Alternative Dispute Resolution, ovvero la risoluzione alternativa delle controversie
«interni» al gruppo. I primi sono essenziali nello stabilire un’identità di gruppo e possono spesso rafforzarla, ma se il grado di coesione interna, precedente all’esplosione del
dissenso, è basso, il conflitto può semplicemente accelerare il processo di disintegrazione;
i secondi, invece, con l’opposizione nei confronti dei devianti, rendono evidente ai membri del gruppo la posizione che essi devono tenere: i conflitti contribuiscono quindi alla
sopravvivenza, alla coesione e alla stabilità di un gruppo, e rappresentano per
quest’ultimo una valvola di sicurezza d’importanza cruciale nelle «condizioni di stress».
Coser, inoltre, è dell’idea che quando gli individui appartengono a molti gruppi diversi —
ognuno dei quali persegue i propri interessi ed è, di conseguenza, coinvolto in conflitti suoi
propri — è meno probabile che impieghino tutte le loro energie in un unico conflitto che
possa dividere la società. Al contrario, ritiene che sia più probabile che un conflitto interno
coinvolga principi-base (e risulti quindi socialmente disgregante) nel caso di società rigide,
che permettono limitate espressioni di rivendicazione. In questo senso, quando il conflitto
emerge, dopo un lungo periodo di compressione, tende a dividere il gruppo anche su
questioni fondamentali e su considerazioni di valore.
L’aspetto psicologico è evidente in Coser quando fa riferimento ai gruppi esclusivi, cioè
a quei gruppi o istituzioni avide, che richiedono un coinvolgimento totale ai propri membri:
i conflitti che insorgono in questo genere di gruppi sono intensi, in quanto i sentimenti di
amore e di odio coesistono proprio in rapporti stretti. Minore è il numero dei gruppi a cui
un individuo appartiene, più è probabile che tale individuo resti profondamente coinvolto
in uno di questi gruppi. La presenza di un forte coinvolgimento influenza la natura dei
conflitti sia interni al gruppo sia tra i vari gruppi.
Lewis Coser, Ralph Dahrendorf e Randall Collins vengono definiti i I teorici analitici: Dahrendorf
teorici analitici del conflitto, nel senso che non credono in un ideale razionale e libero da conflitti, ma al contrario sottolineano che il conflitto e le sue
radici hanno carattere permanente e i conflitti di interesse sono inevitabili.
Il lavoro di Dahrendorf (1929-2009) sul conflitto segue due filoni fondamentali. Il
primo è quello che il sociologo tedesco descrive come «teoria della società» e che si
occupa di esporre i principi generali della spiegazione sociale: lo studioso sottolinea il
primato del potere e la conseguente inevitabilità del conflitto. Il secondo riguarda i fattori che determinano il conflitto, ossia il modo in cui le istituzioni sociali generano sistematicamente gruppi con interessi conflittuali e le circostanze in cui tali gruppi diventano
attivi e organizzati. Secondo l’autore, i conflitti avranno luogo sempre tra gruppi che differiscono per l’autorità che possono far valere sugli altri. Con il termine «autorità», il teorico indica quella sorta di potere, connesso a un ruolo o a una posizione sociale, che è
legittimato da norme e rafforzato da sanzioni applicabili entro i suoi limiti. Da un lato,
Dahrendorf si rifà alla concezione di Marx dell’analisi delle classi sociali; dall’altro, considera centrale il potere, così come nel pensiero di Weber.
Per Max Weber (1874-1920), il potere è costituito da «ogni possibiL’idea di Weber
lità di imporre la propria volontà in una relazione sociale anche
contro una resistenza, a prescindere dal fondamento di tale possibilità». Il conflitto
si svolge per il potere: in economia (a proposito del salario, del credito, delle merci
ecc.), nell’ordinamento sociale (per il prestigio, i valori, gli stili di vita, la cultura) e in quello politico (la lotta fra i partiti). Il conflitto medesimo è quindi un elemento di movimento e di selezione naturale della società (fornisce la classe politica migliore, l’impresa
47
Capitolo 1
più efficiente, i gruppi più meritevoli di prestigio): di conseguenza, Weber vede la burocrazia delle società contemporanee come una gabbia allo sviluppo delle forze
sociali, proprio perché essa impedisce il conflitto.
