Il Dastec si racconta
Reggio Calabria, 3 maggio 2007
Ettore Rocca
Estetica
1. Declaratoria
Leggo la declaratoria del ministero per Estetica (M-FIL/04): «Il settore accorpa e articola le
competenze che intrecciano riflessione filosofica e pratiche delle arti, saperi delle differenti tradizioni
artistiche e loro riformulazioni epistemiche, considerandoli dal punto di vista ermeneutico, storico
filosofico, semiotico, retorico e stilistico».
La prima reazione è di non capirci nulla. La seconda impressione, dopo una paziente rilettura, è
quella che il docente di estetica debba essere al tempo stesso filosofo, storico della filosofia, artista, storico
dell’arte, semiotico, ermeneuta, esperto di retorica e stilistica; insomma, un tuttologo, che è poi l’idea che
spesso ci si fa dei filosofi.
2. Ricerca
Al di là dell’ironia, l’infelice definizione del settore disciplinare è il sintomo di un problema che ci
porta di già nella ricerca: non è chiaro che cosa sia l’estetica. All’inizio di ogni corso pongo proprio
questa domanda agli studenti, e di solito il risultato è tot capita tot sententiae. Quando è nata l’estetica,
che cos’era l’estetica alla sua nascita, che cos’è oggi l’estetica, addirittura se l’estetica abbia oggi ragione
di esistere, sono questioni oggetto di ricerca e della mia ricerca. Do allora subito qualche risposta alle
domande formulate. L’estetica è una disciplina filosofica moderna, la cui affermazione risale alla seconda
metà del Settecento. E l’estetica nasce come una riflessione filosofica che è tre cose a un tempo: filosofia
della bellezza, filosofia dell’arte, filosofia della sensazione o della percezione. Questo non vuol dire che
non ci sia stata filosofia della bellezza o filosofia della percezione o filosofia dell’arte prima del
Settecento, ma ciò che è peculiare per l’estetica è proprio che questi tre filoni filosofici si fondono in
un’unica riflessione. Per fare solo qualche esempio, nell’antichità, in Platone, la filosofia della bellezza
non aveva a che fare con il sensibile, bensì con l’intelligibile, con ciò che non posso né toccare né vedere;
oppure fino al Settecento fare filosofia della bellezza significava fare filosofia della natura, non dell’arte,
l’arte poteva accedere alla bellezza solo imitando la natura.
La domanda successiva è perché queste tre linee filosofiche si uniscono nel Settecento e che cosa
ciò significa. Un’indicazione ce la fornisce la bistrattata declaratoria, che nomina come settore affine
all’estetica la filosofia teoretica, ossia la filosofia pura, senza aggettivi né specializzazioni. Perché non la
semiotica, la filosofia della scienza, la teoria o la storia dell’arte? Ciò avviene perché l’estetica nasce come
critica della metafisica e al tempo stesso come erede della metafisica, intendendo per metafisica quel
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sapere che pretende di dire la parola ultima sull’essenza del mondo, dell’essere umano, di Dio stesso.
Critica della metafisica: in quanto filosofia dell’aisthesis, della percezione, dunque della finitezza
dell’esperienza umana, l’estetica critica ogni approccio che rimuova questa finitezza, che voglia andare al
di là del radicamento percettivo dell’esperienza umana. Erede della metafisica: nonostante questa critica
alla metafisica, l’estetica ne eredita l’aspirazione alla totalità, l’aspirazione a parlare del senso
dell’esperienza umana. Ma questo senso non risiederà più in un sapere intellettuale esterno all’esperienza,
bensì si darà in modo non intellettuale nell’esperienza della bellezza. Pertanto: estetica come filosofia
della percezione e della bellezza. Ancora, l’arte, meglio, l’arte moderna è per l’estetica il luogo che parla
della totalità, non, ripeto, sotto forma di sapere, ma per via simbolica. L’arte ci mostra il senso allo stato
nascente, quel senso che poi si specificherà nei più svariati significati, nelle più svariate forme di vita e di
cultura. Ecco: estetica come filosofia della percezione, dell’arte e della bellezza, contemporaneamente.
