PROF. BENIAMINO ANDREA PICCONE (CON LA SUPERVISIONE DEL PROF. ARCUCCI) A I DISPENSA DI ECONOMIA E TECNICA DEGLI SCAMBI INTERNAZIONALI L’ATTIVITÀ ECONOMICA INTERNAZIONALE A.A. 2010- 2011 1 INDICE L’ATTIVITA’ ECONOMICA INTERNAZIONALE 1. Conoscenze di base dell’economia internazionale: - introduzione; i giudizi di valore; variabili fondo, variabili flusso; - variabili macroeconomiche e microeconomiche; - variabili reali e variabili finanziarie; variabili strutturali e variabili congiunturali. 2. Le tendenze evolutive dell’economia mondiale e del commercio internazionale: - dimensioni e struttura dell’economia mondiale; la crescita dell’economia mondiale, della popolazione e del commercio internazionale; - struttura della produzione dei vari Paesi e del commercio internazionale; - i principali parametri del commercio internazionale dei vari Paesi (peso specifico, grado di apertura, grado di attrazione degli IDE, rapporto M/X, ragioni di scambio); - le caratteristiche della prima e della seconda rivoluzione industriale e i loro effetti sul modello del commercio internazionale; - evoluzione del commercio internazionale dopo la seconda Guerra Mondiale; - gli accordi di Bretton Woods, il sistema multilaterale di libero scambio; - l’integrazione economica su base regionale; - l’attuale struttura del commercio internazionale per macroaree regionali; - i grandi problemi irrisolti dell’economica mondiale: squilibri del Pil procapite, squilibrio nella bilancia dei pagamenti, disoccupazione, immigrazione; - cenni sulle tipologie di globalizzazione dei mercati; - il ruolo della Cina, dell’India e dei Paesi Emergenti nell’economia internazionale. Le speranze dell’Africa. 3. La cooperazione internazionale in campo economico-finanziario: - i livelli di integrazione regionale; - organizzazioni mondiali e regionali. APPENDICE: Relazione di M. Fortis, L’Italia nella nuova economia del G20 Ringrazio la dott.ssa Chiara Galletta che ha contribuito a questa nuova edizione. 2 “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”, Paolo Borsellino1 “Ho incontrato molti ragazzi, studenti, giovani impegnati nello studio e nel lavoro. Spesso non sono soddisfatti dela loro precaria condizione ma ho osservato che non cadono nel disincanto o peggio nel cinismo. Affrontano la realtà per quello che è e si preparano a cambiarla. Questo è per me il punto, il ricambio generazionale, quando questi giovani chiederanno con vigore ai loro padri: “Ora fatevi da parte”. E’ ciò che fece la mia generazione all’indomani della guerra. Tra molte difficoltà e incertezze dicemmo: “Ora tocca a noi”. Ce la facemmo. Anche loro ce la faranno”, Carlo Azeglio Ciampi2 “Al conservatorio di Pechino dove sono entrato a nove anni, ho trovato un ambiente molto competitivo, ma anche stimolante. E’ stata una grande sfida. Dovevo emergere su 10 milioni di bambini che suonavano il pianoforte. Adesso sarebbe peggio: sono in 40 milioni.” Lang Lang3 1 Paolo Borsellino (Palermo, 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano, vittima della mafia. È considerato un eroe italiano, come Giovanni Falcone, di cui fu amico e collega. 2 Carlo Azeglio Ciampi (Livorno, 1920) è un economista e politico italiano, decimo presidente della Repubblica dal 18 maggio 1999 al 10 maggio 2006. È stato governatore della Banca d'Italia dal 1979 al 1993, presidente del Consiglio dei ministri e ministro del tesoro (1996-1999). Con la fine del suo mandato presidenziale è diventato senatore a vita. Ciampi fu anche il secondo presidente eletto dopo essere stato governatore della Banca d'Italia preceduto da Luigi Einaudi nel 1948. Il passo è tratto dal libro “Da Livorno al Quirinale”, Il Mulino, 2010 3 Lang Lang (1982) è un pianista cinese. Il passo è tratto da un’intervista a Il Sole 24 Ore del 22 giugno 2010 3 “Se hai trovato una risposta a tutte le tue domande, vuol dire che le domande che ti sei posto non erano quelle giuste”, Oscar Wilde4 “The real secret of success is enthusiasm. You can do anything if you have enthusiasm. With it there is accomplishment. Without it there are only alibis”, Luca Cordero di Montezemolo5 4 Oscar Wilde (Dublino, 1854 – Parigi, 1900) fu uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Autore dalla scrittura apparentemente semplice e spontanea, ma sostanzialmente molto ricercata ed incline alla ricerca del bon mot, con uno stile talora sferzante e impertinente egli voleva risvegliare l'attenzione dei suoi lettori e invitarli alla riflessione. È noto soprattutto per l'uso frequente di aforismi e paradossi, per i quali è tuttora spesso citato. L'episodio più notevole della sua vita, di cui si trova ampia traccia nelle cronache del tempo, fu il processo e la condanna a due anni di prigione per avere violato la legge penale che codificava le regole morali in materia sessuale della sua stessa classe sociale. Molti i libri scritti sulle sue vicende e sulle sue opere, tra le quali, in particolare, i suoi testi teatrali sono stati considerati dai critici dei capolavori del teatro dell'800. 5 Luca Cordero di Montezemolo (Bologna, 1947) è un dirigente d'azienda italiano. Presidente della Ferrari S.p.A. (dal 1991) di cui è stato anche Amministratore Delegato (fino a settembre 2006), presidente della FIAT S.p.A. (dal 2004 al 2010). Ha fondato Charme, fondo finanziario imprenditoriale, con cui nel 2003 ha acquisito Poltrona Frau SpA, azienda di arredamento di cui è anche Consigliere di Amministrazione. È stato presidente di Confindustria dal 25 maggio 2004 al 13 marzo del 2008. Il passo è tratto da un’intervista al Financial Times del 3.7.2010 4 1° CAPITOLO Conoscenze di base dell’economia internazionale I. CONOSCENZE DI BASE DELL’ECONOMIA INTERNAZIONALE “Il principio in gioco è la trasparenza del potere. Un potere avvolto nel segreto è un potere totalmente antidemocratico. Solo Dio nasconde il suo volto: ma non direi 5 che Dio possa essere assunto come esempio di democrazia”, Gustavo Zagrebelsky6 “Un giornalista deve essera una persona perbene, con la schiena dritta, non avere soggezione, e non avere paura della solitudine”, Enzo Biagi7 INTRODUZIONE I giudizi di valore Economia e Tecnica degli Scambi Internazionali è una disciplina composita e assai discrezionale nei contenuti. Si tratta di una materia che comprende vari aspetti di natura economica, commerciale, finanziaria, valutaria, doganale e di politica commerciale dei vari Paesi. In un certo senso si può parlare di economia 6 Gustavo Zagrebelsky (1943) è un giurista italiano, Giudice della Corte costituzionale dal 1995 al 2004. Il passo è tratto da un’intervista a L’Espresso, n. 25, anno LVI, 24 giugno 2010 7 Enzo Biagi (Pianaccio di Lizzano in Belvedere, 1920 – Milano, 2007) è stato un giornalista, scrittore e conduttore televisivo italiano. È considerato uno dei giornalisti italiani più popolari del XX secolo.” 6 internazionale applicata, intesa come lo studio dell’effettivo svolgersi dei fatti e dei rapporti commerciali e finanziari internazionali. Il corso presenta pertanto collegamenti con filoni culturali diversi della Facoltà di Economia: macroeconomico, microeconomico e aziendale, giuridico e normativo, matematico e statistico. Gli argomenti verranno analizzati spesso in una triplice ottica: in prospettiva storica, nella situazione attuale e nella possibile evoluzione futura. Il corso, inoltre, sarà svolto tenendo conto di alcuni giudizi di valore, ossia di postulati angolati sulla nostra materia. Tali giudizi di valore vengono esplicitati nei termini seguenti. Il primo giudizio di valore è che abbiamo una preferenza per lo sviluppo economico rispetto al sottosviluppo. Il concetto di sviluppo economico appartiene ad una porzione relativamente breve e recente della storia delle civiltà. Esso è infatti figlio della rivoluzione industriale che ha avuto inizio in Inghilterra nella seconda metà del sec. XVIII; fino ad allora le generazioni si erano susseguite in condizioni di sostanziale stabilità economica e demografica in quanto non vi erano i mezzi necessari a sostenere un aumento significativo della popolazione. Inoltre, nell’ideologia dominante l’accumulo di ricchezza era visto con sospetto. La riforma protestante, prima, l’illuminismo, poi, e la rivoluzione industriale cambiarono radicalmente il carattere dell’economia e del sistema sociale nonché le condizioni demografiche e ambientali (formazione di un’etica del lavoro; divisione del lavoro; separazione fra proprietà dei mezzi di produzione e produttori diretti; manodopera salariata accentrata in un unico luogo di lavoro, la fabbrica; produzione di massa per il mercato; utilizzo sistematico e intensivo di macchine utensili azionate da motori; massicce migrazioni della popolazione dalla campagna verso le aree industriali urbane). Da quel momento si iniziò dunque a parlare di sviluppo economico, di crescita economica di un Paese e di tutte le grandezze che a questi concetti si collegano. Il grado di sviluppo economico di un Paese si misura generalmente con la grandezza “Prodotto Interno Lordo” rapportata alla popolazione (PIL pro-capite) e con il PIL in termini assoluti (che corrisponde al valore monetario 7 dei beni e servizi prodotti in un certo periodo di tempo entro i confini di un Paese). Il PIL in termini assoluti fornisce un’idea della grandezza dell’economia cui si riferisce, non necessariamente del grado di sviluppo (sotto tabella di Repubblica, 28.7.10). Ad esempio, l’Italia ha un PIL assoluto tale che la colloca senza problemi nel gruppo degli otto maggiori Paesi industrializzati - il cosiddetto G8 8 - mentre come PIL pro-capite viene declassata attorno alla ventesima posizione. A 8 Recentemente il G7 è diventato G8 con l'aggiunta della Russia. Tuttavia la Russia non è un Paese industrializzato per cui, sotto il profilo economico, si potrebbe continuare a parlare di G7. Il G8 è un forum dei governi di otto tra i principali paesi industrializzati del mondo: membri del G8 sono: • Stati Uniti • Giappone • Germania 8 livello europeo siamo 13esimi, secondo Eurostat (sotto tabella de Il Sole 24 Ore del 22 giugno 2010). Ecco una lista dei primi dieci paesi per PIL pro capite espressi in valore nominale e in valori aggiustati tenendo conto della parità dei poteri di acquisto per l'anno 2007: PIL (nominale) pro capite 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. Lussemburgo Norvegia Qatar Svizzera Irlanda Islanda Danimarca Svezia Finlandia Paesi Bassi 104.673 83.922 72.849 63.830 59.924 58.084 57.261 49.655 46.602 46.261 • Regno Unito • Francia • Italia • Canada • Russia PIL (PPA) pro capite Qatar Lussemburgo Malta Norvegia Brunei Singapore Cipro Stati Uniti Irlanda Hong Kong 80.870 80.457 53.359 53.037 51.005 49.714 46.865 45.845 43.144 41.994 Il suo predecessore G7 (G8 senza la Russia), in vigore dal 1976, riunisce ancora oggi i ministri dell'economia dei primi sette Paesi. Inizialmente esistevano il G6 e , con l'ingresso del Canada, il G7, il quale è poi stato a sua volta allargato alla Russia in virtù della sua potenza militare e della sua importanza politica, grazie alle quali può influire sugli equilibri mondiali. Durante i summit, i rappresentanti dei Paesi membri discutono di importanti questioni di politica internazionale, per definire i futuri assetti del mondo. Secondo le stime del PIL 2008, gli otto Paesi del forum figurano ai primi 12 posti per ricchezza prodotta. 9 Fonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic Outlook Database, Segue la lista dei primi 50 Paesi del mondo a livello di PIL (nominale e PPA) Pos. nom. Pos. PPA - - - - 1 Paese Mondo PIL nominale PIL (PPA) 60.689.812 68.996.849 Unione europea 18.394.115 15.247.163 1 Stati Uniti 14.264.600 14.264.600 2 3 Giappone 4.923.761 4.354.368 3 2 Cina 4.401.614 7.916.429 4 5 Germania 3.667.513 2.910.490 5 8 Francia 2.865.737 2.130.383 6 7 Regno Unito 2.674.085 2.230.549 7 10 Italia 2.313.893 1.814.557 8 6 Russia 1.676.586 2.260.907 9 12 Spagna 1.611.767 1.396.881 10 9 Brasile 1.572.839 1.981.207 11 14 Canada 1.510.957 1.303.234 12 4 India 1.209.686 3.288.345 13 11 Messico 1.088.128 1.548.007 14 18 Australia 1.010.699 795.305 15 13 Corea del Sud 947.010 1.342.338 10 16 20 Paesi Bassi 868.940 675.375 17 15 Turchia 729.443 915.184 18 21 Polonia 525.735 666.052 19 16 Indonesia 511.765 908.242 20 29 Belgio 506.392 389.518 21 38 Svizzera 492.595 312.753 22 32 Svezia 484.550 341.869 23 22 Arabia Saudita 481.631 593.385 24 42 Norvegia 456.226 256.523 25 35 Austria 415.321 328.571 26 19 Taiwan 392.552 711.418 27 33 Grecia 357.549 341.127 28 17 Iran 344.820 819.799 29 50 Danimarca 342.925 204.060 30 23 Argentina 326.474 572.860 31 31 Venezuela 319.443 358.623 32 25 Sudafrica 277.188 492.684 33 53 Finlandia 273.980 190.862 34 54 Irlanda 273.328 188.112 35 24 Thailandia 273.248 546.095 36 55 Emirati Arabi Uniti 260.141 184.984 37 47 Portogallo 244.492 235.904 11 38 28 Colombia 240.654 396.579 39 30 Malesia 222.219 384.119 40 41 Repubblica Ceca 217.077 262.169 41 39 Hong Kong 215.559 307.065 42 37 Nigeria 214.403 315.401 43 51 Israele 201.761 200.630 44 40 Romania 199.673 270.330 45 46 Singapore 181.939 238.755 46 34 Ucraina 179.725 336.851 47 44 Cile 169.573 243.044 48 36 Filippine 168.580 320.384 49 27 Pakistan 167.640 439.558 50 26 Egitto 162.164 442.640 Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante. Pricewater House (PWC) – una delle più importanti società di consulenza al mondo - ha pubblicato un paper dove si ipotizzano i livelli di PIL nel 2050. Secondo PWC Nel 2050 il G7 sarà composta da, in ordine di importanza: Cina, India, Stati Uniti, Brasile, Giappone, Russia, Messico. 12 Secondo il rapporto, per avere un termine di paragone, l’economia britannica crescerà mediamente solo del 2,3% l’anno tra il 2011 e il 2050, mentre quella della Cina crescerà nello stesso periodo del 5,9% annuo e quella dell’India dell’8,1%. I sorpassi: l’economia dell’India supererà quella del Giappone nel 2011, il Brasile supererà la Gran Bretagna nel 2013, nel 2018 la Cina supererà gli Stati Uniti. Nel 2031 l’economia del Messico supererà quella del Regno Unito. Nel 2047 l’Indonesia avrà un’economia più grande della Germania. Ancora, ci atterremo al giudizio di valore in base al quale si dà la preferenza ai meccanismi dell’economia di mercato rispetto a quelli dell’economia centralizzata (anche detta economia di piano). Con l’espressione “mercato” si intende far riferimento al complesso delle decisioni (negoziazioni) decentrate sull’uso delle risorse (produzione, consumo, risparmio, investimento, esportazioni, importazioni) e quindi sullo scambio delle stesse in funzione delle informazioni disponibili. Si tratta di uno strumento di allocazione delle risorse attraverso il prezzo. Nell’economia centralizzata, invece, le decisioni di consumo e di investimento sono prevalentemente stabilite da un piano centrale. Proprio tali decisioni accentrate hanno il grave inconveniente di provocare uno scollamento tra domanda e offerta: si assiste cioè ad uno spreco di risorse dovuto al miss-matching tra ciò che la domanda chiede e ciò che l’offerta produce. Questo fatto, fra l’altro, porta come conseguenza lo sviluppo del “mercato nero” dei prodotti che il consumatore cerca ma che il piano non ha previsto di produrre. L’impostazione dell’economia “a decisioni accentrate”, tipica dei Paesi socialisti facenti parte del blocco dell’ex Unione Sovietica, ha di fatto dimostrato di non riuscire a reggere la “concorrenza” con l’economia di mercato. Il 13 vantaggio principale di quest’ultima è la flessibilità (è un’economia “a decisioni decentrate”, cioè affidate alle unità economiche che compongono la domanda e l’offerta), al quale però si accompagna il grosso difetto dell’instabilità. L’economia di mercato è risultata comunque di gran lunga la migliore soluzione in quanto è stata capace di produrre sviluppo economico più velocemente e meglio della prima9, specie nel contesto della seconda rivoluzione industriale: quella dell’informazione. Infine, dei circa 220 Paesi del mondo, si tratterà principalmente di quelli industrializzati (circa 40), tipicamente produttori ed esportatori di manufatti, privilegiando l’analisi delle strutture economiche, commerciali, finanziarie e monetarie dei medesimi. Solo più raramente il riferimento sarà fatto ai Paesi in economia di transizione (quelli che hanno in corso un processo di trasformazione da economia pianificata in economia di mercato) e ai Paesi in via di sviluppo in genere produttori ed esportatori di materie prime. 9 A questo proposito, W. Churchill – Primo Ministro Inglese degli Anni ’40 - ebbe modo di dire: “L’economia di mercato è la forma peggiore di gestione dell’economia … salvo tutte le altre”. Sir Winston Leonard Spencer Churchill (Blenheim Palace, 30 novembre 1874 – Londra, 24 gennaio 1965) è stato un politico, storico e giornalista britannico. Conosciuto principalmente per aver guidato la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, è stato primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e successivamente dal 1951 al 1955. Noto statista, oratore e stratega, Churchill fu inoltre un ufficiale dell'esercito britannico. Autore prolifico, vinse il Premio Nobel per la Letteratura nel 1953 per i suoi scritti storici. Durante la sua carriera nell'esercito, Churchill combatté con il corpo di spedizione chiamato Malakand Field Force nella battaglia di Omdurman in Sudan e durante la seconda guerra Boera in Sud Africa. In questo periodo riuscì inoltre a raggiungere la fama come corrispondente di guerra. Sulla scena politica per quasi sessant'anni, ricoprì numerose cariche politiche e di governo. Nei primi anni del Novecento, durante i governi liberali, fu a capo del Ministero per il commercio e l'industria (Board of Trade) e Segretario di Stato [1] per gli Affari interni (Home Secretary). Durante la prima guerra mondiale fu, tra l'altro, Primo Lord dell'Ammiragliato, Ministro delle Munizioni, Segretario di Stato per la Guerra e Segretario di Stato per l'Aviazione. Combatté anche con l'esercito sul fronte occidentale e comandò il 6th Battalion of the Royal Scots Fusiliers. Nel periodo tra le due guerre fu Cancelliere dello Scacchiere (il Ministro delle Finanze britannico). Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Churchill fu nominato Primo Lord dell'Ammiragliato. Successivamente in seguito alle dimissioni di Neville Chamberlain il 10 maggio 1940, diventò Primo Ministro del Regno Unito e guidò la Gran Bretagna alla vittoria contro le Potenze dell'Asse. I suoi discorsi furono di grande ispirazione alle forze alleate impegnate in combattimento. Dopo la sconfitta alle elezioni del 1945, Churchill diventò leader dell'opposizione. Nel 1951 diventò nuovamente Primo Ministro fino al ritiro definitivo dalla scena politica nel 1955. Alla sua morte la Regina gli concesse gli onori del funerale di stato, al quale parteciparono un gran numero di statisti. 14 1. Domanda, Offerta e Prezzo I concetti economici di base che qui illustriamo hanno la finalità di aiutare a mettere a punto la rete concettuale di base che ci sarà utile per i successivi ragionamenti. La prima nozione fondamentale che si deve avere in economia è quella di domanda, di offerta e di prezzo. La domanda corrisponde all’impiego di risorse, l’offerta alla disponibilità delle stesse. Per effetto della scarsità di risorse (concetto insito nella definizione stessa di bene economico), la domanda tendenzialmente supera l’offerta e solo attraverso il prezzo si ricostituisce l’equilibrio tra le due grandezze. Vista da un’altra angolatura, un fatto può definirsi economicamente rilevante allorché si abbia tendenzialmente la seguente disequazione: Impiego di risorse (Domanda) > Disponibilità di risorse (Offerta) (c.d. principio di scarsità) Se un bene non identifica una disequazione del genere allora tale bene non potrà definirsi economico (l’aria è il classico esempio di bene non economico, in tal caso infatti l’offerta supera abbondantemente la domanda). La trasformazione del segno di disuguaglianza in identità avviene grazie alla componente prezzo, come si evince dalle classiche curve di domanda e offerta. prezzo Domanda Offerta prezzo p* Offerta Domanda p* q* quantità q* (situazione “statica”) quantità (situazione “dinamica”) 15 I due grafici mostrano situazioni di mercato esattamente opposte in quanto a curve di domanda e offerta. Il grafico di sinistra può rappresentare l’andamento classico delle variabili prezzo/quantità per la maggior parte dei beni in un contesto “statico”; il grafico di destra, invece, descrive ciò che avviene talvolta in un contesto “dinamico”, ossia che al crescere dei prezzi la domanda tende ad aumentare e viceversa (in queste condizioni si dice anche che il mercato si “avvita”). Quest’ultima situazione si riscontra in particolare per alcuni beni di investimento (immobili, obbligazioni e soprattutto azioni) in certe fasi di mercato. In tal caso, la classica legge della domanda e dell’offerta viene temporaneamente “congelata” (si può dire allora che si è in presenza di bolle speculative10). Alla fine, anche in quest’ultimo caso, il prezzo ritorna comunque ad essere l’elemento equilibratore. L’instabilità caratteristica dell’economia di mercato, citata più sopra fra i giudizi di valore, deriva proprio dal fatto che molto spesso, nella realtà, il mercato oscilla, con ampiezze più o meno elevate, fra le due situazioni estreme tratteggiate dai grafici sopra esposti. Il mercato cioè passa da una situazione “statica” che risponde alla normale legge della domanda e dell’offerta (ossia, all’aumentare del prezzo la domanda si riduce e l’offerta aumenta, e viceversa) ad una situazione “dinamica”, in cui all’aumentare del prezzo la domanda cresce, mentre l’offerta diminuisce (si riscontra cioè un comportamento “irrazionale” negli operatori). Quest’ultima situazione di “avvitamento” del mercato, continuerà fino al punto in cui il livello raggiunto dal prezzo non avrà convinto molti operatori a prendere beneficio dei guadagni realizzati, incominciando a vendere parte delle attività acquistate nella fase “rialzista” (in tal caso il mercato tornerà quindi momentaneamente in situazione 10 Per approfondimenti si consiglia la lettura di: Robert J. Shiller , Euforia irrazionale, Il Mulino, 2000; Carmen M. Reinhart, Kenneth S. Rogoff, This time is different, Princeton , Ascesa e declino del denaro: una University Press, 2009; Niall Ferguson storia finanziaria del mondo, Mondadori, 2009. 16 “statica”, nella quale il comportamento degli operatori si riscontra essere “razionale”). Lo stesso discorso vale nel caso opposto, in cui cioè il prezzo avrà raggiunto livelli così bassi da innescare l’inversione del trend (“qualcuno” inizierà ad acquistare, ritenendo i prezzi appetibili per una nuova fase di accumulazione di attività, con la conseguenza di riportare temporaneamente il mercato nella situazione “statica”). Il prezzo è la variabile più complessa dell’economia. Infatti, teoricamente si forma sul mercato solo per effetto dell’incontro tra domanda e offerta; di fatto, visto che la libera concorrenza esiste solo in situazioni ideali, si può dire che nella realtà sono operanti altre determinanti del prezzo, esogene rispetto al mercato, quali: − la Pubblica Amministrazione; − le corporations (intese come grandi aziende); − i sindacati; − l’estero. La Pubblica Amministrazione tende ad orientare il prezzo di determinati beni e servizi (ad esempio medicinali, trasporti pubblici, affitti, ecc.), in funzione di certi obiettivi che si è posta, normalmente nel segno di un interesse pubblico prevalente. Anche le imprese di maggiori dimensioni sono portate a controllare il flusso dei loro ricavi esercitando un’influenza, talvolta anche dominante, sul prezzo. In certi casi tali aziende sono effettivamente in grado di realizzare questa politica (si parla infatti di monopoli globali o regionali); in molti altri casi si tratta semplicemente di uno sforzo in tal senso, ma con risultati limitati. Questo tipo di comportamento si giustifica, almeno in parte, con gli ingenti investimenti produttivi necessari in determinati settori i quali richiedono, come contropartita, una certa stabilità dei flussi finanziari in entrata sotto forma di ricavi di vendita e ciò al fine di ammortizzare opportunamente i costi pluriennali sostenuti inizialmente. L’evoluzione dei prezzi dei beni prodotti da queste aziende non potrà essere legata esclusivamente alle condizioni di mercato, ma verrà controllata almeno in parte dall’impresa stessa. Per quanto riguarda i sindacati, è noto che se il mercato del lavoro fosse abbandonato a se stesso, darebbe luogo a grandissime oscillazioni del salario (prezzo 17 del lavoro) anche in senso negativo per i loro percettori (lavoratori). Di conseguenza le organizzazioni sindacali, da quando si sono costituite alcuni decenni fa, hanno sempre cercato di irrigidire il più possibile il prezzo del lavoro attraverso tutti gli strumenti che la legislazione metteva loro a disposizione. Infine, anche l’estero rappresenta un vincolo alla libera determinazione del prezzo, poiché occorre fare i conti con la struttura dei prezzi che si determina all’estero. Il mercato interno, nelle sue componenti di domanda e offerta, sarà infatti influenzato anche da fattori provenienti dall’estero, intendendo con ciò sia il mercato estero (nelle sue determinanti di domanda e offerta), che altri elementi esterni al Paese considerato (quali le autorità pubbliche, i sindacati, le corporations estere). Riassumendo, può dirsi che il motivo principale per cui altri fattori, oltre al mercato, influiscono sulla determinazione del prezzo, è da ricercarsi nella esigenza di stabilità e di minori fluttuazioni dello stesso rispetto a quelle condizioni che sono tipiche del mercato in situazione di concorrenza perfetta. Partendo da queste premesse di carattere generale e facendo riferimento ad un sistema economico aperto all’estero, è facile individuare la domanda nelle esportazioni, in quanto impiego di risorse, e l’offerta nelle importazioni, viste come disponibilità di risorse, come si ricava dall’equazione del reddito che ricordiamo essere: PIL + M = C + ∆AR + X OFFERTA (risorse disponibili)=DOMANDA (risorse impiegate) La grandezza PIL è una disponibilità di risorse quindi fa parte, assieme alle importazioni (M), dell’offerta; consumi (C) e investimenti in attività reali (presi come variazione, ∆AR) costituiscono invece impiego di risorse e, con le esportazioni (X), compongono la domanda. Inoltre, in un sistema economico chiuso si ha: PIL = C + I (dove I = ∆AR) e da cui si trae che: S=I (S = ∆AR) 18 PIL = C + S 2. Variabili Economiche 2.1 Variabili fondo e variabili flusso Le variabili flusso riguardano la misurazione di un fenomeno economico con riferimento ad un periodo di tempo. Ad esempio, in un anno si è guadagnato un reddito di Y euro, oppure in un anno si sono effettuate spese per consumi per C euro; ciò significa che in quell’anno il flusso di risparmio (S) è stato di (Y – C) euro. Altri esempi di quantità flusso sono dati dalle spese effettuate in un certo periodo di tempo per l’acquisto di attività reali (∆AR) oppure di attività finanziarie (∆AF)11. Lo stesso vale per le emissioni di passività finanziarie effettuate durante un certo periodo di tempo (∆PF). Poiché nel tempo si assiste ad una stratificazione o accumulazione dei flussi (al netto di eventuali flussi di segno contrario) è possibile prendere in considerazione una quantità che è appunto la somma algebrica di tali flussi, misurata ad un certo istante di tempo: tale grandezza viene definita variabile fondo. Ad esempio, ad una certa data, si può calcolare la somma netta dei flussi di investimento (I = ∆AR) effettuati durante i periodi precedenti, arrivando in questo modo a misurare la consistenza delle attività reali in essere, cioè: n AR1 + Σ ∆ARi = ARn i=1 dove: ∆AR1 = AR2 – AR1 n Σ ∆ARi = ∆AR1 + ∆AR2 + … + ∆ARn i=1 Analogamente, la sommatoria dei flussi di risparmio, calcolata ad una certa data, costituisce il netto patrimoniale che è un concetto fondo e che può essere definito come il complesso di risorse non derivanti da emissioni di passività finanziarie. 11 Quando una variabile viene presentata come flusso e non come fondo viene preceduta dal segno di variazione “∆”. 19 Quanto detto vale anche per attività e passività finanziarie, per cui si avrà: n AF1 + Σ ∆AFi = AFn (es. accumulazione di un portafoglio titoli) i=1 n PF1 + Σ ∆PFi = PFn (es. consistenza dei depositi nel bilancio di una banca) i=1 Si può pertanto associare la quantità flusso al concetto di variazione e quindi riferita ad un arco di tempo e la quantità fondo al concetto di consistenza e pertanto connessa ad un istante di tempo. FLUSSO VARIAZIONE PERIODO FONDO CONSISTENZA ISTANTE In quest’ottica, ad esempio, il patrimonio (o ricchezza) risulta essere una consistenza e la sua variazione è rappresentata dal reddito. Oppure, il livello generale dei prezzi è una consistenza mentre la sua variazione è misurata dall’inflazione. Ancora, lo stock di capitale esistente ad un dato istante è una consistenza, la sua variazione è l’investimento. In generale, in campo economico si da più importanza allo studio delle variazioni piuttosto che a quello delle consistenze. Anzi, addirittura si considerano come rilevanti le “variazioni delle variazioni” (variazioni delle variabili flusso). Spesso, infatti, nell’interpretazione di molti fenomeni economici, l’aumento del PIL, la riduzione del deficit, l’inflazione tendenziale (tutti esempi di variazioni delle variabili flusso) hanno un peso maggiore rispettivamente del livello del PIL, dell’ammontare del disavanzo e dell’inflazione media (tutte variabili flusso). 2.2 Variabili macroeconomiche microeconomiche 20 e variabili «Secondo una definizione classica, l’economia si interessa del modo in cui vengono impiegate le risorse tra usi alternativi al fine di soddisfare i bisogni umani. Generalmente viene suddivisa in due parti: microeconomia e macroeconomia. La prima studia il comportamento economico delle unità individuali quali i consumatori, le imprese e i proprietari di risorse. Uno degli scopi più importanti di essa consiste nel facilitare la comprensione del funzionamento e degli effetti del sistema dei prezzi»12. La seconda «si occupa invece dell’andamento del sistema economico nel suo insieme: delle fasi di espansione e recessione, della produzione globale dei beni e servizi e della crescita della produzione, dei tassi d’inflazione e di disoccupazione, della bilancia dei pagamenti e dei tassi di cambio»13. Se ne conclude che le quantità macroeconomiche sono quelle che attengono all’intero Italia sistema economico (quale può essere, ad esempio, l’azienda ). Ci si riferisce invece alla microeconomia allorché si studiano i settori o le singole aziende di un sistema economico. Questa distinzione è molto agevole quando, ad esempio, si parla, da una parte, di un’impresa e, dall’altra, di una nazione. E’ invece meno agevole quando si considera un grande settore dell’economia quale la Pubblica Amministrazione centrale di un Paese. Ci si può porre quindi il quesito se i conti e le quantità che vi fanno capo sono di tipo macroeconomico o microeconomico. La risposta è che siamo di fronte a variabili microeconomiche, per quanto grandi esse siano nell’ambito del sistema economico nazionale. La Pubblica Amministrazione, infatti, non è altro che un’azienda di grandissime dimensioni che ha delle entrate (prelievo fiscale) e delle uscite (spese correnti e di investimento). E’ però un’azienda che, rispetto al settore privato, gode di due importanti privilegi: può aumentare “d’ufficio” il proprio fatturato attraverso la leva fiscale (impoverendo in tal modo i settori privati da cui 12 4 E. Mansfield, Microeconomia, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 24. R. Dornbusch – S. Fischer, Macroeconomia, Il Mulino, Bologna, 1981, p. 13. 21 proviene il gettito); può utilizzare come strumento per finanziare le proprie attività la moneta emessa dalla Banca Centrale nazionale. E’ quindi un’azienda che ha il potere di influenzare alcune variabili macroeconomiche (imposizione fiscale, moneta). Il debito della Pubblica Amministrazione è dunque una variabile microeconomica, ma con forti connotazioni macroeconomiche; prova ne 14 Maastricht è il Trattato di (firmato il 7 febbraio 1992 dagli Stati aderenti all’Unione Europea, con l’obiettivo primario di creare una completa unione economica e monetaria) nel quale la grandezza “debito pubblico” è stata inserita fra le condizioni di stabilità macroeconomica di un Paese. Le variabili macroeconomiche sono tenute particolarmente in considerazione dagli osservatori internazionali per giudicare lo stato di salute dell’economia di un Paese. A questo proposito, esistono condizioni fondamentali di equilibrio macroeconomico con le quali un Paese deve confrontarsi se aspira ad ottenere credibilità e rispetto nel panorama economico mondiale. Fra le principali condizioni di stabilità macroeconomica – i cosiddetti fondamentali o fundamentals 14 Il Trattato di Maastricht (noto anche come Trattato sull'Unione europea, TUE) venne firmato il 7 febbraio 1992, sulle rive della Mosa, nella cittadina olandese di Maastricht, dai 12 paesi membri dell'allora Comunità Europea, oggi Unione Europea ed è entrato in vigore il 1º novembre 1993. Il Trattato di Maastricht comprendeva 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni. L'Unione europea così creata veniva edificata sui tre pilastri del progetto Santer, il cui principale sarebbe stato quello noto come “Comunità europea” (CE, in sostituzione della CEE), l'unico a carattere federale rispetto agli altri due – sulla PESC e sugli affari interni – di carattere intergovernativo. L'Unione dispone di un quadro istituzionale unico in quanto le sue istituzioni sono comuni a tutti e tre i pilastri; oltre a quelle canoniche, viene ufficialmente riconosciuto il Consiglio europeo come organo di sviluppo politico. L'Unione europea restava tuttavia una struttura anomala in quanto priva di personalità giuridica e di risorse proprie, a parte quelle della CEE di cui tuttavia non avrebbe potuto disporre. Fonte: Wikipedia 22 - si possono annoverare: a) lo sviluppo economico come tendenza di fondo (la dinamica del PIL non deve cioè essere autolimitata in modo artificioso da un Paese attraverso misure restrittive su consumi, investimenti ed esportazioni); b) l’occupazione (il mercato del lavoro, per favorire il più possibile l’assorbimento della popolazione attiva, deve essere flessibile e non di esclusivo dominio del potere sindacale); c) la bilancia dei pagamenti (la dinamica dell’import/export di un Paese deve essere possibilmente equilibrata, deve cioè evitare di mantenere saldi dello stesso segno per lunghi periodi di tempo che porterebbero l’economia nazionale ad accumulare eccessivo debito o credito verso l’esterno: in entrambe i casi, infatti, gli altri Paesi ne verrebbero danneggiati); d) l’inflazione (deve essere allineata con quella dei Paesi confrontabili ed è bene che, anche in termini assoluti, sia mantenuta bassa); e) il tasso di interesse (mutatis mutandis, vale il medesimo discorso di cui al punto precedente riguardo la variabile inflazione); 23 f) il tasso di cambio (la buona gestione dell’economia di un Paese la si misura anche con la stabilità del cambio o, comunque, con un cambio che semmai ha la tendenza ad apprezzarsi); g) il rapporto deficit pubblico/PIL (quando questo rapporto è elevato si verificano tre fenomeni negativi: a) lo spiazzamento della domanda di credito per investimenti privati; b) una pressione al rialzo sui tassi di interesse; c) la caduta nella trappola del debito attraverso il moltiplicatore dell’accumulazione degli interessi, il debito assume cioè una sua vita propria e si ingigantisce anche quando si evita l’accensione di nuovi debiti); h) il rapporto debito pubblico/PIL (questa variabile è collegata con quella di cui al punto precedente e con il verificarsi della trappola del debito). Al fine di realizzare l’euro , la moneta unica europea, il Trattato di Maastricht ha previsto che vi fosse il rispetto da parte dei Paesi membri di cinque degli otto punti sopra elencati (stabilità dei prezzi, stabilità dei cambi, convergenza dei tassi di interesse e rapporti deficit e debito pubblico su PIL)15. Sviluppo economico, occupazione e bilancia dei pagamenti non siano stati inclusi, nonostante rappresentino elementi fondamentali per poter esprimere in maniera esauriente un giudizio sulla stabilità macroeconomica di un Paese. 