La nozione di «sistema», su cui la razionalità moderna ha posto le
proprie basi, si trasmette in larga parte alla ricerca sociologica e trova
in Niklas Luhmann (1927-1998) il teorico dei conflitti nei sistemi
sociali (e non fra i soggetti che li compongono). Per lo studioso tedesco, il conflitto ha
la funzione insostituibile di indicatore delle disfunzioni nel sistema sociale, e
per questo sono necessarie le istituzioni, in quanto capaci di dare spazio al conflitto,
orientandone lo sviluppo. In particolare, gli «analisti strutturali», attraverso strumenti
derivati dalla «teoria matematica dei grafi», interpretano i comportamenti in relazione alle
posizioni degli attori nella struttura sociale, individuando, con l’ausilio di sofisticati «scaling
multidimensionali», la «scatola nera» del processo decisionale. In questo modo si identifica
sia la struttura del consenso/dissenso nel sistema di integrazione sociale, sia gli elementi
che vincolano le decisioni collettive su problemi particolari, insieme all’estensione e all’origine delle tensioni interne alle comunità. Questo approccio risulta particolarmente utile in
«conflitti multiparte» o per i quali è necessario poter disporre di elementi di sintesi.
Luhmann: il teorico dei
conflitti nei sistemi sociali
Analogamente, può risultare utile la «tecnica del re-framing» (ovvero
la riformulazione di un’affermazione o la ripetizione di un comportamento per modificarne gli effetti negativi) di Goffman, negli interventi in situazioni conflittuali, al fine di mettere in evidenza gli aspetti che uniscono le parti e
condurre così la comunicazione su un piano diverso e migliore, alla base di nuove forme
di rapporto che superino il conflitto.
La tecnica del re-framing
di Goffman
48
Capitolo
2
La mediazione: cenni introduttivi
Sommario
1 Un breve excursus storico-geografico. - 1.1 Nell’antica Roma. - 1.2 Nell’età medievale. - 1.3 Nel lontano Oriente. - 1.4 In
Sudan. - 1.5 In Italia. - 2 Mediazione e conciliazione: termini alternativi?
1 Un breve excursus storico-geografico
1.1 Nell’antica Roma
La mediazione ha origini molto antiche e in questa sede faremo solo un rapido accenno
ai momenti storici più importanti per la materia che stiamo trattando.
Già in un passo delle XII Tavole (il corpo di leggi compilato nel 451Le XII Tavole
450 a.C. dai decemviri legibus scribundis, che costituisce una delle
prime codificazioni scritte del diritto romano) era contenuto l’obbligo per i magistrati di
consacrare, mediante l’emanazione di una sentenza, l’accordo che i litiganti avessero tra
loro concluso prima di recarsi dagli stessi giudici.
Secondo D. Malzone e P. Bernuzzi, nelle XII Tavole si trova una terminologia che
sembrerebbe avere le proprie radici in un istituto primordiale, risalente all’«epoca gentilizia»:
la legge del taglione. Infatti, nella Tavola VIII, 2, si legge: «Si membrum rupsit, ni cum
eo pacit, talio esto». In relazione al membrum ruptum, cioè alla lesione personale consistente nell’inutilizzazione di un arto o di un organo, alle parti è data facoltà di transigere
oppure di procedere all’applicazione della legge del taglione: a testimonianza, da un lato,
di come il pactum sia dato dall’accordo di una persona — alla quale compete l’azione,
conseguenza necessaria del delictum — con un’altra; dall’altro, di come siffatto procedimento di composizione volontaria di situazioni di conflitto, indicato come pacisci o come
pactum, possa farsi risalire all’epoca gentilizia.
Altre norme dei decemviri dimostrano che l’atto (il quale più tardi si
disse transactio) e il pactum non sono negozi di natura diversa, ma
I pacta
Capitolo 2
che il primo è una species del secondo; in altri
Tavola I, 6-8
termini, preme palesare che, come le concilia6. Rem ubi pacunt, orato. — Se le parti si accorzioni giudiziali, delle quali le XII Tavole recano
dano, [il magistrato] decida.
consistente testimonianza, così anche le situa7.