Come è stato efficacemente detto, l’estetica «interpreta l’arte, non già per capire l’arte, bensì per capire il
mondo. […] interpreta l’artista, non per capire l’artista, bensì per capire l’essere umano» 1.
L’estetica è ancora oggi questo? Può essere ancora contemporaneamente filosofia della
percezione, dell’arte e della bellezza? Oggi, nel mondo occidentale che si estende su base planetaria, uno
dei fenomeni più rimarcati è quello della estetizzazione. L’estetizzazione è il processo per cui tutto ciò che
facciamo, tutto ciò con cui usiamo deve avere una bella apparenza, deve piacere. È al limite il sogno di
rendere l’intera vita in tutte le sue parti, in tutti i suoi strumenti, un’opera d’arte. Da un lato può senz’altro
essere contenuta in questo fenomeno un’istanza di democratizzazione (dare a tutti la bellezza, permettere a
tutti di fare della propria vita un’opera d’arte), ma dall’altro bellezza, arte, piaceri percettivi diventano
parte del grande circo dell’intrattenimento. Ciò che si perde è il carattere eccezionale e rivelativo
dell’esperienza dell’arte e della bellezza, quella rivelazione simbolica della totalità di cui abbiamo parlato.
Se l’eccezionalità della festa dell’esperienza estetica diventa feriale, tutto si trasforma non in una festa
quotidiana ma in una ferialità quotidiana, in un grigio uniforme. Il collante che aveva tenuto insieme le tre
fibre dell’estetica come filosofia del senso dell’esperienza che si incarna nell’esperienza percettiva della
bellezza e della produzione artistica si scioglie. In altri termini: l’era dell’estetizzazione segna la morte
dell’estetica come filosofia, a un tempo, dell’arte, del bello, della percezione.
Di fronte a questa diagnosi, che interesse può avere l’architettura per un’estetica minacciata nelle
sue ragioni di esistenza? Nella seconda metà del Settecento e nell’Ottocento, l’architettura è sempre stata
il parente povero tra le arti, e, come tale, mai il partner privilegiato dell’estetica quando si trattava di
riflettere sul carattere rivelativo dell’opera d’arte. Poesia, pittura, talvolta musica erano gli esempi preferiti
per l’estetica. Ora che, a mio avviso, nell’era dell’estetizzazione l’estetica deve ripensare il proprio statuto,
l’architettura può invece diventare, come mai lo è stata prima, partner privilegiato per l’estetica. Il
presupposto è però che sia messa in questione l’opposizione che ha sempre relegato l’architettura in un
ruolo secondario tra le arti: quella tra bisogno e bellezza. L’opposizione utilitas-venustas è inscritta nella
riflessione del pensiero occidentale sull’architettura, tanto prima della nascita dell’estetica (moderna),
quanto in essa. Se l’estetica è filosofia della venustas è chiaro che l’utilitas ne sarà la pietra d’inciampo. Si
tratta allora di mettere in questione quest’opposizione. In che modo: mostrando come l’agire artistico e
l’esperienza della bellezza, nella loro apparente inutilità, sono dei bisogni dell’essere umano, sono forse
1
O. Marquard, Aesthetica und Anaesthetica. Philosophische Überlegungen; tr. it. Estetica e anestetica.
Considerazioni filosofiche, il Mulino, Bologna 1994, p. 37.
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anzi il luogo dove l’essere umano prende coscienza di che cos’è il bisogno e di chi è egli stesso come
essere bisognoso. Si tratta di trasformare l’estetica, per quanto strano possa sembrare, in una filosofia dei
bisogni e in un’interrogazione su che cos’è il bisogno come tale. In tal modo l’estetica permane fedele alla
sua origine: quella di essere filosofia della percezione e della finitezza, perché il bisogno è il luogo stesso
della finitezza e della corporeità per l’essere umano. Resta fedele pure alla sua origine critica: una teoria
dei bisogni significa una critica dei falsi bisogni e una critica di ogni ideologia che ingannevolmente
predichi un soddisfacimento ultimo dei bisogni. Che è quello cui mira l’estetizzazione: propagandare il
paradiso in terra, propagandare i prodotti estetizzati come risoluzione dei bisogni. Resta infine fedele alla
sua origine di erede della metafisica non abdicando al compito di pensare la totalità: interrogarsi sul
bisogno come tale vuol dire proprio interrogarsi su che cos’è l’essere umano come essere bisognoso, non
autosufficiente, non autonomo.