2.3 Variabili strutturali e variabili congiunturali Le variabili economiche possono essere ancora distinte in variabili strutturali e variabili congiunturali. Le prime riguardano la tendenza di fondo dell’economia 15 I contenuti del Trattato di Maastricht verranno analizzati in dettaglio nella Parte Seconda dedicata all’Unione Europea, con dispensa ad hoc. 24 (trend). Variabili strutturali sono innanzi tutto lo stock di risorse umane e di beni capitali disponibili a livello del sistema produttivo, suddivisi tra settore agricolo, industriale e dei servizi, oltre alle tendenze di fondo di quell’economia. Le variabili congiunturali riguardano invece l’andamento ciclico della vita economica di un Paese. Congiuntura significa, infatti, situazione pro- tempore dell’economia: essa individua cioè la posizione dell’economia nell’ambito di un ciclo economico. A questo proposito bisogna ricordare che il ciclo economico si sovrappone alla tendenza economica di fondo di un Paese. Quest’ultima, ad esempio, potrebbe avere la tendenza a svilupparsi ad un ritmo del 2,5%, mentre ci potranno essere fasi di sviluppo al 6% e fasi di contrazione fino a valori negativi dell’1% e oltre. La situazione dei rapporti con l’estero cambierà a seconda che un Paese si trovi nell’una o nell’altra fase. Tale discorso sulla differenza fra struttura e congiuntura può essere riferito a produzione, consumo, investimento, risparmio, importazioni ed esportazioni, cioè può darsi che ci sia, ad esempio, una fase di espansione del consumo all’interno del Paese, ma una contrazione delle esportazioni così forte da determinare una diminuzione del Prodotto Interno Lordo. Da ciò l’importanza di individuare le componenti del PIL in quanto ciascuna di esse può attraversare una fase di espansione o di contrazione. Nel complesso, infatti, solo la risultante delle componenti in espansione o in contrazione che concorrono a formare il PIL, ne determina la contrazione o la espansione complessiva rispetto al trend di fondo dell’economia che, invece, può considerarsi una variabile strutturale. La figura successiva mostra graficamente quanto detto in precedenza. Trend di fondo e ciclicità sono due “misure” dello stesso fenomeno (nell’esempio, l’andamento del PIL). 25 (esempio di posizione congiunturale) PIL recessione espansione incontrollata trendline depressione (bust ) espansione durata media di un ciclo completo: tempo circa 4 anni Il trend di fondo viene normalmente raffigurato da una retta (trendline), che può essere di regressione piuttosto che congiungente due punti di minimo o massimo relativi (la pendenza della retta rappresenta sostanzialmente la “media” dello sviluppo economico); la ciclicità ha di norma un andamento sinusoidale e un ciclo completo viene convenzionalmente suddiviso in quattro fasi, mediamente della durata di un anno ciascuna: espansione, espansione incontrollata (boom), recessione, depressione (bust). La ciclicità di cui si è detto (4/5 anni in media per compiere un ciclo completo) riguarda principalmente l’industria e i servizi. Per il settore dell’agricoltura si ha invece una ciclicità più semplice, scandita dal tempo “astronomico”, ed è quella che viene definita “stagionalità”. Poiché ormai l’agricoltura incide per una minima parte sull’attività produttiva dei Paesi industrializzati, gli economisti studiosi delle fluttuazioni cicliche s’interessano principalmente della congiuntura dei settori secondario e terziario (sono i c.d. “congiunturalisti”). Esistono anche alcuni economisti (i c.d. “strutturalisti”) che si occupano dello studio delle variabili strutturali, che attengono come si è detto al 26 trend di fondo (approssimativamente su dieci studiosi dei cicli economici, solo uno è strutturalista, mentre i rimanenti nove sono congiunturalisti16). Gli studiosi congiunturalisti si sono divisi storicamente in due grandi scuole di pensiero: la scuola “monetarista” (M. Friedman ) e la scuola ). I monetaristi considerano il ciclo “interventista” (J. M. Keynes economico come un fatto inevitabile, fisiologico, al quale non contrapporre “forze” eccessive per attenuarne le oscillazioni naturali. Secondo questi economisti le pubbliche autorità di un Paese dovrebbero solo impostare le grandi linee della politica economica e monetaria (in particolare, per quest’ultima la banca centrale dovrebbe promuovere l’espansione fissa della massa monetaria), lasciando fare, per il resto, al mercato. Posizioni di questo tipo sono condivise, in genere, dagli schieramenti c.d. “di destra” che governano i vari Paesi del mondo industrializzato (negli Stati Uniti sono i repubblicani). I monetaristi sostengono che l’intervento esterno al mercato operato dalla “mano” pubblica per attenuare o eliminare la ciclicità abbia come risultato addirittura l’amplificazione delle oscillazioni. Questo anche perché non è possibile sapere con assoluta certezza in che punto ci si trova del ciclo economico: si possono fare studi più o meno dettagliati, ma mai il fenomeno potrà essere “fotografato” con precisione. In base alla teoria monetarista, quindi, per attenuare le fluttuazioni dell’economia è opportuno che le autorità pubbliche favoriscano la creazione di condizioni di stabilità di fondo (es. espansione fissa della 16 Per approfondimenti sul tema della congiuntura si consiglia: Innocenzo Cipolletta Congiuntura economica e previsione. Teoria e pratica dell'analisi congiunturale, Il Mulino 27 , base monetaria) e lì si fermino, poiché saranno poi le libere forze del mercato a compiere l’importante azione stabilizzatrice. Gli economisti interventisti (keynesiani), invece, vedono nell’intervento dello Stato, attraverso la spesa pubblica, la via ottimale per stabilizzare il ciclo economico. Secondo la teoria keynesiana, i pubblici poteri debbono operare sulle fluttuazioni cicliche con una politica economica espansiva nelle fasi di recessione/depressione, in modo da contrastare con la spesa pubblica (c.d. deficit spending) la flessione che si verifica nel settore privato. Così facendo, la somma delle voci costituenti il PIL di un Paese rimane pressoché invariata e l’obiettivo della stabilizzazione del ciclo è raggiunto. PIL = Consumi + Investimenti in attività reali + Spesa pubblica Queste posizioni interventiste, sebbene siano teoricamente ineccepibili, hanno molto spesso dimostrato, nella realtà, di esasperare piuttosto che di smorzare le fasi del ciclo. E’ molto difficile, infatti, che l’intervento pubblico risulti “sincronizzato” con l’inizio della recessione per la quale esso è stato deciso. In tal modo, oltre a mancare l’obiettivo della stabilizzazione, si provocano sgradevoli “guai” aggiuntivi (tensioni inflattive, spiazzamento dei consumi privati, ecc.). Nelle teorie keynesiane si identificano perlopiù i programmi dei governi c.d. “di sinistra” (negli Stati Uniti, le posizioni interventiste sono proprie dello schieramento democratico). Oltre agli economisti di cui si è discusso finora (strutturalisti, congiunturalisti a loro volta suddivisi in monetaristi e interventisti) vi è una categoria di studiosi che analizza l’andamento dei cicli lunghi (o cicli generazionali). Il primo a proporre l’affascinante Kondratieff teoria dei cicli lunghi fu l’economista sovietico , il quale sostenne che la grave crisi che colpì il sistema capitalistico occidentale nel 1929 non era altro che la fine di una fase di crescita dell’economia che durava ormai da molti anni, non certo la fine e il fallimento del 28 capitalismo come aveva preconizzato invece il “collega” Karl Marx . E la storia, almeno in linea di principio, diede ragione a Kondratieff. Quest’ultimo sosteneva che lo sviluppo economico seguiva andamenti ciclici lunghi (di 36 anni di durata complessiva), composti da fasi di espansione/crescita e da fasi di recessione/depressione di durata quasi eguale. La crisi del ’29 segnò l’inizio di una lunga discesa che sarebbe terminata solo 18-20 anni più tardi, con la ripresa economica del secondo dopoguerra (gli anni Cinquanta). Interpretare in modo coerente i cicli lunghi dell’ultimo secolo è certamente un’impresa velleitaria, ma questo non ha impedito ad alcuni studiosi di dare delle letture soddisfacenti e accattivanti delle epoche trascorse. La più convincente pare essere quella proposta recentemente dallo studioso americano Christopher Carolan , il quale è pervenuto alla conclusione che nell’arco temporale degli ultimi cent’anni di storia sono individuabili due andamenti ciclici, sfasati ed interconnessi l’uno all’altro (il grafico di seguito riportato cerca di schematizzarne l’andamento). Questo spiegherebbe molte delle contraddizioni che si riscontrano normalmente quando si confrontano fra loro le diverse conclusioni cui sono giunti gli studiosi dei cicli lunghi. 29 1901 1930 1937 1966 1973 2002 2009 ciclo secondario ciclo principale 1910 1917 1946 1953 1982 1989 2018 Come appare subito evidente dall’analisi del grafico, sia la curva in grassetto (ciclo principale) che la curva sottile (ciclo secondario) hanno medesima durata in quanto a ciclo completo (36 anni, che corrisponde alla tipica durata del ciclo kondrateviano) e a fasi ascendente (20 anni) e discendente (16 anni). Le fasi sfavorevoli del ciclo principale sono tre (1930-1946; 1966-1982; 2002-2018) così come quelle del ciclo secondario (1901-1917; 1937-1953; 1973-1989). L’azione combinata dei due cicli kondrateviani interconnessi fa si che nei periodi 1937-1946, 1973-1982 e (in previsione) 2009-2018 si registrino mediamente andamenti pessimi dell’economia mondiale. All’opposto, i periodi di maggiore positività si individuano negli anni 1917-1930, 1953-1966 e 1989-2002. Sulla scorta degli andamenti ciclici lunghi testé delineati, il periodo che stiamo vivendo si colloca quindi in prossimità del punto di svolta del ciclo principale (2002), analogo in questo al 1930 (anno di svolta che segnò l’inizio della grande depressione) e al 1966 (anno in cui si preparò il periodo di grave disagio sociale che va sotto il nome di Sessantotto). In base al modello presentato, dunque, gli anni successivi al 2002 dovrebbero portare una situazione di iniziale discesa che verrà però in parte attutita dal trend ancora positivo del ciclo secondario; il quadro si aggraverà in modo pesante dopo il 2009, anno in cui i due cicli lunghi sommeranno le loro forze entrambe di segno negativo. La grande incognita sarà se questa fase 30 molto negativa avrà le sembianze della grande depressione degli anni Trenta o della “rivoluzione sociale” del Sessantotto. Oppure sarà invece qualche cosa di completamente nuovo. Lo studio dei cicli lunghi, come è facile intuire, non ha un’utilità immediata e diretta per fare previsioni accurate in termini di giorni, settimane o mesi. A questo scopo sono preposte altre metodologie d’analisi. L’obiettivo perseguibile attraverso i cicli lunghi è soprattutto quello di evidenziare i grandi punti di svolta (top e bottom) secolari dell’economia nel suo complesso. Il crash del 1987 che apparve ai più come un grande punto di svolta, in realtà non lo era poiché risultava inserito in un periodo che da favorevole stava diventando favorevolissimo (il ciclo principale era in piena fase di ascesa). Perciò, l’analisi dei cicli lunghi dev’essere vista come uno strumento d’indagine che affianca e completa il quadro relativo allo studio dell’andamento delle variabili economiche strutturali e congiunturali, di cui si è detto in precedenza. 2.4 Variabili reali e variabili finanziarie Per trattare in modo esaustivo l’argomento concernente le variabili reali (economia reale) e le variabili finanziarie (finanza), e comprenderne al meglio le differenze è utile far riferimento al metodo dei flussi di fondi. Poiché tale metodo di analisi è atto ad introdurre l’approfondimento sul tema della finanza internazionale, è stato opportunamente inserito in apertura della Parte Terza (Finanza Internazionale), come primo paragrafo del Capitolo I, dedicato allo studio della struttura finanziaria dei Paesi industrializzati e dei Paesi in via di sviluppo. Pertanto, ad esso si fa rinvio. 31 2° CAPITOLO Le tendenze evolutive dell'economia mondiale e del commercio internazionale 32 luce “La luce del sole è il miglior disinfettante, la elettrica è il miglior poliziotto”, Louis Brandeis17 “L’India ha duecento milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni di età, cioè più dell’interea popolazione del Brasile e il 70% dei suoi abitanti ha meno di 35 anni” David Bloom18 “Patria di quasi la metà della popolazione della Terra, e di sei tra le nazioni più popolose del pianeta, L’Asia ha fornito al mondo più di un quinto del suo prodotto interno lordo, quasi il 30% del totale delle sue esportazioni e un terzo dei flussi di capitali sio mercati globali”, Bill Emmott19 “The lazier the cat, the happier is he is”, Carlo 20 Bastasin 17 Louis Brandeis (Louisville, 1856 –1941) è stato un avvocato e giurista statunitense, membro della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1916 al 1939. È ricordato per aver perseguito gratuitamente tematiche di grande rilevanza sociale, promuovendo l'avanzamento del diritto in vari campi e la tutela delle libertà civili. 18 David Bloom, Demografo di Harvard University, Chair, Department of Global Health and Population. La citazione è tratta da F. Rampini, La speranza Indiana, Mondadori, 2007 19 Bill Emmott (1956) è un giornalista e saggista britannico. Corrispondente da Tokyo nel 1980, dal 1999 al 2006 è stato direttore della prestigiosa rivista britannica The Economist e durante il suo periodo di controllo la rivista ha più volte criticato Silvio Berlusconi definendolo "inadatto a governare" 20 Carlo Bastasin, giornalista italiano, tratto da “Italy: Fat PIIG or Lazy Cat?”, April 15th, Peterson Institute 33 II. LE TENDENZE EVOLUTIVE DELL’ECONOMIA MONDIALE E DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE 1. La mappa e la crescita dell’economia mondiale e del commercio internazionale a) La mappa L’attuale quadro dell’economia mondiale si compone di Paesi industrializzati, di Paesi produttori ed esportatori di materie prime e di Paesi ad economia di transizione. Paesi industrializzati: si possono a loro volta suddividere in tre categorie. La prima è costituita dai Paesi che dispongono di un sistema economico di ampie dimensioni, derivante sia da un elevato reddito pro-capite che da un numero di abitanti cospicuo ed in generale superiore ai 50 milioni di persone (con l’eccezione del Canada). Volendo individuare brevemente le caratteristiche dei Paesi appartenenti a questa categoria, bisogna osservare che Germania Francia , Gran Bretagna 34 , e Italia sono molto simili, sia in termini di sistema economico, che di entità si discosta invece da questi ultimi, della popolazione. Il Canada risultando infatti più affine agli Stati Uniti : lo si può quasi considerare una loro “appendice”. Il Giappone , che pur avendo iniziato a costruire le basi del suo attuale sviluppo solo dopo il secondo conflitto mondiale, pur soffrendo della carenza di materie prime e dovendo affrontare il problema della ricostruzione postbellica, è riuscito a raggiungere la posizione di terza potenza industriale del mondo. 35 Una menzione particolare per i nuovi protagonisti della crescita mondiale: India 21 22 e Cina , che rappresentano il nuovo baricentro economico del mondo. Nel 2010 la Cina rappresenta il 12% del PIL mondiale. Nel 2009 la Cina è leader della produzione mondiale industriale con la sua quota del 21,5%. Gli Stati Uniti dal 24,8% del 2001 sono scesi al 15%. Il Giappone si è quasi dimezzato dal 15,1% all’8,5%. Questo il commento di L. Summers e T. Geithner23 – principali collaboratori di Obama sul fronte economico- in occasione del G20 di Toronto (27.6.10): “In this new era, when emerging markets 21 Si consiglia la lettura di F. Rampini, La Speranza Indiana, Mondadori, 2007 22 F. Rampini , inviato di Repubblica in Cina, ha coniato il termine CINDIA. Si consiglia la lettura di F. Rampini, L’impero di Cindia, Mondadori, 2004 23 Timothy Geithner (New York, 1961) è un politico statunitense. È dal 26 gennaio 2009 Segretario al Tesoro degli Stati Uniti nell'Amministrazione Obama. Precedentemente aveva ricoperto il ruolo di presidente della sezione di New York della Federal Reserve e di vice-presidente del Federal Open Market Committee (FOMC). 36 account for two-thirds of global growth, concerted action by the G-20 is the only effective way to confront the challenges that lie ahead. As world leaders arrive in Toronto, we must renew the sense of common purpose and collective urgency that has served the world so well over the past year and a half”. Sia Cina che India fanno parte dei BRIC24, i Paesi a forte crescita individuati anni fa dal capoeconomista di Goldman Sachs Jim O’Neill. Lo sviluppo e la crescita economica sono in Asia. E così – ce ne siamo dimenticati – è stato nel passato. Nel 1820, secondo lo storico economico Angus Maddison25, nel 1829 Cina e India, da sole, coprivano oltre la metà della produzione mondiale globale. Si sta avverando la previsione di Napoleone due secoli fa, che disse: “Lasciate dormire la Cina, perchè quando si sveglia farà tremare il mondo”. 24 BRIC è un acronimo utilizzato in economia internazionale per riferirsi congiuntamente a: • Brasile Russia India Cina Questi paesi condividono una grande popolazione (Russia e Brasile oltre il centinaio di milioni di abitanti, Cina e India oltre il miliardo di abitanti), un immenso territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e, cosa più importante, sono stati caratterizzati da una forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale, soprattutto nella fase iniziale del XXI secolo. 25 Angus Maddison (1926 –2010) è stato un economista britannico, professore emerito presso la facoltà di Economia dell'Università di Groningen. Membro della Organisation for Economic Cooperation and Development, è stato a capo della Divisione Economia dal 1953 al 1962. Autore di numerosi lavori di analisi economica. 37 QUADRO DI APPROFONDIMENTO NEW LESSONS FOR RESILIENT ASIA 38 39 Nella seconda categoria sono da ricomprendersi Paesi che in taluni casi hanno un reddito pro-capite spesso più elevato di quello dei Paesi del primo gruppo (si pensi ad esempio alla Svizzera ), ma che hanno una popolazione inferiore ai 10-15 milioni di abitanti. Quindi il fatto che siano stati collocati al secondo posto nella nostra graduatoria non è dovuto al minor grado di sviluppo che li caratterizza, bensì al minor numero di abitanti che li popola. Considerando infatti il loro grado di sviluppo, si può rilevare che spesso sono ai primi posti per quanto concerne il livello di industrializzazione. A tale proposito, è utile ricordare quali sono i due indici più comunemente utilizzati per stabilire il grado di industrializzazione e di sviluppo di un Paese (quest’ultimo, tra l’altro, è già stato evidenziato in precedenza quando si è parlato del primo giudizio di valore): capitale totale impiegato nell’industria grado di industrializzazione = _____________________________________ numero totale degli addetti Prodotto Interno Lordo grado di sviluppo = _____________________ popolazione Crediamo interessante far notare che l’Italia si colloca – a livello di produzione industriale pro-capite - come la seconda nazione più industrializzata del mondo26: “Davanti all’Italia, con un notevole vantaggio c’è la Germania. Al terzo 26 Marco Vitale in Responsabilità dell’imprenditore, all’interno di Responsabilità nell’impresa, Piccola Biblioteca INAZ, 2010 40 posto c’è il Giappone e al quarto gli USA. Molto staccate Francia, Gran Bretagna, Spagna”. La prima potenza industriale del mondo è saldamente insediata la Cina con il 21,5%(dati 2009), a fronte del 9% di nove anni fa. USA secondi con il 24,8%. Giappone terzo con il 15,8%. Quarta la Germania con il 6,5%. Quinta l’Italia con il 3,9% della produzione industriale mondiale. Per alcuni Paesi rientranti nella seconda categoria, questi due indici sono più elevati di quelli corrispondenti alla maggior parte dei Paesi industrializzati maggiori. Come vedremo, i Paesi industrializzati minori hanno inoltre generalmente un elevatissimo grado di apertura dell’economia al resto del mondo, caratteristica questa che è difficile invece riscontrare in modo così marcato nelle economie dei Paesi maggiori. La terza categoria di Paesi industrializzati è molto particolare. Si tratta di un certo numero di Paesi (in passato soprannominati “NIC”, acronimo di Newly ), soprattutto del sud-est asiatico, che Industrialized Countries fino a 20 anni fa non poteva certamente essere ricompreso nel gruppo in parola (sono le c.d. “Piccole e Grandi Tigri Asiatiche”, ovvero Thailandia , Filippine , , Malesia , Indonesia 41 Hong Kong Sud , Taiwan e Singapore , Corea del ). Tali Paesi si distinguono da quelli degli altri due gruppi non solo per la recente industrializzazione, ma anche per le peculiarità del loro sviluppo legato ad una cultura non occidentale e quindi assai diversa dalla nostra e, poiché l’industrializzazione è sempre stata figlia direttamente o indirettamente dell’Occidente europeo, i caratteri di questa nuova forma di industrializzazione sono per noi più difficili da interpretare. Ciò che caratterizza i NIC non è un elevato reddito pro-capite, ma sono le straordinarie capacità di risparmio, la disponibilità ad un lavoro particolarmente intenso da parte delle maestranze, il basso costo del lavoro, la formidabile capacità di esportazione soprattutto di prodotti che incorporano alta tecnologia e nella cui produzione i NIC hanno raggiunto una posizione che spesso è di assoluto primato. Paesi produttori ed esportatori di materie prime: si tratta di un gruppo molto meno omogeneo e dai caratteri molto meno definiti rispetto al gruppo sinora visto. Per l’analisi che seguirà, si ritiene opportuno operare una suddivisione dei Paesi in quattro categorie: 1 Paesi produttori ed esportatori di materie prime aventi un tenore di vita molto simile ai Paesi industrializzati e che, in molti casi, si potrebbero confondere con essi. Si tratta in particolare di nazioni come 42 l’Australia , la Finlandia Grecia , la Nuova Zelanda Africa e la Spagna , la , il Sud . Tali Paesi sono percepiti, dalla comunità internazionale come Paesi industrializzati senza che essi lo siano. Infatti si tratta di Paesi caratterizzati da un reddito talora molto elevato, ma non sorretto da un adeguato sviluppo industriale e di conseguenza non rientranti a pieno titolo nella categoria dei Paesi produttori ed esportatori di manufatti. 2 Si tratta in generale di nazioni che sono riuscite a sviluppare una limitata industrializzazione o che hanno beneficiato di particolari situazioni di ricchezza del sottosuolo (escludendo le risorse energetiche suscettibili di creare il raggruppamento dei Paesi dell’OPEC di cui parleremo successivamente). Ci si riferisce, fra gli altri, all’Argentina, Cile, Turchia, Portogallo. 2. Paesi africani ricchi di materie prime: Sud Africa (risorse minerarie: oro, diamanti, platino, ferro, uranio, 43 carbone, cromo, carbone), Nigeria (Paese inserito da Goldman Sachs nella lista dei Next 11 tra i più promettenti del mondo, ricco di petrolio) e Sudan (dove a gennaio 2011 si è tenuto un referendum per l’eventuale divisione di nord e sud), grande produttore di petrolio e prodotti petroliferi, cotone, sesamo, arachidi, gomma arabica, zucchero e bestiame. Paesi . L’ENI è asiatici come il Kazakistan27 uno dei più importanti partner privati del Kazakistan. Le relazioni con la compagnia italiana risalgono al 1992, quando venne firmato il primo accordo di ripartizione 27 Il Kazakistan, è uno stato transcontinentale, a cavallo tra Europa ed Asia, ed è un'ex repubblica dell'Unione Sovietica. Confina con la Russia, la Cina, e alcuni paesi dell'Asia centrale, quali il Kirghizistan, l'Uzbekistan e il Turkmenistan ed è delimitato per un tratto dalle coste del Mar Caspio. In termini di risorse naturali il Kazakistan è probabilmente il paese con la maggiore ricchezza pro capite al mondo. Il problema è condurre serie politiche di sviluppo e distribuire la ricchezza tra la popolazione, il che non è assolutamente facile in un paese dove la corruzione e il regionalismo sono profondamente radicati. Il paese possiede circa il 60% delle risorse minerarie dell'ex Unione Sovietica; vengono estratte grandi quantità di ferro nel bacino di Kustanaj nel nord-ovest, notevoli quantità di carbone nei dintorni di Karaganda e Ekibastuz, e inoltre petrolio, metano e diversi metalli usati nell'elettronica, nell'ingegneria nucleare e nella missilistica. Fonte: wikipedia 44 della produzione del campo di Karachaganak, nel nord del paese, di cui dal 1997 l’Agip è operatore e da cui già estrae il petrolio con una licenza per quaranta anni. Scoperto nel 1979 questo campo copre un'area di 450 km² e le compagnie si sono organizzate nel consorzio Karachaganak Integrated Organization (KIO) che vede la partecipazione di: ENI/Agip e British Gas (co-operatori al 32.5%), ChevronTexaco (20%) e la compagnia russa Lukoil (15%). Il progetto mira ad espandere la produzione del campo, attiva dal 1984, dagli attuali 100,000 barili al giorno a più di 220,000 e ad aumentare la produzione di gas parallelamente. Dall’Azerbajan – ricco di gas, in particolare dal Shan Deniz II field dovrebbe partire il gasdotto Nabucco28 che attraverserà Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. 4. Sono Paesi molto eterogenei fra loro. Si tratta dei Paesi dell’OPEC (Organization of Petroleum Exporting ), Countries organizzazione che racchiude i Paesi arabi petroliferi e alcuni Paesi petroliferi non arabi. L’OPEC venne fondata a Baghdad nel 1960 da 28 Arabia Saudita , Il gasdotto Nabucco è un progetto volto alla realizzazione di una nuova via di importazione del gas naturale proveniente dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente. Collegherà la Turchia con l'Austria. Fra gli obiettivi dichiarati del nuovo gasdotto c'è il rafforzamento della sicurezza dell'approvvigionamento per i Paesi componenti il consorzio e per l'Unione Europea nel suo complesso. A gasdotto ultimato, infatti, il gas che affluirà sul mercato comunitario proverrà da nuovi fornitori attraverso un nuovo corridoio di approvvigionamento. Fonte Wikipedia. 45 Iraq , Iran , Kuwait e con l’intento di difendere le rispettive economie dalla Venezuela flessione del prezzo del petrolio imposta dalle grandi compagnie petrolifere internazionali. All’organizzazione aderirono in seguito altri Paesi, fra cui la Libia, la Nigeria, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, l’Algeria, l’Ecuador, il Gabon, l’Indonesia. Per completare il disegno della mappa dell’economia mondiale, è utile sottolineare che gli Stati Uniti hanno caratteristiche tali che li rendono classificabili sia come Paese produttore ed esportatore di manufatti che come produttore ed esportatore di materie prime. Solo in tal modo si spiega il particolare e a volte ambiguo atteggiamento degli Stati Uniti in campo economico e commerciale. Infatti essi si schierano talvolta con i Paesi industrializzati, talaltra con i Paesi OPEC oppure con i Paesi meno sviluppati che producono e commerciano materie prime, avendo interessi contemporaneamente analoghi a quelli di ognuno dei tre raggruppamenti. b) La crescita Limitando l’analisi della crescita economica e degli scambi mondiali all’ultimo secolo, è agevole notare come il grado di interdipendenza economica fra i vari Paesi sia cresciuto enormemente dopo la seconda guerra mondiale. L’impennata dell’interscambio mondiale di questo periodo veniva dopo la battuta d’arresto determinata dalla grande crisi e dalle strategie autarchiche degli anni Venti e Trenta. Il processo di liberalizzazione degli scambi e l’adozione delle regole che costituiscono il sistema monetario 46 internazionale di Bretton Woods , hanno favorito una crescita del commercio internazionale che è stata pari in media a circa il 7-8% annuo. Poiché la produzione interna dei singoli Paesi è cresciuta intorno al 3-4% annuo, l’importanza degli scambi è aumentata enormemente in relazione alla produzione nazionale (il tasso di crescita del commercio internazionale è risultato essere mediamente il doppio rispetto a quello della crescita interna dei Paesi nel mondo). Inoltre, aumentando in media del 7-8% ogni anno, significa che il commercio internazionale in dieci anni raddoppia le proprie consistenze, contro un ben più modesto incremento (circa 1,4 volte), nello stesso lasso di tempo, della produzione mondiale (per raddoppiare ci vogliono circa vent’anni). Per avere una misura delle dimensioni raggiunte negli ultimi anni dal sistema economico mondiale nel suo insieme, va innanzitutto detto che lo stesso può essere considerato come la somma dei sistemi economici nazionali. Di conseguenza, il prodotto lordo mondiale è ottenibile come somma dei prodotti interni lordi dei singoli Paesi (circa 220) che compongono il sistema economico mondiale. Il risultato che ne deriva è un reddito mondiale annuo che si aggira attorno ai 61.000 miliardi di dollari29. In termini reali, le dimensioni dell’economia mondiale si sono quintuplicate negli ultimi quarant’anni: questo significa che il tasso di sviluppo medio è stato di circa il 3,5% all’anno, malgrado tre fasi di rallentamento: quella del 1973/75 (crisi petrolifera), quella del 1980/82 (stretta creditizia), la fase di recessione all'inizio degli anni Novanta (Crisi del Golfo, 1990; crisi dello SME, 1992), la crisi della New Economy (2000; 2001, Attacco alle Torri Gemelle); la crisi finanziaria (2007-8). Per commercio internazionale s’intende l’insieme degli scambi di beni e servizi tra paesi diversi. Per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni di un paese, esse sono registrate nella bilancia commerciale (in cui i beni e i servizi scambiati con l’estero, insieme ai movimenti di capitale finanziario, formano la bilancia dei pagamenti, ovvero il conto nazionale in cui sono registrate tutte le transazioni economiche avvenute con l’estero; la bilancia dei pagamenti si compone di alcune sezione: la prima registra le importazioni e le esportazioni di merci ed è 47 denominata bilancia commerciale; allo stesso modo gli scambi di servizi e di capitali sono registrati rispettivamente nella bilancia dei servizi e nella bilancia in conto capitale). Quindi è un importante indicatore della salute dell’economia nel suo complesso, fornisce indicazioni sull’andamento dell’interscambio di merci e sulla competitività internazionale dei settori produttivi di un paese. Segue una tabella sul commercio intenazionale la cui fonte è: Il mondo in cifre, Economist, 2010 29 Fonte: The Economist, Il mondo in cifre, 2010 48 In passato si parlava di Occidente industrializzato e di Oriente come insieme di Paesi in via di sviluppo. Questi ormai sono concetti sbagliati! Vediamo a tal fine in dettaglio alcuni numeri sulla crescita 49 cinese (foto di Pudong, Shanghai): 1. Cresce a livello di PIL di un 10% l'anno da più di un decennio; 2. è il più grande esportatore del mondo; 3. è il più grande importatore del mondo; 4. è il primo mercato di auto (Volkswagen e BMW fanno sfracelli in Cina), dei treni ad alta velocità del mondo; 5. ha il numero di laureati maggiore al mondo; Il supercomputer Tianhe-1A 6. l’Università nazionale di Pechino per la tecnologia della difesa – un centro direttamente legato alle forze armate – ha di recente sviluppato un nuovo supercomputer made in China – denominato Tianhe-1A - che ha il 40% di potenza in più rispetto al precedente numero uno, un computer americano nato nei laboratori dell’University of Tennessee. Riportiamo un’agenzia di stampa: “The fully operational Tianhe-1A, located at the National Supercomputer Center in Tianjin, scored 2.507 petaflops as measured by the LINPACK benchmark. That moves it past Cray's 2.3 petaflops Jaguar located at Oak Ridge National Lab in Tennessee. Tianhe-1A achieved the record using 7,168 NVIDIA Tesla M2050 GPUs and 14,336 Intel Xeon CPUs consuming 50 4.04 megawatts”. C’è ancora qualcuno che pensa che la Cina sia forte solo nei settori a basso valore aggiunto? Fonte: Il mondo in cifre, Economist, 2010 Il commercio internazionale è il pilastro fondamentale del globalizzazione dell’economia; l’intensificazione delle relazioni internazionali dopo la 2° guerra mondiale ha portato (tra 1950 - 90) ad un incremento degli scambi mondiali di circa 9 volte in volume e 30 volte in valore. Oggi il grado d’interdipendenza delle economie dei vari paesi è tale che nessun Stato o nessuna impresa prende iniziative commerciali importanti senza tenere conto della situazione geoeconomica e geopolitica internazionale. Quasi tutti i paesi del mondo negli ultimi decenni hanno aumentato il loro grado di apertura commerciale incrementando la % di prodotto interno esportata e ricorrendo a importazioni per esigenze interne non soddisfatte da produzioni nazionali. Questa progressiva liberazione del commercio non è generalizzata e totale. In alcune aree e per dei prodotti, ci sono dazi e barriere doganali per proteggere la produzione nazionale dalla concorrenza esterna. L’interdipendenza economica tra Stati è aumentata ed è dimostrazione di come uno Stato più rimanere isolato. Esempio d’interdipendenza. L’Italia importa il metano dall’Algeria e dalla Russia, quindi dipende da questi stati, deve avere rapporti diplomatici con ambedue e 51 avvengono anche scambi, ma è anche dipendente. Ma può accadere anche che la Russia o l’Algeria importino dall’Italia e per questo si parla d’interdipendenza. 2. Volume e dinamica del commercio internazionale, peso specifico, grado di apertura, grado di copertura delle importazioni, ragioni di scambio Prima di addentrarci in ulteriori considerazioni più circoscritte sull’argomento commercio internazionale, è opportuno introdurre da subito una serie di concetti che renderanno più agevole il prosieguo dell’analisi. 1 volume del commercio internazionale: esprime l’entità degli scambi internazionali denominati in dollari USA e in volumi. 