Ni pacunt, in comitio aut in foro ante meridiem
zioni incerte siano state a quel tempo risolte
caussam coiciunto. Com peroranto ambo
attraverso il ricorso a strumenti negoziali idonei
praesentes. — Se non si accordano, [le parti]
a realizzare l’equilibrio degli interessi contrappoespongano la causa nel comizio o nel foro
sti delle parti, quali erano appunto i pacta.
prima di mezzogiorno. Espongano la causa
Inoltre, la conclusione tratta dall’esegesi della
presenti entrambe.
Tavola I, 6-8 e di D. 2.4.22.1 può confermare
8. Post meridiem praesenti litem addicito. —
il ricorso, nel periodo decemvirale, del pactum
Dopo mezzogiorno [il magistrato] aggiudichi
in funzione transattiva, come strumento di risola lite a favore della parte presente.
luzione di una situazione controversa, cioè di
una lite attuale o potenziale. Anche dopo il primo atto processuale della in ius vocatio,
una transazione sul rapporto dedotto in giudizio era pienamente consentita dal diritto, e
allora la procedura, instaurata con la in ius vocatio, veniva interrotta e la transazione teneva luogo della sentenza evitata.
Maggiori difficoltà presenta l’accertare se anche dopo che le parti si
erano effettivamente presentate davanti al magistrato, e quindi nella
fase in iure (dove ius sta a indicare il «tribunale del magistrato») avevano impostato la controversia, si poteva venire alla conclusione di una transazione. Ebbene, tra le interpretazioni possibili della Tavola I, 6 («Rem ubi pacunt, orato») non rientra certo quella che consiste nell’individuare il soggetto dell’orato nel magistrato in iux,
con la conseguenza di ritenere che nella fase in iure, la prima del processo, non soltanto
era consentito di addivenire tramite transazione a una pacificazione tra le parti configgenti, ma addirittura che questa conclusione amichevole era vista di buon occhio e dunque
favorita. Invece, dal momento della litis contestatio a quello della sentenza era preclusa
la possibilità di transigere sul rapporto controverso.
Anche per il periodo decemvirale si è posta la questione se fosse consentito, come per il
periodo successivo, transigere sul rapporto dedotto in giudizio dopo l’emanazione della
sentenza; per siffatto periodo si ha a disposizione solo un passo delle Notes Atticae di
Aulo Gellio, nel quale sembrerebbe essere descritta la possibilità di transigere una controversia finanche nella fase esecutiva della sentenza (addirittura fino alla fase esecutiva
della legis actio per manus iniectionem).
Se possibile, favorire una
conclusione amichevole
1.2 Nell’età medievale
Nel Medioevo, l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte della
Chiesa prevedeva anche il tentativo di conciliazione, esercitato dai
Vescovi nei Tribunali ecclesiastici e dai legati pontifici nei conflitti fra
regni, principi e città-stato (anche se tale attività risultava più una funzione diplomatica,
posta in essere dai cosiddetti amicabiles compositores).
La conciliazione esercitata
dalla Chiesa
Al tempo del Sacro
Romano Impero
Il Sacro Romano Impero, voluto da Carlo Magno alla metà dell’anno
Mille, appare come un mosaico di ordinamenti giuridici diversi
fra loro, tali da rappresentare delle vere entità politiche autonome,
50
La mediazione: cenni introduttivi
Nel XII secolo
con una propria sovranità giuridica. Secondo P. BERNUZZI, in questo
scenario storico, il ricorso all’istituto della mediazione/conciliazione
quale metodo per sanare le controversie, nel primo periodo dell’epoca comunale, ha come
fine il raggiungimento di una sempre maggiore autonomia giudiziaria.
L’aumento delle cause giudicate dal personale civile e dai magistrati comunali genera nuove procedure giudiziarie e indica come, a partire dalla seconda metà del secolo XII, i nuovi poteri fossero capaci di presentarsi alla cittadinanza come istituzioni giudiziarie alternative agli antichi tribunali episcopali e signorili. Grazie ai giuristi, inizialmente
ecclesiastici, che circolavano agevolmente tra le città del Midi e le principali scuole italiane
— Bologna, Piacenza e Pavia — già dall’inizio del secolo XII, l’ambiente provenzale
introduce nuovi e originali elementi, mutuati dallo ius commune, nella pratica giuridica e scritturale. È, infatti, proprio la capacità di combinare insieme elementi propri
della procedura romana con elementi specifici delle tecniche arbitrali, più vicine
alle esigenze dei cittadini, che permette al Comune di legittimarsi come autorità giuridica
autonoma e di intervenire anche in campo documentario.