Questa estetica come filosofia del bisogno e dei bisogni può trovare nell’architettura una fonte
primaria di interesse e di dialogo. Perché ogni buona architettura non soddisfa semplicemente dei bisogni
dati, prescritti dalla committenza, ma li rimette in gioco. Ogni grande architettura è capace di
reinterpretare i bisogni di una data società, dando loro un rinnovato senso; è capace di criticare falsi
bisogni invece che ingenerarne di ulteriori e fittizi; è capace, infine, proprio per il suo fine di soddisfare
alcuni bisogni, di farci comprendere quali bisogni essa non può soddisfare, e al tempo stesso che non può
costituire alcuna soddisfazione ultima di bisogni. In tal modo ci rimanderà, intatta, la domanda su chi è
l’essere umano, come essere finito e bisognoso, e in che modo si articolano i suoi bisogni, in un dato
momento del tempo e in dato luogo 2.
Questa interrogazione sul rapporto tra architettura e riflessione filosofica sul bisogno vuol essere
parte di una più ampia interrogazione sulla natura del bisogno. In essa rientra anche la questione del
bisogno religioso, che mi ha tenuto e mi tiene impegnato da anni nelle mie ricerche sul filosofo e teologo
Søren Kierkegaard. Non mi dilungo ora su questa questione. Il mio problema è comprendere se il così
detto bisogno religioso sia semplicemente un’altra versione del bisogno di senso e del suo
soddisfacimento ultimo nella forma di un desiderio di redenzione. Questo desiderio sarebbe ereditato e
dissolto dall’estetica moderna, dissolto come culto religioso, ereditato nella secolarizzazione della
religione nell’arte, che sostituisce al culto del dio il culto dell’opera d’arte. Oppure si tratta di vedere se in
ciò che impropriamente si chiama bisogno religioso ci sia un fondo che sfugge alla logica del bisogno. In
tal senso il religioso non sarà propriamente un bisogno, sarà estraneo alla logica di bisogno e
soddisfacimento. Sarà dono e relazione alla differenza assoluta, una relazione che non può essere motivata
da una precedente situazione di bisogno3.
Un terzo fuoco di interesse di ricerca è la nozione di paesaggio, letta nel suo statuto filosofico.
Nomino le questioni per me centrali per una ricerca filosofica sul paesaggio. 1. Il rapporto tra paesaggio e
2
Il risultato principale di questa ricerca è il mio volume antologico Estetica e architettura, il Mulino, Bologna, che
uscirà nel prossimo ottobre.
3
Tra i miei lavori recenti cito: Il bisogno e la differenza, in L. Bottani (a cura di), Memoria, cultura e differenza II,
Mercurio, Vercelli 2007, pp. 113-126; La percezione del peccato. Per un’estetica teologica, in U. Regina, E. Rocca
(a cura di), Kierkegaard contemporaneo. Ripresa, pentimento, perdono, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 43-59; Vier
Thesen zur Anthropologie Kierkegaards, in N.J. Cappelørn, R. Crouter, Th. Jørgensen, C.-D. Osthövener (a cura di),
Schleiermacher und Kierkegaard. Subiektivität und Wahrheit/ Subjectivity and Truth, de Gruyter, Berlin / New York,
2006, pp. 543-560.
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natura, e il modo in cui la nozione di natura persiste ed e mutata dal concetto moderno di paesaggio. 2. Il
rapporto tra le nozioni di paesaggio e città, entrambe nozioni moderne che si sono istituite in una
vicendevole coappartenenza. 3. Il rapporto tra il paesaggio e l’opera d’arte. Vale a dire: può il paesaggio
essere considerato opera d’arte? A mio avviso ci sono aspetti che impediscono una identificazione del
paesaggio con l’opera d’arte tout court, e riguardano l’imprescindibile valenza etica del paesaggio 4.