2 dinamica del commercio internazionale: individua le variazioni nel tempo di importazioni ed esportazioni. Da questi primi semplici dati si evince immediatamente che, dal punto di vista del commercio internazionale, la distinzione fondamentale fra i Paesi non riguarda tanto se essi siano industrializzati o in via di sviluppo, quanto se essi siano produttori ed esportatori di manufatti o produttori ed esportatori di materie prime (compresi i prodotti energetici). Il commercio internazionale, infatti, è ancora dominato dalla dicotomia fra le merci manufatte (provenienti dal settore secondario) e le materie prime (derivate dal settore primario) suddivise in prodotti agricoli, coloniali, minerali ferrosi e non ferrosi, metalli preziosi, prodotti energetici, ecc. Il valore dei servizi scambiati internazionalmente, anche se in rapida crescita, è pari ancora a circa il 30% di quello delle merci. Questa distribuzione 70%-30% è stridente rispetto a quella esistente su scala nazionale dove, specie con riferimento ai Paesi industrializzati, la distribuzione in parola è mediamente pari a circa 35% (merci) e 65% (servizi). I servizi sono infatti dominanti negli Stati Uniti (75% del PIL e dell’occupazione), in Francia (66%), in Italia (59%), in Germania (58%), in Giappone (55%). Questo dimostra due cose: la prima è che i servizi sono oggetto di negoziazioni internazionali in misura assai minore, per loro natura, di quanto lo siano le merci; la seconda è che nel campo dei servizi permane una “cultura” protezionistica assai dura a morire, nonostante gli sforzi effettuati in epoca recente 52 per consentirne l’esportazione. E’ probabile comunque che, malgrado le difficoltà in parola, il commercio internazionale nei prossimi anni registri una crescita dei servizi (telecomunicazioni, servizi IT, trasporti, servizi finanziari, turismo) più accentuata di quella dei manufatti. Ciò significa che i dati forniti dagli uffici doganali saranno sempre meno in grado di esprimere il valore effettivo dell’interscambio mondiale. E’ importante, a questo punto, individuare alcuni parametri fondamentali dell’economia mondiale che sono basilari ai nostri scopi conoscitivi: 1 peso specifico di un Paese nell’ambito dell’economia mondiale: esso si ottiene dal rapporto tra il Prodotto Interno Lordo (PIL) nazionale e il PIL mondiale: PIL nazionale peso specifico = __________________ PIL mondiale Il peso specifico di un Paese, quindi, risulta essere tanto maggiore quanto maggiore è il risultato numerico del rapporto sopra indicato. Gli Stati Uniti rappresentano la prima economia del mondo (23%)con un Pil con circa 14.000 miliardi $ (dati 2009) di Pil. La zona Euro (16 Paesi) rappresenta – con 13.000 miliardi $ su 60.690 di Pil mondiale - quindi il 20%. Segue la Cina – seconda economia del mondo (se non aggreghiamo l’Eurozona) e primo esportatore del mondo - e poi il Giappone, superato dalla Cina nel corso del 2010. Poi la Germania (come Paese singolo). 2 grado di apertura di un Paese (o “grado di interdipendenza”) nei confronti del resto del mondo: dato dal rapporto fra la media aritmetica dei flussi in entrata (importazioni = M) ed in uscita (esportazioni = X) di un Paese ed il suo PIL nazionale: (X + M)/2 grado di apertura = ___________ PIL 53 Il grado di apertura del mondo (commercio internazionale : produzione interna) nel suo insieme è pari a circa il 22%, suddiviso in 15% di merci e 7% di servizi. In base all’entità del grado di apertura (g. di a.), è possibile classificare i Paesi in tre grandi categorie: a) g. di a. > 30%: Paesi apertissimi; b) 15% < g. di a. < 30%: Paesi aperti; c) g. di a. < 15%: Paesi chiusi. I Paesi maggiormente aperti sono in genere i Paesi territorialmente poco estesi che, per loro natura, non possono che essere più dipendenti dal commercio internazionale. In questa categoria rientrano, fra gli altri, Svizzera, Olanda, Malesia, Singapore, Irlanda, Malta, Belgio, Lussemburgo. Fra i Paesi aperti sono da ricomprendere Germania, Italia e Gran Bretagna che hanno valori del grado di apertura più o meno analoghi; la Francia, pur essendo considerata un Paese aperto, mostra una più limitata propensione agli scambi e ciò dipende dalla relativa autonomia economica di cui dispone, legata al fatto che è un Paese sia agricolo che industriale. Volendo fare un paragone, si può affermare che essa riproduce a livello europeo ciò che gli Stati Uniti rappresentano a livello mondiale e cioè la funzione di produttore ed esportatore sia di manufatti che di materie prime. Paesi chiusi sono tendenzialmente i Paesi di grandi dimensioni. Primo fra tutti gli Stati Uniti, con un grado di apertura pari al 7%. Si tratta infatti di un Paese che dipende limitatamente dal commercio internazionale, vista la varietà di materie prime e di manufatti di cui dispone, favorita anche dalla sua estensione territoriale. Per le medesime ragioni, anche l’Unione Europea si può considerare Paese chiuso, con un grado di apertura che dovrebbe aggirarsi attorno al 10% (il processo d’integrazione europea, inoltre, ha ridotto i volumi del commercio internazionale di circa il 20%, pari a circa 1.500 miliardi di dollari annui di scambi che da internazionali divengono nazionali). Il Canada, che abbiamo detto essere per molti aspetti un’“appendice” degli Stati Uniti, presenta un’apertura agli scambi un po’ superiore al valore riscontrato per gli Stati Uniti. 54 Il basso grado di apertura non è comunque sempre e solo collegato alla dimensione geografica di un Paese. Vi sono infatti altri fattori che possono influenzare la scarsa propensione a scambiare con il resto del mondo. Il Giappone, ad esempio, con un valore pari all’8% è classificato come Paese chiuso (esporta molto, ma importa poco) e questo può a prima vista sorprendere: trattandosi infatti di un’isola, per definizione dovrebbe essere molto dipendente dal commercio internazionale. Di fatto, essendo molto popolato (circa 130 milioni di abitanti) e presentando una diversa struttura di prezzi e costi di produzione (struttura che è figlia di un modus vivendi tipicamente giapponese), si può spiegare perché presenti un valore così basso. Esiste infatti una stretta relazione tra popolazione, produzione e scambi internazionali: tanto più la prima è grande, tanto più alta è la domanda interna la quale assorbe la produzione nazionale e non necessita di importazioni se non in misura limitata (nel caso del Giappone le importazioni saranno essenzialmente di materie prime). A questo si deve inoltre aggiungere l’“avversione” che i giapponesi manifestano normalmente nelle loro scelte di consumo verso i prodotti che non siano di origine nazionale: questo atteggiamento deriva dalla radicata “cultura nazionalistica” che da sempre contraddistingue il popolo giapponese. Altri fattori che ostacolano l’apertura di un Paese agli scambi con l’estero sono ravvisabili nella mancanza di fondi e di finanziamenti (questo avviene tipicamente per i Paesi poveri, fra cui la Somalia, il Sudan, il Ruanda, il Perù, l’Etiopia, per i quali la volontà di scambiare con il resto del mondo rimane tale per mancanza di mezzi finanziari) o anche nella presenza di una religione che cresce i propri adepti instillando loro una cultura fondamentalmente xenofoba. Come già si è avuto modo di accennare nel paragrafo precedente, il grado di apertura della maggior parte dei Paesi industrializzati ha subito una notevole impennata nel secondo dopoguerra (anni Cinquanta e Sessanta). Spostando l’analisi del fenomeno più in là nel tempo, è agevole verificare come l’interdipendenza internazionale sia fenomeno non solo del Ventesimo secolo, ma presente in modo significativo in larga parte delle economie oggi sviluppate a partire dal Diciannovesimo secolo (vedi tabella). Incidenza percentuale dell’interscambio di merci (export + import) sul reddito nazionale, 1800-1971. 55 Secolo XIX Stati Uniti Regno Unito Giappone Francia Germania Italia Danimarca Norvegia Svezia Argentina Australia Canada Inizio Fine 15 20 14 56 Periodo fra le due guerre mondiali Anni Anni Venti Trenta 11 8 42 34 _ 16 28 _ _ _ _ _ _ _ 16 33 35 22 55 44 35 _ 40 28 37 51 34 26 57 43 32 _ 35 36 36 24 20 28 49 36 25 36 _ 26 Secondo dopoguerra 1955 1963 1971 8 44 7 33 9 37 25 24 37 26 60 63 46 30 38 28 20 22 32 28 55 58 41 18 29 34 22 28 38 33 52 59 44 14 26 41 Nota: data la crescente importanza dei servizi sui consumi finali aggregati, una misura corretta dell’interdipendenza nei periodi recenti va espressa in termini di beni e servizi. Per confronti di lungo periodo si è tuttavia generalmente costretti a misurare l’interdipendenza come rapporto fra interscambio di sole merci e flusso di reddito nazionale (che include i servizi), data la carenza di statistiche storiche sugli scambi internazionali di servizi: in tal modo il grado di interdipendenza viene sistematicamente sottovalutato. Schematizzando, anche sulla scorta dei dati riportati nella tabella, si può affermare che: a) già agli inizi del Diciannovesimo secolo, l’incidenza percentuale dell’interscambio di merci (export + import) sul reddito nazionale segnava valori significativi per Paesi come gli Stati Uniti (15%), il Regno Unito (20%), la Francia (16%) e la Germania (28%); b) la riduzione delle tariffe doganali seguita alle guerre napoleoniche alimentò la crescita degli scambi fino al 1870-1880, mentre nel periodo successivo e fino alla seconda guerra mondiale si avvertì il peso di politiche protezionistiche, in particolare durante la difficile transizione fra le due guerre mondiali; c) se è vero che nel lungo periodo l’interdipendenza tende a crescere, il processo si arresta, oltre che nei periodi di conflitto politico-commerciale generalizzato, in quelle particolari fasi di ogni Paese in cui il decollo dell’industrializzazione viene perseguito mediante protezione delle industrie nascenti (ad esempio, Stati Uniti e Australia nel periodo precedente la prima guerra mondiale); 56 d) la crescita dell’interdipendenza produttiva e finanziaria fra Paesi ha registrato tassi eccezionalmente elevati nel secondo dopoguerra, sotto la spinta della progressiva liberalizzazione alle dogane, nonché dell’effetto diffusivo delle imprese multinazionali. La spinta all’interdipendenza non è stata indebolita dalle difficili condizioni dell’economia internazionale venutesi a creare dopo gli shock petroliferi degli anni Settanta. L’effetto della “tassa petrolifera” è stato una forte decelerazione nel tasso di crescita della produzione e della domanda dei Paesi importatori di petrolio e dal 1982 un effetto negativo di rimbalzo sugli stessi Paesi esportatori di petrolio (caduta della domanda e del prezzo reale del petrolio). La crescita nel volume degli scambi di prodotti primari non agricoli degli anni Sessanta si è trasformata in netto calo dopo il 1973, riflettendo il risparmio energetico e il drastico ridimensionamento delle industrie di base consumatrici di prodotti dell’industria estrattiva (a causa dell’eccesso di capacità accumulato all’inizio degli anni Settanta). Ma l’interscambio mondiale di prodotti agricoli è addirittura cresciuto negli anni Settanta, a causa dei cattivi raccolti asiatici che hanno alimentato le esportazioni dei Paesi a vocazione cerealicola (Stati Uniti, Argentina, Australia). La produzione manifatturiera ha decelerato, mostrando i segni evidenti della recessione, e il volume delle esportazioni mondiali di manufatti ha decelerato di conseguenza, ma senza manifestare alcuna riduzione nel rapporto (elasticità) fra i due tassi di crescita. Negli anni Ottanta, nonostante l’indiscutibile riemergere di pressioni neo-protezionistiche e di barriere doganali (tariffarie e non), le esportazioni mondiali manifatturiere hanno continuato a crescere ad un tasso più di una volta e mezza superiore a quello della produzione manifatturiera, con una elasticità superiore a quella di lungo periodo. Gli shock petroliferi, del resto, hanno agito da motore più che da freno degli scambi mondiali. I Paesi petroliferi, dotati di nuovo potere d’acquisto, hanno accresciuto le proprie importazioni di manufatti e di servizi a ritmi superiori ad ogni previsione. D’altra parte, i Paesi colpiti dal maggiore disavanzo petrolifero nella bilancia commerciale hanno cercato nuovi sbocchi per le loro esportazioni e, nel caso di Paesi avanzati, una maggiore complementarità fra importazioni di semilavorati a basso costo ed esportazioni di prodotti finiti. Il risultato di tutto ciò è che l’elasticità 57 rispetto alla produzione industriale dell’import-export di merci a prezzi costanti è sensibilmente cresciuta dopo il 1973, salvo il menzionato abbassa-mento della propensione a importare petrolio e prodotti primari, e che il grado di apertura misurato a prezzi correnti è cresciuto negli anni Settanta a velocità ancora superiore a quella dei due decenni precedenti. In un confronto a cross section di più Paesi emerge la conferma econometrica che il grado di apertura tende ad essere tanto maggiore quanto più piccole sono le dimensioni geografiche, demografiche ed economiche dei Paesi. Infatti, al crescere della dimensione geografica cresce la probabilità che i flussi commerciali tra famiglie e imprese avvengano entro i confini nazionali, secondo l’indicazione dei modelli di attività economica nel territorio. Inoltre, al crescere del reddito pro capite tende a crescere la quota sul PIL dei servizi non traded. Tuttavia, vi sono tendenze di segno esattamente opposto, per cui al crescere del reddito pro capite aumenta la domanda di “varietà di prodotti”, si diversifica la capacità di specializzazione per prodotti, aumenta la mobilità internazionale del capitale e del lavoro. Infatti, un’attenta verifica econometrica delle “leggi dell’interdipendenza” deve accuratamente tenere conto delle differenze strutturali fra Paesi, e stimare tali relazioni entro gruppi (clusters) di Paesi variamente selezionati. Vi è un aspetto importante su cui merita di soffermare l’attenzione per valutare nella giusta prospettiva i problemi del vincolo esterno allo sviluppo dei Paesi attualmente emergenti, in particolare di quelli oggi maggiormente indebitati a seguito delle circostanze eccezionalmente a loro sfavorevoli che si sono verificate a partire dagli anni Ottanta. Rapportato alla dimensione del rispettivo reddito nazionale, il commercio estero rappresenta di regola una percentuale assai più elevata per i Paesi in via di sviluppo nel nostro secolo, di quanto non fosse per i Paesi oggi avanzati nell’epoca immediatamente precedente il proprio decollo. Il rapporto export/PIL si aggira oggi sul 20%, per la media dei Paesi emergenti ed era intorno al 58 15% all’inizio del Ventesimo secolo. Secondo stime di Paul Bairoch30 , tale rapporto era meno del 5% per i Paesi di prima industrializzazione a cavallo fra la fine del Diciottesimo e l’inizio del Diciannovesimo secolo. Diversi sono i motivi che possono spiegare tale differenza di estrema importanza sotto il profilo della storia dello sviluppo: a) l’abbassamento dei costi del trasporto, registrato nel Diciannovesimo secolo e favorito dalle nuove tecnologie di trasporto a vapore per mare e per terra, provocò un rapido abbassamento delle “barriere naturali” agli scambi. Tra il 1820 e il 1910 il costo dei noli in termini reali diminuì di sette volte. Fu tale caduta dei costi di trasporto a stimolare lo scambio internazionale di derrate pesanti, come il grano e altri prodotti alimentari, favorendo il decollo di Paesi a vocazione agricola (Stati Uniti, Canada, Australia, Argentina) e corrispettivamente la specializzazione industriale del Regno Unito prima, e dell’Europa continentale in seguito; b) il minore ruolo della rivoluzione agricola nei Paesi emergenti del nostro secolo e, pertanto, gli assai frequenti problemi di disavanzo alimentare non appena il reddito pro capite e dei consumi iniziano a salire; c) la minor pressione demografica a cui furono soggetti gli attuali Paesi avanzati nella loro fase di decollo e che oggi caratterizza i Paesi emergenti del Ventesimo secolo; d) gli effetti distruttivi del fenomeno della colonizzazione. Se, infatti, i massacri delle popolazioni indigene compiuti dai conquistadores ed il traffico degli schiavi furono un tragico antidoto alla sovrappopolazione di molte colonie, il 30 Nato nel 1930 ad Antwerpen (Belgio), Paul Bairoch è attualmente cittadino svizzero. Dopo avere svolto ricerche all’École pratique des hautes études di Parigi e al Budget and Research Department dell’American Joint Distribution Committee di Ginevra, è stato ricercatore – dal 1959 al 1966 – all’Istituto di Sociologia dell’Université libre di Bruxelles, e dal 1966 è professore associato presso la stessa università. Dal 1967 al 1969 è stato consigliere economico al GATT, a Ginevra. Dal l969 al l971 ha insegnato al Dipartimento di Economia dell’Università Sir George Williams di Montreal. Nel 1972 è diventato professore al Dipartimento di Storia Economica dell’Università di Ginevra, che ha diretto in due occasioni dal 1976 al 1983 e dal 1989 al 1991. Dal l995 è professore emerito. Dal 1991 dirige il Centre d’histoire économique internationale di Ginevra. 59 decollo economico di queste aree fu gravemente ritardato dagli effetti distruttivi che la colonizzazione generalmente produsse sul loro tessuto agricolo e artigianale. Il potenziamento delle piantagioni di cotone e di prodotti tropicali non producibili nelle zone temperate (zucchero, caffè, spezie) nonché delle attività estrattive (metalli preziosi) causò in molte aree il declino dell’artigianato locale, senza stimolare miglioramenti di produttività nei comparti agro-alimentari. Le conseguenze di questo “modello di sviluppo” sono ancora avvertibili nel nostro secolo (il Ventesimo). Fra i (pochi) segni positivi lasciati dai regimi coloniali vi sono certamente le infrastrutture di trasporto, funzionali al movimento delle merci e degli stessi coloni; e) la differenza di costo degli investimenti fra l’antica e la nuova industrializzazione. Le moderne tecnologie, per quanto adatte alle esigenze dei Paesi riceventi, richiedono unità produttive incomparabilmente più elevate, rispetto al basso livello di produttività e di reddito del settore agricolo e artigiano, che non le tecnologie della prima rivoluzione industriale; f) il basso costo dell’investimento, all’epoca della prima rivoluzione industriale, dipendeva principalmente dalla semplicità tecnica delle macchine di allora. Questa, a sua volta, rendeva relativamente facile l’imitazione e comportava costi ridotti per l’istruzione della manodopera. La rapida diffusione del progresso tecnico comporta sia una minore dipendenza dalle importazioni, sia una maggiore specializzazione produttiva basata su costi del lavoro e della materia prima, che in ultima analisi conduce a maggiori esportazioni e importazioni; g) Le maggiori complicazioni di carattere economico ed istituzionale a cui vanno in contro gli attuali Paesi emergenti rispetto a due secoli fa. A titolo di esempio si pensi agli elevati fabbisogni di importazione legati all’emergere di modelli di consumo “occidentali” nella misura in cui il decollo industriale si accompagna a crescita delle aree urbane, la rigidità di alcune strutture sociali (come le caste indiane), l’esodo di cervelli e capitale umano attratto da impieghi all’estero, gli ostacoli nascenti dall’ipertrofia di molti apparati della pubblica amministrazione ed, infine, la legislazione (fortunatamente!) meno 60 permissiva femminile verso lo sfruttamento del lavoro minorile e . Proseguendo nell’individuazione dei parametri fondamentali dell’economia mondiale dal rapporto testé analizzato, che esprime il grado di apertura, se ne ricava poi un altro particolarmente utile: 3 interscambio nazionale rispetto a quello mondiale = X+M 2 commercio internazionale mondiale E’ interessante notare che il motivo per cui al numeratore troviamo la media aritmetica fra esportazioni ed importazioni e non la loro semplice somma algebrica, risiede nel fatto che è facile rintracciare le importazioni (uscite) ma non le esportazioni (entrate), anche a causa delle fughe clandestine di capitali che si annidano in quest’ultima voce. Infatti, a livello mondiale, teoricamente, le esportazioni eguagliano le importazioni (X = M) ma, di fatto, a causa delle menzionate fuoriuscite di capitale e dei diversi criteri di imputazione delle due voci in uso nei vari Paesi si verifica che, in termini di valore, i due ammontari siano divergenti (X ≠ M). 4 grado di copertura delle importazioni con le esportazioni: X ____ M 61 Tale parametro indica, quando è uguale all’unità, la capacità di un Paese di finanziare le sue importazioni con le esportazioni. Quando invece tale valore è inferiore all’unità, si può dire che il finanziamento delle importazioni deve essere assicurato con altre forme e, quindi, si sta manifestando uno squilibrio nella competitività del Paese. 5 ragioni di scambio o terms of trade: rappresenta l’ultimo parametro della serie indicata nel titolo del presente paragrafo, ed è dato dal rapporto fra le variazioni dei prezzi medi all’esportazione (PX) e le variazioni dei prezzi medi all’importazione (PM): ∆PX PX __________________ ∆PM PM Un altro modo per definire le ragioni di scambio è quello di riferirsi alla differenza fra il valore medio unitario delle esportazioni e quello delle importazioni. Le ragioni di scambio di un Paese migliorano se i prezzi delle esportazioni aumentano più dei prezzi delle importazioni, e peggiorano se i prezzi delle esportazioni aumentano meno dei prezzi delle importazioni. L’altra faccia del miglioramento delle ragioni di scambio è evidentemente la perdita di competitività. Prescindendo da quest’ultima, se un Paese con un certo volume di importazioni e esportazioni si trova ad avere in un anno dei prezzi all’esportazione che crescono un po’ più rapidamente di quelli all’importazione, si troverà nella condizione di poter importare più beni a parità di beni esportati e conseguentemente si avvarrà di maggiori merci e servizi; il contrario avverrà nel caso in cui fossero i prezzi all’importazione a crescere più rapidamente di quelli all’esportazione. Perciò, quando un Paese migliora le proprie ragioni di scambio e, nonostante ciò, riesce a fare in modo che tale miglioramento non influenzi negativamente le esportazioni, lo stesso ne trarrà ampi benefici in termini di aumento di ricchezza. Si può anche dire che un Paese che migliora sistematicamente le proprie ragioni di scambio è un Paese in cui il commercio internazionale ha un effetto positivo; viceversa, un Paese che 62 peggiora sistematicamente le proprie ragioni di scambio, è un Paese in cui il commercio internazionale ha un effetto negativo. I Paesi che puntano sulla svalutazione della propria moneta per guadagnare in competitività vedono, per contro, peggiorare le proprie ragioni di scambio. Alla lunga, questa situazione finisce per essere meno pagante di quella della moneta forte: si è potuto constatare, infatti, che i Paesi creditori (quelli con esportazioni > delle importazioni) sono stati quelli che sono riusciti a restare competitivi pur in presenza di un cambio forte, mentre i Paesi debitori hanno avuto la tendenza a non diventare competitivi nemmeno in presenza di un cambio debole ed hanno visto peggiorare le loro ragioni di scambio e quindi si sono impoveriti. L’Italia, dal canto suo, negli ultimi vent’anni (a parte la parentesi ’92-’96) ha avuto tendenzialmente ragioni di scambio discrete nonostante non abbia avuto una moneta forte: questo grazie al fatto che, da un lato, i prezzi delle materie prime, dei prodotti agricoli e del petrolio (che costituiscono la maggior parte delle sue importazioni) non hanno subito aumenti considerevoli e, dall’altro, il dollaro non si è apprezzato di molto (questa è infatti la moneta che viene utilizzata per regolare la maggior parte delle transazioni internazionali di merci). Gli anni dal ’92 al ’96, invece, lira sono stati anni “poveri” per l’Italia: in questo periodo la uscì dal Sistema Monetario Europeo31 31 Il Sistema monetario europeo era un progetto stabilito nel 1979 in cui la maggior parte delle nazioni della Comunità economica europea vincolavano le loro monete onde prevenire troppo ampie fluttuazioni reciproche. Dopo il collasso del Sistema di Bretton Woods nel 1971, i Paesi della CEE si accordarono nel 1972 per mantenere stabili i tassi di cambio attraverso operazioni, dando vita al cosiddetto «Serpente Monetario». Nel marzo del 1979, questo sistema fu rimpiazzato dal Sistema Monetario Europeo. L’elemento centrale era l'ECU o Unità di conto europea: un paniere di monete, che fluttuavano entro il 2.25% (6% per la lira, a causa dell'elevato tasso di inflazione) attorno alla parità nei tassi di cambio bilaterali con altri paesi membri. Il Sistema Monetario Europeo non fu sempre funzionale finché nel maggio del 1998 i paesi membri fissarono irrevocabilmente e definitivamente i loro tassi di cambio reciproci (prendendo come riferimento la griglia di parità centrali negoziate all’Ecofin del novembre 1996) in vista della partecipazione all'Euro. Il suo successore comunque, lo SME 2, veniva inaugurato nel 1999. In esso il paniere ECU è stato abbandonato e la nuova moneta unica, l'Euro, è diventata un'ancora per le altre monete che partecipavano allo SME 2. 63 (SME o Exchange Rate Mechanism, ERM)) e si svalutò notevolmente, peggiorando di molto le ragioni di scambio. La lira rientrò nello SME nel novembre 1996 dopo una serrata negoziazione con la Germania guidata dal Governatore della Bundesbank Tietmeyer. Grazia alla credibilità e all’incredibile abilità di Carlo Azeglio Ciampi, l’Italia rientrò con una parità – 990 lire contro 1 marco - non eccessivamente penalizzante per l’export italiano (sopra l’articolo del Financial Times del 26.11.1996, dove si elogia l’allora Ministro del Tesoro Ciampi tra l’altro venne riportata l’affermazione di un diplomatico presente all’Ecofin: “Ciampi gave the performance of his life”). Dall’1° gennaio 1999 – data di introduzione della moneta unica - l’euro ha mosso i primi passi come moneta strutturalmente forte che può attraversare periodi di debolezza – il giorno dell’introduzione dell’euro, il cambio contro dollaro era intorno a 1,16, nel gennaio 2011 quota intorno a 1,30. Una moneta forte migliora per sua natura le ragioni di scambio. 64 Per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, è assai controverso il ruolo delle ragioni di scambio come vincolo al loro sviluppo nell’ultimo secolo. Sotto il profilo strettamente statistico, vi sono calcoli che giungono a risultati assai diversi, talora opposti, unicamente per la diversa scelta dei particolari indici di prezzo e dei periodi di riferimento. I Paesi in via di sviluppo esportano soprattutto prodotti primari (75-80% del loro export) ed importano soprattutto manufatti (70% del loro import), per cui l’andamento delle loro ragioni di scambio è strettamente legato all’andamento dei prezzi relativi “materie prime/manufatti”. Complessivamente, i prezzi relativi “manufatti/materie prime” mostrano un tendenziale declino almeno fino alla seconda guerra mondiale. Tale tendenza si accompagna specularmente ad una progressiva incidenza dei manufatti sulla produzione e sulle esportazioni mondiali. L’unico periodo in cui le ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo appaiono progressivamente cadute va dagli inizi degli anni Cinquanta (ciclo coreano) alla fine degli anni Sessanta. Durante gli anni Settanta il doppio shock petrolifero, l’impennata dei prezzi delle materie prime non energetiche nel 1972-1973 e l’accentuata sensibilità del ciclo delle scorte nei Paesi industrializzati hanno complessivamente causato un aumento di intensità senza precedenti nei prezzi relativi dei prodotti primari, anche se già a partire dal 1978 le ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo non esportatori di petrolio hanno iniziato una flessione prolungatasi fino agli anni Novanta. Nell’insieme, dunque, la tesi del deterioramento secolare delle ragioni di scambio dei Paesi in via di sviluppo appare abbastanza infondata. Del resto, molte delle argomentazioni addotte a supporto della tesi stessa, pur valide in teoria (bassa elasticità-reddito della domanda mondiale di materie prime, sostituzione di prodotti naturali con manufatti sintetici, minor potere di mercato dei Paesi in via di sviluppo rispetto ai Paesi industriali, sostegno politico dei prezzi agricoli dei Paesi industriali accoppiato con misure restrittive nei confronti delle esportazioni dei Paesi in via di sviluppo), tendono a dimenticare le tendenze di lungo periodo. Molti di questi fenomeni richiamati dalla teoria esistono già dagli inizi della rivoluzione industriale. Prodotti agricoli privi di diretti sostituti (come caffè, tè, cacao) hanno registrato flessioni di prezzo simili o anche maggiori rispetto ai prodotti primari soggetti alla concorrenza dei manufatti sintetici. D’altra parte la produttività agricola 65 è cresciuta assai più nei Paesi industriali che nei Paesi in via di sviluppo, per note cause strutturali, e gli eccezionali incrementi nella produttività dell’industria manifatturiera non sono andati tutti a vantaggio dei profitti, della rendita e dei salari dei Paesi industriali, data la concorrenza che si è venuta a creare fra i principali esportatori. Uno dei fenomeni dominanti le tendenze di lungo periodo degli scambi internazionali è il crescente peso dei manufatti. Il fenomeno assume una rapidità impressionante nel secondo dopoguerra e trova ben note spiegazioni: 1 il veloce ritmo del progresso tecnologico e la sua diffusione orizzontale fra settori diversi, 2 il ricorrente circolo Kaldor virtuoso produzione-produttività (legge di -Verdoorn), generato dai continui spostamenti nella composizione dell’offerta verso settori a più elevata crescita potenziale della produttività, 3 l’abbattimento degli ostacoli doganali fra i Paesi, 4 l’elevata elasticità-reddito della domanda. Il crescente peso delle esportazioni manifatturiere esprime la quota crescente del prodotto lordo manifatturiero sul PIL dei vari Paesi, fenomeno ben noto nei patterns of growth, almeno fino ad elevati livelli di reddito pro-capite oltre i quali cresce solo la quota delle attività terziarie. La quota manifatturiera sul totale delle importazioni non appare invece significativamente sensibile alla variazione della composizione del PIL poiché, almeno nelle fasi di decollo economico, i Paesi tendono a sostituire con produzioni nazionali parte delle importazioni manifatturiere. Il crescente peso dei manufatti negli scambi mondiali del recente dopoguerra, almeno fino allo shock dei prezzi del petrolio nel 1973-1974, trova corrispondenza nella tendenza alla polarizzazione degli scambi mondiali attorno ai Paesi industriali. 66 Mentre nella prima metà del Ventesimo secolo il peso dei Paesi in via di sviluppo sulle esportazioni mondiali si era pressoché raddoppiato, nel ventennio precedente il 1973 la tendenza si è invertita. Gli scambi intra-area dei Paesi in via di sviluppo sono calati a meno di un quinto degli scambi mondiali, mentre gli scambi intra-area dei Paesi industriali sono saliti al 50%. I Paesi in via di sviluppo rappresentano, agli inizi degli anni Settanta, circa un quinto delle esportazioni dei Paesi industriali (l’incidenza è ovviamente più alta per le esportazioni degli Stati Uniti e del Giappone che per quella delle esportazioni europee, data l’elevata integrazione intra-europea), ma meno del 2% del loro PIL. Per contro, più di due terzi dell’interscambio dei Paesi in via di sviluppo avviene con i Paesi industriali. Gli shock petroliferi e la conseguente ridistribuzione della domanda mondiale hanno capovolto per un certo tempo la tendenza, provocando nel 1973-1982 un accresciuto peso degli scambi Nord-Sud e Sud-Sud. Tuttavia il commercio internazionale, di manufatti in particolare, resta dominato dai Paesi industriali come motore dell’economia mondiale. Negli ultimi anni, il commercio internazionale è divenuto invece sempre meno un interscambio Nord-Sud e sempre più un interscambio tra Paesi aventi un simile grado di sviluppo economico (Nord-Nord). Il peso dei prodotti agricoli nel commercio internazionale è sceso nettamente (dal 45% al 14%) e lo stesso dicasi, pure fra alti e bassi di prezzo, del peso delle materie prime e dei prodotti energetici. Il commercio internazionale da inter-settoriale è diventato prevalentemente intra-settoriale. Anche nel campo dei servizi, la rivoluzione dell’informazione sta modificando le cose, sia a livello interno, che a livello del commercio internazionale. I servizi oggetto di interscambio a livello mondiale si sono evoluti: da quelli del turismo, dei noli, dei trasporti in genere si è passati a quelli assicurativi, finanziari, bancari, servizi informatici e telematici, di ingegneria, di assistenza tecnica, di management che contengono in modo intensivo informazioni e competenze sofisticate. Poiché è inevitabile che la quota dei servizi nell’interscambio mondiale cresca sensibilmente, quale effetto della maggiore importanza che i servizi rivestono nell’economia delle nazioni più avanzate, è certo che i Paesi che godono di un 67 vantaggio competitivo nella produzione e nella vendita di questi servizi avanzati, si affermeranno a livello internazionale a scapito di quei Paesi (fra cui l’Italia) che in tali settori hanno invece accumulato un grande ritardo. Da quanto si è detto nel presente paragrafo, si può concludere che il commercio internazionale è di fatto uno straordinario strumento di sviluppo economico poiché si inserisce nella crescita del PIL con il ruolo di fattore trainante (dal momento che cresce a tassi doppi rispetto a quelli del PIL stesso), oltre che agire da diffusore delle tecnologie, delle innovazioni, dei modelli di consumi e di omogeneizzazione delle diverse culture. Per questi motivi, e visto che fra i nostri giudizi di valore abbiamo la preferenza per lo sviluppo economico rispetto al sottosviluppo, esso è sicuramente un valore da preservare e da potenziare sempre più, nonostante alcune riserve che verranno presentate più avanti. 3. I caratteri della prima e della seconda rivoluzione industriale e i vantaggi competitivi nel commercio internazionale connessi a quest’ultima. 