A tale proposito, appare emblematica la pergamena di seguito propo- Un esempio di controversia
sta, estratta dagli archivi dell’Università degli Studi di Verona – Scrineum.
La controversia del giugno 1178 tra Aldiarda, badessa del monastero di San Cesareo di
Arles, e i consoli della città, in merito ai diritti di pesca nel territorio circostante, offre un
esempio dell’evoluzione giudiziaria in direzione di soluzioni alternative rispetto
a quelle tradizionali, e mostra l’attenzione delle nuove istituzioni alla trasmissione dei documenti scritti. La disputa è arbitrata da Lombardo Giudice, magistrato di
Avignone, chiamato a esercitare nella città vicina e nella curia di Raimondo, cioè nel luogo
in cui l’arcivescovo di Arles amministrava abitualmente la giustizia; come in altri casi simili,
il giudice è assistito da alcuni probi viri, tutti membri piuttosto influenti dell’élite di governo
arlesiana.
I tribunali comunali, secondo una prassi consueta alla fine del secolo XII, risolvono le
cause giudiziarie non tanto secondo il modello processuale-placitario, ma soprattutto
grazie a compromessi di varia natura. L’uso massiccio del compromesso come forma
di «risoluzione» delle dispute non deve però indurci a ritenere che i conflitti fossero definiti unicamente seguendo vie extra o para-giudiziarie, troppo spesso concepite come disordinate prassi esterne al diritto pubblico. L’evoluzione della struttura istituzionale dei
Comuni va infatti di pari passo con il raggiungimento di una piena legittimità dei tribunali civili, i quali non erano più istanze di mediazione e di «risoluzione» amichevole, bensì
esprimevano il potere dell’istituzione, che si esplicava in una reale capacità di pronunciare giudizi (S. BALOSSINO).
«Lombardo, giudice del Comune di Arles, pronuncia sentenza nella controversia
tra Aldiarda, badessa del monastero di San Cesareo di Arles, e i consoli della
città in merito ai diritti di pesca nel territorio di Arles. In nome di nostro signore Gesù Cristo. Nell’anno della sua incarnazione, 1178, il giorno 24 del mese
di giugno. La disputa che verteva tra Aldiarda, badessa di San Cesareo, e i consoli di Arles, Ponzio de Aqueria, Raimondo di Uzès, Guglielmo de Aramon,
versata la cauzione nelle mani di Rainaudo Rostagno, Pietro de Roveria, Pietro
Rainaudo, Guglielmo Guiquiranno, è stata composta amichevolmente dal giudice Lombardo di Avignone, che era chiamato Giudice di nome proprio, nel
51
Capitolo 2
modo seguente: dal termine fissato in direzione dello stagno fino a Claram, la
badessa ha la facoltà di riscuotere la metà del pescato nella settimana, in qualsiasi giorno volesse, salvo il lunedì. I pescatori, rappresentati dai consoli, giurano alla presente badessa di restituire convenientemente la sopraddetta quota e
il monastero percepirà questa metà del pescato quando l’acqua scorrerà nel
canale; il monastero percepirà tutto il pescato quando cesserà di scorrere, ma
al di sotto del termine fissato verso il Rodano, il monastero non abbia mai nulla; e dal suddetto termine fino alla località Clara, i pescatori o i consoli o altra
persona possano fare alcuna frode, alcun inganno, alcun attrezzo da pesca per
pescare a danno del monastero e così come sopra è scritto sia i consoli e sia la
badessa promisero di rispettare tutto ciò saldamente, senza inganno, in perpetuo.
Queste decisioni sono state prese nella curia di Raimondo, arcivescovo di Arles,
alla presenza di molti uomini probi, ovvero di Porcello, Ugo de Arena de Arezato, Pietro di Guglielmo de Arena, Guglielmo di Bertrando de Arena (…).
Qualche tempo dopo, poiché non era stato apposto alcun sigillo al documento
nel quale erano contenute le sopraddette decisioni, e ciò potrebbe essere materia di lite tra i consoli e la badessa, sembrò opportuno ai consoli e alla badessa
Aldiarda apporre questo sigillo, affinché la verità della decisione non potesse,
in futuro, venir meno, e se fosse sorta qualche questione di ruberia sarebbe
stata definita grazie a tale documento. Pertanto, su mandato dei consoli e per
volontà della predetta badessa, questo sigillo è stato apposto su questo documento nell’anno dell’incarnazione del Signore 1188, quando erano consoli
Pietro de Aqueria, Guglielmo di Valle Florida, Raimondo de Borrian (…)».