3. Didattica e rapporti interni
La didattica è per me espressione e prolungamento della ricerca. A maggior ragione perché la
disciplina che insegno non è un sapere dato che può essere trasferito da me agli studenti. Considero un
privilegio di questo mestiere quello di poter provare e modificare la ricerca in base agli stimoli e alle
indicazioni ricevute nella didattica. Tra le due si crea un circolo: la didattica è indirizzata dalla ricerca, la
ricerca è modificata dalla didattica.
Anche grazie alle sollecitazioni di Laura Thermes, che per prima, nel 2000, volle nel suo
Laboratorio di Sintesi Finale un insegnamento di Estetica alla Facoltà di Architettura di Reggio Calabria,
ho finora interpretato il mio contributo alla formazione degli studenti fornendo loro un’educazione alla
scrittura. Lo scopo è che gli studenti imparino a comprendere e riformulare criticamente per iscritto testi
filosofici che hanno interesse per l’architettura. È qui che credo di aver potuto dar maggiore spazio
all’aspetto maieutico che è inscritto nel codice genetico della ricerca filosofica. Vale a dire: aiutare le
potenzialità di ciascuno studente a vedere la luce.
La disciplina che insegno ha una peculiarità: anche i rapporti interni sono esterni. Sembra uno dei
soliti giochetti dei filosofi. Mi spiego: il luogo naturale dell’estetica, anche in base a quanto detto su che
cos’è l’estetica, è la facoltà di filosofia. Pertanto lavorare in una facoltà di architettura, in un dipartimento
che si interroga sull’arte, la scienza, la tecnica del costruire, in un dottorato di ricerca in composizione
architettonica, corrisponde alla sensazione di essere fuori casa, con tutte le potenzialità di arricchimento e
ibridazione che si hanno solo quando si esce dalle mura domestiche, a maggior ragione se, come mostrato
all’inizio, non è ben chiaro che cosa questa casa (l’estetica) sia. Ciò significa che il mio rapporto con le
discipline presenti nel dipartimento e nella facoltà è da costruire di volta in volta. Quale può essere il mio
contributo al progetto architettonico, inteso in tutta la pluralità delle sue componenti? Un equivoco va a
mio avviso evitato: che l’estetico (inteso come chi si occupa di estetica) sia colui che in un progetto può
assicurare la qualità estetica di un prodotto, come c’è chi ne può valutare la fattibilità tecnica, l’impatto
ambientale, la valutazione economica. L’estetica non vuole, e se pure volesse non può, essere un valore
aggiunto per un progetto. Detto in modo ancora più brutale: l’estetica non può insegnare a fare un progetto
bello. L’influenza che l’estetica può avere sul progetto è indiretta: può insegnare ad avere consapevolezza
teorica dei termini chiave che si usano in un progetto, una consapevolezza che avrà necessariamente
conseguenze non, però, sulla presunta a sé stante qualità estetica del progetto, bensì sul progetto nella sua
4
Si veda il mio contributo Prolegomeni per una filosofia del paesaggio, in L. Thermes, O. Amaro, M. Tornatora (a
cura di), Il progetto dell’esistente. Permanenze e trasformazioni nei paesaggi di Cutro, Iiriti, Reggio Calabria 2007,
in corso di stampa.
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totalità. In altri termini, aiuterà a fare un progetto migliore, non un progetto che ha una maggiore qualità
estetica.
4. Rapporti esterni e prospettive
L’influsso indiretto sul progetto può essere trasposto anche sulla questione dei rapporti esterni.
Intendo, i rapporti col territorio per la mia disciplina saranno anche qui indiretti. Estetica può, a mio
avviso, fare un lavoro preparatorio che si possa poi esprimere in ogni rapporto col territorio.
Ci sono poi i rapporti esterni con altri atenei e in particolare con i docenti di estetica nella facoltà
di architettura italiane, dove l’insegnamento esiste. Grazie anche alla Società Italiana di Estetica e
all’Osservatorio di architettura presente al suo interno, cui collaboro, ho un confronto costante con ciò che
viene prodotto in estetica nelle altre facoltà di architettura.
Quanto alle prospettive di ricerca rimando alla parte sulla ricerca. Più in generale non posso che
augurarmi una sempre maggiore contaminazione con sempre più numerose aree disciplinari del
dipartimento e della facoltà.
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