3.1 La prima e la seconda rivoluzione industriale. Il contesto economico internazionale, nella parte finale del xx secolo, è stato caratterizzato dal passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale. La prima rivoluzione industriale, originatasi in Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII, aveva come elemento caratteristico l’importanza dell’acciaio, del cemento, della chimica di base, della trasformazione di grandi quantità di materie prime e dell’impiego di fonti energetiche “sporche”. Era una industrializzazione pesante e realizzata attraverso processi produttivi rigidi. Inoltre, in merito ad altre sue particolarità, si può dire che: • la sua matrice è sempre stata l’Occidente industrializzato così come il suo centro è sempre stato la cultura anglosassone; 68 • il suo modello di commercio internazionale, teorizzato dagli economisti classici (D. Ricardo Samuelson ) e neoclassici (E. Heckscher, B. Ohlin, P. ), è stato quello dello scambio fra Paesi produttori di manufatti e Paesi produttori di materie prime in condizioni di concorrenza perfetta, assenza di economie di scala, pieno impiego; • i vantaggi competitivi sono stati generati, da un lato, dalla disponibilità di materie prime e di lavoro a basso costo e, dall’altro, dalla disponibilità di manodopera specializzata e di capitali. Per quanto riguarda il finanziamento degli investimenti nella prima rivolu- zione industriale, l’Europa continentale seguì una strada assai diversa (per necessità, più che per scelta) rispetto a quella seguita dal mondo anglosassone. Quest’ultimo poté contare sulle grosse capacità di autofinanziamento delle sue imprese. Le imprese anglosassoni, infatti, ebbero l’opportunità di instaurare di fatto grandi monopoli a livello mondiale soprattutto grazie al considerevole vantaggio temporale di cui le stesse poterono godere per molti decenni su tutti i potenziali concorrenti del resto del mondo. Le imprese dell’Europa continentale entrarono sul mercato con notevole ritardo rispetto a quelle anglosassoni (dando loro tutto il tempo per consolidare la propria forza sui mercati) per cui si trovarono costrette, visti i ridotti margini d’autofinanziamento, ad attingere ad altre fonti di finanziamento. In particolare, i finanziamenti maggiori alle imprese continentali furono assicurati dal risparmio delle famiglie intermediato dalla c.d. banca universale (modello di sistema bancario tipico dei Paesi europei continentali, in cui la banca svolge sia la funzione di banca di deposito che di banca di investimento); ad essi si aggiunsero spesso 69 anche finanziamenti dallo Stato nei quali lo stesso ravvisava l’interesse pubblico alla creazione di nuova occupazione. Inoltre, l’Europa continentale, pur professando nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento l’adesione a teorie liberoscambiste, cercò spesso di favorire le proprie imprese attraverso un accentuato protezionismo doganale, agendo talora sul versante prezzi (dazi doganali) talaltra sulle quantità (contingenti, quote) con il medesimo fine di limitare le importazioni. A questa prima rivoluzione industriale è succeduta negli ultimi decenni una seconda rivoluzione, che viene normalmente denominata “rivoluzione dell’informazione”, nella quale ciò che conta è produrre, gestire, diffondere l’informazione, mentre il supporto reale diventa sempre più sottile e flessibile cioè capace di processi produttivi senza inerzia. In questa seconda rivoluzione industriale conta meno il bene del servizio con le sue mille possibili applicazioni, e il bene conta soprattutto per la quantità di informazioni che esso contiene. Mentre nella prima rivoluzione industriale si poteva anche concepire la superiorità di un sistema economico a decisioni accentrate (tipicamente quello dei Paesi dell’ex blocco sovietico) rispetto ad uno a decisioni decentrate, perché si trattava di primeggiare nella produzione di tonnellate di acciaio, di cemento, di prodotti chimici, di milioni di automobili e di elettrodomestici, ecc., nella seconda rivoluzione l’economia di mercato non ha rivali poiché capace di organizzare l’attività econo-mica adattandola incessantemente all’informazione. La domanda si diversifica: non è più importante l’automobile, intesa come semplice mezzo di trasporto («di quale colore non importa, purché sia nera », diceva Henry Ford ), quanto la quantità di informazioni in materia di sicurezza, eleganza, maneggevolezza in ogni condizione di strada, adattabilità alle manutenzioni, ecc., che essa contiene. Nella seconda rivoluzione industriale contano sempre meno la materia prima, il capitale, la tecnologia, in quanto sono ormai risorse abbondanti e reperibili ovunque. Contano, invece, di più le competenze acquisite dalla classe dirigente e 70 dalla classe lavoratrice e la capacità di farle rendere in termini economici (ricavi/costi), principale compito dei managers. Se è vero che la figura dell’imprenditore individuale o istituzionale (quello delle public companies32) non è molto cambiata nella prima e nella seconda rivoluzione industriale - imprenditore è colui che basandosi sul proprio patrimonio, o anche a debito, produce ricchezza - si è modificato profondamente, sia il rapporto tra imprenditore e manager, sia il contenuto dell’attività del manager. Questa seconda rivoluzione industriale, inoltre, non è appannaggio dell’Occidente e del mondo anglosassone, ma dei Paesi che sanno primeggiare nei settori avanzati nei quali maggiore è il contenuto di informazione: microelettronica, biotecnologie, nuovi materiali, aviazione civile, telecomunicazioni, robotica e macchine utensili, informatica. Si tratta di settori industriali nei quali ciò che conta è la ricerca e l’applicazione della ricerca. I Paesi capaci di sviluppare all’interno e attirare dall’esterno questo brainpower godono di un vantaggio competitivo rispetto agli altri Paesi che li fa primeggiare nella concorrenza internazionale. Va precisato comunque che la seconda rivoluzione industriale non è sorta sulle “ceneri” della prima, ma anzi su questa si è “incastrata”: gli effetti della prima rivoluzione industriale sono infatti ancora oggi presenti in molti Paesi e in molti settori dell’economia, per cui la stessa non può certamente dirsi conclusa. Vi sono tuttavia Paesi (in particolare i Paesi arabi) che non hanno partecipato alla prima rivoluzione industriale e nemmeno sembrano propensi a far parte della seconda e Paesi (i c.d. NIC dell’Estremo Oriente) che, invece, sono fra i principali attori della seconda rivoluzione industriale pur non avendo partecipato alla prima. Per prendere parte alla seconda rivoluzione non è infatti indispensabile essere passati attraverso la prima; anzi molte volte l’aver partecipato alla prima è risultato essere più un handicap che un vantaggio in quanto le vecchie strutture produttive non 32 Public company è un termine inglese che si utilizza per indicare le aziende che consentono la vendita al pubblico dei loro titoli mobiliari (azioni, obbligazioni, ecc). Di solito ciò avviene attraverso una borsa valori, oppure attraverso l'Over The Counter (OTC). Nonostante l'aggettivo "pubblico" la public company è società di diritto privato e di proprietà privata: per indicare una società pubblica (di proprietà dello Stato o di un altro ente statale) in inglese non viene utilizzato il termine public company ma government-owned corporation. In Italia, a volte, il termine public company viene utilizzato per designare la società ad azionariato diffuso. Fonte: Wikipedia 71 più redditizie, e quindi da smantellare, hanno spesso impiegato - e, in alcune realtà, ancora oggi impiegano - importanti risorse che invece potrebbero essere utilmente indirizzate verso gli investimenti nei nuovi settori produttivi. I NIC sono appunto l’esempio evidente di Paesi che hanno iniziato il loro cammino di sviluppo economico direttamente con la seconda rivoluzione industriale, con il conseguente e non indifferente - vantaggio di non doversi liberare dagli ingombranti “ceppi” (materiali e culturali) della prima rivoluzione, sempre molto difficili da sradicare. Con la nuova industrializzazione, inoltre, sono state introdotte nuove forme di protezionismo certamente meno evidenti rispetto a quelle utilizzate in passato, ma molto spesso più efficaci. Il protezionismo doganale “vecchio stile”, come si è detto più sopra per l’Europa continentale, veniva attuato attraverso strumenti di facile evidenza, quali dazi sui prezzi e/o contingenti sulle quantità importate. Oggi, nonostante la generalità dei Paesi abbia abbracciato il liberoscambismo, il protezionismo esiste ancora ed è messo in pratica attraverso le c.d. “barriere non tariffarie” (c.d. managed trade), che assumono la forma, ad esempio, di particolari certificazioni sul prodotto o di specifiche richieste di omologazione o collaudo eseguiti da determinati istituti nazionali preposti a questo scopo, ovvero di limitazioni all’accesso a gare di appalto per la realizzazione di lavori pubblici, e così via. Nel sottoparagrafo che segue vengono analizzati un po’ più in dettaglio i vantaggi competitivi connessi alla seconda rivoluzione industriale che già sono stati a grandi linee identificati precedentemente. 3.2 I nuovi vantaggi competitivi Il contesto economico internazionale è caratterizzato dall’emergere di una triade di potenze economiche che si battono per la supremazia nell’economia mondiale (Stati Uniti o NAFTA33, Unione Europea e Cina). A decidere il risultato di 33 Il North American Free Trade Agreement (Accordo nordamericano per il libero scambio), conosciuto anche con l'acronimo NAFTA e, nei paesi di lingua spagnola, come TLCAN (Tratado de Libre Comercio de América del Norte o più semplicemente TLC), è un trattato di libero scambio commerciale stipulato tra Stati Uniti, Canada e Messico e modellato sul già esistente accordo di libero 72 questa competizione, come in parte si è già detto più sopra, non saranno più i vantaggi competitivi del passato come le risorse naturali, la disponibilità di capitale e la tecnologia. Le risorse naturali per unità di PIL sono, infatti, sempre meno usate: l’America usa meno acciaio adesso di quanto ne abbia usato nel 1960, allorché il PIL era pari al 40% rispetto ad oggi ed è probabile che con la rivoluzione prodotta dalla scienza dei materiali ci si debba attendere ulteriori riduzioni nell’uso delle materie prime per unità di PIL. Anzi, nel secolo Ventunesimo la mancanza di risorse naturali per ogni Paese potrebbe essere un vantaggio perché si potranno acquistare altrove nella qualità migliore ed al prezzo più competitivo. Anche la disponibilità di capitale non sarà più un vantaggio decisivo. Mentre fino a poco tempo fa tale abbondanza significava anche un maggior capitale investito per lavoratore e ciò comportava una più alta produttività e più alti salari, oggi la disponibilità di capitale all’interno del Paese, pur importante, non costituisce più un netto vantaggio competitivo per due motivi: 1. il mercato dei capitali è diventato globale con la progressiva scomparsa delle barriere nazionali che segmentavano lo stesso mercato dei capitali. Le principali cause di questa globalizzazione sono tre: o la liberalizzazione, o deregulation, ossia la riduzione della presenza dello Stato nella vita economica, specie nella finanza e nei rapporti con l’estero; o l’evoluzione tecnologica che consente di trasferire rapidamente capitali da una parte all’altra del globo e rende possibile la diffusione delle informazioni finanziarie a livello mondiale; commercio tra Canada e Stati Uniti (FTA), a sua volta ispirato al modello dell'Unione Europea. L'Accordo venne firmato dai Capi di Stato dei tre paesi (il Presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, il Presidente Messicano Carlos Salinas de Gortari e il Primo Ministro Canadese Brian Mulroney) il 17 dicembre 1992 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1994. Il giorno stesso della firma, simbolicamente iniziava nello stato messicano del Chiapas la rivolta zapatista da parte delle popolazioni indigene che vedevano nell'accordo (anche sulla base di precedenti esperienze simili) un ulteriore mezzo volto a trasferire la ricchezza dalle zone povere del Messico verso il Canada e, soprattutto, verso gli Stati Uniti. L’aspetto che maggiormente caratterizza il NAFTA è sicuramente legato alla progressiva eliminazione di tutte le barriere tariffarie fra i paesi che aderiscono all’accordo. Fonte: Wikipedia 73 o le innovazioni finanziarie che hanno consentito lo sviluppo di prodotti finanziari sempre meno adatti ad essere negoziati a livello nazionale e sempre più adatti ad essere utilizzati su scala internazionale; 2. la disponibilità di capitale non è più così importante come in passato, perché le società multinazionali sono in grado nel loro interno di costruire strutture produttive avanzatissime anche in Paesi con bassa intensità di capitale. I miglioramenti nelle telecomunicazioni, la diffusione dei computer, dei trasporti aerei, hanno provocato una rivoluzione nella logistica che rende possibile rifornirsi da qualunque Paese e anche conveniente farlo. Le fabbriche dove si produce elettronica di consumo in Corea non sono molto diverse da quelle esistenti in Giappone nonostante il fatto che il Giappone abbia sei volte il PIL pro-capite della Corea. L’unica eccezione riguarda quei Paesi che sono altamente indebitati e che l’elevato rischio Paese esclude dai circuiti del mercato dei capitali. Vi è poi da considerare che il mercato dei capitali è globale quasi solo per le grandi società, mentre le piccole e medie imprese sono ancora soggette, di fatto, alle limitazioni del mercato del credito nazionale. Comunque sia, può dirsi che le differenze nell’accesso al capitale fra Paesi ricchi in capitale e altri Paesi si sono sensibilmente ridotte. Anche la tecnologia costituisce un vantaggio competitivo meno determinante che in passato, quando ogni attività produttiva aveva la sua localizzazione naturale. Il cotone era coltivato nel Sud degli Stati Uniti perché il clima, il terreno e l’abbondanza della forza lavoro rendeva questa attività produttiva meglio localizzata in quella regione, mentre veniva filato nel New England perché vi erano i capitali e le risorse energetiche sufficienti. I sette settori industriali del futuro (microelettronica, biotecnologia, industria dei nuovi materiali, aviazione civile, telecomunicazioni, robotica e macchine utensili, computers e software) non hanno una localizzazione naturale. Non è più tanto importante la tecnologia in se stessa, quanto la capacità di organizzare le risorse di capitali e di lavoro per produrre tecnologia. Ricerca e sviluppo sono importantissimi soprattut-to se applicati non ai nuovi prodotti, ma ai processi tecnologici per giungere 74 ai pro-dotti (i giapponesi hanno dimostrato l’importanza di essere non inventori, ma miglio-ratori). La cosa più importante non è inventare la tecnologia, ma essere i più compe-titivi nella tecnologia inventata. Ciò è dimostrato dal fatto che la paga degli ingegneri produttori, che un tempo era la più alta, è oggi decaduta di importanza rispetto a quella di esperti di altri settori. Dei direttori generali delle prime 500 società del mondo circa il 35% viene dal marketing, il 25% dalla finanza, il 25% dall’organizza-zione e solo il 5% dalla produzione. Il vantaggio competitivo decisivo su cui si baseranno i risultati di questa competizione fra le tre potenze della triade sta quindi nelle competenze (skills) per impadronirsi della tecnologia di processo dei managers, delle maestranze e della classe lavoratrice. Non bastano cioè la ricerca e la tecnologia, occorre anche il lavoro specializzato capace di impiegarla ai più bassi costi possibili per trasformarla in produzione di classe mondiale. Ecco il vero vantaggio competitivo. Le aziende devono trovare una classe lavoratrice capace di impiegare nuove tecnologie CADCAM (Computer Aided Design - Computer Aided Manufacturing), adottare controlli di qualità in base a metodologie statistiche, gestire magazzini di scorte secondo il principio del just-in-time (che si basa sulla minimizzazione del magazzino in ogni stadio del processo di produzione in quanto le eccedenze di magazzino vengono considerate capitale non utilizzato), far funzionare sistemi di produzione flessibili e fornire efficienti servizi di manutenzione. Il lavoratore medio deve disporre di un livello di istruzione ben più alto che in passato. In un’economia globale, dove i beni possono essere prodotti anche nei Paesi poveri, l’offerta di lavoro si è espansa enormemente ed il lavoratore, dovunque egli si trovi, può offrire solo due cose: o le competenze giuste, o la sua disponibilità a lavorare per un salario così basso da fare la concorrenza ai lavoratori dei Paesi poveri. Diversamente, i posti di lavoro che non richiedono competenze emigrano verso i Paesi poveri. Ecco come nasce la disoccupazione che affligge in maniera drammatica soprattutto quei Paesi che non si stanno adeguando alle nuove richieste del mercato o che comunque lo stanno facendo molto lentamente e fra mille renitenze. 75 Prima ancora delle risorse naturali, dei capitali e della tecnologia, un Paese che voglia essere competitivo a livello globale deve, dunque, prevedere elevati investimenti in un’appropriata qualificazione della propria forza lavoro. Inoltre, mentre i primi tre fattori (materie prime, capitali, tecnologie) si possono spostare rapidamente per il mondo senza particolari problemi, le persone in genere acconsentono a trasferirsi in altri Paesi con maggiore resistenza e comunque a un prezzo elevato: per questo la formazione del personale è d’importanza fondamentale sia per la singola azienda che per l’intero Paese. La tabella alla pagina successiva, infine, riassume schematicamente (attraverso sezioni contrapposte) le caratteristiche principali delle due rivoluzioni industriali che abbiamo descritto nel presente paragrafo. 76 Principali caratteristiche della prima e della seconda rivoluzione industriale Prima rivoluzione industriale • Nasce in Inghilterra verso la metà del 1700 (si diffonde nell’Europa continentale verso il 1850 e verso il 1900 in Italia) • Egemonia occidentale a matrice anglosassone, a scapito del mondo orientale e turco-musulmano • E’ una rivoluzione “pesante” (produzione di grandi quantità di acciaio, cemento, prodotti della chimica di base, materie prime in generale) • E’ rigida nei processi produttivi Seconda rivoluzione industriale • Inizia attorno alla metà del 1900 e in pochi decenni si diffonde in molti Paesi • Competizione fra tre macro-aree (c.d. “Triade”): Stati Uniti (+ Canada), Unione Europea, Giappone (+ NIC) • E’ una rivoluzione “leggera” (produzione, ricerca, gestione, diffusione delle informazioni) • E’ molto flessibile nei processi produttivi • Lenta • Veloce • Imprecisa e “sporca” (impiego di grandi • Precisa e “pulita” (non necessita di quantità di fonti energetiche altamente molta energia per funzionare e non inquinanti e produzione di molti materiali produce “scarti” inquinanti da smaltire, di scarto nocivi per l’ambiente) per cui è rispettosa della causa ecologica sollevata negli ultimi decenni) • Settori produttivi: − Settori industriali • Principali settori produttivi: tradizionali (chimica, meccanica, − Microelettronica; − Biotecnologie; metallurgia, cemento, tessile, − Nuovi materiali; − Aviazione civile; automobilistico, farmaceutico, ecc.); − Telecomunicazioni; − Robotica e − servizi tradizionali (trasporti, turismo, macchine utensili; − Informatica ecc.). (hardware e software). • Modello di commercio internazionale: • Modello di commercio internazionale: scambio intersettoriale (materie prime scambio intrasettoriale (manufatti contro contro manufatti, che presuppone manufatti, che presuppone tipicamente un tipicamente un interscambio Nord-Sud). interscambio fra Paesi simili, NordE’ perciò un modello improntato alla Nord). E’ perciò un modello improntato “specializzazione”. alla “despecializzazione”. • Principali teorie che ispirano i modelli • Nuove teorie che ispirano i modelli di di commercio internazionale: − teoria commercio internazionale: − teoria classica (Ricardo); − teoria neoclassica dell’innovazione; − teoria del ciclo di vita (Heckscher, Ohlin, Samuelson). del prodotto; − teoria delle multinazionali. 4. Cenni sulle teorie del commercio internazionale Ha scritto una famosa economista che non vi è branca dell’economia in cui il distacco fra dottrina ortodossa e realtà sia più ampio che nella teoria del commercio internazionale. Nel tentativo di spiegare il perché di tale dicotomia, essa ha rilevato che la menzionata teoria è ancora oggi svolta in termini di confronti fra posizioni di 77 equilibrio nelle quali le risorse di capitale e di lavoro sono predeterminate e sempre completamente utilizzate. Se non si considerano, per mancanza di spazio, gli apporti dei filosofi antichi o le riflessioni degli studiosi cosiddetti mercantilisti34 o dei fisiocratici35, occorre riconoscere che il primo a formulare una teoria generale del commercio internazionale fu l’economista inglese David Ricardo (1772-1823). 34 Il Mercantilismo fu una politica economica che prevalse in Europa dal XVI al XVIII secolo, basata sul concetto che la potenza di una nazione sia accresciuta dalla prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. Nelle società europee di quei secoli, dietro gli aspetti di uniformità del mercantilismo, furono attuate differenti politiche a seconda della specializzazione economica naturale (agricola, manifatturiera, commerciale) e all'idea di ricchezza (oro, popolazione, bilancia commerciale). Benché la battaglia intellettuale sia stata vinta dal liberismo già nella prima metà del XIX secolo, il mercantilismo si è dimostrato una forza persistente nel campo della politica economica, anche sotto il nome di protezionismo. Alcuni sostengono che anche oggi, mentre le dichiarazioni ufficiali si ispirano al liberismo, i comportamenti concreti dei paesi economicamente più sviluppati siano piuttosto mercantilisti. Specularmente, alcune critiche no-global (o più precisamente new-global) sono di fatto più anti-mercantiliste che anti-liberiste 35 La fisiocrazia è una dottrina economica che si affermò in Francia verso la metà del XVIII secolo (principalmente nel triennio 1756 - 1758), in chiara opposizione al mercantilismo e con lo scopo di risollevare le sorti delle scarse finanze francesi. Secondo la dottrina fisiocratica (diffusa in Francia dalle opere del medico ed economista François Quesnay, che scrisse nell'Encyclopédie le due voci "Fittavolo" e "Grani", il cui Tableau économique (1758) costituì la base della dottrina), l'agricoltura è la vera base di ogni altra attività economica: solo l'agricoltura è infatti in grado di produrre beni, mentre l'industria si limita a trasformare e il commercio a distribuire. La fisiocrazia assume quindi il momento della produzione dei beni e non il momento dello scambio come situazione in cui viene creata ricchezza. Tutto il ciclo economico della fisiocrazia ha come fine ultimo quello di creare un surplus (o prodotto netto), che poi verrà investito nuovamente nell'agricoltura (per aumentare la produttività di un terreno, avere a disposizione più manodopera, compiere ricerche nel campo delle macchine agricole), attraverso una condizione di libero mercato. Le classi sociali vanno anch'esse viste in rapporto alla funzione che svolgono all'interno del ciclo produttivo: chi investe il capitale iniziale e vive del prodotto netto fa parte della classe proprietaria o oziosa; i contadini, la classe che coltiva la terra e crea attivamente ricchezza, costituiscono la classe produttiva; chi trasforma i beni in prodotti finiti o si limita a consumarli fa parte infine della classe sterile. La fisiocrazia ebbe una notevole influenza durante gli anni Settanta del Settecento e quest'idea di libero mercato ispirò Adam Smith. Tuttavia, la visione fisiocratica dell'agricoltura venne rifiutata proprio da Smith e da David Ricardo: la teoria del valore basato sul lavoro, contrapposta a quella fisiocratica, ha appunto origine dalle opere di questi due economisti. I fisiocratici furono i primi a teorizzare la nascita di un buon governo basato sul dispotismo. I pensatori classici che si erano susseguiti fino ad allora, avevano sempre inserito, nella classificazione delle forme di governo, il dispotismo tra quelle corrotte. I seguaci di Quesnay, tuttavia ritennero che la migliore tipologia di governo era quella basata sull'essenza naturale dell'uomo. Un unico individuo, illuminato, che avrebbe guidato i suoi sudditi verso il bene. Il dispotismo diventa in questo caso un "dispotismo illuminato" 78 Partendo dall’idea che il lavoro è l’unica causa della ricchezza e della produzione, nei suoi scritti egli dimostra che la divisione internazionale del lavoro e lo scambio fra i Paesi che si sono divisi le produzioni, nasce dalle differenze delle produttività relative del lavoro medesimo in diversi Paesi. Ricardo però dava per scontata la distinzione fra un Paese (il suo), che già nel Settecento era uscito dall’arretratezza dell’economia agricola ed era passato attraverso la rivoluzione industriale, e tutti gli altri Paesi che non avevano seguito questo iter. Sulla base di ciò affermava che vi è convenienza per ogni Paese a specializzarsi nei beni nei quali ciascuno sopporta costi comparati minori. Se ad esempio in Inghilterra: • una unità di lavoro produce due unità di materie prime (2MP) oppure quattro unità di manufatti (4MA), il valore di scambio sarà 1MP = 2MA. Se, invece, in un altro Paese: • una unità di lavoro produce due unità di materie prime (2MP) oppure una unità di manufatti (1MA), il valore di scambio sarà 1MP = ½MA. Ebbene, si può dimostrare che, ad un qualsiasi valore di scambio di ½MA < 1MP < 2MA, entrambi i Paesi traggono vantaggio dal commercio internazionale. Si supponga, ad esempio, che 1MP = 1,5MA. In tal caso l’Inghilterra avrà convenienza a produrre con 1 unità di lavoro 4MA e scambierà, ad esempio, 3MA ottenendo in contropartita 2MP, effettuato lo scambio avrà 2MP + 1MA. Tenendo conto che in assenza di scambio internazionale la struttura dei prezzi era tale che 1MP = 2MA, ci si troverà ad avere un valore di 2MP = 4MA e, quindi, disporrà di 1MA in più. In pratica, una unità di lavoro (in condizioni di divisione internazionale del lavoro) avrà prodotto in un certo senso 5MA invece di 4MA. Nell’altro Paese, dove si sono prodotti 2MP, dopo lo scambio si avrà 1,5MA + 1MP. Tenendo conto che in assenza di scambio i vecchi prezzi erano ½MA = 1MP, ci si troverà con 2MA in più che possono essere visti, in un certo senso, come 4MP e, quindi, si disporrà di 2MP in più rispetto a quelli che l’unità di lavoro avrebbe prodotto senza la divisione del lavoro e lo scambio internazionale. 79 E’ possibile dimostrare che questa migliore allocazione di risorse, si ottiene non solo nel caso in cui ogni Paese si specializzi nella produzione nella quale sostiene un costo comparato minore, ma anche nel caso in cui uno dei due Paesi sia meno efficiente in entrambe le produzioni. In quest'ipotesi, ogni Paese ottiene egualmente un vantaggio purché quello sfavorito si specializzi nella produzione del bene in cui lo svantaggio sia comparativamente minore e purché quello favorito si specializzi nella produzione in cui il suo vantaggio è maggiore. Il modello ricardiano classico, tuttavia, non ricercava le origini di queste differenze di produttività del lavoro e, per tale carenza, fu rivisto e sottoposto a critica dalla teoria neoclassica che produsse un nuovo modello detto Heckscher- Ohlin (H-O). Il modello H-O può sintetizzarsi nella proposizione secondo la quale ogni Paese gode di un vantaggio comparato nella produzione di quei beni per ottenere i quali si richiedono quantità relativamente più elevate del fattore di produzione di cui esso dispone in misura relativamente più abbondante e a costi minori; saranno questi i beni che esso venderà agli altri Paesi. Alla base del commercio internazionale vi è quindi la differenza nella dotazione fattoriale dei Paesi e nella intensità fattoriale della produzione. A sua volta, però, il modello H-O si presta a molte critiche. In primo luogo, vi sono critiche alla validità di molte delle condizioni di concorrenza perfetta e di piena occupazione dei fattori produttivi che sono poste alla base della teoria H-O (così come di quella ricardiana). In secondo luogo, il modello H-O è contraddetto dal paradosso di Leontief . Questo studioso (in due saggi pubblicati nel 1954 e nel 1956) dimostrò che, contrariamente alle aspettative, gli Stati Uniti mostrano una tendenza 80 alla specializzazione nella vendita all’estero dei beni che impiegano più lavoro e meno capitale. In terzo luogo, l’evidenza statistica dimostra che il commercio internazionale solo per circa un terzo (e non per la quasi totalità come previsto nelle teorie ricardiana e H-O) si svolge fra Paesi produttori ed esportatori di manufatti e Paesi produttori ed esportatori di materie prime. I restanti due terzi riguardano lo scambio di manufatti all’interno del gruppo dei Paesi industrializzati. In quarto luogo, le teorie classica e neoclassica ipotizzano un primato indiscusso del liberoscambismo sul protezionismo quasi che il libero scambio conducesse automaticamente, sia all’equilibrio delle bilance commerciali di tutti i Paesi ricchi e poveri, sia al loro massimo benessere. Tale assunto non è sempre verificato nella realtà. Questa neutralità delle teorie economiche classica e neoclassica del commercio internazionale, per cui sarebbe stato indifferente trovarsi nello scambio dalla parte dei Paesi industrializzati o da quella dei Paesi in via di sviluppo, contrastano con la realtà storica dei diversi vantaggi o svantaggi insiti nell’assunzione da parte di un Paese di una posizione oppure dell’altra. Essere nel gruppo dei Paesi industrializzati oppure in quello dei Paesi in via di sviluppo è molto diverso e tale diversità è così grande che c’è addirittura da porsi il problema se il commercio internazionale sia sempre uno strumento di migliore allocazione delle risorse e di sviluppo economico, come sostiene la teoria tradizionale, o invece, in certi casi, uno strumento di conservazione dei divari di sviluppo economico. Le teorie economiche classiche e neoclassiche, cioè avrebbero il difetto di essere troppo “inglesi” e di trascurare soprattutto due circostanze: A. Non rilevano alcuni danni del commercio internazionale in quanto elemento di conservazione dei divari economici fra le nazioni; B. Non spiegano la realtà storica che ha visto da un lato, l’Inghilterra effettuare grandi sforzi per conservare la sua posizione di unico Paese produttore di manufatti e, dall’altro, alcuni Paesi intraprendere molte iniziative per opporsi a questo disegno della Gran Bretagna. In altre parole, il processo di inserimento di altri Paesi nell’area dei Paesi industrializzati (inizialmente occupata dalla sola Inghilterra) incontrò sempre 81 l’opposizione inglese, ma si svolse egualmente contraddicendo, sia pure paradossalmente, i principi del liberoscambismo che si insegnavano nelle aule universitarie dei Paesi che avevano avanzato la loro candidatura ad occupare quell’area. Per accelerare il proprio sviluppo economico cioè, i Paesi mano a mano emergenti dal 1700 alla seconda guerra mondiale (in un ordine non tassativo: Stati Uniti, Francia, Germania, Belgio, Svizzera, Austria, Italia, Russia e Spagna per limitarci all’Occidente) dovettero seguire pratiche economiche e di commercio internazionale completamente diverse da quelle postulate dalle teorie classica e neoclassica e dal liberoscambismo che esse propugnavano. All’Inghilterra, che si imponeva nel campo dei manufatti secondo una logica monopolistica e che si era sviluppata utilizzando l’autofinanziamento delle imprese per effettuare i propri investimenti, altri Paesi del continente europeo contrapposero un modello di sviluppo che utilizzava tre strumenti: il risparmio familiare come base dell’accumulazione capitalistica e, quindi, degli investimenti necessari all’industrializzazione, l’intermediazione finanziaria, imperniata sulle aziende di credito anche nella forma di banche miste, ed il protezionismo doganale (concetti già in parte espressi nel paragrafo precedente quando si è parlato del finanziamento della prima rivoluzione industriale). In questo modo, e non seguendo la logica dei “gains from trade” impliciti nelle teorie classiche e neoclassiche del commercio internazionale e nelle loro varianti più o meno ingegnose (staple theory, vent for surplus theory), si sono industrializzati di mano in mano i principali Paesi dell’Europa occidentale. Alcuni Paesi, ancora più arretrati ed in particolare la Russia, non riuscendo a decollare nemmeno usando questo secondo tipo di motore a tre stadi (risparmio familiare, banche e protezionismo) si sono rivolti ad un terzo tipo di motore dello sviluppo e cioè al risparmio della pubblica amministrazione (che aveva imposto le sue regole ferree di accumulazione alle famiglie e alle imprese) ed al protezionismo. Questo gruppo di Paesi non è però riuscito a cooptarsi nell’area dei Paesi industrializzati in contrapposizione al vasto numero di Paesi produttori ed esportatori di materie prime, ma ha costituito un raggruppamento a parte che veniva chiamato 82 per semplicità quello dei Paesi del Comecon (dal nome dell’accordo che li legava). Al di là delle differenze ideologiche, politiche e sociali che distinguevano i Paesi del Comecon dagli altri Paesi del mondo (suddivisi in Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo) e sulle quali non ci si vuole pronunciare, è certo che in questi Paesi si riscontrano ancora oggi ostacoli e difficoltà nell’accettare la possibilità di svilupparsi in base alla logica del liberoscambismo e della divisione internazionale del lavoro postulata dalle teorie classica e neoclassica. Al di là della critica radicale sul commercio internazionale, in quanto strumento di conservazione dei divari di sviluppo, che è stata qui brevemente tratteggiata, può dirsi che è si è dovuto integrare le due teorie (classica e neoclassica) con altre nuove e parziali teorie del commercio internazionale (quindi non aventi carattere generale) che fossero in grado di spiegare meglio la realtà concreta dell’interscambio mondiale. Pur restando nella logica del liberoscambismo e nel filone di pensiero classico e neoclassico, l’attenzione degli economisti si è rivolta ad un fatto nuovo e cioè che la produzione in molti casi avveniva in condizioni di rendimenti crescenti (e non decrescenti). Le economie di scala hanno cominciato a diventare, quindi, il secondo fattore esplicativo degli scambi internazionali subito dopo quello rappresentato dalle diverse dotazioni di fattori produttivi. La diminuzione cioè dei costi unitari di produzione, connessa al maggior volume di prodotto ottenuto con una determinata tecnologia, spinge le imprese ad esportare per accrescere il volume del prodotto medesimo. Il commercio internazionale cioè, si spiega sempre meno in termini di libera concorrenza e sempre più in termini di monopolio per i seguenti motivi: 83 1. le aziende che operano sul mercato internazionale sono quelle in grado di effettuare considerevoli investimenti iniziali che limitano di fatto le possibilità di entrata sul mercato; 2. a livello internazionale, data la più ampia gamma di varietà nei gusti dei consumatori, esistono maggiori possibilità di differenziazione dei prodotti e di discriminazione dei prezzi; 3. la limitata mobilità internazionale dei fattori produttivi rappresenta un’altra circostanza che favorisce forme di mercato non concorrenziali. Partendo da questo assunto, sono nate alcune teorie non più generali (di stampo walrasiano), ma parziali (di stampo marshalliano) con obiettivi più limitati, ma capaci di spiegare più in concreto le caratteristiche effettive del commercio internazionale moderno. Numerose sono queste teorie particolari ed i contributi degli autori sono stati molteplici. Ci si limita in questa sede a ricordare i più importanti. A. Linder36 in particolare, ha proposto l’importanza del mercato interno come vincolo alla crescita della capacità di esportazione. Quest’ultima cioè, per essere ancora più espliciti, presuppone l’efficienza dell’industria nazionale rispetto ai concorrenti esteri sui mercati internazionali ed è largamente determinata dalla domanda interna. Non si possono, ad esempio, esportare elettrodomestici se non si ha un ampio mercato interno di elettrodomestici. Se, seguendo una logica anticonsumistica, si limitano certi consumi interni “opulenti” e si adottano quelli di Paesi più poveri, non ci si potrà lamentare se non si riuscirà ad esportare nei Paesi più ricchi. Ne consegue che più la struttura della domanda aggregata di due Paesi è simile, più intenso sarà il loro interscambio. Poiché la struttura della domanda dipende essenzialmente dal livello di reddito pro capite e dalla distribuzione del reddito fra le diverse categorie sociali, due Paesi 36 Hans Martin Staffan Burenstam Linder (born H. M. S. Linder, (1931-2000 in Djursholm) was a Swedish economist and conservative politician. He was Swedish Minister for Trade from 1976–78 and from 1979-81. As an adult, Staffan Linder began to use the name Burenstam to preserve this old name of nobility, whose last male bearer, his grandfather Friedrich Burenstam, had died without a male heir in 1949. In the scholarly world, Burenstam Linder is known under the name Linder (e.g. Linder's Hypothesis). It wasn't till the 1980s that his family legally changed their name to Burenstam Linder. 84 omogenei per reddito nazionale e distribuzione saranno i reciproci partners commerciali più importanti (un esempio sono Italia, Francia e Germania). Il contributo di Linder, in particolare, spiega perché tanta parte del commercio internazionale è “Nord-Nord” invece che “Nord-Sud”. Egli va contro l’idea che il commercio internazionale derivi solo dalla specializzazione. Il commercio internazionale viene visto invece come una estensione al di là delle frontiere nazionali della rete di attività economiche del proprio Paese, naturalmente in un’ottica in cui le economie di scala sono molto importanti. Questa teoria spiega la crescente interdipendenza fra Paesi industrializzati ed il fatto che, dopo la seconda guerra mondiale, si sia manifestata un’elasticità (M/PIL) > 1 e (X/PIL) > 1 e, quindi, un grado di apertura crescente dei vari Paesi industrializzati al crescere del loro PIL, ma non spiega quali “gains from trade” possano venire dal commercio internazionale e quali modelli di specializzazione settoriale si accompagnino alla crescita economica dei vari Paesi. I tentativi effettuati per risolvere questo secondo quesito, riformulando in vari modi la teoria H-O, non hanno prodotto risultati definitivi. B. Posner, con la sua teoria del gap tecnologico, offre un interessante contributo teorico. A suo parere, infatti, i vantaggi comparati non dipendono da dotazioni e costi fattoriali, ma dall’innovazione che procura un vantaggio temporaneo di monopolio. Successivamente, attraverso l’inseguimento tecnologico, si ha una inversione delle correnti del commercio internazionale. 