(G. De Angelis)
1.3 Nel lontano Oriente
In Oriente, come evidenzia R. ORFEO, una delle culture che ha più largamente utilizzato
la conciliazione come strumento primario per la risoluzione delle controversie è sicuramente quella di natura confuciana, originariamente sviluppatasi in Cina, e successivamente estesasi a tutte quelle zone limitrofe soggette alla potenza del grande Impero di
Mezzo.
La concezione cinese del diritto è molto diversa da quella occidentale e la regolazione della vita sociale è fondata sul combinarsi
del «li» e del «fa», che rappresentano due distinti insiemi di norme,
volte al perseguimento del principio-cardine secondo cui una decisione arbitrariamente
assunta dal giudice senza fare espresso riferimento alla legge è teoricamente illecita.
Il «li» consiste in un complesso di regole morali, concretizzate in specifici rituali necessari per garantire all’uomo una vita in armonia con il cosmo. Rappresenta una
sorta di codice di comportamento di un gruppo sociale e trova il suo fondamento nel
pensiero confuciano, il quale manifestava costantemente la propria avversione nei
confronti delle leggi e dei tribunali, e la propria ostilità e sfiducia nei riguardi della capacità
delle istituzioni giuridiche di disciplinare in maniera armoniosa i rapporti tra gli uomini,
affermando, al contrario, la necessità di fondare l’ordine della società su regole di educazione e di cortesia. In questo codice di comportamento, caratterizzato dalla ricerca dell’armonia (He) e dalla rinuncia in favore del prossimo (Rang), i diritti non trovano spazio,
La concezione cinese
del diritto: il «li» e il «fa»
52
La mediazione: cenni introduttivi
considerato che l’individuo è connotato dai propri doveri e che il concetto di
uguaglianza non è contemplato all’interno dei rapporti interpersonali. Infatti, la
morale confuciana non ha una connotazione teologica come quella cristiana, ma, al contrario, vuole essere un efficace strumento di regolazione sociale e di governo.
All’opposto, la scuola di pensiero del «fa» vede nella legge scritta, e in particolare in
quella penale, il più efficiente tra gli strumenti di governo. Essa rappresenta la legge
in quanto fonte del diritto, e il suo principio-base, contrario a quello confuciano, è la
certezza di dover reprimere i conflitti, che nascono dall’inevitabile egoismo della natura umana, punendo in maniera esemplare le violazioni. Tuttavia anche nel «fa» si riscontra,
alla fine, una progressiva interiorizzazione della norma, a cui si arriva attraverso l’azione
legislativa e repressiva, che col tempo rende inutile sia la legge che la relativa sanzione.
È in un testo del XIII secolo che questo emerge in maniera significativa, laddove si privilegia l’applicazione del «li»; ma susseguentemente si ricorre al «fa» quando i riti proposti dal
«li» non siano rispettati. Il rapporto tra il «li» e il «fa» è allora riproposto dai seguaci confuciani sotto forma di aforisma, che recita: «il li non discende fino alla gente comune e il
fa non sale fino ai nobili letterati». È da quel momento che in Cina comparvero i concetti di «uguaglianza dei cittadini», «garanzie processuali», «separazione fra diritto pubblico,
diritto privato e diritti soggettivi».
Le innovazioni fondamentali che si ebbero con la codificazione pro- Dal «sistema delle sei leggi»
posta dal Guomindang e proseguita da Sun Yat-Sen portarono a
ai «Comitati Popolari
un apparato legislativo (detto «sistema delle sei leggi») fondato sul
di Conciliazione»
principio di legalità e ispirato al modello giuridico di civil law dell’Europa continentale; furono così creati il Codice Civile e di Procedura Civile, il Codice
Penale e di Procedura Penale, e la Costituzione, che dopo varie revisioni entrò in
vigore nel 1947, consacrando in questo modo l’ingresso della Cina nella famiglia giuridica
Romano-Germanica.
