
142
143
144
145
146
147
148
149
150
151
152
153
154
155
156
157
Costa Rica
Bulgaria
Grenada
Botswana
Serbia
6,382
6,210
6,029
5,965
5,819
124
125
126
127
128
129
Cameroon
Yemen
Nicaragua
Côte d'Ivoire
Nigeria
Vietnam
1,042
985
981
940
921
860
851
833
759
745
716
691
677
667
655
596
551
517
509
506
492
481
461
454
431
430
428
Senegal
Zambia
Pakistan
Laos
Mauritania
Kyrgyzstan
Lesotho
Comoros
Kenya
Benin
Tajikistan
Mali
Cambodia
Haiti
Ghana
Chad
Bangladesh
Burkina Faso
Tanzania[13]
Rwanda
Timor-Leste
Uganda
Madagascar
Central African Republic
Togo
Gambia, The
Mozambique
427
Nepal
164
1,119
1,118
1,097
1,093
1,092
1,052
158
159
160
161
162
163
164
352
Niger
Ethiopia
Sierra Leone
Malawi
Liberia
345
341
326
222
Congo, Democratic Republic of the
Burundi
14.
L’evoluzione
internazionale
della
163
160
struttura
del
commercio
a) Il processo di globalizzazione per macro aree
Il commercio internazionale, dopo aver sperimentato, durante la seconda
parte del XX secolo, una fase di globalizzazione per così dire “a tutto tondo”, ossia di
spinta verso un flusso crescente di investimenti e scambi commerciali e finanziari
transfrontalieri diretti in tutto il mondo, si sta ora orientando verso una
globalizzazione per macro aree. Una possibile spiegazione, dell’evoluzione di tale
struttura del commercio internazionale, è rinvenibile nelle ragioni di carattere
economico e politico messe in campo da quasi tutti i paesi che erano danneggiati, o
temevano di esserlo, da tale situazione caratterizzata da uno sviluppo generalizzato.
L’assetto del commercio internazionale che sembra assumere maggiore rilevanza, in
questo periodo, è quello di una serie di aggregazioni “regionali”, organizzate non
solo sulla base della vicinanza geografica e della complementarietà economica, ma
anche secondo le linee di una comune cultura.
Intra- and inter-regional merchandise trade, 2008
(Billion dollars and percentage)
165
South
and
North Central
America America Europe
Origin
Destination
CIS
Africa
Middle
East
Asia
World
Value
World
2708
583
6736
North America
1014,5
164,9
369,1
South and Central America
169,2
158,6
121,3
Europe
475,4
96,4 4695,0
Commonwealth of Independent
States (CIS)
36,1
10,1
405,6
Africa
121,6
18,5
218,1
Middle East
116,5
6,9
125,5
Asia
775,0
127,3
801,0
Share of regional trade flows in each region's total merchandise
exports
517
16,0
9,0
240,0
458
33,6
16,8
185,5
618
60,2
11,9
188,6
3903
375,5
100,6
486,5
15717
2035,7
599,7
6446,6
134,7
1,5
7,2
108,4
10,5
53,4
36,6
121,3
25,0
14,0
122,1
196,4
76,8
113,9
568,9
2181,4
702,8
557,8
1021,2
4353,0
World
17,2
3,7
North America
49,8
8,1
South and Central America
28,2
26,5
Europe
7,4
1,5
Commonwealth of Independent
States (CIS)
5,1
1,4
Africa
21,8
3,3
Middle East
11,4
0,7
Asia
17,8
2,9
Share of regional trade flows in world merchandise
exports
42,9
18,1
20,2
72,8
3,3
0,8
1,5
3,7
2,9
1,7
2,8
2,9
3,9
3,0
2,0
2,9
24,8
18,4
16,8
7,5
100,0
100,0
100,0
100,0
57,7
39,1
12,3
18,4
19,2
0,3
0,7
2,5
1,5
9,6
3,6
2,8
3,6
2,5
12,0
4,5
10,9
20,4
55,7
50,1
100,0
100,0
100,0
100,0
World
North America
South and Central America
Europe
Commonwealth of Independent
States (CIS)
Africa
Middle East
Asia
17,2
6,5
1,1
3,0
3,7
1,0
1,0
0,6
42,9
2,3
0,8
29,9
3,3
0,1
0,1
1,5
2,9
0,2
0,1
1,2
3,9
0,4
0,1
1,2
24,8
2,4
0,6
3,1
100,0
13,0
3,8
41,0
0,2
0,8
0,7
4,9
0,1
0,1
0,0
0,8
2,6
1,4
0,8
5,1
0,9
0,0
0,0
0,7
0,1
0,3
0,2
0,8
0,2
0,1
0,8
1,2
0,5
0,7
3,6
13,9
4,5
3,5
6,5
27,7
Fonte: WTO statistics
Sulla base dei dati WTO 2008 sul commercio internazionale delle merci e dei
servizi (ricavati dalla sezione Statistics del sito www.wto.org ), si possono
individuare quattro macro aree regionali:
166
1) Europa con Russia: tale regione rappresenta il 41% delle esportazioni mondiali
(ma il peso produttivo di quest’area è circa la metà di questa cifra) di cui il 72,8%
circa rimane all’interno dell’area, il 7,4% è diretto verso gli Stati Uniti, il 7,5%
verso l’Asia ed il restante 2% circa verso altri Paesi (quarta area);
2) Asia (comprendendo Cina, Giappone, India, Australia, Nuova Zelanda e i dieci
paesi dell’Asean): in quest’area il 27,7% delle esportazioni mondiali di cui il
50,1% rimane al suo interno, il 17,8% si dirige verso il Nord America, il 18,4%
verso l’Europa e la Russia e il 13% circa si dirige verso altri Paesi;
3) Paesi del Nafta: rappresenta il 13% delle esportazioni globali (il peso di questa
regione sul Pil mondiale è però pari a circa il doppio e quindi le dimensioni
economiche
dell’area
sono
spropositate
rispetto
al
suo
grado
di
commercializzazione verso l’esterno). Il 49,8% circa rimane all’interno dell’area,
il 18,4% si dirige verso l’Asia, il 18,1% verso l’Europa ed infine il 13% verso
altri Paesi;
4) Altri Paesi: è un’area eterogenea che rappresenta l’18,3% delle esportazioni
mondiali, di cui il 22,8% circa rimane nell’area, il 16,6% si dirige verso il Nafta,
il 26% verso l’Asia, il 32,5% verso l’Europa e la Russia.