85 C. Il contributo di Posner trova una sua più completa applicazione nel modello del ciclo di vita del prodotto del Vernon. Tale studioso, in sintesi, sostiene che le fasi della vita di un prodotto sono sostanzialmente tre. 1. Fase iniziale o innovativa. Vi è una particolare tendenza dell’imprenditore a sviluppare prodotti nuovi, o per soddisfare i bisogni di consumatori ricchi, oppure per aumentare il rapporto fra il numero dei beni prodotti e le unità di lavoro impiegate. Tale fase infatti si manifesta soprattutto nei Paesi dove i consumatori sono ad alto reddito e i costi di lavoro sono elevati rispetto al costo del capitale (tipicamente negli Stati Uniti, in Giappone o nell’Unione Europea). Tale sviluppo di prodotti nuovi (innovazione) avverrà di solito sulla base di principi scientifici disponibili a tutti, ma investendo capitali ingenti. In questa fase iniziale la funzione di produzione è ancora instabile e la domanda è anch’essa instabile, ma non elastica rispetto al prezzo, mentre è elastica rispetto al reddito. I fattori di competitività sono diversi dal prezzo; in particolare si basano sulla novità, qualità delle prestazioni, affidabilità e marketing. La produzione è realizzata interamente dove ha sede l’impresa innovatrice e tutto ciò che si consuma nel resto del mondo è frutto di esportazioni. 2. Fase di sviluppo. La produzione si stabilizza, si formano standards internazionali ben definiti, aumentano le economie di scala e l’industria tende a concentrarsi per sfruttarle. La produzione si diffonde anche in altri Paesi e i produttori dei Paesi originari incominciano ad investire anche all’estero. La domanda comincia a presentare un’elevata elasticità rispetto al prezzo. 3. Fase di maturità e standardizzazione. Si accentuano i caratteri della seconda fase fino a che la produzione si trasferisce nei Paesi meno sviluppati che, con salari relativamente più bassi, potranno occupare quote crescenti di mercato dei prodotti giunti a maturità. 86 D. In base ad un’altra teoria del commercio internazionale, si sottolinea non tanto la specializzazione dei Paesi per settori (interindustriale o intersettoriale), quanto la specializzazione dei Paesi per prodotti entro i settori (intraindustriale o intrasettoriale), e si vede in ciò un modo per superare la contraddizione fra la concezione del commercio internazionale basata sulla specializzazione (teorie classica e neoclassica) e quella basata sulla despecializzazione e sulla omogeneità della domanda aggregata (teoria di Linder). In questo senso, si riuscirebbero anche a superare i problemi insiti nella contrapposizione fra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo ed infine si porrebbero le basi per spiegare la funzione dei NIC nel commercio internazionale. In base a questa teoria si afferma che, con il venire meno degli ostacoli doganali, si assiste ad una crescita intrasettoriale più accentuata di quella intersettoriale. La teoria del commercio internazionale diviene così sempre meno teoria della specializzazione e della despecializzazione in senso tradizionale, mentre diventa sempre più importante la specializzazione per tipo di prodotti all’interno dei diversi settori produttivi. Alla luce di ciò, il commercio internazionale intrasettoriale viene sempre più visto sia come fenomeno di “border trade” quando vi sono fattori di somiglianza etnico-linguistico-culturale, sia come scambio di prodotti sostituibili nell’uso (vermouth italiano/champagne francese; cognac francese/whisky scozzese; formaggi francesi/ formaggi tedeschi; ecc.), sia in rapporto a clausole di reciprocità, sia come frutto della distinzione all’interno di un settore fra parti, componenti e prodotti finiti, sia come scambi interaziendali. Questi ultimi rappresentano un caso ancora più lontano rispetto allo schema classico della specializzazione tradizionale (vino contro tessuti) e costituiscono un esempio di specializzazione del tutto nuova condizionata dalla politica dell’azienda. 87 In particolare con riferimento agli Stati Uniti si può dire che circa il 40% delle esportazioni manifatturiere è diretto verso filiali estere di case madri USA e circa la stessa percentuale di importazioni deriva da flussi interaziendali. In conclusione di quanto detto finora, si può affermare che la divisione internazionale del lavoro è un fenomeno le cui determinanti prossime (differenze nei prezzi relativi delle merci e dei fattori produttivi) rinviano alle determinanti remote di tali differenze e cioè alla teoria dello sviluppo economico e delle trasformazioni strutturali intervenute nel processo di sviluppo medesimo. La divisione internazionale del lavoro origina una interazione fra diverse scarsità dei fattori produttivi, rendimenti crescenti al crescere delle dimensioni, mercati non perfettamente concorrenziali, modelli di domanda e costi di trasporto. Vi è quindi più la coesistenza di teorie diverse che l’elaborazione di una teoria generale del tipo di quella di Ricardo o di quella H-O. Il mondo che osserviamo è intessuto di fenomeni di specializzazione (alla Ricardo) e despecializzazione (alla Linder). Molto utili sono anche le analisi microeconomiche miranti a stabilire i comportamenti delle imprese e le strutture concrete dei mercati. Anche l’esame degli investimenti diretti all’estero (IDE) e lo studio dei comportamenti delle imprese multinazionali sono molto proficui. Non si può cioè disporre di un quadro completo delle variabili che spiegano la specializzazione internazionale e il commercio internazionale senza conoscere almeno alcuni elementi della tipologia, delle determinanti e degli effetti dei movimenti internazionali del capitale. I movimenti internazionali (non bancari) di capitale si distinguono in: prestiti obbligazionari, investimenti di portafoglio e investimenti diretti. 88 5. Protezionismo e strumenti del protezionismo, liberoscambismo e managed trade: l’evoluzione del commercio internazionale dal secondo dopoguerra Il commercio internazionale dopo la seconda guerra mondiale, sulla spinta degli accordi di Bretton Woods, si è giovato della riduzione delle barriere tariffarie per dar luogo ad una espansione senza precedenti. Gli anni Trenta, anni della Grande Depressione, che da poco erano passati, avevano segnato una drastica contrazione degli scambi internazionali (ridottisi di circa l’80%) a causa delle politiche protezionistiche che un po’ ovunque vennero attuate. QUADRO DI APPROFONDIMENTO Il protezionismo ed i suoi strumenti Il protezionismo è una linea di condotta governativa tendente, con vari mezzi, a proteggere settori economici nazionali dalla concorrenza estera. Gli strumenti principali del protezionismo hanno lo scopo di rendere più costose, limitare o vietare le importazioni di beni dall'estero, e sono: * tariffe doganali, di modo che il prezzo di vendita di un bene importato è aumentato da una imposta fiscale; * quote doganali, di modo che la quantità totale che può essere importata di un bene estero è limitata. In certi casi, il protezionismo venne addirittura visto non come una necessità, ma come elemento di una ideologia (ciò che è avvenuto in quegli anni con l’autarchia) che arrivava al punto di teorizzare l’importanza del protezionismo stesso nel commercio internazionale. Alle barriere commerciali si affiancarono stretti controlli sui tassi di cambio. Il modo di regolare gli scambi commerciali fra i diversi Paesi era, per lo più, individuato nel cosiddetto “sistema di compensazioni” (clearing system) che poteva essere bilaterale o multilaterale. Questo sistema di regolazione degli scambi tra due o più Paesi, consisteva nell’uguagliare i valori delle importazioni e delle esportazioni al fine di evitare lo scambio di valuta. Dopo Bretton Woods gli accordi di clearing (che creavano, fra l’altro, grosse complicazioni a livello di tassi di cambio i quali dovevano essere stabiliti diversamente a seconda del settore per cui vigeva l’accordo) furono via via sempre meno utilizzati e gli scambi internazionali vennero regolati 89 attraverso la logica del sistema monetario internazionale, ossia tramite valuta liberamente acquistata sul mercato dei cambi (come accade ancora oggi). Con Bretton Woods venne, infatti, reintrodotto quel sistema monetario internazionale che si era di fatto interrotto negli anni Trenta e che certamente favoriva la multilateralità degli scambi mondiali. QUADRO DI APPROFONDIMENTO Gli accordi di Bretton Woods La conferenza di Bretton Woods, che si tenne dal 1º al 22 luglio 1944 nell'omonima cittadina appartenente alla giurisdizione della città di Carroll (New Hampshire, USA), stabilì regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo. Gli accordi di Bretton Woods furono il primo esempio nella storia del mondo di un ordine monetario totalmente concordato, pensato per governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Dopo un acceso dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono gli Accordi di Bretton Woods. Gli accordi erano un sistema di regole e procedure per regolare la politica monetaria internazionale. Le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due; la prima, l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; la seconda, il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale o World Bank). Queste istituzioni sarebbero diventate operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l'accordo. Ciò avvenne nel 1946. Nel 1947 fu poi firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade - Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio) che si affiancava all'FMI ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale. In pratica il sistema progettato a Bretton Woods era un gold exchange standard, basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all'oro. La straordinaria espansione del commercio internazionale che si è avuta dopo Bretton Woods ha seguito tendenzialmente due vie. La prima è stata quella del sistema multilaterale di libero scambio promosso dal GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) attraverso una serie ininterrotta 90 di “Rounds” (otto). Gli ultimi due Round, rispettivamente il Tokyo Round (1973’79) e soprattutto l’Uruguay Round concluso il 15 dicembre 1993, hanno affrontato anche il nodo delle barriere non tariffarie, dell’inserimento dei servizi nell’ambito dei negoziati, dei prodotti agricoli, dei tessili e dell’abbigliamento. Come si vedrà meglio in seguito, la fine dei Rounds non segnò il declino di accordi che regolassero il commercio internazionale, bensì con l’ultimodei Round, l’Uruguay Round appunto, si aprirono le porte sull’istituzione di una vera propria organizzazione mondiale che si occupasse di tali problematiche: nasce così, con accordo siglato nel 1994, la World Trade Organization (WTO), nota anche come Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). La seconda è stata quella di fare crescente ricorso ad accordi preferenziali a livello regionale con la creazione di zone di libero scambio, unioni doganali, mercati comuni o addirittura, come nel caso dei Paesi dell’Unione Europea, di processi di integrazione commerciali completi (mercati interni) e successivamente di unioni economiche e monetarie. Secondo taluni questa seconda via rappresenta una minaccia al principio del multilateralismo, in base al quale il sistema di libero scambio deve procedere a riduzioni del grado di protezionismo in modo simultaneo e multilaterale. Si sottolinea al riguardo il potenziale di discriminazione dei concorrenti esterni all’area interessata dall’accordo in parola. Questa conclusione sarebbe valida solo se a livello del “contenitore” globale (GATT e successivamente WTO) dominasse un atteggiamento conflittuale: in questo caso un ridotto numero di partecipanti agli scambi internazionali, connesso con la formazione di unioni doganali, aumenterebbe la propensione alle rappresaglie commerciali e favorirebbe le spinte all’isolamento delle economie regionali, divenute, per così dire, più “autosufficienti”. Se invece permane un clima di cooperazione generale, la formazione di aree commerciali integrate consente di realizzare a livello di partners maggiormente omogenei, ciò che difficilmente sarebbe realizzabile su scala planetaria e gli effetti di creazione di commercio all’interno dell’unione doganale, superano quelli di diversione connessi con le barriere tariffarie e soprattutto non tariffarie che vengono opposte alle merci e ai servizi provenienti da Paesi terzi. 91 La regionalizzazione perciò deve essere considerata come una soluzione (e sia pure di second best, ossia la migliore ma non l’ideale) per il potenziamento dell’assetto liberoscambista del mondo. La tendenza alla regionalizzazione del commercio internazionale prese inizialmente forma della creazione di tre grandi aree (che compongono la cosiddetta “Triade”): l’Unione Europea (formata inizialmente da 15 Stati ma composta ad oggi da ben 27 Stati), cui si aggiungono alcuni Paesi dell’EFTA (European Free Trade Association, costituita nel 1960 a Stoccolma principalmente su iniziativa inglese in risposta alla creazione della CEE, oggi composta da Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein) con la creazione dello Spazio Economico Europeo (SEE), poi evoltosi in un unione economica e monetaria; il NAFTA (North American Free Trade Agreement), costituito nel 1993 fra Stati Uniti, Canada e Messico; il Giappone con le sue, grandi e piccole, otto “tigri” Dati pil e densità delle 3 aree In queste aree, e specialmente nelle prime due, il grado di integrazione commerciale interna (GICI) tende ad aumentare. L’interscambio all’interno del Nord America per i tre Paesi del NAFTA tende a crescere rispetto al commercio totale dei tre Paesi e soprattutto rispetto al commercio che ha luogo tra i Paesi del continente americano. L’interscambio fra i Paesi dell’Unione Europea (EU27) è elevato (circa 65%) e ancora in crescita rispetto all’interscambio con Paesi terzi. Merchandise trade of the United States by origin and destination, 2008 (Billion dollars and percentage) Exports Destination Value Share 2008 Region World North America Asia Europe South and Central America Middle East Africa 1287,4 413,2 329,4 311,1 135,0 55,0 28,8 Imports Share 2000 2008 100,0 100,0 37,0 32,1 27,6 25,6 23,6 24,2 7,5 2,4 1,4 10,5 4,3 2,2 Annual percentage change Origin 2007 2008 12 6 11 16 12 7 8 14 21 21 28 28 22 20 92 Value 2008 Region World Asia North America Europe South and Central America Africa Middle East 2169,5 762,4 559,0 409,6 167,4 117,3 115,3 Annual percentage change Share 2000 2008 100,0 100,0 37,8 35,1 29,4 25,8 20,3 18,9 6,2 2,3 3,2 7,7 5,4 5,3 2007 2008 5 5 5 6 7 1 5 4 1 14 8 18 23 44 CIS Economy European Union (27) Canada Mexico China Japan Above 5 Korea, Republic of 13,8 0,4 1,1 49 32 CIS Economy 38,5 0,8 1,8 5 45 271,8 260,9 151,2 69,7 65,1 818,8 21,6 22,6 14,3 2,1 8,4 68,9 21,1 20,3 11,7 5,4 5,1 63,6 15 8 2 17 5 - 11 5 11 11 7 - European Union (27) 377,9 China 356,6 Canada 339,1 Mexico 218,6 Japan 143,6 Above 5 1435,8 18,7 8,5 18,5 10,9 12,0 68,6 17,4 16,4 15,6 10,1 6,6 66,2 7 11 3 6 -2 - 4 5 7 3 -4 - 34,8 3,6 2,7 7 0 57,0 1,2 2,6 12 53 Brazil 32,3 Singapore 28,8 Taipei, Chinese 25,3 Australia 22,4 Switzerland 22,0 Hong Kong, China 21,6 India 17,7 United Arab Emirates 15,7 Israel 14,5 Malaysia 13,0 Bolivarian Rep. of Venezuela 12,6 Saudi Arabia 12,5 Chile 12,1 Colombia 11,4 Turkey 10,4 Russian Federation 9,3 Thailand 9,1 Philippines 8,3 Argentina 7,5 Dominican Republic 6,6 South Africa 6,5 Peru 6,2 Egypt 6,0 Indonesia 5,9 Costa Rica 5,7 Panama 4,9 Honduras 4,8 Guatemala 4,7 Nigeria 4,1 Ecuador 3,4 Norway 3,4 Qatar 3,1 Netherlands Antilles 3,0 Viet Nam 2,8 Above 40 1231,3 2,0 2,3 3,1 1,6 1,3 2,5 2,2 2,0 1,7 1,7 28 6 14 8 18 34 10 -4 17 29 52,6 49,8 39,2 37,7 32,1 1,6 3,3 0,9 3,4 1,2 2,4 2,3 1,8 1,7 1,5 7 4 17 0 -3 28 1 16 -5 18 1,9 0,5 1,7 1,4 13 55 8 18 Malaysia Russian Federation 31,6 27,9 2,1 0,6 1,5 1,3 -10 -2 -6 38 0,3 1,0 1,4 1,2 1,1 1,0 -3 19 -7 36 11 11 India Thailand Iraq 27,0 24,6 23,1 0,9 1,4 0,5 1,2 1,1 1,1 9 0 -3 7 3 94 0,7 0,8 0,4 0,5 0,5 1,0 1,0 0,9 0,9 0,8 13 33 22 28 15 24 20 46 34 59 Israel Algeria Angola Switzerland Indonesia 22,6 20,0 19,5 18,2 16,7 1,0 0,2 0,3 0,8 0,9 1,0 0,9 0,9 0,8 0,8 9 15 6 3 6 7 9 51 20 10 0,3 0,9 1,1 0,6 0,7 0,7 0,6 0,6 55 4 1 23 28 7 8 29 Singapore Viet Nam Colombia Australia 16,2 13,9 13,8 10,9 1,6 0,1 0,6 0,5 0,7 0,6 0,6 0,5 3 23 2 5 -14 21 38 22 0,6 0,4 0,2 0,4 0,3 0,3 0,2 0,3 0,2 0,1 0,1 0,2 0,0 0,5 0,5 0,5 0,5 0,5 0,4 0,4 0,4 0,4 0,3 0,3 0,3 0,2 14 24 41 30 38 11 38 21 16 25 8 27 108 8 18 50 13 40 24 32 9 16 47 18 11 11 0,3 0,2 0,2 1,1 0,3 0,5 0,2 1,0 0,3 0,2 0,0 0,3 0,0 0,5 0,4 0,4 0,4 0,4 0,4 0,3 0,3 0,3 0,3 0,2 0,2 0,2 20 -14 6 -3 -5 3 3 -12 13 -11 0 -15 162 9 46 1 -7 -8 0 72 -8 28 12 63 1 131 0,1 0,0 97,1 0,2 0,2 95,6 40 73 - 42 47 - South Africa 10,1 Ecuador 9,5 Trinidad and Tobago 9,5 Philippines 9,1 Chile 9,0 Norway 7,6 Kuwait 7,4 Hong Kong, China 6,7 Argentina 6,2 Peru 6,1 Congo 5,2 Turkey 5,0 Azerbaijan 4,5 Libyan Arab Jamahiriya 4,4 Honduras 4,2 Above 40 2094,8 ... 0,3 96,5 0,2 0,2 96,6 35 5 - 23 3 - Fonte: WTO Statistics 93 Saudi Arabia Bolivarian Rep. of Venezuela Korea, Republic of Nigeria Taipei, Chinese Brazil I Paesi dell’Estremo Oriente tendono ad accrescere, seppure in misura relativamente più modesta, il grado di integrazione interna. Il GICI è cresciuto da circa il 33% all’inizio degli anni Settanta al 38% all’inizio degli anni Novanta. L’assenza di una struttura di integrazione paragonabile all’Unione Europea o al NAFTA e il peso dell’interscambio fra ogni singolo Paese e gli Stati Uniti hanno ostacolato la creazione di una vera e propria area commerciale regionale, per cui non a caso quando si parla di grandi potenze economiche si citano l’Unione Europea, il NAFTA e il Giappone. A onor del vero è giusto ricordare come, se si fa riferimento ai poli di maggior peso, Nord America, Estremo Oriente e Unione Europea, si nota che quest’ultima tende a rimanere relativamente esclusa dal processo di integrazione (non a caso si parla di “fortezza Europa”) che avviene soprattutto nelle aree Nord America - Estremo Oriente. Si ricorda a tal proposito l’accordo APEC, siglato nel 1989 fra i Paesi NAFTA e i Paesi dell’Estremo Oriente, fra cui il Giappone, stipulato proprio per promuovere questo processo di integrazione. Merchandise trade of Japan by origin and destination, 2008 (Billion dollars and percentage) Exports Destination Value 2008 Region World Asia North America Europe Middle East CIS South and Central America Africa Economy China United States European Union (27) Imports Annual percenta ge change Share Origin 200 200 7 8 2000 2008 782,0 406,2 158,1 119,3 34,0 100,0 43,3 32,7 17,8 2,0 100,0 51,9 20,2 15,3 4,4 10 12 0 12 37 9 13 -4 6 30 19,3 19,2 12,5 0,2 1,7 0,9 2,5 2,5 1,6 51 25 22 54 28 19 146,2 137,4 8,9 30,0 18,7 17,6 16 -1 13 -4 110,2 16,8 14,1 12 5 94 Value 2008 Region World Asia Middle East North America Europe South and Central America Africa CIS Economy China United States European Union (27) Annual percentage change Share 2000 2008 2007 2008 762,6 361,1 166,7 94,3 79,6 100,0 46,4 13,0 22,0 13,9 100,0 47,4 21,9 12,4 10,4 7 7 5 5 9 23 19 46 12 10 22,2 21,4 14,8 2,2 1,3 1,3 2,9 2,8 1,9 21 14 57 13 40 28 143,3 77,7 14,5 19,1 18,8 10,2 8 4 12 9 70,3 12,6 9,2 9 8 Korea, Republic of Taipei, Chinese Above 5 59,5 46,1 499,4 6,4 7,5 69,6 7,6 5,9 63,9 8 2 - 9 3 - Hong Kong, China a Thailand 40,3 29,4 2,8 3,8 7 12 4 15 Singapore Australia Russian Federation 26,6 17,3 16,5 4,3 1,8 0,1 3,4 2,2 2,1 13 14 53 22 22 53 Malaysia Indonesia 16,4 12,6 2,9 1,6 2,1 1,6 14 23 9 39 Panama United Arab Emirates 10,9 10,8 1,3 0,5 1,4 1,4 7 33 26 35 Canada Philippines Mexico India Saudi Arabia Viet Nam Brazil South Africa Switzerland Oman Turkey 10,8 10,0 9,9 7,9 7,9 7,8 5,9 4,6 4,3 3,9 3,1 1,6 2,1 1,1 0,5 0,6 0,4 0,5 0,4 0,4 0,2 0,3 1,4 1,3 1,3 1,0 1,0 1,0 0,8 0,6 0,6 0,5 0,4 6 5 11 39 45 37 31 14 25 46 15 2 5 -3 28 17 38 48 1 44 56 13 Chile New Zealand Israel Kuwait Ukraine Qatar Iran, Islamic Rep. of Egypt 2,7 2,5 2,2 2,1 2,0 2,0 1,9 1,9 0,1 0,3 0,3 0,1 0,0 0,1 0,1 0,2 0,4 0,3 0,3 0,3 0,3 0,3 0,2 0,2 45 19 58 40 61 26 14 13 74 1 15 26 87 9 42 44 Bahamas Pakistan 1,8 1,5 0,1 0,1 0,2 0,2 2 -11 45 -7 Norway Colombia Algeria 1,3 1,1 1,1 0,2 0,1 0,0 0,2 0,1 0,1 -31 29 96 18 -15 24 Argentina Peru Above 40 a 1,0 1,0 782,5 0,2 0,1 - 0,1 0,1 - 27 44 - 18 79 - Saudi Arabia Australia Above 5 United Arab Emirates Indonesia Korea, Republic of Qatar Malaysia Taipei, Chinese Thailand Iran, Islamic Rep. of Kuwait Russian Federation Canada Viet Nam South Africa Brazil Philippines Chile Singapore Switzerland Oman India Brunei Darussalam Sudan Mexico New Zealand Peru Norway Nigeria Egypt Hong Kong, China Iraq Equatorial Guinea Algeria Israel Papua New Guinea Kazakhstan Above 40 51,1 47,5 389,9 3,7 3,9 53,8 6,7 6,2 51,1 -5 12 - 45 52 - 47,1 32,6 3,9 4,3 6,2 4,3 2 10 45 23 29,5 26,6 23,2 5,4 1,5 3,8 3,9 3,5 3,0 0 14 12 8 57 33 21,8 20,8 4,7 2,8 2,9 2,7 -2 9 10 13 18,3 15,3 1,4 1,3 2,4 2,0 14 9 45 54 13,3 12,8 9,1 9,0 8,7 8,4 7,9 7,9 6,4 5,6 5,2 1,2 2,3 0,7 0,8 0,8 1,9 0,7 1,7 0,9 0,5 0,7 1,7 1,7 1,2 1,2 1,1 1,1 1,0 1,0 0,8 0,7 0,7 59 4 16 17 18 10 12 -6 2 34 3 26 28 49 16 45 -3 -3 12 23 56 26 4,5 4,3 3,8 2,9 2,1 2,1 1,8 1,6 0,4 0,1 0,6 0,6 0,1 0,3 0,1 0,0 0,6 0,6 0,5 0,4 0,3 0,3 0,2 0,2 7 -11 12 6 69 37 -18 111 81 59 21 8 -5 24 168 91 1,6 1,5 0,4 0,2 0,2 0,2 -5 12 7 49 1,1 1,0 0,9 0,0 0,0 0,2 0,1 0,1 0,1 82 200 8 94 160 2 0,9 0,8 750,3 0,1 0,0 98,5 0,1 0,1 98,4 27 20 - 8 111 - a Includes significant shipments recorded as exports to Hong Kong, China with China as final destination. Fonte: WTO Statistics Stati Uniti e Giappone, pure nell’enorme diversità delle due culture, presentano caratteristiche economiche complementari e quindi i due poli si vanno 95 rafforzando al loro interno anche mediante accordi bilaterali miranti ad accentuare la reciproca integrazione commerciale ed economica. In questo senso si è parlato del rischio che l’Unione Europea si trasformi in una “fortezza Europa”. Merchandise trade of the European Union (27) by origin and destination, 2008 (Billion dollars and percentage) Exports Destination Value Share 2008 Region World Europe Asia North America CIS Africa 5898,4 4313,5 440,5 434,7 218,3 171,8 Middle East 156,1 South and Central America 89,0 Economy European Union (27) 3973,5 United States 362,7 Russian Federation 153,2 Switzerland China Above 5 Turkey Norway Japan United Arab Emirates India Canada Korea, Republic of Brazil Australia Ukraine Singapore Mexico Saudi Arabia Hong Kong, China Imports Annual percentage change Share 2000 2008 100,0 100,0 73,5 73,1 7,5 7,5 10,3 7,4 1,3 3,7 2,4 2,9 Origin 2007 2008 16 16 17 7 33 22 10 9 11 4 25 24 2,2 2,6 17 18 1,7 1,5 21 20 68,0 8,9 0,8 67,4 6,1 2,6 16 6 34 9 2 27 143,7 113,7 4746,7 79,8 64,3 60,4 2,7 1,0 81,4 1,2 1,0 1,7 2,4 1,9 80,5 1,4 1,1 1,0 15 23 15 24 6 13 17 11 8 3 46,6 45,6 0,5 0,5 0,8 0,8 16 32 27 15 38,4 37,7 37,6 37,0 37,0 32,3 32,0 31,3 31,0 0,8 0,6 0,6 0,6 0,2 0,6 0,5 0,5 0,8 0,7 0,6 0,6 0,6 0,6 0,5 0,5 0,5 0,5 6 18 30 17 34 14 20 25 6 8 11 32 19 21 15 13 14 8 96 Value 2008 Region World Europe Asia CIS North America Africa South and Central America Middle East Economy European Union (27) China United States Russian Federation Norway Above 5 Switzerland Japan Turkey Korea, Republic of Brazil Libyan Arab Jamahiriya India Algeria Taipei, Chinese Canada South Africa Saudi Arabia Malaysia Kazakhstan 6255,8 4298,9 784,5 329,5 323,7 214,2 Annual percentage change Share 2000 2008 100,0 100,0 69,2 68,7 12,0 12,5 2,7 5,3 8,3 5,2 2,9 3,4 2007 2008 16 16 19 12 15 12 12 10 9 31 9 30 128,6 1,7 2,1 17 17 111,0 1,9 1,8 7 19 3973,5 363,7 268,3 64,5 2,7 7,3 63,5 5,8 4,3 16 30 13 9 15 8 254,0 135,3 4994,7 117,8 109,9 67,5 2,2 1,7 78,4 2,2 3,3 0,7 4,1 2,2 79,8 1,9 1,8 1,1 11 6 17 11 23 28 29 12 2 5 57,9 52,1 1,0 0,7 0,9 0,8 11 31 2 16 50,3 43,2 41,7 35,4 35,0 32,3 31,1 25,8 25,6 0,5 0,5 0,6 1,0 0,7 0,5 0,6 0,7 0,1 0,8 0,7 0,7 0,6 0,6 0,5 0,5 0,4 0,4 15 28 -7 6 29 23 -14 11 5 34 19 48 -1 10 14 23 4 39 South Africa Algeria Morocco Croatia 28,9 22,5 21,2 21,1 0,4 0,2 0,3 0,2 0,5 0,4 0,4 0,4 12 23 29 17 5 46 25 16 Israel Egypt Taipei, Chinese Malaysia Iran, Islamic Rep. 20,7 18,7 17,1 17,0 0,6 0,3 0,6 0,3 0,4 0,3 0,3 0,3 12 25 10 21 6 31 -6 9 16,7 16,5 14,6 13,3 12,5 9,7 9,4 8,9 8,8 0,2 0,2 0,3 ... 0,3 0,1 0,1 0,2 0,2 0,3 0,3 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,1 -2 32 19 51 18 34 20 34 19 21 42 12 21 15 13 41 9 18 8,4 8,3 0,1 0,1 0,1 0,1 23 32 48 1 7,8 7,5 5667,5 0,0 0,1 96,2 0,1 0,1 96,1 44 22 - 41 15 - of Nigeria Tunisia Serbia Thailand Qatar Belarus Argentina Indonesia Libyan Arab Jamahiriya Kazakhstan Angola Chile Above 40 of Thailand Singapore Nigeria Ukraine Iran, Islamic Rep. 25,2 23,8 22,6 21,1 0,5 0,6 0,2 0,2 0,4 0,4 0,4 0,3 23 4 3 37 11 -6 62 24 Mexico Indonesia Hong Kong, China 21,1 20,2 19,9 16,9 0,3 0,3 0,4 0,4 0,3 0,3 0,3 0,3 5 25 14 -2 11 22 13 12 Chile Australia Israel Azerbaijan Argentina Tunisia Iraq Viet Nam Morocco 16,6 16,5 16,5 15,5 15,5 14,0 13,4 12,6 12,3 0,2 0,3 0,4 0,0 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,3 0,3 0,3 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 0,2 10 15 24 47 26 29 48 25 22 -4 2 6 54 32 13 44 17 11 11,9 11,4 0,1 0,1 0,2 0,2 0 111 23 99 9,3 8,9 6065,5 0,1 0,0 96,5 0,1 0,1 97,0 -3 7 - 25 49 - Egypt Angola Bolivarian Rep. of Venezuela Belarus Above 40 The figures are affected by the "INTRASTAT" system of recording trade between EU member States. Intra-EU (27) imports are underrecorded. To compensate for this under-recording, intra-EU (27) exports have been used to obtain total (World) imports. Fonte: WTO statistics Oltre all’Unione Europea e al NAFTA, esistono nel mondo altri accordi preferenziali a livello regionale, fra i quali spiccano, nel continente sudamericano, il Mercosur (mercato comune tra Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay) e, nel SudEst asiatico, l’ASEAN (a cui aderiscono Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia, Brunei, Singapore, Vietnam, Laos e Birmania). Fino ad oggi, la forma di integrazione regionale più compiuta e avanzata rimane comunque l’Unione Europea, con quasi cinquant’anni di vita e un processo di unificazione che ha seguito in modo coerente e graduale i diversi passaggi indispensabili per una corretta integrazione: area di libero scambio, unione doganale, mercato comune e unione economica e monetaria (il passo finale sarà l’unione politica, con la costituzione di un’unione federale tra i sui membri). Il NAFTA è un accordo di integrazione meno definito e strutturato rispetto all’Unione Europea e, inoltre, in esso vi sono gli Stati Uniti che hanno un peso assolutamente predominante 97 (80%) sugli altri due Paesi (contro il 30% della Germania quale Paese più importante nell’Unione Europea). Sulla scia delle positive esperienze americana e soprattutto europea sembra, dunque, che la via del regionalismo sia quella che anche per il futuro caratterizzerà sempre più il sistema dell’interscambio mondiale: il risultato sarà una sorta di “mosaico” composto da pochi “pezzi” di grosse dimensioni che, più o meno lentamente, tenderanno a mutare i propri confini nel tempo fino ad inglobare ogni angolo del pianeta. La stessa Unione Europea ha messo ai primi posti dei propri programmi futuri l’allargamento dei confini sia verso Est che verso Sud: fra cinquant’anni o forse più si avrà molto probabilmente un Europa a 30-40 Stati che si estenderà da Capo Nord ai Paesi del Nord Africa e, ad Est, in molte parti dell’ex blocco sovietico. Sono molti infatti i Paesi che hanno percepito l’importanza di far parte di questo processo d’integrazione ed hanno avanzato le loro richieste di adesione (anche se per alcuni di essi - specialmente i Paesi arabi - vi sono non poche perplessità a causa dell’eccessiva “non omogeneità” con i Paesi già integrati). Essere membro di grandi mercati unificati significa acquisire maggiore forza e rispetto in fase di negoziazione delle regole del commercio internazionale e, all’opposto, non esserne partecipe porta invece ad una inevitabile emarginazione dal tavolo delle trattative. World merchandise exports by region and selected economy, 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003 and 2008 (Billion dollars and percentage) 1948 1953 1963 1973 1983 1993 2003 2008 3676 7377 15717 Value World 59 84 157 579 1838 Share World 100,0 100,0 100,0 North America 28,1 98 24,8 19,9 100,0 100,0 100,0 100,0 17,3 16,8 18,0 15,8 100,0 13,0 United States Canada Mexico 21,7 5,5 0,9 18,8 5,2 0,7 14,9 4,3 0,6 12,3 4,6 0,4 11,2 4,2 1,4 12,6 4,0 1,4 9,8 3,7 2,2 8,2 2,9 1,9 South and Central America Brazil Argentina 11,3 2,0 2,8 9,7 1,8 1,3 6,4 0,9 0,9 4,3 1,1 0,6 4,4 1,2 0,4 3,0 1,0 0,4 3,0 1,0 0,4 3,8 1,3 0,4 Europe Germany a France Italy United Kingdom 35,1 1,4 3,4 11,3 1,8 39,4 5,3 4,8 9,0 1,8 47,8 9,3 5,2 7,8 3,2 50,9 11,6 6,3 5,1 3,8 43,5 9,2 5,2 4,0 5,0 45,4 10,3 6,0 4,6 4,9 45,9 10,2 5,3 4,1 4,1 41,0 9,3 3,9 3,4 2,9 - - - - - - 2,6 4,5 Africa South Africa c 7,3 2,0 6,5 1,6 5,7 1,5 4,8 1,0 4,5 1,0 2,5 0,7 2,4 0,5 3,5 0,5 Middle East 2,0 2,7 3,2 4,1 6,8 3,5 4,1 6,5 Asia China Japan India Australia and New Zealand Six East Asian traders 14,0 0,9 0,4 2,2 3,7 3,4 13,4 1,2 1,5 1,3 3,2 3,0 12,5 1,3 3,5 1,0 2,4 2,4 14,9 1,0 6,4 0,5 2,1 3,4 19,1 1,2 8,0 0,5 1,4 5,8 26,1 2,5 9,9 0,6 1,4 9,7 26,2 5,9 6,4 0,8 1,2 9,6 27,7 9,1 5,0 1,1 1,4 9,0 Memorandum item: EU d USSR, former GATT/WTO Members e 2,2 62,8 3,5 69,6 27,5 4,6 75,0 38,6 3,7 84,1 31,3 5,0 77,0 37,4 89,4 42,4 94,3 37,5 93,4 Commonwealth of Independent States (CIS) b a Figures refer to the Fed. Rep. of Germany from 1948 through 1983. b Figures are significantly affected by i) changes in the country composition of the region and major adjustment in trade conversion factors between 1983 and 1993; and ii) including the mutual trade flows of the Baltic States and the CIS between 1993 and 2003. c Beginning with 1998, figures refer to South Africa only and no longer to the Southern African Customs Union. d Figures refer to the EEC(6) in 1963, EC(9) in 1973, EC(10) in 1983, EU(12) in 1993, EU(25) in 2003 and EU(27) in 2008. e Membership as of the year stated. Note: Between 1973 and 1983 and between 1993 and 2003 export shares were significantly influenced by oil price developments. Fonte: WTO Statistics World merchandise imports by region and selected economy, 1948, 1953, 1963, 1973, 1983, 1993, 2003 and 2008 (Billion dollars and percentage) 1948 1953 1963 85 164 1973 1983 1993 2003 2008 3787 7692 16127 Value World 62 595 1882 Share World 100,0 100,0 100,0 99 100,0 100,0 100,0 100,0 100,0 North America United States 18,5 13,0 20,5 13,9 16,1 11,4 17,2 12,3 18,5 14,3 21,4 15,9 22,5 16,9 18,1 13,5 Canada 4,4 5,5 3,9 4,2 3,4 3,7 3,2 2,6 Mexico 1,0 0,9 0,8 0,6 0,7 1,8 2,3 2,0 10,4 1,8 8,3 1,6 6,0 0,9 4,4 1,2 3,8 0,9 3,3 0,7 2,5 0,7 3,7 1,1 Argentina 2,5 0,9 0,6 0,4 0,2 0,4 0,2 0,4 Europe Germany a 45,3 2,2 43,7 4,5 52,0 8,0 53,3 9,2 44,2 8,1 44,6 9,0 45,0 7,9 42,3 7,5 South and Central America Brazil France 13,4 11,0 8,5 6,5 5,6 5,7 5,2 4,4 United Kingdom 5,5 4,9 5,3 6,3 5,3 5,5 5,2 3,9 Italy 2,5 2,8 4,6 4,7 4,2 3,9 3,9 3,4 Commonwealth of Independent States (CIS) b - - - - - - 1,7 3,1 Africa South Africa c 8,1 2,5 7,0 1,5 5,2 1,1 3,9 0,9 4,6 0,8 2,6 0,5 2,1 0,5 2,9 0,6 Middle East 1,8 2,1 2,3 2,7 6,2 3,3 2,7 3,6 13,9 0,6 15,1 1,6 14,1 0,9 14,9 0,9 18,5 1,1 23,6 2,7 23,5 5,4 26,4 7,0 Asia China Japan 1,1 2,8 4,1 6,5 6,7 6,4 5,0 4,7 India 2,3 1,4 1,5 0,5 0,7 0,6 0,9 1,8 Australia and New Zealand 2,9 2,3 2,2 1,6 1,4 1,5 1,4 1,5 Six East Asian traders 3,5 3,7 3,1 3,7 6,1 10,3 8,6 8,9 Memorandum item: EU d USSR, former GATT/WTO Members e - - 29,0 39,2 31,4 36,1 41,8 38,8 1,9 3,3 4,3 3,5 4,3 - - - 52,9 66,0 74,2 89,1 79,8 89,5 96,1 95,8 a Figures refer to the Fed. Rep. of Germany from 1948 through 1983. b Figures are significantly affected by i) changes in the country composition of the region and major adjustment in trade conversion factors between 1983 and 1993; and ii) including the mutual trade flows of the Baltic States and the CIS between 1993 and 2003. c Beginning with 1998, figures refer to South Africa only and no longer to the Southern African Customs Union. d Figures refer to the EEC(6) in 1963, EC(9) in 1973, EC(10) in 1983, EU(12) in 1993, EU(25) in 2003 and EU(27) in 2008. e Membership as of the year stated. Note: Between 1973 and 1983 and between 1993 and 2003 export shares were significantly influenced by oil price developments. 8. Lo sviluppo dell’economia mondiale verso una configurazione tripolare costituita dai blocchi Nord America, Europa, Asia 100 A contendersi oggi la supremazia economica planetaria si schierano tre grandi blocchi continentali: i Paesi NAFTA (Stati Uniti, Canada e Messico), l’Unione Europea (costituita ad oggi, a seguito dell’inglobamento progressivo dei paesi dell’Est, da 27 paesi: Germania , Francia, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Danimarca, Irlanda, Regno Unito, Grecia, Portogallo, Spagna, Austria, Finlandia, Svezia, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria, Bulgaria e Romania) e il blocco asiatico, dominato da Cina e Giappone, affiancate dalle grandi e piccole “tigri” asiatiche (rispettivamente Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Singapore e Thailandia, Filippine, Malesia, Indonesia). Questo assetto tripolare dell’economia mondiale (e sta avanzando prepotentemente il Sud America con il Brasile in testa) ha mutato profondamente gli equilibri che si erano formati e consolidati sulla base della prima rivoluzione industriale. Esso scaturisce sostanzialmente dai profondi cambiamenti che la seconda rivoluzione industriale (cfr. paragrafo 3) ha generato nello scenario competitivo internazionale. Gli Stati Uniti erano abituati fino al recente passato a godere di enormi vantaggi competitivi. In primo luogo, fra i Paesi industrializzati essi disponevano del mercato di gran lunga più grande, delle più grandi società del mondo, delle banche più grandi del mondo. Non è più cosi. Il mondo è cambiato profondamente. Dal 2000 al 2010 è cambiato radicalmente. Il mondo è diventato piatto, senza barriere, come dice un grandissimo analista e columnist del New York Times Thomas L. Friedman37 37 Thomas L. Friedman (1953) is an American journalist, columnist and author. He writes a twiceweekly column for The New York Times. He has written extensively on foreign affairs including global trade, the Middle East and environmental issues and has won the Pulitzer Prize three times. Fonte: wikipedia http://www.thomaslfriedman.com/ 101 nel suo magnifico “Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo” (Mondadori, 2006). La globalizzazione è descritta da Friedman come un fenomeno di appiattimento del mondo (da cui il titolo del libro) dal punto di vista dei rapporti sociali ed economici. La globalizzazione secondo Friedman ha permesso di livellare il divario esistente tra i paesi industrializzati e quelli definiti emergenti come India e Cina. Il libro mette in luce il ruolo che Internet e le innovazioni tecnologiche ad esso legate stanno avendo nel rompere le barriere culturali, temporali e logistiche tra paesi diversi. Seppur non citato nel libro, che l'autore ha in parte integrato dopo l'edizione originale del 2005, il tema del Web 2.0 può essere facilmente riconosciuto in molti degli esempi citati. Friedman individua 10 forze principali che avrebbero contribuito a questo appiattimento globale: 1. La caduta del muro di Berlino con la conseguente fine della contrapposizione del blocco sovietico con quello occidentale che ha dato la possibilità ai vari paesi di intrecciare nuovi rapporti. Il mondo ora è un unico mercato, un singolo ecosistema, una singola comunità. 