Con la vittoria di Mao Zedong, in seguito alla guerra civile tra Comunisti e Nazionalisti,
nel 1949 venne abrogato il sistema delle sei leggi, considerato troppo a favore dei proprietari terrieri, e nel 1954 venne promulgato un testo costituzionale con il quale furono
istituiti i cosiddetti «Comitati Popolari di Conciliazione», come suggeritori di soluzioni
stragiudiziali delle controversie. Si ritorna, in un certo senso, al pensiero confuciano,
promotore della conciliazione, un mezzo che in poco tempo divenne lo strumento più
idoneo per amministrare la giustizia civile in Cina.
Il comportamento di sfida fra le parti, all’interno di una controversia Confucio e la centralità
giudiziaria, è lontano dalla concezione confuciana: Confucio è infat- della conciliazione
ti dell’idea che la conciliazione, attraverso pratiche di compromesso
e di mediazione, sia capace di limitare quell’esasperata competizione fra gli individui, che
si esplica nel tentativo di dimostrare a tutti i costi di avere ragione per vincere la causa.
Oggi questa cultura giuridica si rafforza e si espande, e l’intervento dello Zhong Jian Ren
— terzo indipendente e neutrale — è un elemento chiave del sistema cinese; la conciliazione viene spesso incoraggiata o tentata direttamente anche da giudici e
arbitri nel corso di un procedimento. Il saggio Confucio, asserendo che «la risoluzione ottimale di una divergenza si trova tramite la persuasione morale e l’accordo, e non
sotto coercizione», ha individuato, in una sola battuta, il senso e il nucleo fondamentale
della mediazione.
53
Capitolo 2
1.4 In Sudan
L’«antropologia giuridica» ha contribuito fortemente a dimostrare come, in varie parti del
mondo — dall’Africa alla Russia, dal Giappone (e un po’ in tutta la tradizione orientale)
al Sudamerica — si possono riscontrare innumerevoli esempi di giustizia informale prodotta dal lavoro di soggetti «al di fuori dell’ordinamento statale»,
dotati di autorevolezza riconosciuta dai componenti della comunità a cui appartengono. Uno degli esempi più indicativi è quello analizzato da Evans-Pritchard, a
proposito del popolo sudanese dei Nuer, e del loro «capo con la pelle di leopardo»:
«Quando un uomo ne ha ucciso un altro, deve immediatamente recarsi dal
capo, che incide il suo braccio fino a farne uscire il sangue. Finché questo
marchio di Caino resta visibile, l’uccisore non può né mangiare né bere. Per
sfuggire alla vendetta, di solito rimane nella dimora del capo, che è luogo
sacro e inviolabile. Il capo comincia allora a fare pressioni sui parenti dell’uccisore, affinché si preparino a pagare una compensazione che eviti rappresaglie, e sui parenti della vittima affinché l’accettino. Durante questo periodo
le parti non possono mangiare o bere a una mensa comune. Si potrebbe avere l’impressione che il capo giudichi il caso e obblighi ad accettare la sua
decisione. Niente di più falso. Non viene chiesto al capo di pronunciare un
giudizio; e a nessun Nuer verrebbe mai in mente di chiederglielo. Se può
sembrare che, con la sua insistenza, il capo forzi i parenti del soggetto ucciso
ad accettare il risarcimento, se necessario minacciandoli di maledizione, la
spiegazione è che questo suo comportamento consente ai parenti della vittima
di conservare il loro prestigio sociale. Il riconoscimento dei legami comunitari tra le parti, l’esistenza di un obbligo morale ad accettare la compensazione
tradizionale e il desiderio di evitare il ricorso alle ostilità sembrano gli unici
elementi che entrano realmente in gioco. In senso stretto i Nuer non hanno
Diritto (o meglio, non posseggono un Ordinamento): nessuno è investito di
funzioni legislative o giudiziarie».
1.5 In Italia
In Italia lo sviluppo più rilevante dell’uso dei metodi conciliativi coincise con il periodo dell’unificazione del Regno. Nel 1865, Pisanelli, anche in considerazione dell’ottima attività dei giudici conciliatori, soprattutto nel Sud Italia, mise tali magistrati alla base del
progetto di Codice di Procedura Civile, entrato in vigore l’anno dopo.
La figura del giudice conciliatore venne quindi creata con il regio decreto del 6
dicembre 1865, n. 2626, «sull’ordinamento giudiziario del Regno d’Italia», che
prevedeva l’istituzione, presso ogni Comune, di un conciliatore nominato dal sovrano. Il
giudice, assistito dal segretario comunale in veste di cancelliere, avrebbe dovuto comporre,
su richiesta delle parti, le controversie minori ed eventualmente giudicarle.