Da quanto sopra riportato si può notare che oltre il 55% del commercio
internazionale globale rimane all’interno della stessa macro area: di conseguenza la
percentuale dello scambio internazionale che si può definire veramente “globale” è
ridotta al di sotto della soglia del 45%.
Al primo livello di commercializzazione, ossia quello che rimane all’interno della
stessa area, appartengono ampie categorie di beni e servizi i cui scambi internazionali
si esauriscono nella prossimità geografica; al secondo livello, quello globale,
appartengono settori ed attività, quali il settore finanziario, le grandi reti di trasporto
e comunicazione, la ricerca scientifica, l’industria petrolifera, che non possono essere
attuati se non su di un piano mondiale.
Dai dati precedentemente riportati riguardo alle tre aree commerciali (trascurando
la quarta, ossia gli altri Paesi, per l’estrema eterogeneità e per il peso limitato rispetto
al totale del commercio mondiale di ciascun paese che costituisce questo gruppo) si
può certamente sostenere che si tratti di “macro aree” poco dipendenti le une dalle
altre. Per l’area nordamericana si può affermare che tale processo di “isolamento” sia
167
iniziato con la creazione del Nafta sottoscritto ed entrato in vigore il 1 gennaio 1994
tra Stati Uniti, Messico e Canada. Infatti, fin dagli anni novanta, quest’area si è
dotata di istituzioni e regole comuni grazie alla volontà, sempre un po’ isolazionista
degli Stati Uniti (paese di riferimento dell’area), di favorire e di stimolare un
sostenuto commercio interno a scapito del commercio internazionale. Tale accordo
ha determinato la graduale eliminazione di dazi doganali sulle merci che attraversano
i confini dei tre Paesi; obiettivo pienamente realizzato per i prodotti industriali e che
sta più faticosamente progredendo per quelli agricoli. L’accordo stabilisce una
parziale protezione dell’industria petrolifera messicana, ma non sancisce la libertà di
circolazione delle persone. Lo sviluppo del commercio “regionale” nell’America del
Nord viene attribuito ad una varietà di cause sottolineate e rafforzate dalla decisione
degli USA di concludere accordi bilaterali di libero commercio con numerosi paesi
di modeste dimensioni, dalla decisione di aprire selettivamente all’Africa (riduzioni
doganali solo per cinque paesi), dalla tendenza di imporre crescenti tariffe doganali
per settori strategici, dalla scelta di accordare sussidi alla produzione interna e
dall’instaurarsi di attriti con l’Unione Europea.
L’area nordamericana è caratterizzata da un’organizzazione gerarchica che si
sviluppa attorno all’economia dominante (USA). Infatti sia il Canada che il Messico
continuano ad integrarsi sempre più fortemente con l’economia degli Stati Uniti,
chiudendosi al resto del mondo. Se si analizzano i dati della Tavola 1 ci si rende
conto che nel periodo 1990-2005 il commercio verso l’esterno dell’area
nordamericana è continuamente e rapidamente diminuito, mentre sono parimenti
aumentati gli scambi all’interno dell’area.
168
Paese di destinazione
ANNI
1990
Stati Uniti
2000
2005
1990
Paese di origine
Canada
2000
2005
1990
Messico
2000
2005
1990
Tot. Nafta
2000
2005
Stati Uniti
…
…
…
74,6%
87,3%
84,1%
79,4%
85,5%
85,8%
22,6%
31,7%
32,8%
Canada
21,0%
22,6%
23,4%
…
…
…
0,5%
2,0%
2,0%
14,8%
14,6%
14,6%
Messico
7,2%
14,3%
15,3%
0,4%
0,5%
0,8%
…
…
…
5,1%
9,2%
8,3%
Tot. Nafta
28,3%
36,8%
36,7%
75,0%
87,9%
84,8%
80,1%
90,4%
87,8%
42,6%
55,64%
55,8%
Tavola 1: Esportazioni di merci tra i paesi aderenti al Nafta
Fonte: Elaborazione su dati Wto, Statistical Yearbook 2005.