2. La quotazione di Netscape. La data di questo avvenimento viene presa come l'inizio dell'era di internet che ha portato alla comunicazione globale di cui vediamo quotidianamente gli effetti. È il browser commerciale che ha 102 determinato la grande diffusione di internet e del web come strumenti di comunicazione e di lavoro. 3. La creazione di software per il workflow in quanto incoraggiano lo sviluppo di procedure standardizzate per certi tipi di lavoro e transazioni commerciali permettendo ad un numero di individui sempre maggiore di collaborare sui reciproci contenuti digitali con una facilità senza precedenti. 4. L'avvento dell'uploading per mezzo del quale le persone mettono in condivisione con il resto del mondo le proprie conoscenze senza essere costretti a passare attraverso le tradizionali gerarchie organizzative o istituzionali. 5. L'outsourcing dall'America all'India. 6. L'offshoring. La delocalizzazione in Cina. 7. Il supply chaining. Ossia la collaborazione orizzontale tra fornitori, venditori e clienti. 8. L'insourcing. Il piccolo può agire come se fosse grande e le grandi imprese possono agire come se fossero piccole. Far gestire da terzi la propria filiera. 9. L'in-forming. È l'analogo, a livello individuale, dell'uploading, dell'outsourcing, dell'insourcing, del supply-chaining e dell'offshoring. È la capacità di dispiegare la propria supply-chain individuale. 10. Gli steroidi, intese come le ulteriori possibilità, date dalle nuove tecnologie come il wireless, di connettersi a internet e quindi di scambiare dati anche quando si è in movimento e non solo da casa o dall'ufficio, potenziando così le altre 9 forze appiattitrici. Oltre al mercato più grande e al vantaggio tecnologico, gli Stati Uniti disponevano di grandi risorse naturali e si è visto (cfr. paragrafo iii.) come oggi questo fattore sia meno importante che in passato e costituisca anzi un elemento di freno piuttosto che un vantaggio competitivo. Inoltre, l’America disponeva delle 103 scuole di management americane (business schools of administration) dove si formava la migliore classe di dirigenti del mondo e la classe lavoratrice era anche mediamente meglio istruita e più attiva. Questi vantaggi competitivi non esistono più perché Europa, Cina e Giappone hanno fatto passi da gigante in tutti i settori menzionati (salvo quello delle risorse naturali) anche perché sono stati capaci di diventare nazioni con elevati tassi di risparmio e quindi di investimenti cosa che gli Stati Uniti non sono mai riusciti a diventare a causa della bassa propensione al consumo e dell’endemica posizione deficitaria della loro bilancia dei pagamenti (si è parlato per anni dei twin deficits, dei deficit gemelli, ossia del decifit commerciale e del deficit pubblico). Ma è soprattutto nei livelli di istruzione intermedi che gli Stati Uniti non sono riusciti a tenere il passo delle altre due potenze della Triade: scarso livello di istruzione elementare e media, scarsa propensione all’educazione scientifica (molti avvocati, ma pochi ingegneri e scienziati), scarso training sul posto di lavoro, hanno determinato un grado di istruzione medio della classe lavoratrice americana più basso di quello dei Paesi concorrenti. Solo i migliori college americani sono su standard d’istruzione elevati e sfornano annualmente un buon numero di laureati di prima qualità. Passando ora a considerare l’Unione Europea di 27 Paesi, ci limitiamo a dire che stiamo parlando della seconda economia del mondo dopo gli Stati Uniti. Per approfondimenti rimandiamo alla dispensa ad hoc. 104 Unione europea[1] Bandiera dell'Unione europea Motto: Unita nella diversità[2] 27: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria Paesi membri 4: [3] Paesi candidati Lingue ufficiali Croazia, Islanda, Macedonia, Turchia 23[4]: bulgaro, ceco, danese, estone, finlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, romeno, slovacco, sloveno, svedese, spagnolo, tedesco, ungherese. Bruxelles Commissione europea Consiglio dell'Unione europea Parlamento europeo (solo poche sedute) Lussemburgo Sedi istituzionali Corte di giustizia dell'Unione europea Tribunale dell'Unione europea Segretariato Generale del Parlamento europeo Strasburgo Parlamento europeo (sede) Presidente della Commissione José Manuel Durão Barroso Presidente del Parlamento Jerzy Buzek Presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy Presidenza del Consiglio dell'Unione Europea[5] Primo ministro Ungherese Superficie 4 326 253 km² (7ª nel mondo*) Popolazione (2009) - Densità 499 723 520 (3ª 105nel mondo*) 114 ab./km² (fino al 30 ottobre 2014) (fino al 14 gennaio 2012) (fino al 31 maggio 2012) - Ungheria- (fino al 30 giugno 2011) Euro (€) (EUR) in 16 Paesi In relazione al Giappone, possiamo dire che è la terza economia del mondo dopo Stati Uniti e Cina (a livello di Pil), il terzo esportatore del mondo (dopo Cina e Germania). A livello culturale, esiste la pratica di basare i salari sull’anzianità e non sul merito. Il fatto di avere una moneta nazionale che si apprezza fortemente, dovrebbe costituire un fattore negativo per le esportazioni e invece sembra avere l’effetto contrario sulla bilancia commerciale giapponese. E’ certo comunque che la propensione del Giappone ad importare è pari a 1/4 di quella degli Stati Uniti ed è pari ad 1/12 di quella della Germania per cui, ceteris paribus, le importazioni giapponesi sono circa il 35% in meno di quello che sarebbero se il Giappone fosse un Paese occidentale. I prezzi dei prodotti non commerciabili internazionalmente sono circa il 90% più alti in Giappone che negli Stati Uniti, ma chi ha cercato di trarre profitto da questa enorme potenziale sopravvalutazione del cambio dello yen ha sempre fallito. Il modello di capitalismo occidentale si basa sull’individualismo, sulla convenienza a consumare i prodotti più a buon mercato, sull’interesse individuale, sulla massimizzazione del profitto. Lo spirito del Giappone è tipicamente collettivista. QUADRO DI APPROFONDIMENTO Individualismo vs collettivismo L’individualismo è radicato nelle culture occidentali, nelle società più ricche e urbanizzate. I suoi valori di riferimento sono: unicità, edonismo, successo personale, competizione sociale, attenzione all’immagine di sé. Nelle culture individualiste i rapporti reciproci fra gli individui non sono stretti: tutti s’occupano soltanto di se stessi e dei loro parenti stretti. Il collettivismo è radicato nelle culture orientali, nelle società agricole e nelle classi socio-economiche più modeste. Sono considerati valori tipici del collettivismo: armonia sociale, cooperazione, integrità della famiglia, ricerca di consenso, atteggiamento di modestia e umiltà. Nelle società collettiviste gli individui sono, dalla nascita, accolti in gruppi forti e stabili che gli offrono protezione in cambio di lealtà incondizionata. Il collettivismo enfatizza l'interdipendenza di ogni essere umano all'interno di un gruppo collettivo e la priorità delle finalità di gruppo sulle finalità individuali. I collettivisti si focalizzano sui concetti di comunità e società. Le basi filosofiche del collettivismo sono infatti collegate all'olismo o all'organicismo, la visione secondo la quale l'intero è maggiore della somma delle sue parti. Specificatamente, una società nel suo intero può essere vista come portatrice di un maggior significato o valore rispetto agli individui separati che la 106 compongono. I giapponesi sono mossi dal desiderio di appartenere ad una potenza economica vincente: il loro obiettivo è la massimizzazione della quota di mercato e del valore aggiunto (profitti + salari). In essi prevale il senso di “animale da branco”, invece che di “animale individuale”: anche per questo le aziende tendono a conservare lo stesso personale per tutta la vita. Il sistema economico nipponico è basato sul binomio “alto risparmio/elevato investimento”. Il Giappone ha investito negli ultimi anni circa il 35% del suo PIL, mentre negli Stati Uniti il rapporto in parola è pari a circa il 15%, (e di questo 15% gran parte va all’edilizia piuttosto che alle infrastrut-ture e agli impianti e macchinari). Inoltre, solo il 16% dei giapponesi sostiene che “è meglio consumare prodotti importati se essi costano meno”. Normalmente, la propensione ad allungare l’orizzonte temporale e ad accettare un basso rendimento richiede che gli azionisti impazienti siano tenuti a freno. I gruppi aziendali (Keiretsu) mirano proprio a questo: essi controllano il 78% delle azioni quotate alla borsa di Tokyo attraverso una selva di partecipazioni incrociate in modo che gli outsiders non riescono ad esercitare nessun controllo. I membri del Keiretsu hanno i vantaggi (la dimensione e il coordinamento) di società conglo-merate senza averne gli svantaggi (troppa centralizzazione e mancanza di focalizzazione). Per i giapponesi, l’obiettivo principale di una società non è quello di dare un rendimento sul capitale investito dagli azionisti (richiamo alla teoria degli shareholders, formalmente ritenuta ormai superata ma più che radicata nel capitalismo di tipo occidentale). Al primo posto sono i dipendenti, poi i clienti e gli azionisti vengono al terzo posto. Quest’obiettivo richiama alla memoria la teoria, di stampo manageriale, degli stakeholders, secondo la quale obiettivo dell’impresa è creare valore per tutti i portatori di interesse, coinvolti in un modo o nell’altro nella vita dell’impresa. A metà degli anni Novanta tuttavia il Giappone è entrato in una crisi profonda, connessa con le molte inefficienze del sistema e con lo scoppio di una bolla speculativa dei prezzi delle azioni e del mercato immobiliare, che non sembra solo congiunturale, ma anche strutturale. E’ un Paese in letargo (2011), che non cresce più, il cui debito pubblico è pari a oltre il 200% del Pil. 107 VANTAGGI E SVANTAGGI COMPETITIVI Unemployment rates Fonte: Eurostat 108 Fonte: Eurostat 109 Balance of payments Fonte: Eurostat 110 Fonte: Eurostat 111 9. Il ruolo della Cina come attore di primo piano sulla scena dell’economia internazionale “La pazienza è potere: con il tempo e la pazienza, il gelso si tramuta in seta.” (proverbio cinese) La Cina è diventato nel 2010 il secondo Paese al mondo a livello di Prodotto Interno Lordo, superando il Giappone, passato terzo in classifica. Gli Stati Uniti permangono in testa. Per far capire a quale velocità va oggi il mondo e come le cose cambino in fretta, riporto un passo di Visetti – corrispondente di Repubblica in Cina38: “Quarant’anni dopo l’avvio delle relazioni diplomatiche tra Cina e Stati Uniti, il presidente Hu Jintao atterra domani a Washington con un’agenda inimmaginabile, rispetto a quella che Mao Zedong presentò a Richard Nixon. Nel 1972 il leader di una nazione fallita chiese esplicitamente all’America un piano di aiuti per salvare 820 milioni di contadini dalla fame. Domani il capo di un Paese dei record, che si appresta a salvare e guirdare il mondo in questo secolo, baderà invece a rassicurare la Casa Bianca su una ragionevole lentezza del tramonto USA. I ruoli non sono ancora invertiti, ma oggi è Barack Obama a dover chiedere alla Cina un programma di salvataggio per gli Stati Uniti e per l’Occidente, cercando di capire non se, ma quando Pechino supererà anche Waghington iniziando a controllare il mondo che gli USA rappresentano”. Lo stesso 17.1.11, su Repubblica Rampini39 scrive: “Il 47% degli americani è convinto che il sorpasso tra Cina e Stati Uniti sia già avvenuto. In 38 G. Visetti, I padroni del mondo, La Repubblica, 17 gennaio 2011 39 Federico Rampini (1956) è un giornalista e scrittore italiano. Come corrispondente ha raccontato dapprima le vicende della Silicon Valley; ha lasciato poi gli Stati Uniti per aprire l'ufficio di corrispondenza di Pechino. Ha insegnato alla Berkeley University in California e alla Shanghai University of Finance and Economics. Nel 2009 torna a fare l'inviato de La Repubblica negli Stati Uniti. Si consiglia la lettura di : Il secolo cinese. Storie di uomini, città e denaro dalla fabbrica del mondo, Mondadori, 2005; L'impero di Cindia. Cina, India e dintorni: la superpotenza asiatica da tre miliardi e mezzo di persone, Mondadori, 2006; L'ombra di Mao. Sulle tracce del grande timoniere per capire il presente di Cina, Tibet, Corea del Nord e il futuro del mondo, Mondadori, 2006; La speranza indiana. Storie di uomini, città e denaro dalla più grande democrazia del mondo, Mondadori 2007; Centomila punture di spillo. Come l'Italia può tornare a correre, con Carlo De Benedetti e Francesco Daveri, Mondadori 2008; Con gli occhi dell'Oriente, Mondadori, 2009; Occidente estremo; Il nostro futuro tra l'ascesa dell'impero cinese e il declino della potenza americana, Mondadori 2010. 112 realtà nelle proiezioni più ottimiste l’economia cinese non raggiungerà le dimensioni americane prima del 2018 (altri rinviano lo storico aggancio verso il 2030). Ma le percezioni contano, e di percezioni è fatto questo G2, il vertice sino-americano che si apre domani sera a Waghington...Hu rappresenta un Paese che ha sfondato i 250 miliardi di dollari di attivo commerciale annuo con gli Stati Uniti nel dicembre 2010. Il 21% di tutti i debiti esteri del Tesoro USA sono detenuti da Pechino, per un totale di 850 miliardi. E la banca centrale cinese con 2.850 miliardi nelle sue casse (la massima parte in dollari) ha il 25% delle riserve valutarie mondiali”. Seguono alcune tabelle de “Il Sole 24 Ore del 15 e 16.1.11. 113 114 QUADRO DI APPROFONDIMENTO La Cina non è Oriente, è Occidente avanzato, tratto dal blog Faust e il Governatore, 29.10.10 Shanghai La Cina è diventato il secondo Paese al mondo a livello di Prodotto Interno Lordo, superando il Giappone, passato terzo in classifica. Gli Stati Uniti permangono in testa. Peraltro il PIL pro-capite cinese – dati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e della Banca Mondiale – è nell’intorno di 6.800 dollari, ben al di sotto delle potenze industriali occidentali, ma in forte crescita. L’economista Raghuram Rajan – ex capo economista del FMI – ci ha spiegato nel suo ultimo libro – Fault lines. How hidden fractures still threaten the world economy (Princeton University Press, 2010) - che molte nazioni oggi sono ricche perchè hanno avuto una crescita stabile nel tempo, non perchè sono cresciuti particolarmente veloce. 115 Gli Stati Uniti dal 1820 al 1870 sono cresciuti in media dell’1,3%. Il Giappone - che nel 1850 aveva un PIL pro-capite inferiore a quello del Messico – tra il 1950 e il 1973 ha vissuto una crescita del PIL pro-capite di circa l’8% medio annuo: “No country has grown as fast as Japan did between 1950 and 1973". Bene. La Cina sta superando le performance del Giappone. E' l'unico caso di Paese che cresce in modo stabile con alti tassi di crescita. Se facciamo una proiezione dei dati del 2009 a dieci anni – con una crescita media dell’8% - vediamo che nel 2020 il PIL pro-capite cinese sarà pari a 15.855$ (2,3 volte quello del 2009), livello attuale del Portogallo. Statene certi! Se la Cina si fissa degli obiettivi, li rispetta. Un esempio? Nel lontano 2001 la Cina dichiarò che all’EXPO di Shanghai del 2010 avrebbe superato i 70 milioni di visitatori. Così il Sole 24 Ore http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-10-25/lexpo-shanghai-supera-tutti113635.shtml?uuid=AYD7TzdC del 25 ottobre: “Il biglietto con il numero 70 seguito da sei zeri è stato staccato alle 10.17 di ieri mattina. Il target di 70 milioni di visitatori per il Shanghai World Expo 2010 è stato raggiunto nell'ultima settimana, quella precedente ai sei mesi dall'apertura. Nella sola giornata di domenica i vistiatori sono stati 727.600. La maggior parte di nazionalità cinese”. Juan ed Evita Peròn Non è sempre così. Un esempio negativo? L’Argentina. Così l'economista d'impresa Marco Vitale nel 1991 http://www.marcovitale.it/articoli/1991/clubISTUD_29011991.pdf : “E se vogliamo 116 stare sul leggero il colonnello Juan Peròn quando nel 1943 fu nominato ministro del lavoro era giovane, bello, aveva una bellissima voce, una grande abilità oratoria, era campione di sci e di scherma, era uno pseudointellettuale, era forte e impetuoso, aveva, insomma, un enorme carisma personale. Ma allora l’Argentina era uno dei paesi più ricchi del mondo, con 1500 milioni di dollari e sterline di riserve. Era la grande speranza, il Canada dell’America Latina. In poco più di dieci anni il peronismo ridusse l’Argenitna a pezzi, condannandola, sembra definitivamente all’arretratezza economica, sociale e politica”. Aggiungiamo a titolo ironico che vista l'inefficienza cronica di Telecom Argentina, alcune imprese assumevano persone "whose sole job was to hold a telephone handset for hours on end until thay heard a dial tone" (Rajan, p. 54). Confrontandomi durante il mio viaggio a Shanghai con alcuni esponenti della business comunity, tutti mi hanno confermato che la classe dirigente cinese è di primissimo ordine. Il nepotismo? Se esiste è solo per i ruoli inferiori e non determinanti. Niente impedisce a un governo statale di distribuire favori ad amici o parenti incompetenti, ma in Cina siamo su un altro pianeta. La meritocrazia impera. Zhou Xiaochuan, banchiere centrale cinese Prendiamo il Governatore della Banca centrale cinese, Zhou Xiaochuan. "He is one of the most influential economic figures in the world and was ranked 9th by Foreign Policy in the Top 100 Global Thinkers report. He is generally considered the most academically capable of the current Chinese leadership, being praised for his intellect and diplomacy. He has been called "China's most able technocrat" and is the only highly-ranked Chinese politician to have been published in a Western 117 academic journal. Although he has yet to reach the highest rungs of decisionmaking within the State Council, he is considered a strong and vocal advocate of further liberalization in the financial sector. He has increasingly displayed an openness to the press - rare for a senior Chinese official - and is most famous for the motto: "If the market can solve the problem, let the market do it. I am just a referee. I am neither a sportsman nor a coach."(Wikipedia) Shanghai non è Oriente. E’ Occidente avanzato. Arrivati a Shanghai non si vive alcuno shock culturale. Solo la sensazione di una macchina oliata e perfetta in forte avanzamento. Senofonte Sempre Vitale puntualizza che nell’Economico di Senofonte, Socrate attribuiva grande importanza alla capacità di comando: “Comandare a gente che obbedisca volentieri è cosa che pare divina”. Ecco, in Cina la gente obbedisce volentieri. Senza nessun dubbio. Non siamo certo all’anarchia italica. Tutti vanno nella stessa direzione. E se lo fanno 1 miliardo e quattrocento milioni di persone, i risultati sono sotto i nostri occhi. QUADRO DI APPROFONDIMENTO Il Nobel a una sedia vuota. Ma la Cina non è una dittatura, tratto dal blog Faust e il Governatore, 14.12.10 118 Quando venerdì scorso è stato consegnato il Nobel per la pace, la sedia di Liu Xiaobo, dissidente, promotore di “Charta 08”, è rimasta vuota. Xiaobo è stato condannato a undici anni per “istigazione alla sovversione” e rinchiuso nel carcere della Manciuria. E’ stato un brutto spettacolo. E’ brutto che i primi ministri europei si siano fatti intimidire dalla Cina e non abbiamo osato chiedere la liberazione di Xiaobo. L'architetto Ai Weiwei L’archistar e artista dissidente Ai Weiwei – arrestato perchè voleva festeggiare con un party la demolizione forzata del suo studio a Shanghai, liberato dopo tre giorni ai domiciliari - ha dichiarato: “Humour is a necessary ingredient when you are living under an authoritarian society. I’m in a battle against any system that tries to limit our imagination. Only with humour and art do we have a superior advantage, and we sill win every time....La Cina è un luogo dove non esiste libertà di espressione, dove l’accesso alle informazioni è limitato dalla censura, dove non si svolgono elezioni e dove la giustizia dipende dalla violenza del potere. Il mondo deve capire cosa significa trasformare un luogo simile nella prima potenza del pianeta”. E prosegue – decisamente incazzato: “L’atteggiamento internazionale fa pietà. Arrivano in Cina capi di Stato e di governo e nessuno osa pronunciare in pubblico le parole “diritti umani”. Come possono essere così miopi? I grandi leader, dopo il Nobel per la pace, non si arrischiano nemmeno a dire il nome di Liu Xiaobo. I figli dell’Occidente malediranno questo errore”. 119 A fronte della sedia vuota di Xiaobo e delle affermazioni di Weiwei, la reazione sarebbe di considerare la Cina una dittatura. Non è così. Il nostro sempiterno riferimento Marco Vitale in un recente commento scrive: “In primo luogo la Cina è un paese governato da una classe dirigente che coltiva una cultura del fare vera e non parolaia, come da noi. In secondo luogo la peculiare democrazia cinese, così diversa dalla nostra, con il ruolo centrale del partito, facilita il processo decisionale anche se in Cina vi sono talora divergenze forti fra autorità locali e centrali e se la presenza di un’opinione pubblica attenta è in crescita. Immagino che molti si risentano del fatto che ho usato la parola democrazia cinese, ma penso che sia un grande errore continuare a classificare la Cina come un Paese totalitario. Nell’interno del partito esiste una forte dialettica e forme di competizione democratica. L’opinione pubblica incomincia a contare. Gran parte della strada verso un Paese di diritto è stata percorsa. Molti meccanismi di bilanciamento di poteri sono in atto, che rendono possibile parlare di democrazia sia pure controllata e fortemente guidata dalle oligarchie del partito che resta tetragono ad ogni democratizzazione. Forse, provocatoriamente, si potrebbe parlare di autoritarismo democratico”. 120 Slavoj Zizek Interessanti anche alcune considerazioni del filosofo sloveno – gran provocatore, visiting professor in numerose università dal mondo - Slavoj Zizek: “Dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue tra un secolo, penso a Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni primo ministro di Singapore. E’ stato lui a inventare quella pratica di grande successo che poeticamente potremmo chiamare “capitalismo asiatico”: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, ma che può fare a meno della democrazia, e anzi funziona meglio senza democrazia. Deng Xiaoping visitò Singapore quando Lee stava introducendo le sue riforme, e si convinse che quel modello andava applicato alla Cina”. Poi Zizek tocca un punto importante, la fine della connessione tra democrazia e capitalismo: “Credo che i meccanismi democratici non siano più sufficienti ad affrontare il tipo di conflitti che si prospettano all’orizzonte. Sembrano richiedere un “governo di esperti” molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare, e lo metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi. Ma il punto non è criticare la democrazia in sè; bisogna comprendere come la democrazia si stia autodistruggendo, ed è importante sottolinearne l’aspetto strutturale: non si tratta delle decisioni di singoli pessimi leader, della loro brama di potere o simili: è il sistema stesso che non può più riprodursi in modo autenticamente democratico”. Io sono indotto a pensare che non bisogna prendere scorciatoie. Noi europei ci abbiamo messo circa duemila anni per approdare alla democrazia, non possiamo pretendere che questo salto storico altri lo facciano in un solo giorno. Abbiamo visto come esportare la democrazia sia assai complicato e nefasto. Ogni popolo deve 121 trovare dentro di sè le energie per liberarsi dei propri tiranni, altrimenti diventerà schiavo del suo liberatore. Si sbaglia di grosso chi pensa che la guerra sia la via più veloce per risolvere un problema. Dopo una guerra il problema è ancora intatto. E la guerra per esportare la democrazia è stata un fallimento clamoroso. Dopo l’invasione dell’Afghanistan nell’ottobre 2001, la situazione è migliorata? Consiglio a tutti la visione del film Bhutto sulla storia della famiglia Bhutto e in particolare di Benazir, gran donna, con un coraggio ammirevole, primo ministro due volte del Pakistan, assassinata il 27 dicembre 2007. QUADRO DI APPROFONDIMENTO Comandano in nove e lavorano in un miliardo e quattro, tratto dal blog Faust e il Governatore, 12.11.10 Shanghai Nel mio recente viaggio a Shanghai ho conosciuto Alessandro Asperti, un giovane manager, 31 anni, con le strapalle, rappresentante in Cina della famiglia bresciana dei 122 Lonati. Alessandro è partito per l’avventura cinese alcuni anni or sono, a 25 anni e tanta voglia di imparare. Mentre eravamo a cena in uno splendido ristorante cinese vicino alla zona più trendy di Shanghai – il Bund – Alessandro ha preso la parola e ha detto con grande lucidità (dimostra molto più dei suoi anni): “Decidono in tre e lavorano in un miliardo e quattro”. Fulminante. Da qui il titolo del post di oggi. Nel suo recente "The Party. The secret world of China’s Communist rulers" (Harper Collins, 2010), il giornalista statunitense Richard McGregor racconta il mondo segreto del vertice politico cinese. E conferma l’incipit di Asperti: “Comandano in nove. Nove sono i membri del Comitato permanente dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale del Partito comunista cinese. Hu Jintao fra questi nove è un primus inter pares, un primo tra pari. Io li descriverei seduti interno ad un tavolo rotondo del quale il presidente occupa il posto principale, ma in cerchio con gli altri”. Giovedì scorso la nota rivista americana Forbes ha incoronato Hu Jintao come l’uomo più potente del mondo. Si chiude così un 2010 eccezionale per la Cina, che ha frantumato tutti i record ed è tornata dopo alcuni secoli ad essere l’epicentro del mondo. L’anno della Tigre si è aperto con il sorpasso sul Giappone a livello di PIL, poi la continua crescita delle esportazioni cinesi, la forza del renmimbi, la crescita delle riserve ufficiali di valuta estera, il successo dell’EXPO di Shanghai hanno fatto il resto. 123 Questa la motivazione di Forbes nell’attribuire il premio al presidente del partito comunista cinese: “Hu Jintao è il leader politico fondamentale più di qualunque altro per il maggior numero di persone, in quanto esercita un controllo dittatoriale su un quinto della popolazione mondiale, è alla guida del più grande esercito della Terra. E’ in grado di spostare fiumi, costruire e trasferire metropoli, mettere in carcere dissidenti, censurare internet senza ingerenze burocratiche”. A tarda sera l’Agenzia di Stato ufficiale cinese ha risposto seccamente con il seguente comunicato: “All’imperialismo occidentale non restano che premi simbolici per tentare di fermare la crescita dell’Oriente”. La reazione piccata di Pechino all’attribuzione del premio Nobel al dissidente cinese Liu Xiaobo ha mostrato al mondo la fragilità del sistema politico cinese, che dovrà dimostrare in futuro – specialmente il successore di Hu Jintao, Xi Jinping, che non appartiene alla classe di “tecnocrati riformisti”, ma a quella avversaria, formata dai “principi rossi conservatori” – di saper coniugare crescita economica e richieste della società civile. Ma la Cina è lontana? No, vicinissima. Nel loro splendido articolo sul Corriere della Sera, Stella e Rizzo, link http://archiviostorico.corriere.it/2010/novembre/06/Arte_banchieri_capitale_che_per duta_co_9_101106011.shtml , ci raccontano come a Prato “Incalzano i cinesi (che non vivono di passato)”: “Prato ha 186mila abitanti. Un boom demografico senza precedenti: tra il 1951 e il 2010 la popolazione è cresciuta del 165%. Prima arrivarono i meridionali. Poi, ancora più numerosi i cinesi. Tutti o quasi dalla provincia contadina del Wenzhou. Quanti sono? Quelli legali, 12 mila. Quelli 124 illegali, almeno 25 mila. Ma nessuno davvero lo sa. La più grande di clandestini sotto la luce del sole. Aumentano a dismisura prima con il tacito ammiccamento degli italiani, poi contro. Capoluogo dal 1992 dell’omonima e inutile provincia italiana, Prato offre il 27% di tutta la produzione tessile italiana. Un giro di affari di quattro miliardi di euro, come il Pil della Somalia. Più altri due miliardi, però dei cinesi. Chiariamo: sono stime. Perchè qui il colore preferito è quello delle automobili - nella Chinatown pratese sfila ininterrotta la processione di Porsche Carrera, Suv Mercedes, e Audi R8, tutte rigorosamente nere". Chiudiamo segnalandovi Silvia Pieraccini e il suo “L’assedio cinese” (Il Sole 24 Ore, 2010), dove si legge che un ufficio Money tranfer di Prato “Gestito da un immigrato, in 18 mesi di attività, ha trasferito in Cina 550 milioni di euro attraverso 60.000 operazioni di importo inferiore a 12.500 euro” (limite per la segnalazione all’Ufficio di Informazione Finanziaria UIF, di Banca d’Italia). Come vedete, i cinesi – che siano in Cina o in Italia – risparmiano oltre il 50% del reddito disponibile, con il quale aprono nuovi centri massaggi - "falegnamerie" per gli addetti ai lavori - nel centro di Milano, assai redditizi. 125 QUADRO DI APPROFONDIMENTO La determinazione cinese, Terzani e l’operazione Yao Ming, tratto dal blog Faust e il Governatore, 4.11.10 Ripensando al post precedente sulla Cina - La Cina non è Oriente, è Occidente avanzato - corre l’obbligo riportare la view di Gideon Rachman (ben più quotato del sottoscritto), editorialista del Financial Times – China can no longer pread poverty, October 26 2010: “Anybody who talks regularly to Chinese officials will be familiar with the mantra that “China is a developing country”. But Shanghai, which I visited last week, mocks this modest description. With its eight-lane highways, its modern and efficient subway, its forest of neon-lit skyscrapers, giant new airport and chic hotels, China’s commercial capital is defiantly developed…China’s insistence that it is a poor, developing nation is beginning to wear a little thin”. Il drago cinese – di cui Napoleone si era preoccupato che si svegliasse – si è svegliato alla morte di Mao - 1976. Le forze interne sono finalmente emerse. Il carattere cinese ha potuto finalmente esprimersi, a partire dal 1980 con l’inizio delle riforme portate avanti da Deng Xiaoping. 126 Tiziano Terzani In relazione alla forza interiore cinese, ho trovato calzante un racconto tratto da Tiziano Terzani nel suo magistrale Un indovino mi disse (Tea, 1995), dove riporta il pensiero di un prete cattolico olandese, padre Willem: “Un indonesiano va a pescare e prende tantissimi pesci. E’ felice, torna a casa e si doge per giorni quel che ha guadagnato, pensando che può riposarsi. Un cinese va a pescare e prende tanti pesci; pensa che quella è una buona stagione, che ha trovato un punto ottimo; scarica la barca, ritorna a pescare e prende tantissimi altri pesci”. Ho ripensato alla determinazione del popolo cinese. E mi è tornato alla mente un libro letto anni fa: Operation Yao Ming (Brook Larmer, Gotham Books, 2005), che descrive come Yao Ming – campione di basket cinese ingaggiato dagli Houston Rockets – sia stato progettato in laboratorio, programmato a tavolino. 127 Yao Ming Il Governo cinese ha indotto i genitori (lei giocatrice di basket, altissima) a sposarsi poiché ritenuti “adatti” in seguito ad un complicato e ovviamente segretissimo processo di selezione “naturale” per talento, struttura fisica e atteggiamento mentale. Una sorta di Frankenstein del parquet dell’NBA (National Basket Association). Insomma, è stata pianificata con grande commitment una gigantesca operazione commerciale su scala globale, per rendere più friendly la Cina da parte degli americani, che erano alla ricerca di un erede di Michael Jordan. Il giornalista Larmer, ex corrispondente di Newsweek, scrive: “Their mission was simple: to bring honor to the largest nation on earth, a country that passed centuries of insecurity”. Penso che abbia ragione Terzani: “La cultura cinese, umiliata dal confronto con l’Occidente, è moribonda almeno da un secolo e Mao, non a caso cercando di fondare una “Nuova Cina”, ha finito per ammazzare quel poco della vecchia che restava. Senza più niente a cui rifarsi, i cinesi ora non sognano che di diventare americani”. Napoleone Bonaparte E la libertà di stampa? Non esiste. In Cina è vietato agli investitori esteri fondare società editoriali. E’ stato seguito l’insegnamento di Napoleone: “La stampa è un arsenale che occorre non mettere a disposizione di tutti”. Io leggendo il China Daily 128 – che pubblicava un articolo di un senatore statunitense – ho pensato che avessero modificato il contenuto perchè è impossibile vedere un parlamentare statunitense plaudire all’assenza di libertà di stampa. Nel mio viaggio a Shanghai sono rimasto colpito anche dalle piccole innovazioni, semplici, che potrebbero far comodo anche a noi italiani. Sappiamo che l’evasione fiscale in Italia è un fenomeno diffuso, legittimato a livello sociale, inestirpabile (fino ad oggi), perchè ampiamente tollerato. Anche l’inflazione in Italia sembrava invincibile, poi a partire dal decreto di San Valentino del Governo Craxi (1984) che abolì il punto unico di contingenza (i.e. l’indicizzazione al 100% dei salari alla crescita dell’inflazione), grazie alle lucide analisi di Ezio Tarantelli – vedi post http://fausteilgovernatore.blogspot.com/2010/10/modigliani-baffi-e- tarantelli.html – applicate con l’accordo Trentin-Amato del 1992, poi formalizzato da Ciampi del 1993, l'inflazione è stata sconfitta. E sorridiamo nel 2010 a leggere titoli assurdi sui giornali “E l’inflazione vola”, e parliamo dell’1,6% (non del 19% dei primi Anni ’80!). I cinesi danno la possibilità ai cittadini di scaricare dall’imponibile numerose spese correnti, tra le quali le ricevute dei ristoranti. E quindi tutti porgono i loro dati al momento del pagamento per avere la ricevuta fiscale. E – sorpresa delle sorprese – nella ricevuta c’è una lotteria “Gratta e vinci” che dà la possibilità di vincere un montepremi significativo di renminbi cash. Luigi Zingales Sono gli incentivi che governano l’economia. Bisogna solo avere la volontà politica di farne buon uso. Ah, se Berlusconi avesse tempo di leggere Zingales e Rajan! Ma ha altro da fare. Bunga bunga. 