I «giudizi» di fronte ai conciliatori si svolgevano senza formalità, le argomentazioni e le
eccezioni venivano poste anche verbalmente e, se l’oggetto della controversia era di valore inferiore a 30 lire, il verbale di avvenuta conciliazione era direttamente esecutivo; altrimenti, per valori superiori, aveva forza di scrittura privata riconosciuta in giudizio.
Nella seconda metà dell’Ottocento: nasce la figura del
giudice conciliatore
54
La mediazione: cenni introduttivi
In seguito alla legge del 16 giugno 1892, n. 261, veniva regolato il funzionamento
di un vero e proprio Ufficio di conciliazione, retto da un giudice elettivo competente
in materia di «azioni personali, civili e commerciali» fino a 100 lire di valore, di «danni
dati» fino alla stessa somma, e di locazioni di immobili. Il giudice, secondo il regolamento
di applicazione della medesima legge, inserito nel regio decreto del 26 dicembre
1892, n. 728, veniva scelto dal Presidente del Tribunale competente, all’interno di
un’apposita lista degli eleggibili compilata dalla Giunta comunale e proposta dal Procuratore regio.
Caratteristica particolare del giudice conciliatore, a differenza di altri magistrati effettivi e
onorari, era la sua competenza municipale. In sede non contenziosa, la conciliazione
operava tramite il magistrato popolare o giudice conciliatore come sostitutivo del
processo civile e trovava luogo prima che la causa fosse instaurata. In sede contenziosa, la conciliazione poneva termine alla lite e operava come modo di estinzione del
processo civile.
Accanto alla figura del giudice conciliatore, la legge del 1892 prevedeva la presenza di un
vice-conciliatore e di un messo. Chimirri, onorevole ministro di Grazia e Giustizia
dell’epoca, reclamò «un magistrato popolare, in ogni Comune, a disposizione della
povera gente e dei lavoratori della terra, per dirimere con un giudizio pronto e sciolto
da soverchia formalità e quasi gratuito le controversie».
Nel 1893, con la legge n. 295, si introdusse un tentativo obbligatorio di conciliazione
per le controversie di lavoro (operai e apprendisti), di fronte ad appositi collegi di probiviri costituiti nelle fabbriche stesse, sul modello francese.
All’inizio del XX secolo il conciliatore assorbiva addirittura l’84,5%
Nella prima metà
del lavoro giudiziario, anche se la funzione giudiziaria restava sempre
del Novecento
predominante rispetto a quella conciliativa.
Con il regio decreto del 21 aprile 1927, n. 545, venne prevista «l’istituzione di
commissioni di conciliazione per le vertenze sugli alloggi», e l’art. 91/d del testo
unico della legge comunale e provinciale del 3 marzo 1934, n. 383, annoverava tra le spese obbligatorie dei Comuni quelle per l’Ufficio del giudice conciliatore
(prevedendo, quindi, a carico dell’ente, le spese per i locali, per i mobili, per gli stampati,
nonché i compensi al messo). Il funzionamento di tali uffici venne corretto con la normativa del 1940.
Dopo l’istituzione della Repubblica, nei Comuni, divisi in borNella seconda metà
gate, in frazioni, in quartieri, o anche ripartiti in circoscrizioni, potedel Novecento
vano essere istituiti, con decreto del Presidente della Repubblica,
distinti Uffici di conciliazione: ognuno era retto da un giudice e vi era addetto, di regola, un vice-conciliatore; se era necessario potevano esservi più vice-conciliatori.
La figura e le competenze del giudice conciliatore sono state abolite dalla legge istitutiva del «Giudice di Pace», magistrato onorario a cui venne affidata la rapida
risoluzione di cause di minore entità, sia civili che penali. Di fatto, questa legge venne
applicata solo dal 1996, a seguito della riforma del sistema giudiziario, approvata
nel 1995. È però interessante notare come nel Codice di Procedura Civile, attualmente vigente, il legislatore volle collocare il tentativo di conciliazione come adempimento preliminare alla trattazione della causa e, quindi, elevarlo a istituto
generale del procedimento di cognizione.