Anche l’area europea aveva iniziato un processo di intensificazione dei rapporti
interni dalla metà degli anni Novanta. Negli ultimi anni, l’integrazione commerciale
tra l’Europa Occidentale e Europa Orientale – grazie anche all’ingresso nell’euro di
diversi Paesi - è aumentata in modo esponenziale, e sta cominciando a determinare
una chiusura nei confronti del resto del mondo.
La terza area è quella asiatica che, in realtà, non può essere considerata appieno
come realtà unitaria, ma come un complesso di aree differenti, caratterizzate da molti
tratti (culturali, economici, politici, istituzionali, ecc.) comuni. In questo contesto
appare interessante soffermarsi soprattutto su quattro zone di tale area: Cina, India,
Giappone e paesi dell’Asean (considerati in modo unitario). In queste aree, e
marcatamente negli ultimi anni, si sta assistendo ad un’integrazione economica, al
ridimensionamento del commercio verso il resto del mondo e ad un suo passaggio da
una scala planetaria ad una più regionale. Esempio emblematico dell’inizio della
chiusura dell’area asiatica è rappresentato dallo spostamento della direzione delle
esportazioni giapponesi dall’America alla Cina, imputabile in parte al rallentamento
dell’economia americana ed in parte alla dinamica espansione verificatasi nei paesi
asiatici. Nel 2005 il 51,2% delle esportazioni giapponesi è stato diretto verso paesi
asiatici, contro il 39% del 1999.
169
La Cina, da sempre caratterizzata da un’economia chiusa, soprattutto alle
influenze dell'Occidente, avendo fatto il suo ingresso formale nel Wto a dicembre del
2001, sembrava avviata ad un’apertura verso il mercato internazionale, favorita
anche dalla ripresa economica che si stava vivendo all’indomani della crisi del 19971998. Tuttavia, ci si è resi conto che le dimensioni geografiche (Cina ed India
insieme hanno più di un terzo della popolazione mondiale), ma soprattutto le
esperienze culturali e le tradizioni del paese, non rendevano possibile applicare, a
quest’area, le regole di liberalizzazione basate su un’apertura incondizionata del
mercato. La Cina si caratterizza per una serie di continue contraddizioni, osservabili
anche sul piano degli scambi internazionali: all’apertura formale, determinata
dall’ingresso nella Wto, e all’ampio programma di liberalizzazioni relative
soprattutto al commercio con l’estero, fa da contrappunto un irrigidimento di fatto
delle barriere ufficiali e non.
Infine l’Asean: questo gruppo di paesi legati da un accordo commerciale, ha
vissuto la crisi asiatica come un insegnamento che lo ha portato a non dipendere
dall’economia americana in particolare ed occidentale in generale. Tale aggregazione
ha deciso di accentuare la già abbastanza stretta reciproca collaborazione finanziaria
e di promuovere forme crescenti di integrazione (riduzione dei dazi doganali, sistema
di preferenze commerciali, ecc.). Gli scambi all’interno dell’area sono cresciuti dal
16,2% del 1990 al 22,8% del 2001, per arrivare al 23,2% nel 2005 con conseguente
declino dei rapporti con gli altri paesi.
In conclusione quello che emerge da questa trattazione è che il processo di
globalizzazione sta attraversando una fase di trasformazione innescata da diverse
variabili di natura economica e politica il cui punto di arrivo è di difficile
individuazione.
L’unica osservazione che si può fare non è altro che una speranza; quella di una
crescita del commercio internazionale che continui a contribuire allo sviluppo
economico, superando le tensioni protezionistiche che si presentano periodicamente
e soprattutto nelle fasi di necessità o rallentamento economico e allorché
intervengono distorsioni nei tassi di cambio delle principali monete che favoriscono
alcuni Paesi rispetto ad altri.
170
La vera sfida del commercio internazionale non è la regionalizzazione, cioè
globalizzazione per macro-aree, ma sono gli squilibri nei cambi e nelle bilance dei
pagamenti alle partite correnti.
Ad esempio se il dollaro si rafforza in presenza di un rilevante deficit della
bilancia dei pagamenti, ben difficilmente il Congresso americano potrà astenersi
dall’assumere misure protezionistiche. Da ciò discende che : 1) alla base del
commercio internazionale ci deve essere un sistema monetario internazionale con
delle regole rispettate da tutti, 2) ci deve essere un sistema di scambi commerciali e
finanziari efficiente a livello mondiale, 3) è lecito che si manifesti un processo di
integrazione per macro-aree come quello che oramai si sta delineando nell’economia
internazionale di questi ultimi decenni.
171
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