129 In primo luogo è fondamentale comprendere quali siano i fattori che hanno permesso il decollo dell’economia cinese. La più grande risorsa di cui dipone la Cina è certamente la popolazione. La Cina è da sempre contraddistinta per l’elevatissima popolazione e si posiziona al primo posto nella lista dei paesi più popolati, vantando, nel 2008, una popolazione di 1 miliardo e 300 milioni di abitanti. Il fattore trainante dello sviluppo economico Cinese è la possibilità di usufruire di una grande manodopera, numerosa, preparata e spesso sfruttata. Il mondo globalizzato ha permesso al resto del mondo di accedere ad una manodopera a basso costo da un lato, e ha fatto sì che la più grande industria manifatturiera venisse esportata in tutto il mondo. Oggi è tutto made in China, dagli abiti low cost a quelli dei grandi nomi della moda internazionale, dall’oggettistica generale a qualunque tipo di prodotto per la persona. Oltre che sull’industria manifatturiera, l’economia cinese si basa su l’industria in genere, risorse forestali e minerarie, allevamento e agricoltura. In particolare l’agricoltura, nonostante lo sviluppo industriale dell’epoca moderna, mantiene percentuali interessanti, grazie anche ad una sua riorganizzazione territoriale e aziendale. La Cina è la prima esportatrice mondiale di riso ed una delle maggiori esportatrici di mais, frumento, avena, soia, tè, zucchero. Anche per quanto riguarda la pesca si presenta come uno dei maggiori esportatori del mondo. La Cina è un Paese con tradizioni secolari, con dei valori forti, con un passato pieno denso di storia e filosofia. Qualche dato: 1. il PIL della Cina ha raggiunto i 1.337 miliardi di dollari, superando il PIL giapponese e diventando la seconda economia del mondo; 2. il PIL nel secondo trimestre 2010 è cresciuto del 10,3% (e noi italiani siamo qui a trastullarci sullo zero 130 virgola); 3. l’indice dei prezzi al consumo è al 3,5% in crescita dal 3,3% (e le minute pubblicate del meeting di settembre del Federal Open Market Committee della Banca centrale americana indicano la chiara volontà della FED di creare inflazione perchè i prezzi non crescono: “Participants noted a number of possible strategies for affecting short-term inflation expectations, including providing more detailed information about the rates of inflation the Committee considered consistent with its dual mandate, targeting a path for the price level rather than the rate of inflation, and targeting a path for the level of nominal GDP”; Shanghai 4. la Cina ha due porti – Shanghai e Shenzhen – tra i quattro maggiori del mondo quanto al numero di container movimentati al giorno; 5. la cinese Suntech Power è la seconda società “solar power” al mondo; 6. in Cina sono presenti più di 900.000 milionari (in dollari), e il numero cresce ogni anno (come private banker, mi dovrei spostare immediatamente là!); 7. è il primo Paese al mondo dove il produttore di vino Chateau Margaux ha aperto i suoi uffici; 8. i turisti cinesi nel 2010 spenderanno in Giappone circa 6 miliardi di dollari, e si stima 60 miliardi entro 10 anni; 9. l’import di orologi svizzeri nel 2010 cresce del 49%; 10. la società quotate trattano a 13 volte gli utili del 2010, sotto la media storica a livello di p/e (price earning ratio); 131 11. le tre donne self-made più ricche del mondo sono cinesi e 11 delle 20 donne miliardarie nel mondo vengono dalla Cina http://www.economist.com/node/17248052?fsrc=scn%2Ffb%2Fwl%2Far%2Fselfma dewomen Come sottolinea Jim O’Neill di Goldman Sachs, “China is at the core of a broader BRIC and N11 group which is going to create between them , between $ 10 -15 trillion Dollars worth of additional consumption this decade. As this happens, there will be plenty for all producers to benefit from, almost irrelevant of currency values”. In Italia sembra sia scomparso il lungo termine. Tutti dico tutti stanno dando retta a Lord Keynes – in the long term we are all dead; siamo affetti da short-termismo acuto e siamo focalizzati sull’oggi, neanche sul domani o sul dopodomani. Siamo malati di presentismo. 132 Io (Piccone, ndr) credo che la Cina invece abbia un grande vantaggio competitivo e culturale. Ha in sè la cultura dei tempi lunghi e riesce a progettare su archi ventennali. E la dirigenza cinese è di alto livello. E’ intrisa di cultura millenaria. Segue diligentemente i precetti del Tao del filosofo Lao-Tze, V° secolo a.C.: “Il capo eccellente ottiene i risultati con pochissimo movimento, insegna non attraverso molte parole ma attraverso l’esempio. Si tiene informato di tutto. Ma non interferisce quasi per niente. La sua presenza assicura che le cose siano fatte meglio che se lui non ci fosse ma quando i suoi uomini hanno successo egli non se ne prende il merito e poichè non se ne prende il merito, il merito non lo abbandona mai”. Henry Kissinger e Mao Zedong E’ utile e divertente ricordare che quando Kissinger – Consigliere per la sicurezza nazionale dell’Amministrazione Nixon - visitò la Cina ai tempi di Mao nel 1972, il premier cinese Zhou Enlai diede proprio l’idea del lunghissimo termine. Quando Kissinger gli chiese la sua opinione sull’impatto della Rivoluzione Francese 133 del 1789, Zhou ci pensò intensamente prima di dire: “La Rivoluzione Francese? E’ troppo presto per giudicare”. Gross domestic product 2009 Ranking 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 Economy (millions of US dollars) United States 14,256,300 Japan 5,067,526 China 4,909,280 Germany 3,346,702 France 2,649,390 United Kingdom 2,174,530 Italy 2,112,780 Brazil 1,571,979 Spain 1,460,250 Canada 1,336,067 India 1,296,085 Russian Federation 1,230,726 Australia 924,843 Mexico 874,902 Korea, Rep. 832,512 Netherlands 792,128 Turkey 617,099 Indonesia 540,277 Switzerland 500,260 Belgium 468,552 Poland 430,076 Sweden 406,072 Austria 384,908 Norway 381,766 Saudi Arabia 369,179 Iran, Islamic Rep. 331,015 Greece 329,924 Venezuela, RB 326,498 Denmark 309,596 Argentina 308,741 South Africa 285,983 Thailand 263,856 United Arab Emirates 261,348 Finland 237,512 Colombia 230,844 Portugal 227,676 Ireland 227,193 Hong Kong SAR, China 215,355 Israel 194,790 Malaysia 191,601 134 Il ruolo dell’India, la più grande democrazia del mondo L'India, ufficialmente Repubblica dell'India, è uno stato dell'Asia meridionale, con capitale Nuova Delhi (o New Delhi). È il settimo paese per estensione geografica al mondo (3.287.590 km²) e il secondo più popolato con 1.173.108.018 abitanti (stima effettuata nel 2010). Questo paese vanta, tra gli altri, un primato non indifferente: è la più grande democrazia al mondo. Resasi indipendente nel 15 agosto del 1947, si presenta come una federazione di stati con parlamenti e governi autonomi (28 stati federati e 7 territori). A partire dal 1991 importanti riforme economiche hanno trasformato l'India in uno dei paesi con tassi di crescita economica fra i più alti del mondo, che hanno contribuito, tanto a livello regionale che globale, ad aumentare il peso specifico. È considerata uno dei maggiori paesi emergenti, anche se in realtà verrebbe da dire che, come gli altri Brics, è già emersa da tempo. Da anni, infatti, gioca un ruolo deicisivo nell’economia globale; in particolare si parla dell’India come l’ufficio del mondo (così come la Cina veniva considerata la fabbrica del mondo, almeno fino a pochi anni fa). Questo paese, che ancora verso la metà del secolo scorso viveva 135 essenzialmente di agricoltura, ha conosciuto uno sviluppo straordinario del settore dei servizi (call center, centri di ricerca; soprattutto nelle grandi città come Bangalore): nel 2007 essi contavano per il 60% nella formazione del PIL nazionale. Molto di questo cambiamento è dovuto agli investimenti esteri (l’India si posizionava al quindicesimo posto nella classifica delle destinazioni degli IDE); in realtà il valore assoluto degli investimenti in India non è elevatissimo (nel 2010 il valore dello stock di IDE è pari a 165 miliardi $, contro i 680 della Cina), ma questo è dovuto al fatto che gli investimenti in servizi richiedono pochi capitali rispetto a quelli richiesti, ad esempio, per l’apertura di una fabbrica. PIL PIL nominale in (US$ bn) PIL nominale (Rs bn) Crescita reale del PIL (%) Spesa sul PIL (% reale) Consumi privati Consumi del Governo Investimenti lordi fissi Export di beni e servizi Import di beni e servizi Origine del PIL (% reale) Agricultura Industria Servizi 136 2008a 2009b 2010c 2011c 1,260.0 55,745 5.1 1,296.3 62,312 7.7 1,594.8 73,582 8.0 1,832.1 84,001 8.2 6.8 16.7 4.0 19.3 23.0 4.3 10.5 7.2 -6.7 -7.3 6.4 9.3 9.6 13.9 11.6 6.5 9.0 12.2 12.2 12.4 1.6 3.9 9.8 0.2 9.3 8.5 1.1 9.5 9.4 2.3 9.7 9.4 Demografia e reddito Popolazione (m) PIL pro-capite (US$ a PPA) Tasso di disoccupazione (media %) Indicatori fiscali (% del PIL) Reddito del Governa centrale Spesa del Governo centrale Bilancio di Governo Debito netto pubblico Prezzi e indicatori finanziari Tasso di cambio Rs-US$ (media) Prezzi al consumo (media; %) Prezzi alla produzione (media; %) Tasso di interesse di prestito (media; %) Conto corrente (US$ m) Bilancia commerciale Merci: export fob Merci: import fob Bilancia dei servizi Bilancia dei redditi Bilancia dei trasferimenti di conto Bilancia in conto corrente Riserve internazionali (US$ m) Totale delle Riserve internazionali 1,148.0 3,011 - 1,166.1 3,230 - 1,184.1 3,470 - 1,202.1 3,751 - 9.8 15.9 -6.0 54.9 10.3 16.9 -6.5 57.3 10.8 16.3 -5.5 55.4 10.6 15.8 -5.2 54.9 43.51 8.3 9.1 48.41 10.9 2.1 46.16 11.0 9.7 46.00 5.8 5.3 13.3 12.2 12.4 13.2 -124,452 203,069 -323,862 48,044 -3,542 48,751 -30,955 -106,040 168,244 -269,998 36,824 -6,504 49,102 -26,626 -126,370 200,900 -327,270 54,768 -11,636 56,451 -26,788 -150,009 224,000 -374,009 65,508 -17,348 62,654 -39,195 254,024 274,668 285,763 304,338 a Attuale. b Stime Economist Intelligence Unit. c Previsioni Economist Intelligence Unit . Fonte: IMF, International Financial Statistics. Se consideriamo il PIL corretto per la parità del potere di acquisto (PPP), l’India aveva, nel 2008, il quarto PIL più grande al mondo (pari a 3300 miliardi di dollari), e le previsioni la vedono salire di una posizione entro il 2020 (con un valore stimato di 13300 miliardi di dollari). Per renderci conto delle dimensioni di questo dato, l’Italia ha prodotto, nel 2008, un PIL di 1800 miliardi, e si prevede per il 2020 un valore di 2800 miliardi. 137 Le cose cambiano se consideriamo il PIL calcolato al cambio di mercato corrente (dollaro/rupia): l’India si posiziona in questo caso al 12° posto nel 2008 (1200 miliardi), e si prevede salirà al 7° entro il 2020 (3200 miliardi). Parlando di crescita, mentre i paesi industrializzati hanno visto nel periodo della crisi finanziaria tassi di crescita prossimi allo zero, se non addirittura negativi), l’India è cresciuta dal 2006 al 2010 ad un tasso medio del 6,6%, e si prevede che continuerà a crescere ad un tasso del 6,5% fino al 2020. L’India è destinata ad assumere un ruolo sempre maggiore nell’economia globale: si stima che in essa verranno creati il 30% dei nuovi posti di lavoro da qui al 2020 (132,4 milioni di nuovi posti), con gli USA che conteranno per il 2,6% e l’unione europea per solo il 1,8%. Anche se guardiamo al tasso di disoccupazione l’India si trova in un’ottima posizione, con il più basso valore (insieme alla Cina) nelle maggiori economie: 4,7% nel 2007 (quando l’Italia si attestava intorno all’8%). Poiché tutti questi posti di lavoro sono sempre maggiormente legati al settore dei servizi, c’è una forte tendenza a spostarsi dalle aree rurali verso le aree urbane: il tasso di urbanizzazione, infatti, pari al 29% nel 2005, è previsto crescere fino al 47% entro il 2025. Questo dato si riflette anche in un altro indicatore dello sviluppo di un paese, a volte sottovalutato: la crescita nella domanda di energia, che in India presenta un tasso pari 3,3% annuo, superata solo dalla Cina. Questo perché la crescita, la costruzione di infrastrutture, di industrie e la richiesta di benessere da parte di una fetta sempre maggiore della popolazione, richiedono uno straordinario utilizzo di energia. (informazioni tratte dal libro "Eurasia's Emerging Megamarkets" di Paul Fisher, edizioni BookSurge 2010). 138 Diamo un’occhiata alla borsa indiana, qui rappresentata dall’Indice Sensex (30 titoli a maggiore capitalizzazione della borsa di Mumbai). Il passaggio decisivo per la crescita indiana è stato il Primo Ministro Mr Shri Narasimha Rao40 (al potere dal 21.6.1991 al 16.5.1996) che – con un grandioso programma di liberalizzazioni e apertura delle frontiere, che gli valse il soprannone di Padre delle riforme economiche indiane – trasformò l’India da Paese autarchico a Paese aperto ai mercati internazionali. 40 Pamulaparti Venkata "Narasimha Rao" (1921–2004) was the 10th Prime Minister of India, serving from 1991 to 1996. He led one of the most important administrations in India's modern history, overseeing a major economic transformation. Rao accelerated the dismantling of the Licence Raj. Rao, also called the "Father of Indian Economic Reforms," is best remembered for launching India's free market reforms that rescued the almost bankrupt nation from economic collapse. He was also commonly referred to as the Chanakya of modern India for his ability to steer tough economic and political legislation through the parliament at a time when he headed a minority government. Rao's term as Prime Minister was an eventful one in India's history. Besides marking a paradigm shift from the industrializing, mixed economic model of Jawaharlal Nehru to a market driven one, his years as Prime Minister also saw the emergence of the Bharatiya Janata Party (BJP), a major right-wing party, as an alternative to the Indian National Congress which had been governing India for most of its post-independence history. Rao's term also saw the destruction of the Babri Mosque in Ayodhya which triggered one of the worst Hindu-Muslim riots in the country since its independence. 139 10. I Paesi Emergenti Governatore, 15.10.10) (tratto dal blog Faust e il In un suo speech, Stephen Cecchetti - Economic Adviser and Head of Monetary and Economic Department della Banca dei Regolamenti Internazionali - http://www.bis.org/speeches/sp100903.pdf ha messo in rilievo come nei Paesi Emergenti la crisi non è mai esistita o quasi. Nelle sue parole: “Indeed, the patient efforts of many emerging countries, especially in this part of the world, to reform and strengthen their regulatory frameworks over the past decade are an important reason why the spillovers from the recent financial crisis in the US and Europe to these economies have been relatively mild. This is why my BIS colleagues in the Office for Asia and the Pacific have, from the beginning, corrected my terminology, insisting that I speak not about the global financial crisis, but about the international financial crisis. As they have said repeatedly, “There is no financial crisis out here”. Se ci mettiamo ad analizzare la tabella qui a fianco – tratta dal Financial Times, “A case not so much of agreeing to differ as just differing”, Martin Wolf, Special Report World Economy, FT, October 8 2010 – vediamo quale drammatico differenziale di Rao's later life was marked by political isolation due to his association with corruption charges. Rao was acquitted on all charges prior to his death in 2004 of a heart attack in New Delhi. 140 crescita ci sia tra i Paesi Sviluppati e i Paesi Emergenti. Mentre le economie dei Paesi Emergenti pesano oggi per il 30% del PIL mondiale, gli investitori di Stati Uniti, Europa e Giappone detengono solo tra il 2% e il 7% dei loro asset – 50.000 miliardi di dollari – nei Paesi Emergenti. Attualmente le azioni presenti nel MSCI emerging markets scambiano a circa 13 volte gli utili previsti nel 2010 e 11 volte gli utili del 2011 (le azioni americane trattano a 14 volte gli earnings del 2010). In linea con la media a 5 anni. Non crediamo si possa parlare di una bolla. In un intervento a Denver presso la National Association for Business Economics, l’economista Michael Spence, Premio Nobel per l’economia nel 2001, ha sostenuto che Brasile, Cina e India (i cosiddetti BRICs, acronimo che comprende anche la Russia) crescono di più degli Stati Uniti per i seguenti motivi: 1) Queste economie hanno imparato l’amara lezione della crisi 1997-98 che colpì più i paesi asiatici che le economie avanzate; 2) Sono in “a good initial position” con una leva finanziaria estremamente bassa, e quindi non stanno assistendo al deleveraging (riduzione della leva) statunitense; 3) Non hanno vissuto la diffusione e la proliferazione dei prodotti finanziari collateralizzati (Collateral Debt Obligation, alias CDO, mutui subprime cartolarizzati...); 4) Hanno costituito riserve di valuta estera ingenti. Mercoledì sono stati pubblicati i dati del III° trimestre 2010 per la sola Cina, che ha aumentato le sue foreign exchange reserves di 194 miliardi di dollari (in tre mesi!), portandole a un totale di 2.650 miliardi di dollari. 5) Le loro banche centrali hanno risposto con velocità e agilità al credit tightening 141 (razionamento del credito alle imprese); 6) Gli economic managers hanno dimostrato un livello elevato di competenza. Alla domanda se si tratti di una crescita sostenibile, Spence ha risposto in modo affermativo, “I wouldn’t have said that 10 years ago” Ma quali Paesi Emergenti! Sono già belli che emersi! 11. Le speranze dell’Africa Mobutu, i Next Eleven e le speranze dell’Africa, tratto dal Blog Faust e il Governatore, 30.11.10 Mobutu Sese Seko Quarantacinque anni fa, il 30 novembre 1965, il generale Mobutu si autoproclamava presidente della Repubblica del Congo. Nel 1959, quando re Baldovino del Belgio concede l’indipendenza al Congo, Mobutu - Mobutu Sese Seko, nome completo Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu 142 Wa Zabanga (letteralmente, "Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo") - è segretario del leader del movimento indipendentista Lumumba. Una volta che Lumumba diventa primo ministro e nomina Mobutu comandante dell’esercito, il gioco è quasi fatto. Mobutu fa fuori Lumumba in un bagno di acido solforico. In breve diventa presidente dittatore. Visto che il Congo è dotato di miniere di uranio e visto che le potenze mondiali hanno bisogno dell’uranio per le bombe atomiche, Mobutu è accolto in tutto il mondo a braccia aperte. Lo si vedrà in televisione alla Casa Bianca con il presidente Nixon. Lo accoglieranno sia il Generale De Gaulle che la regina d’Inghilterra, sia Indira Ghandi che Mao Zedong. Mobutu con Ronald Reagan Nel 1997 Mobutu muore per un cancro alla prostata, lasciando agli eredi un bel po’ di conti cifrati nelle banche svizzere. Questa è una delle tante storie dell’Africa, dove i Mobutu di turno purtroppo di alternano con eccessiva facilità. Ma quando potremo vedere l’Africa protagonista dello sviluppo economico mondiale? In una ricerca di Jim O’Neill di Goldman Sachs – How exciting is Africa’s potential – si fa notare come nella lista stilata dei prossimi 11 Paesi top nella crescita – definita da GS “Next Eleven”, sono due i paesi africani presenti: Egitto e Nigeria. 143 Per capire dai livelli da cui partiamo, oggi il PIL combinato degli 11 paesi più popolati dell’Africa – Congo, Egitto, Etiopia, Kenya, Marocco, Nigeria, Sud Africa, Sudan, Tanzania, Uganda e Zimbabwe – è pari a un decimo del PIL dei Paesi BRIC – Brasile, Russia, India e Cina. Gli stessi 11 paesi hanno complessivamente un’economia un po’ più grande del Messico o della Corea del Sud. Nelle stime di GS, nel 2050 il PIL combinato degli 11 paesi potrebbe raggiungere più di 13 miliardi di dollari, quindi non maggiore del PIL di Cina o India. La metà del PIL del 2050 sarebbe originato da Egitto e Nigeria, quindi è dal progresso di questi due paesi che dipende il potenziale del continente africano. La Nigeria potrebbe diventare come la Germania di oggi. Sempre entro il 2050 la classe media degli 11 African countries potrebbe raggiungere i 400 milioni di persone, contro i 50 milioni di oggi. Jim O'Neill di Goldman Sachs O’Neill scrive: “Eradicating chronic corruption might be the most important step on the path towards higher productivity and sustanable growth. Improving human capital, including the most basic level of education and life expectancy, also remains critical, particularly in Nigeria, Congo and Uganda…Transparency and an 144 environment conducive to business are what African leaders should be concentrating on. Otherwise, the dream of an African BRIC will remain just that – a dream”. Visto che: 1. la crescita economica dell’Egitto è molto importante per il futuro del continente africano, 2. viste le prossime elezioni in Egitto, dove non l’unico che può succedere a Hosni Mubarak è suo figlio le speranze di uscire dal torpore sono limitate. Se si riuscisse a far svegliare l'Egitto, l'Africa potrà dare seguito al sogno di Martin Luther King. 12. La globalizzazione dei mercati finanziari e dell’informazione) e gli medesima sull’economia internazionale (commerciali, effetti della Abbiamo già avuto modo di vedere in precedenza, quando si è parlato della mobilità internazionale dei fattori produttivi (capitale e lavoro), come la globalizzazione (o internazionalizzazione che dir si voglia) sia un fenomeno che tocchi molti aspetti della vita economica e sociale di un Paese, influenzando temi 145 importanti come la distribuzione del reddito sia a livello nazionale che internazionale, la disoccupa-zione, l’immigrazione. Globalizzazione è un termine alla moda, anche impegnativo, ma molto elastico, dai mille usi, soprattutto dalle mille interpretazioni possibili. Per cominciare, conviene leggere la definizione che, in termini ufficiali, ne dà l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE): «Un processo attraverso il quale mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più interdipendenti, in virtù dello scambio di beni e servizi e del movimento di capitale e tecnologia». Volendo dare una definizione concreta e immediata, anche se molto semplicistica, della globalizzazione si può dire che con questo termine s’intende l’eliminazione della segmentazione territoriale dei sistemi economici e quindi la possibilità di produrre, consumare, risparmiare, investire e lavorare un po’ allo stesso modo in tutti i Paesi che rientrano in questo processo. È una progressiva abolizione di tutti i confini nazionali, un’abbattimento di barriere, fisiche e non, dal quale deriva una dilatazione dei confini dei singoli paesi, che progressivamente, stanno inglobando il mondo intero (globo, per l’appunto). Ciò non deve però essere inteso come se si prefigurasse l’emergere di una armoniosa società mondiale, o di un processo universale di integrazione globale all’interno del quale si realizzerebbe una crescente convergenza di culture e civiltà. L’idea che vi sta alle spalle infatti è quella di un “mercato globale” e non quella di una “società (o cultura) globale”. Da questa definizione si evince che il contrario della globalizzazione è la segmentazione nazionale: oggi parlare di mercato-Germania, mercato-Italia, mercato-Francia ha sempre meno importanza in quanto i fattori, sia dal lato della domanda, che dell’offerta sono inseriti in un contesto di mercato globale. Le esigenze e gli stili di vita dei consumatori si stanno sempre più uniformando da Paese a Paese per cui dal lato dell’offerta non è più così importante produrre diversamente in base al mercato nazionale in cui si vuole vendere. Le multinazionali, hanno intuito da subito questa tendenza in atto a livello mondiale e si sono prontamente adeguate fabbricando e vendendo prodotti con eguali caratteristiche e ad un prezzo simile nei diversi Paesi. 146 Questo accade pur mantenendo ogni nazione la propria identità culturale, che le deriva dai suoi secoli di storia. Per questo motivo la globalizzazione rimane un fenomeno che non in tutti i Paesi e non in tutti i settori dell’economia ha esercitato la propria forza di cambiamento. E’ chiaro che tutt’oggi rimane molto più difficile per un Paese europeo, esportare merci in Cina piuttosto che in un altro Paese europeo oppure che trasferire denaro in Svizzera è molto più agevole che non emigrare in questo Paese per lavoro. La globalizzazione è infatti un processo di trasformazione della situazione economica, politica e sociale mondiale che ancora oggi non ha compiutamente portato a termine ovunque la sua azione uniformante. Inoltre essa non agisce in modo esclusivo, dal momento che combina inevitabilmente i propri effetti con quelli della cultura e identità nazionale, ma anche con quelli dell’altro fenomeno che ha caratterizzato l’evoluzione del commercio internazionale dal secondo dopoguerra (periodo a cui può essere fatta risalire la nascita dello stesso processo di globalizzazione) ossia il regionalismo. QUADRO DI APPROFONDIMENTO REGIONALISMO E MULTILATERALISMO: fenomeni paralleli o contrastanti? di Bernadetta Marini I tentativi da parte di un certo numero di paesi di liberalizzare parzialmente o totalmente il loro commercio, ma su base discriminatoria, ossia escludendo il resto del mondo (i paesi non membri), hanno una lunga tradizione. L'integrazione regionale dell'Europa occidentale nel dopoguerra, è il tentativo più ambizioso finora realizzato. Il regionalismo commerciale ha continuato ad espandersi 147 nel periodo susseguente alla seconda guerra mondiale, nonostante l'emergere di un sistema di relazioni commerciali ordinato su base multilaterale e basato sull'Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT), entrato in vigore nel 1947, che cercava di limitarne l'utilizzo da parte dei suoi membri. Nella sua prima fase di espansione, che va pressappoco fino alla metà degli anni settanta, il regionalismo commerciale si è diffuso prima in America Latina e successivamente in Africa, con un'espansione del tipo nord-nord (in Europa) o sud-sud (nei paesi in via di sviluppo). Nonostante questa sua ampia diffusione in termini sia geografici che temporali, il regionalismo ha sempre coesistito con difficoltà con il multilateralismo commerciale. Da una parte gli accordi regionali di commercio, pur premessi dal GATT a certe condizioni (art. XXIV), sono stati sempre considerati come deroghe al principio della non discriminazione, cardine del nuove ordine commerciale post-bellico; dall'altro, le motivazioni che stanno alla base degli accordi regionali di commercio, soprattutto quelli contratti da nazioni aventi un certo peso nel commercio mondiale, sono sempre state considerate dai non membri almeno in parte come volte ad aumentare il potere contrattuale del gruppo, o "strategiche", come si usa dire, e quindi viste con sospetto. Come accennato più sopra non vi è una definizione univoca della globalizzazione; questo deriva in gran parte dal fatto che il significato stesso del termine si è modificato nel tempo, in linea con l’evoluzione e la sofisticazione del mezzi di comunicazione, in particolare modo delle reti informatizzate. In linea con questa evoluzione è possibile dunque suddividere la “storia della globalizzazione” in tre periodi, con la premessa che questa “storia”, non si è ancora conclusa. L’evoluzione storica della globalizzazione può essere suddivisa, in tre fasi fondamentali: 1. la globalizzazione del commercio 2. la globalizzazione dei movimenti di capitale 3. la globalizzazione dei flussi informativi. La prima ebbe inizio dopo gli accordi di Bretton Woods che segnarono l’avvio del processo di liberalizzazione dei mercati attraverso l’abbattimento delle barriere commerciali. I numerosi accordi GATT, dal secondo dopoguerra in poi, ridus-sero drasticamente tali barriere dal 40-50% com’erano in media negli anni Trenta fino all’esiguo 4% degli anni più recenti; come logica conseguenza, si 148 assistette ad un continuo aumento del grado di apertura del mondo. Inoltre, sempre dal secondo dopoguerra in poi, fiorirono i diversi accordi di libero scambio a livello regionale (Unione Europea, NAFTA, ASEAN, ecc.) che diedero un contributo fondamentale all’internazionalizzazione del commercio. La globalizzazione dei movimenti di capitale e dei mercati finanziari ha invece una storia più recente. E’ infatti negli anni Ottanta che si registra la forte accelerazione del fenomeno in parola che porterà, a metà degli anni Novanta, ad avere per ogni dollaro usato nelle transazioni internazionali di merci, sette-otto dollari impiegati nelle transazioni finanziarie. Fino ad allora, vi era stato un sostanziale divieto di muovere capitali senza vincoli fra i vari Paesi che derivava dal divieto vigente un po’ ovunque di vendere liberamente moneta nazionale per acquistare mo-neta estera. Con l’eliminazione di questo ostacolo di fatto ha avuto inizio l’era della globalizzazione dei flussi di capitale. A dare un forte impulso alla globalizzazione dei movimenti di capitale, hanno contribuito anche le numerose reti di investimenti diretti all’estero (IDE) che si sono enormemente sviluppate negli ultimi dieci-quindici anni). Dal momento che un’impresa decide di effettuare degli IDE laddove ritiene che le condizioni dell’ambiente produttivo non siano molto dissimili da quelle del Paese di origine, i Paesi che non vogliono trovarsi ai margini della globalizzazione debbono cercare di offrire regole il più possibile uniformi fra loro: si arriva in tal modo al punto che produrre, consumare e investire diventano concetti universali, non più identificabili in base ai confini geografici. La terza fase dell’evoluzione della globalizzazione riguarda i flussi di informazione. Questo fenomeno deve la propria esistenza agli enormi passi avanti che sono stati compiuti recentemente nel campo della tecnologia delle comunicazioni. Sistemi sempre più veloci e sofisticati, a prezzi accessibili, hanno rivoluzionato radicalmente il modo di interagire delle persone a livello mondiale. La rete informati-ca che avvolge l’intero pianeta ha annullato per molti aspetti le distanze fisiche, per cui ora non è più così importante il luogo dove si lavora o dove si consuma. Nella nuova civiltà “digitale” il trasferimento fisico è divenuto ormai per molti settori (in primis la finanza) un aspetto del tutto secondario. Anche in questo caso, quindi, il fenomeno contribuisce all’omogeneizzazione dei gusti, delle 149 preferenze, dei modelli di consumo e la visione geografica segmentata dei mercati di qualche tempo fa, oggi ha perso dunque ogni ragion d’essere. 13. I grandi problemi irrisolti dell’economia mondiale: la persistenza degli squilibri nelle bilance dei pagamenti e nella distribuzione del reddito, la disoccupazione e l’immigrazione Uno dei caratteri distintivi attuali dell’ambiente economico internazionale, consiste nella presenza di squilibri nelle bilance dei pagamenti alle partite correnti che paiono “intrattabili” con gli strumenti tradizionali e cioè, con i processi di rivalutazione delle monete dei Paesi in avanzo e di svalutazione delle monete dei Paesi in deficit di bilancia dei pagamenti. Fino a qualche decennio fa, gli squilibri fra import ed export dei Paesi industrializzati erano trattati secondo quanto previsto dai testi di economia internazionale e il riaggiustamento era raggiunto in un lasso di tempo ragionevole. Il Paese in deficit esercitava una politica monetaria, ed eventualmente fiscale, restrittiva scoraggiando le importazioni di beni di consumo e di materie prime attraverso il rallentamento congiunturale indotto dalla manovra economica e, nei casi più gravi, svalutava la propria moneta per ripristinare condizioni di maggiore competitività per i propri prodotti e di minore appetibilità per quelli provenienti dall’estero. Il processo era accompagnato da eventuali restrizioni commerciali sulle importazioni e sussidi alle esportazioni e da una complessa panoplia di interventi. Spesso era più lungo di quanto era nei desideri delle banche centrali e soprattutto si determinava l’insidioso effetto “J” per cui, dopo la svalutazione, per un breve tempo, i costi delle importazioni (più rigidi) subivano un aumento per effetto dell’accresciuta domanda di valuta estera, mentre i ricavi delle esportazioni non beneficiavano, sempre per qualche tempo, di un aumento di volume della domanda estera. Spesso, le attese inflazionistiche nel Paese che svalutava erano suscettibili di ostacolare il riaggiustamento con una rincorsa costi/prezzi che rendeva più difficile aumentare la penetrazione delle esportazioni sui mercati esteri. Ma, pur con tutte le 150 riserve del caso, gli squilibri di bilancia dei pagamenti fra Paesi industrializzati dell’Occidente sono rimasti sempre gestibili e riaggiustabili. Questa situazione è cambiata con l’irrompere sulla scena del commercio internazionale di Paesi come la Cina e l’Asia in generale che hanno manifestato una elevata propensione ad esportare prodotti, peraltro di ottima qualità e a basso prezzo, e una bassissima propensione ad importare beni specie di consumo, indipendentemente dal prezzo e dalla qualità del prodotto estero rispetto a quello nazionale. In questo caso, ci si è trovati in presenza di due diverse culture. Si ricorda infatti la dicotomia tra individualismo e collettivismo, vista già in precedenza. Da una parte vi è il consumatore occidentale che persegue finalità di convenienza individuale e che cerca sul mercato il prodotto più conveniente a parità di qualità, senza pregiudizi in merito alla provenienza nazionale o estera dello stesso e del lavoratore occidentale che persegue sue finalità di benessere individuale (libertà sindacali, vacanze più lunghe, buste paga più pesanti, diritto ad orari di lavoro più corti, diritto a soste e permessi, diritto di sciopero, diritto all’assistenza sanitaria gratuita, diritto alla pensione, ecc.), dall’altra il consumatore orientale in genere che predilige beni di consumo nazionali e del lavoratore giapponese che si è inserito in un assetto di fedeltà all’azienda con la quale si identifica, per cui non persegue le finalità di benessere individuale se non nella misura in cui esse coincidono con quelle aziendali. In particolare, la cura tutta giapponese per la qualità, per realizzare miglioramenti continui di processo e di prodotto, per aumentare la quota di mercato ha fatto sì che le esportazioni cinesi e giapponesi si imponessero su innumerevoli mercati distruggendo la concorrenza straniera anche in presenza di un costante apprezzamento delle loro rispettive monete (yen e yuan). Per Schioppa41 41 chiarire meglio, riporto – La un passo di veduta corta, Il http://www.tommasopadoaschioppa.eu/ 151 Tommaso Mulino, Padoa 2009 (p. 33) : “Ritengo che senza la globalizzazione la spinta a correggere gli squilibri americani (elevato disavanzo delle partite correnti, ndr) sarebbe intervenuta molto prima. Invece il male non è stato avvertito per tempo. La globalizzazione ha consentito agli Stati Uniti di sopperire alla mancanza di risparmio con gli attivi commerciali dai paesi da cui importava: la Cina in primo luogo ma anche l’India e altri mercati emergenti. E’ il concetto degli squilibri globali, le global imbalances: un eccesso di debito in alcuni paesi che si riflette in un eccesso di risparmio in altri. Da un lato gli Stati Uniti, dall’altro la Cina. La storia ha giocato uno scherzo impensabile vent’anni fa, quando cadde il Muro di Berlino: il debitore è capitalista, il creditore è comunista. L’avanzo delle partite correnti cinese è molto diverso da quello delle cosiddette tigri asiatiche. L’evoluzione economica della Cina non riflette il classico modello della crescita trainata dalle esportazioni, come quello di Taiwan e della Corea del Sud negli anni Novanta, dell’Italia e del Giappone negli anni Sessanta, un modello nel quale i salari sono bassi e il paese importa tecnologia ed esporta beni di conumo o d’investimento. La quota dell’export cinese rispetto al pil non è anormalmente elevata. La peculiarità cinese (e indiana) sta nell’enorme popolazione: oltre un miliardo e trecentomilioni di persone.one, la Cina rappresenta settanta Taiwan, cinque Stati Uniti, venti Italie: è la dimensione del paese la discriminante rispetto ad altre esperienze storiche. Nell’ultimo seconolo mai avevamo visto un cambiamento simile”. Padoa-Schioppa sottolinea un altro punto, per noi molto interessante: non solo i manufatti, ma anche molti servizi sono ormai commerciabili. La classica distinzone tra beni commerciabili (tradable) e beni non commerciabili non coincide 152 più con quella tra manufatti e servizi. Molti servizi possono essere offerti a migliaia di chilometri di distanza e la differenza significativa è tra servizi personali e servizi impersonali. Solo i primi richiedono la vicinanza fisica; gli altri possono essere offerti a migliaia di chilometri di distanza. Il call center mondiale di (la banca più grande HSBC 42 del mondo) è a Bangalore – centro IT non solo indiano ma mondiale, dove riside anche l’Indian Space Research Organisation. Si tratta di un problema molto complesso che ha le sue radici nella messa a contatto su larga scala di due civiltà, quella del grano (Occidente) e quella del riso (Oriente) che sono rimaste separate per circa diecimila anni e che sono così diverse nelle loro culture da poter generare pericolosi conflitti commerciali. La civiltà occidentale in particolare, che è stata vincente ed egemone nel mondo dagli albori della rivoluzione industriale, pare ora in difficoltà: le sue strutture, i sui valori, i costi del suo funzionamento non appaiono più competitivi, rispetto a quelli dell’Oriente. Ne risulta una terribile disoccupazione che sta colpendo, come una moderna peste, il tessuto sociale in particolare del Vecchio Continente, con decine di milioni di persone disoccupate (dati recenti parlano di un livello di disoccupazione medio in Europa di poco inferiore al 10% della forza lavoro), specie giovani e donne, a cui il posto di lavoro è sottratto da persone che vivono nell’area orientale del pianeta. Più che di disoccupazione che nasce dalla distruzione in assoluto di posti di lavoro si può quindi parlare di disoccupazione che viene creata soprattutto dalla “migrazione” dei posti di lavoro oltre confine verso aree produttive più “ospitali” (quelle orientali appunto). 