55
Capitolo 2
2 Mediazione e conciliazione: termini alternativi?
Si può riscontrare come i termini mediazione e conciliazione vengano utilizzati spesso alternativamente come sinonimi. In effetti, però,
si dovrebbe affermare che la mediazione è l’attività per conseguire il fine della
conciliazione nella lite fra le parti. Parlare, infatti, di mediazione tout court non è
quindi sempre corretto, in quanto spesso si vuole intendere il tentativo di conciliazione
(come attività) e non il risultato finale ottenuto (la conciliazione conclusa). Peraltro, il
termine anglosassone maggiormente utilizzato è mediation, da qui l’assonanza con il
lemma italiano mediazione. Tuttavia, in senso strettamente tecnico, in Italia, il mediatore viene descritto dall’art. 1754 del Codice Civile come «colui che mette in relazione due o più parti per la costituzione di un affare», e quindi manca del tutto il
presupposto della lite fra le parti. L’utilizzo (o l’imposizione) di termini differenti o di
termini simili è importante, perché i vocaboli adoperati determinano invariabilmente una
«mappa mentale».
Nella prassi italiana
Può risultare curioso rilevare (e in qualche modo paradossale, se teniamo presente la definizione terminologica introdotta dal D.Lgs. 28/2010) come, anche avendo a presupposto
l’art. 1754 del C.C., il R.D.L. del 27 novembre 1933, n. 1578, circa l’ordinamento della professione forense, stabilisca che:
«l’esercizio della professione di avvocato è incompatibile con l’esercizio della
professione di notaio, con la qualità di ministro di qualunque culto avente giurisdizione o cura di anime, di giornalista professionista, di direttore di banca, di
mediatore, di agente di cambio, di sensale, di ricevitore del lotto, di appaltatore di un pubblico servizio o di una pubblica fornitura, di esattore di pubblici tributi o d’incaricato di gestioni esattoriali, nonché con ogni altro impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera, di assistenza o di consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario» (art. 3, comma 1-3).
Nella prassi italiana, prima dell’introduzione del D.Lgs. 28/2010, il vocabolo «conciliazione» è stato impiegato soprattutto per le controversie di tipo commerciale, civile o di
lavoro, presso i Tribunali, le Camere di Commercio e altri enti (sindacati, associazioni dei consumatori ecc.). La parola «mediazione» è usata maggiormente nei casi di
controversie familiari o sociali, oppure in certe locuzioni, come mediazione penale
o mediazione internazionale. Le difficoltà terminologiche permangono, ma si può sostenere che non vi sia una distinzione di principio tra conciliazione e mediazione.
Inoltre, è necessario ricordare il D.Lgs. 28/2010, del quale tratteremo
più ampiamente in seguito, il quale ha specificato che:
—— la mediazione è l’attività svolta da un terzo imparziale e finalizzata ad assistere due o
più soggetti sia nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una
controversia, sia nella formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa;
—— il mediatore è la persona fisica (o le persone fisiche) che individualmente (o collegialmente) svolge (o svolgono) la mediazione, rimanendo priva (o prive), in ogni caso, del
potere di rendere giudizi o decisioni vincolanti per i destinatari del servizio medesimo;
—— la conciliazione deve intendersi come la composizione di una controversia a seguito
dello svolgimento della «mediazione».
Il D.Lgs. 28/2010
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La mediazione: cenni introduttivi
Nei Paesi di common law
Si può ricordare, infine, che nei Paesi di common law si tende sempre
più a fare uso di entrambi i termini, mediation e conciliation, indifferentemente, anche se il primo è comunque quello più utilizzato.
Se volessimo avere come riferimenti degli esempi autorevoli, si potrebbe riscontrare
come nella legge modello dell’UNCITRAL (United Nations Commission on International Trade Law – Model Law on International Commercial Conciliation), del 17-18
giugno 2002, si parla di conciliation; nel regolamento della Corte Internazionale di Arbitrato della Camera di Commercio Internazionale di Parigi si fa riferimento alla mediation,
così come nei regolamenti della London Court of International Arbitration, della
Stockholm Chamber-Arbitration Institute e dell’International Arbitral Centre of the
Austrian Federal Economic Chamber.
Analizzando, inoltre, i numerosissimi centri statunitensi che offrono tale servizio, la risposta rimane non univoca, preso atto che nei loro regolamenti si fa riferimento ad ambedue
i vocaboli.
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