42 Bangalore è una città dell'India di 4.292.223 abitanti, nel Karnataka di cui è la capitale e la città più grande. Con l'indipendenza dell'India nel 1947 Bangalore divenne un grande centro industriale con industrie quali l'Hindustan Aeronautics Limited e l'Indian Space Research Organisation. Negli ultimi decenni il successo delle aziende ad alta tecnologia di Bangalore ha visto la crescita del settore dell'Information Technology (IT) in India. Le sole aziende di information technology di Bangalore impiegano il 30% del milione di dipendenti che l'IT vanta nell'Unione Indiana. 153 Alla diversità culturale delle due civiltà si aggiunge poi il ruolo di “Paese spenditore” o “Paese impresa” che gli Stati Uniti sono andati assumendo nel tempo a livello mondiale con i numerosi e ingenti programmi di spesa cui sono impegnati su tutti i fronti (militare, spaziale, della ricerca scientifica, medica, ecc.): per quanto gli Stati Uniti risparmino, non riescono comunque a far fronte con le proprie risorse a tali costosissimi investimenti, per cui è inevitabile che la loro bilancia dei pagamenti sia costantemente in disavanzo. Gli Stati Uniti sono così diventati il più grande Paese debitore del mondo ed è in continua crescita. All’opposto, vi sono la Cina e il Giappone che sono i maggiori creditori al mondo (insieme alla Germania) per eccellenza, con un credito positivo derivante da oltre due decenni di avanzo nella bilancia dei pagamenti alle partite correnti. Al contrario di quanto avveniva precedentemente, la semplice svalutazione della moneta si dimostra incapace di far ritornare la competitività delle produzioni dei Paesi occidentali e l’equilibrio nelle loro bilance dei pagamenti. E questo sarà senz’altro, insieme con quello dello squilibrio delle risorse prodotte e consumate fra Paesi ricchi e Paesi poveri, il problema dei problemi dei prossimi anni. La cristallizzazione della situazione di squilibrio nel commercio internazionale significa, a conti fatti, che nel mondo ogni anno vi sono Paesi che accumulano continui surplus nelle proprie bilance dei pagamenti (come si è visto, Cina, Germania e Giappone su tutti) e altri che, all’opposto, accumulano continui deficit (gli Stati Uniti su tutti). 154 Questo deficit/surplus corrisponde in sostanza alla finanza internazionale netta che si forma ogni anno, ovvero ogni anno, se si vuole che il commercio internazionale esista e funzioni continuamente, occorre che ne venga finanziato il relativo squilibrio. In altre parole, se un Paese importa molto più di quanto esporta (Paese debitore) ed ha risorse interne insufficienti a coprire lo squilibrio, occorre evidentemente che qualche altro Paese gli conceda dei finanziamenti a sostegno del suo disavanzo verso l’estero. Nel commercio internazionale, finanziamento e squilibrio si può dire che siano le due facce di una stessa medaglia. E’ bene che lo squilibrio del commercio internazionale non si elevi troppo e dunque che attraverso processi di riaggiustamento, i Paesi creditori tendano ad essere meno in surplus (e magari in certi periodi anche in deficit) e i Paesi debitori meno in deficit (e magari in certi periodi anche in surplus). Il cambio è lo strumento che viene normalmente utilizzato per controllare e ridurre, ove possibile, gli squilibri nel commercio internazionale, anche se non sempre però sortisce gli effetti desiderati, risultando in talune circostanze un rimedio scarsamente efficace (come si è visto più sopra a proposito dell’irrompere sulla scena internazionale delle economie orientali negli ultimi decenni, che ha reso gli squilibri “intrattabili” con i metodi tradizionali del ciclo economico e della svalutazione del cambio). Un altro gravissimo problema irrisolto dell’economia mondiale, riguarda la persistenza di squilibri nella distribuzione internazionale del reddito. Fino ad un ventennio fa, il 15% della popolazione mondiale (circa 1 miliardo di persone) produceva e consumava il 75% del PIL mondiale, per cui alla maggioranza della popolazione (l’85%) rimaneva un esiguo 25% del PIL. Negli ultimi anni, la situazione è andata progressivamente migliorando per effetto della globalizzazione dei mercati che ha modificato profondamente le economie di diverse zone povere del pianeta (fra cui America Latina, Cina, India, Europa Orientale), attraendole nell’orbita dell’economia di mercato dei Paesi ricchi. Così, pur con tutte le distinzioni del caso, oggi sono circa 3 miliardi le persone nel mondo che si può dire vivano a livelli di benessere accettabili. Il problema serio della povertà permane comunque ancora per altrettanti miliardi di persone che vivono ai margini del mondo globalizzato, in una situazione di estremo disagio economico con consumi ai limiti della sussistenza (redditi pro-capite abbondantemente al di sotto di 1.000 dollari 155 annui). In fondo al paragrafo viene riportata una tabella dei redditi pro-capite per singolo paese, dato riassuntivo, anche se non esaustivo (in quanto non considera fattori quali il grado di istruzione, il grado di mortalità, le condizioni igienicosanitarie, la sperequazione sociale all’interno dello stesso paese ecc), del benessere della popolazione nei singoli paesi. La globalizzazione, oltre ad aver favorito l’ingresso nell’economia di mercato di nuove aree del pianeta, ha allo stesso tempo messo a stretto contatto sistemi economici molto diversi fra loro, caratterizzati dalla presenza di livelli salariali medi fortemente disallineati. Il risultato è stato un progressivo ed inevitabile livellamento mondiale dei prezzi dei fattori produttivi (capitale e lavoro, inteso come lavoro esecutivo). Un tempo, un lavoratore di un Paese ricco (per esempio Stati Uniti o altri Paesi del G8) che faceva un lavoro analogo a quello di un lavoratore di un Paese in via di sviluppo, poteva godere di un salario nettamente superiore a quest’ultimo perché: 1) o lavorava con più risorse naturali; 2) o con un maggiore stock di capitale per addetto; 3) o si integrava con altri lavoratori più qualificati; 4) o disponeva di tecnologie migliori. Attualmente egli deve accontentarsi di un salario che non può non essere in progressivo adeguamento a quello dei lavoratori dei Paesi poveri perché in un sistema globalizzato: 1. il mercato internazionale delle materie prime dà a tutti un uguale accesso; 2. il mercato internazionale dei capitali consente di finanziare gli investimenti dotati di buone prospettive di produttività; 3. le sinergie con lavoratori più qualificati possono essere ottenute anche nei Paesi poveri via Internet e altri mezzi di comunicazione; 4. le tecnologie di produzione si spostano in tutto il mondo molto rapidamente. Questo fatto ha portato non poche conseguenze sulle economie di molti dei Paesi industrializzati, in particolare in campo occupazionale. In tali Paesi i lavoratori sono sostanzialmente suddivisi in 20% che occupano posti direttivi e il rimanente 80% in ruoli meramente esecutivi. La globalizzazione ha agito in maniera diversa sulle due categorie di lavoratori: il salario orario medio dei lavoratori con compiti esecutivi negli ultimi due decenni è diminuito di oltre il 20% in termini reali, mentre coloro che esercitano funzioni direttive hanno visto migliorare nettamente le loro condizioni economiche (le remunerazioni degli alti dirigenti statunitensi sono salite 156 negli ultimi vent’anni di 70 volte). L’economia globalizzata, dunque, allarga il divario fra i lavoratori privilegiati e i lavoratori generici all’interno dei Paesi ricchi e riduce il divario fra i lavoratori generici dei Paesi ricchi e quelli dei Paesi poveri (sono solo quelli generici infatti i lavoratori che la globalizzazione mette in concorrenza fra loro). Il prezzo che si paga per non accettare le riduzioni dei salari reali nei lavori generici si chiama disoccupazione. Alcuni fra i Paesi industrializzati (in particolare Stati Uniti e Regno Unito) hanno capito questa esigenza ed hanno accettato le necessarie riduzioni a fronte del mantenimento di elevati livelli occupazionali, altri (Italia, Francia e in parte Germania) hanno invece optato per il rifiuto ad adeguarsi a questa nuova realtà e infatti scontano alti tassi di disoccupazione (vedi tabella sottostante). Questi ultimi Paesi sono caratterizzati dalla presenza di un mercato del lavoro fortemente sindacalizzato e quindi molto rigido, che tutela principalmente i diritti di quelle persone che già possiedono un posto di lavoro a scapito di coloro che invece sono in cerca di una prima occupazione. Tassi di disoccupazione nei diversi Paesi. 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 Australia 6.3 6.8 6.4 5.9 5.4 5.0 4.8 4.4 4.2 Austria 3.5 3.6 4.0 4.3 5.0 5.2 4.8 4.4 3.8 4.8 Belgium 7.0 6.6 7.5 8.2 8.4 8.5 8.3 7.5 7.0 7.9 Canada 6.8 7.2 7.7 7.6 7.2 6.8 6.3 6.0 6.1 8.3 Time Country 157 5.6 Chile 9.7 9.9 9.8 9.5 10.0 9.2 7.8 7.1 7.8 10.8 Czech Republic 8.9 8.2 7.3 7.8 8.3 7.9 7.2 5.3 4.4 6.7 Denmark 4.6 4.6 4.6 5.4 5.5 4.8 3.9 3.8 Finland 9.8 9.1 9.1 9.0 8.8 8.4 7.7 (B) 8.8 6.0 8.2 France .. .. .. 8.5 8.9 Germany 7.8 7.8 8.7 9.6 (B) Greece 11.4 10.8 10.3 9.8 10.5 Hungary 6.4 5.7 5.8 5.9 6.1 Iceland 2.3 2.3 (B) 3.3 3.4 3.1 Ireland 4.4 3.9 4.5 4.8 4.5 4.4 4.4 4.6 6.1 11.8 Israel .. 9.3 10.3 10.7 10.4 9.0 8.4 7.3 6.1 7.6 Italy 10.2 9.1 8.6 8.5 8.1 7.7 6.8 5.9 6.7 7.8 Japan 4.7 5.0 5.4 5.3 4.7 4.4 4.1 3.9 4.0 5.1 Korea 4.4 4.0 3.3 3.6 3.7 3.7 3.5 3.3 3.2 3.7 Luxembourg 3.3 3.2 3.7 3.7 5.1 4.5 4.7 4.1 5.1 5.2 5.5 (B) Mexico 8.9 3.3 6.9 6.4 8.0 7.4 9.1 10.3 8.7 7.5 7.7 9.9 8.9 8.3 7.7 9.5 7.2 7.5 7.4 7.8 10.0 2.6 2.9 2.3 3.0 7.2 9.8 11.1 2.8 3.0 3.4 3.9 3.6 3.6 3.7 4.0 Netherlands 3.0 2.3 2.8 3.7 4.6 4.7 3.9 3.2 2.8 3.5 New Zealand 6.2 5.5 5.3 4.8 4.1 3.8 3.9 3.7 4.2 6.1 Norway 3.5 3.6 3.9 4.5 4.5 (B) 4.6 3.5 2.5 2.6 3.2 Poland 16.1 18.3 19.9 19.7 19.0 17.8 13.9 9.6 7.1 8.2 Portugal 3.9 4.0 6.3 6.6 7.6 7.7 7.6 9.5 Slovak Republic 18.8 19.3 18.7 17.6 18.3 16.3 13.4 11.2 9.5 12.0 Slovenia 6.8 6.2 6.7 6.3 6.5 6.0 4.9 4.4 5.9 11.5 11.0 9.2 8.5 8.3 11.3 18.0 (B) Spain 2.5 5.0 6.4 13.9 10.6 11.5 Sweden 4.7 4.0 4.0 4.9 5.5 (B) Switzerland 2.5 2.5 3.1 4.1 4.2 4.3 (B) (B) 7.1 7.1 3.8 8.0 (B) 6.0 6.2 8.3 3.4 4.2 3.5 Turkey 6.5 8.4 10.3 United Kingdom 5.4 5.1 5.2 5.0 4.8 4.8 5.4 5.3 5.7 7.6 United States 4.0 4.7 5.8 6.0 5.5 5.1 4.6 4.6 5.8 9.3 Euro area (16 countries) 8.5 8.0 8.4 8.8 9.0 9.0 8.4 7.5 7.5 9.4 9.0 (B) 8.2 European Union (27 countries) Non-OECD Member Economies 8.9 10.5 9.9 10.6 10.3 10.3 11.0 14.1 9.2 8.6 7.1 7.0 8.9 Brazil 12.7 11.2 11.7 12.3 11.5 9.8 10.0 9.3 7.9 8.1 Estonia 13.6 12.6 10.3 10.0 9.7 7.9 5.9 4.7 5.5 13.8 10.4 9.4 8.4 8.0 7.2 6.4 8.4 Indonesia 6.1 8.1 9.1 9.7 (B) Russian Federation 10.5 9.0 8.0 8.6 8.2 9.2 8.9 9.9 10.8 7.6 6.1 Data extracted from OECD.Stat Per combattere efficacemente il problema della disoccupazione è indispensabile che il mercato del lavoro possieda due importanti prerogative: moderazione salariale (di cui si è appena parlato) ed elevata flessibilità. Quest’ultima concerne diversi aspetti del mercato del lavoro, fra cui la determinazione dei salari 158 (con un sistema di contrattazione meno rigido e più decentralizzato), la descrizione delle mansioni dei lavoratori (nel limite del possibile, mansioni modificabili per tenere conto delle diverse necessità), la determinazione della durata dei contratti di lavoro (consentire più contratti a tempo determinato e parziale), la mobilità della forza lavoro (facilitazioni nella mobilità da una regione all’altra e da un’impresa all’altra secondo le esigenze). Un mercato del lavoro governato dal sindacato, in genere, è lungi dal possedere tali qualità e pure in prospettiva difficilmente tende ad accettare modifiche in tal senso. Dai due grandi problemi irrisolti che si sono appena analizzati, ossia la disoccupazione e soprattutto la povertà di vaste aree del pianeta, ne deriva un altro di portata altrettanto consistente: l’immigrazione. Non è certamente questo un fenomeno solo dei nostri tempi, ma con la globalizzazione esso è andato assumendo proporzioni sempre più imponenti. Abbiamo già visto come in un sistema globalizzato i fattori produttivi (capitale e lavoro) siano molto mobili per cui accettare di far parte di questo sistema significa fatalmente aprirsi ad un certo flusso immigratorio, proveniente perlopiù dai Paesi poveri. I lavoratori di questi Paesi, infatti, tenderanno a spostarsi e stabilirsi in quei luoghi del globo (aree industrializzate) ove sono meglio remunerati (è ciò che avviene anche per il fattore capitale). Oltre alla mobilità dei fattori tipica dell’economia globalizzata, l’altra causa che ha contribuito ad intensificare i movimenti migratori è senz’altro identificabile nel problema demografico che interessa più o meno tutti i Paesi ricchi. Nell’Unione Europea la dinamica della popolazione non solo tende a zero, ma addirittura nei prossimi cinquant’anni è stimato che la popolazione si ridurrà di circa il 30%. Nei Paesi poveri (circa 4 miliardi di persone), dove l’economia è ancora prevalentemente agricola (a bassi salari) e quindi tanti figli significano tanta forza in più a sostegno della famiglia, il tasso di crescita della popolazione è positivo e mediamente nell’ordine del 2% all’anno (a questo tasso in 30-35 anni la popolazione raddoppia). E’ facile intuire come una situazione di questo tipo, con un problema di denatalità da un lato e uno di sovrappopolazione dall’altro, porti ineluttabilmente ad un aumento dei flussi migratori dai Paesi poveri ai Paesi ricchi. 159 Rispetto al problema dell’immigrazione, i Paesi dei diversi blocchi si trovano su posizioni alquanto diverse fra loro. Gli Stati Uniti erano e sono tradizionalmente un Paese predisposto ad accogliere flussi migratori dall’esterno. La loro popolazione si può suddividere in tre tipologie: a) il nucleo storico; b) gli etnici; c) le minoranze. Il nucleo storico è sostanzialmente rappresentato da due gruppi: il gruppo inglese (discendenti dei vecchi colonizzatori) e il gruppo germanico. Del nucleo storico fanno parte cioè tutti coloro che si sentono bianchi, anglosassoni e protestanti (WASP, White, Anglo-Saxon and Protestant). Gli etnici sono invece tutte quelle persone non inglesi e non germaniche che hanno origine europea, fra cui: italiani, greci, polacchi, irlandesi, olandesi, ebrei, russi, scandinavi, ucraini, francesi (molto pochi). In realtà, questa divisione netta, fra nucleo storico e etnici, valeva forse molto più 40-50 anni fa, dal momento che negli ultimi anni molti di questi gruppi etnici hanno raggiunto un livello di integrazione tale che li fa sentire a pieno titolo parte del nucleo storico. Vi sono infine le minoranze, suddivisibili in quattro raggruppamenti: ispanici, neri, orientali, indiani d’America. Le minoranze hanno culture molto diverse fra loro e molto lontane dalle prime due tipologie viste sopra, per cui sembra difficile pensare che in futuro si possa assistere ad una loro integrazione come si è avuta negli ultimi decenni per gli etnici di origine europea. I fenomeni migratori negli Stati Uniti stanno modificando progressivamente la composizione della loro popolazione: negli anni Cinquanta si aveva l’89% di bianchi, il 10% di neri, l’1% di altri; nel Duemila i bianchi sono scesi al 73%, i neri sono il 12%, i latino-americani pure il 12%, gli "altri" il 3%; le previsioni per il 2050 vedono i bianchi ridursi drasticamente al 50%, i neri salire al 15%, i latino-americani in netta crescita al 30%, altri al 5%. L’immigrazione che si registra oggi negli Stati Uniti è diversa rispetto a quella di un secolo fa: allora le popolazioni immigranti erano tendenzialmente mono-culturali e per molti aspetti affini al nucleo storico, quindi erano facilmente integrabili nel contesto sociale americano; oggi gli immigrati provengono da molte culture diverse e in essi il popolo dei latino-americani sta assumendo un peso sempre più importante con il conseguente rischio di creare una “nazione nella nazione” (i latino-americani parlano una stessa lingua e tendono ad imporla). Quest’ultimo aspetto potrà in futuro generare non pochi problemi anche ad 160 un Paese come gli Stati Uniti che sono da sempre un “crogiolo” di razze e culture (c.d. melting pot) che ben si presta all’accoglienza. Un Paese che invece non è certamente melting pot è l’Europa (è sempre stato un Paese di emigranti e solo da poco si trova nel ruolo opposto di Paese ricevente). In rapporto al problema dell’immigrazione essa si trova nella situazione peggiore: da un lato il calo demografico che richiede importazione della forza lavoro mancante, dall’altro una società e delle strutture non adeguate ad accogliere i nuovi ingressi. Nei prossimi anni, la situazione rischia di sfuggire di mano se le autorità non adotteranno presto dei provvedimenti che regolamentino in modo chiaro e ragionevole l’afflusso degli immigrati extra-comunitari e la loro integrazione. Le reazioni xenofobe sono la punta estrema di un atteggiamento diffuso di diffidenza che nasce, fra l’altro, dalla consapevolezza che l’immigrazione non regolamentata porta spesso con sé nuova criminalità. Per questo è bene che la politica europea metta ai primi posti l’impegno per risolvere questo delicato problema, magari traendo spunto anche dalla realtà già ben collaudata degli Stati Uniti. Le decisioni delle istituzioni saranno veramente efficaci, quando riusciranno a trasmettere ai cittadini l’idea che l’immigrazione ben organizzata rappresenta una risorsa da preservare e non un cancro da estirpare. Infine, a differenza di Stati Uniti (tradizionalmente aperti e culturalmente preparati) ed Europa (aperti per necessità, ma strutturalmente impreparati), il Giappone – la Cina con oltre un miliardo e 300 milioni di persone deve pensare a come gestire l’urbanizzazione - presenta come Paese estremamente chiuso all’immigrazione. Più che da un fatto culturale, tale chiusura deriva soprattutto dall’elevata densità di popolazione che caratterizza da sempre questo Paese: su un territorio poco più esteso di quello dell’Italia (372 mila km2 contro 301 mila km2) vive un numero più del doppio di abitanti (circa 125 milioni contro 57 milioni). In particolare, l’agglomerato urbano di Tokyo registra una densità di popolazione fra le più alte al mondo con i suoi circa 13 mila abitanti per chilometro quadrato. In queste condizioni, è assai improbabile che il Paese abbia spazi non coperti tali da richiedere significativi flussi dall’esterno: per il momento cioè, il popolo giapponese riesce da solo a far fronte al fabbisogno di risorse umane di cui il Paese necessita per il suo funzionamento. Sembra comunque che per il futuro anche il Giappone dovrà fare i 161 conti con il problema del calo demografico associato al continuo invecchiamento della popolazione (due fenomeni tipici dei Paesi industrializzati), e allora l’immigrazione diverrà anche per questo Paese uno strumento indispensabile e prezioso. Classifica dei redditi pro-capite per Paese (World Bank) Rank 1 Country Luxembourg 2 Norway 3 US$ 105,350 64 South Africa 5,798 79,089 65 Saint Lucia 5,496 Denmark 55,992 66 Jamaica 5,438 4 Ireland 51,049 67 5 6 7 Netherlands United States Austria 47,917 46,436 46,019 Saint Vincent and the Grenadines Dominica 68 69 Belarus 70 Colombia — Faroe Islands Finland Sweden Belgium Australia France Germany Japan Canada 45,188 71 Azerbaijan 4,899 44,491 43,654 43,430 42,279 41,051 40,873 39,727 39,599 72 73 74 75 76 77 78 79 Dominican Republic Bosnia and Herzegovina Iran Macedonia,Republic of Maldives Peru Namibia Ecuador 4,618 4,546 4,540 4,515 4,384 4,345 4,338 4,202 38,029 80 Algeria 4,029 17 18 19 20 Iceland Singapore United Kingdom Italy Spain 36,537 35,165 35,084 31,774 81 82 83 84 Turkmenistan Thailand Jordan Tunisia 3,904 3,894 3,829 3,792 21 Greece 29,240 85 3,750 22 New Zealand 29,000 86 Albania China, People's Republic 23 Israel Slovenia Portugal 26,175 87 Angola 3,734 23,726 21,414 88 89 El Salvador Fiji 3,598 3,573 8 9 10 11 12 13 14 15 16 24 25 162 of 5,335 5,132 5,069 5,056 3,744 26 27 Czech Republic Korea, South 18,139 17,078 90 91 Cape Verde Tonga 3,064 2,991 28 Slovakia 16,176 92 Kosovo 2,965 15,753 93 Armenia 2,826 15,397 94 Morocco[10] 2,795 14,540 14,238 14,222 95 96 97 Samoa Vanuatu Guatemala 2,776 2,713 2,623 12,920 98 Marshall Islands 2,504 12,868 11,616 11,503 11,273 11,141 99 100 101 102 103 Swaziland Syria Ukraine Georgia[11] Paraguay 2,478 2,474 2,468 2,447 2,365 10,988 104 Congo,Republic of the 2,361 10,790 9,714 9,645 9,345 8,688 8,676 8,594 8,248 8,157 8,144 8,114 7,666 Indonesia Micronesia Egypt Iraq Sri Lanka Honduras Bhutan Bolivia Philippines Mongolia Moldova[12] Kiribati 2,349 2,319 2,269 2,090 2,068 1,960 1,831 1,758 1,745 1,573 1,516 1,325 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 — 47 48 49 50 51 Trinidad and Tobago Equatorial Guinea Saudi Arabia Estonia Croatia Antigua and Barbuda Hungary Latvia Venezuela Poland Lithuania Saint Kitts and Nevis Uruguay Libya Chile Palau Seychelles Russia World Turkey Lebanon Mexico Brazil Argentina 105 106 107 108 109 110 111 112 113 114 115 116 7,502 117 Sudan 1,293 53 54 55 56 Gabon Romania Panama Malaysia Kazakhstan 7,500 7,155 6,975 6,870 Solomon Islands Djibouti São Tomé and Príncipe Uzbekistan 1,257 1,214 1,184 1,182 57 Mauritius 6,742 122 1,172 58 Montenegro 6,546 123 Papua New Guinea India 52 118 119 120 121 163 1,134 59 60 61 62 63 130 131 132 133 134 135 136 137 138 139 140 141 142 143 144 145 146 147 148 149 150 151 152 153 154 155 156 157 Costa Rica Bulgaria Grenada Botswana Serbia 6,382 6,210 6,029 5,965 5,819 124 125 126 127 128 129 Cameroon Yemen Nicaragua Côte d'Ivoire Nigeria Vietnam 1,042 985 981 940 921 860 851 833 759 745 716 691 677 667 655 596 551 517 509 506 492 481 461 454 431 430 428 Senegal Zambia Pakistan Laos Mauritania Kyrgyzstan Lesotho Comoros Kenya Benin Tajikistan Mali Cambodia Haiti Ghana Chad Bangladesh Burkina Faso Tanzania[13] Rwanda Timor-Leste Uganda Madagascar Central African Republic Togo Gambia, The Mozambique 427 Nepal 164 1,119 1,118 1,097 1,093 1,092 1,052 158 159 160 161 162 163 164 352 Niger Ethiopia Sierra Leone Malawi Liberia 345 341 326 222 Congo, Democratic Republic of the Burundi 14. L’evoluzione internazionale della 163 160 struttura del commercio a) Il processo di globalizzazione per macro aree Il commercio internazionale, dopo aver sperimentato, durante la seconda parte del XX secolo, una fase di globalizzazione per così dire “a tutto tondo”, ossia di spinta verso un flusso crescente di investimenti e scambi commerciali e finanziari transfrontalieri diretti in tutto il mondo, si sta ora orientando verso una globalizzazione per macro aree. Una possibile spiegazione, dell’evoluzione di tale struttura del commercio internazionale, è rinvenibile nelle ragioni di carattere economico e politico messe in campo da quasi tutti i paesi che erano danneggiati, o temevano di esserlo, da tale situazione caratterizzata da uno sviluppo generalizzato. L’assetto del commercio internazionale che sembra assumere maggiore rilevanza, in questo periodo, è quello di una serie di aggregazioni “regionali”, organizzate non solo sulla base della vicinanza geografica e della complementarietà economica, ma anche secondo le linee di una comune cultura. Intra- and inter-regional merchandise trade, 2008 (Billion dollars and percentage) 165 South and North Central America America Europe Origin Destination CIS Africa Middle East Asia World Value World 2708 583 6736 North America 1014,5 164,9 369,1 South and Central America 169,2 158,6 121,3 Europe 475,4 96,4 4695,0 Commonwealth of Independent States (CIS) 36,1 10,1 405,6 Africa 121,6 18,5 218,1 Middle East 116,5 6,9 125,5 Asia 775,0 127,3 801,0 Share of regional trade flows in each region's total merchandise exports 517 16,0 9,0 240,0 458 33,6 16,8 185,5 618 60,2 11,9 188,6 3903 375,5 100,6 486,5 15717 2035,7 599,7 6446,6 134,7 1,5 7,2 108,4 10,5 53,4 36,6 121,3 25,0 14,0 122,1 196,4 76,8 113,9 568,9 2181,4 702,8 557,8 1021,2 4353,0 World 17,2 3,7 North America 49,8 8,1 South and Central America 28,2 26,5 Europe 7,4 1,5 Commonwealth of Independent States (CIS) 5,1 1,4 Africa 21,8 3,3 Middle East 11,4 0,7 Asia 17,8 2,9 Share of regional trade flows in world merchandise exports 42,9 18,1 20,2 72,8 3,3 0,8 1,5 3,7 2,9 1,7 2,8 2,9 3,9 3,0 2,0 2,9 24,8 18,4 16,8 7,5 100,0 100,0 100,0 100,0 57,7 39,1 12,3 18,4 19,2 0,3 0,7 2,5 1,5 9,6 3,6 2,8 3,6 2,5 12,0 4,5 10,9 20,4 55,7 50,1 100,0 100,0 100,0 100,0 World North America South and Central America Europe Commonwealth of Independent States (CIS) Africa Middle East Asia 17,2 6,5 1,1 3,0 3,7 1,0 1,0 0,6 42,9 2,3 0,8 29,9 3,3 0,1 0,1 1,5 2,9 0,2 0,1 1,2 3,9 0,4 0,1 1,2 24,8 2,4 0,6 3,1 100,0 13,0 3,8 41,0 0,2 0,8 0,7 4,9 0,1 0,1 0,0 0,8 2,6 1,4 0,8 5,1 0,9 0,0 0,0 0,7 0,1 0,3 0,2 0,8 0,2 0,1 0,8 1,2 0,5 0,7 3,6 13,9 4,5 3,5 6,5 27,7 Fonte: WTO statistics Sulla base dei dati WTO 2008 sul commercio internazionale delle merci e dei servizi (ricavati dalla sezione Statistics del sito www.wto.org ), si possono individuare quattro macro aree regionali: 166 1) Europa con Russia: tale regione rappresenta il 41% delle esportazioni mondiali (ma il peso produttivo di quest’area è circa la metà di questa cifra) di cui il 72,8% circa rimane all’interno dell’area, il 7,4% è diretto verso gli Stati Uniti, il 7,5% verso l’Asia ed il restante 2% circa verso altri Paesi (quarta area); 2) Asia (comprendendo Cina, Giappone, India, Australia, Nuova Zelanda e i dieci paesi dell’Asean): in quest’area il 27,7% delle esportazioni mondiali di cui il 50,1% rimane al suo interno, il 17,8% si dirige verso il Nord America, il 18,4% verso l’Europa e la Russia e il 13% circa si dirige verso altri Paesi; 3) Paesi del Nafta: rappresenta il 13% delle esportazioni globali (il peso di questa regione sul Pil mondiale è però pari a circa il doppio e quindi le dimensioni economiche dell’area sono spropositate rispetto al suo grado di commercializzazione verso l’esterno). Il 49,8% circa rimane all’interno dell’area, il 18,4% si dirige verso l’Asia, il 18,1% verso l’Europa ed infine il 13% verso altri Paesi; 4) Altri Paesi: è un’area eterogenea che rappresenta l’18,3% delle esportazioni mondiali, di cui il 22,8% circa rimane nell’area, il 16,6% si dirige verso il Nafta, il 26% verso l’Asia, il 32,5% verso l’Europa e la Russia. Da quanto sopra riportato si può notare che oltre il 55% del commercio internazionale globale rimane all’interno della stessa macro area: di conseguenza la percentuale dello scambio internazionale che si può definire veramente “globale” è ridotta al di sotto della soglia del 45%. Al primo livello di commercializzazione, ossia quello che rimane all’interno della stessa area, appartengono ampie categorie di beni e servizi i cui scambi internazionali si esauriscono nella prossimità geografica; al secondo livello, quello globale, appartengono settori ed attività, quali il settore finanziario, le grandi reti di trasporto e comunicazione, la ricerca scientifica, l’industria petrolifera, che non possono essere attuati se non su di un piano mondiale. Dai dati precedentemente riportati riguardo alle tre aree commerciali (trascurando la quarta, ossia gli altri Paesi, per l’estrema eterogeneità e per il peso limitato rispetto al totale del commercio mondiale di ciascun paese che costituisce questo gruppo) si può certamente sostenere che si tratti di “macro aree” poco dipendenti le une dalle altre. Per l’area nordamericana si può affermare che tale processo di “isolamento” sia 167 iniziato con la creazione del Nafta sottoscritto ed entrato in vigore il 1 gennaio 1994 tra Stati Uniti, Messico e Canada. Infatti, fin dagli anni novanta, quest’area si è dotata di istituzioni e regole comuni grazie alla volontà, sempre un po’ isolazionista degli Stati Uniti (paese di riferimento dell’area), di favorire e di stimolare un sostenuto commercio interno a scapito del commercio internazionale. Tale accordo ha determinato la graduale eliminazione di dazi doganali sulle merci che attraversano i confini dei tre Paesi; obiettivo pienamente realizzato per i prodotti industriali e che sta più faticosamente progredendo per quelli agricoli. L’accordo stabilisce una parziale protezione dell’industria petrolifera messicana, ma non sancisce la libertà di circolazione delle persone. Lo sviluppo del commercio “regionale” nell’America del Nord viene attribuito ad una varietà di cause sottolineate e rafforzate dalla decisione degli USA di concludere accordi bilaterali di libero commercio con numerosi paesi di modeste dimensioni, dalla decisione di aprire selettivamente all’Africa (riduzioni doganali solo per cinque paesi), dalla tendenza di imporre crescenti tariffe doganali per settori strategici, dalla scelta di accordare sussidi alla produzione interna e dall’instaurarsi di attriti con l’Unione Europea. L’area nordamericana è caratterizzata da un’organizzazione gerarchica che si sviluppa attorno all’economia dominante (USA). Infatti sia il Canada che il Messico continuano ad integrarsi sempre più fortemente con l’economia degli Stati Uniti, chiudendosi al resto del mondo. Se si analizzano i dati della Tavola 1 ci si rende conto che nel periodo 1990-2005 il commercio verso l’esterno dell’area nordamericana è continuamente e rapidamente diminuito, mentre sono parimenti aumentati gli scambi all’interno dell’area. 168 Paese di destinazione ANNI 1990 Stati Uniti 2000 2005 1990 Paese di origine Canada 2000 2005 1990 Messico 2000 2005 1990 Tot. Nafta 2000 2005 Stati Uniti … … … 74,6% 87,3% 84,1% 79,4% 85,5% 85,8% 22,6% 31,7% 32,8% Canada 21,0% 22,6% 23,4% … … … 0,5% 2,0% 2,0% 14,8% 14,6% 14,6% Messico 7,2% 14,3% 15,3% 0,4% 0,5% 0,8% … … … 5,1% 9,2% 8,3% Tot. Nafta 28,3% 36,8% 36,7% 75,0% 87,9% 84,8% 80,1% 90,4% 87,8% 42,6% 55,64% 55,8% Tavola 1: Esportazioni di merci tra i paesi aderenti al Nafta Fonte: Elaborazione su dati Wto, Statistical Yearbook 2005. Anche l’area europea aveva iniziato un processo di intensificazione dei rapporti interni dalla metà degli anni Novanta. Negli ultimi anni, l’integrazione commerciale tra l’Europa Occidentale e Europa Orientale – grazie anche all’ingresso nell’euro di diversi Paesi - è aumentata in modo esponenziale, e sta cominciando a determinare una chiusura nei confronti del resto del mondo. La terza area è quella asiatica che, in realtà, non può essere considerata appieno come realtà unitaria, ma come un complesso di aree differenti, caratterizzate da molti tratti (culturali, economici, politici, istituzionali, ecc.) comuni. In questo contesto appare interessante soffermarsi soprattutto su quattro zone di tale area: Cina, India, Giappone e paesi dell’Asean (considerati in modo unitario). In queste aree, e marcatamente negli ultimi anni, si sta assistendo ad un’integrazione economica, al ridimensionamento del commercio verso il resto del mondo e ad un suo passaggio da una scala planetaria ad una più regionale. Esempio emblematico dell’inizio della chiusura dell’area asiatica è rappresentato dallo spostamento della direzione delle esportazioni giapponesi dall’America alla Cina, imputabile in parte al rallentamento dell’economia americana ed in parte alla dinamica espansione verificatasi nei paesi asiatici. Nel 2005 il 51,2% delle esportazioni giapponesi è stato diretto verso paesi asiatici, contro il 39% del 1999. 169 La Cina, da sempre caratterizzata da un’economia chiusa, soprattutto alle influenze dell'Occidente, avendo fatto il suo ingresso formale nel Wto a dicembre del 2001, sembrava avviata ad un’apertura verso il mercato internazionale, favorita anche dalla ripresa economica che si stava vivendo all’indomani della crisi del 19971998. Tuttavia, ci si è resi conto che le dimensioni geografiche (Cina ed India insieme hanno più di un terzo della popolazione mondiale), ma soprattutto le esperienze culturali e le tradizioni del paese, non rendevano possibile applicare, a quest’area, le regole di liberalizzazione basate su un’apertura incondizionata del mercato. La Cina si caratterizza per una serie di continue contraddizioni, osservabili anche sul piano degli scambi internazionali: all’apertura formale, determinata dall’ingresso nella Wto, e all’ampio programma di liberalizzazioni relative soprattutto al commercio con l’estero, fa da contrappunto un irrigidimento di fatto delle barriere ufficiali e non. Infine l’Asean: questo gruppo di paesi legati da un accordo commerciale, ha vissuto la crisi asiatica come un insegnamento che lo ha portato a non dipendere dall’economia americana in particolare ed occidentale in generale. Tale aggregazione ha deciso di accentuare la già abbastanza stretta reciproca collaborazione finanziaria e di promuovere forme crescenti di integrazione (riduzione dei dazi doganali, sistema di preferenze commerciali, ecc.). Gli scambi all’interno dell’area sono cresciuti dal 16,2% del 1990 al 22,8% del 2001, per arrivare al 23,2% nel 2005 con conseguente declino dei rapporti con gli altri paesi. In conclusione quello che emerge da questa trattazione è che il processo di globalizzazione sta attraversando una fase di trasformazione innescata da diverse variabili di natura economica e politica il cui punto di arrivo è di difficile individuazione. L’unica osservazione che si può fare non è altro che una speranza; quella di una crescita del commercio internazionale che continui a contribuire allo sviluppo economico, superando le tensioni protezionistiche che si presentano periodicamente e soprattutto nelle fasi di necessità o rallentamento economico e allorché intervengono distorsioni nei tassi di cambio delle principali monete che favoriscono alcuni Paesi rispetto ad altri. 170 La vera sfida del commercio internazionale non è la regionalizzazione, cioè globalizzazione per macro-aree, ma sono gli squilibri nei cambi e nelle bilance dei pagamenti alle partite correnti. Ad esempio se il dollaro si rafforza in presenza di un rilevante deficit della bilancia dei pagamenti, ben difficilmente il Congresso americano potrà astenersi dall’assumere misure protezionistiche. Da ciò discende che : 1) alla base del commercio internazionale ci deve essere un sistema monetario internazionale con delle regole rispettate da tutti, 2) ci deve essere un sistema di scambi commerciali e finanziari efficiente a livello mondiale, 3) è lecito che si manifesti un processo di integrazione per macro-aree come quello che oramai si sta delineando nell’economia internazionale di questi ultimi decenni. 171