Legalità, Etica, Economia
Seminario dell’associazione toscana ricerca e studio (ARTES)
“L’imprenditoria straniera in Italia. Le regole condivise e il rispetto dell’etica”
Intervento del Presidente del Consiglio Nazionale dell’Economia e
del Lavoro
On. Prof. Antonio Marzano
Carmignano (PRATO), 5 novembre 2011
1.
Dalla quantità alla qualità.
Il tempo in cui l’econometria sembrava dovesse costituire l’essenza stessa
dell’analisi economica, pare lontano. L’econometria, la misurazione cioè
dei fenomeni economici, resta importante. Ma l’analisi della qualità della
convivenza civile ha assunto un ruolo crescente rispetto alla quantità: ha un
ruolo centrale nella ricerca delle cause dei mutamenti dell’economia e della
società.
Non mi riferisco con ciò solo al riconoscimento della necessità d’integrare il
dato “principale” (o riassuntivo) di ogni economia – il PIL – con indicatori
integrativi del benessere sociale: il CNEL e l’ISTAT stanno lavorando
intensamente in questa direzione. Ma si tratta anche di altro.
Vi sono aspetti qualitativi della convivenza civile che sono importanti di per
se stessi, svolgono influenze significative sul funzionamento dell’economia.
Trascurarli significa dare di questo un’interpretazione parziale, e soprattutto
una spiegazione incompleta dei mutamenti dell’economia e della società.
Legalità ed etica sono, a riguardo, di grande rilevanza.
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2.
Gli effetti economici dell’illegalità
L’illegalità
in
campo
economico
interferisce
con
i
meccanismi
dell’economia di mercato, ed altera la concorrenza. A chi impunemente
pratica comportamenti illegali in campo economico possono derivarne
vantaggi di competitività rispetto a chi si attiene rigorosamente alla legge;
vantaggi che non hanno niente a che vedere con l’efficienza aziendale in
termini di costi o di qualità del prodotto, tipici della concorrenza in
un’economia di mercato.
I vantaggi illegali possono essere conseguiti in tutti i campi dell’economia,
dalla produzione di beni a costi inferiori (economia sommersa), al
commercio illegale (esempio: la contraffazione), al prestito usuraio, e
perfino al finanziamento di tutte ed altre di queste attività con costi inferiori
e disponibilità maggiori (effetto costo ed effetto disponibilità del
riciclaggio).
Ne segue che l’illegalità accresce il rischio e comprime il rendimento di
investimenti progettati, realizzati e gestiti secondo comportamenti
rigorosamente legali.
Gli investimenti così concepiti si riducono, per effetto di una illegalità
circostante e diffusa. Anche gli investimenti esteri considerano non attraenti
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le economie che ne sono afflitte ed è inevitabile che ne risenta il tasso di
crescita del Paese e la sua reputazione finanziaria.
Qualora l’illegalità marcasse determinate aree del paese più che altre, essa
contribuirebbe a determinare anche fenomeni di dualismo economico.
L’illegalità ha effetti altrettanto e, se possibile, anche più gravi, se tange il
comportamento delle istituzioni. Si vulnera ancor più il senso civico nutrito
dalla società. E si avvia un grave fattore di disunione, di contrapposizione
tra i cittadini, che contagia alla fine quanti aspirano a trarre vantaggi dalla
propria operosità; ma sono in ciò delusi, per la constatazione che esistono
“vie traverse” per acquisirli senza meriti (anzi, grazie a demeriti sociali).
“Uno ha appreso alla vita quel che non doveva e ora io pago per lui, perché
se non pagassi, l’onestà fallirebbe, l’onore farebbe bancarotta” (Luigi
Pirandello, “Il piacere dell’onestà”,1917).
3.
Legalità ed etica: un’equazione?
E’ evidente l’intima connessione tra legalità ed etica (e tra i loro contrari,
illegalità ed immoralità). L’illegalità è di per se un problema anche etico. Si
può tuttavia integrare questa connessione con alcuni approfondimenti.
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Il primo è che risulta difficile rimediare ai problemi economici evocati
ricorrendo soltanto a leggi e regolamentazioni. Senza valori condivisi, le
leggi restano inosservate ed eluse. Questo significa che un’etica condivisa è
tra i presupposti stessi della legalità.
La seconda considerazione è che l’etica non si riduce soltanto – e sarebbe di
per sé molto – all’osservanza delle leggi. Cioè, vi è un’etica richiesta non
dalle leggi, ma dalla socialità dei comportamenti.
L’impresa che massimizza il proprio valore con scelte limitate al breve
periodo - e quindi a scapito del valore di medio e lungo periodo – non tiene
con ciò un comportamento etico.
La banca che non concede credito all’impresa nuova, o all’imprenditore
giovane che la meriterebbero, ma non avessero garanzie reali da apportare,
non svolge eticamente il proprio ruolo.
Il politico che assume a proprio obiettivo la massimazione del consenso nel
breve periodo, quello cioè che lo separa dalla successiva tenzone elettorale,
sacrificando così l’avvenire del Paese, è eticamente riprovevole. Oppure, il
politico che, per ragioni di consenso, fa leggi ispirate ad eccessivi
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compromessi, e quindi poco chiare o contraddittorie, al limite incoraggia
l’illegalità.
Si tratta solo di pochi esempi, altri se ne potrebbero formulare.
In nessuno di questi casi, ed in molti altri che si possono avanzare, vi è
illegalità nel senso stretto del termine. Ma vi è egualmente scarsa sensibilità
morale.
4.
Il valore economico della “reputazione”
In tutta questa casistica, vi è un elemento accomunante: l’importanza della
reputazione, nei comportamenti istituzionali ed in quelli dei singoli.
La reputazione deriva in larga parte dalla legalità e dall’etica. Perciò, credo
che sia in errore o, sia quanto meno di parte, chi attribuisce i fenomeni
denunciati al funzionamento tipico dell’economia di mercato.
Così facendo si sbaglia per due ragioni. Il funzionamento del mercato
presuppone la reputazione: senza reputazione, e quindi in presenza di
comportamenti illegali o immorali, non c’è fiducia né dall’acquirente (curva
di domanda) né dal venditore o produttore (offerta). Non si fanno scambi,
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che sono alla base dell’economia di mercato (“Il mercato e la politica della
fiducia”, Corriere della Sera, 8 luglio 2009).
In secondo luogo, si rischia di presumere che nei regimi che rifiutano
l’economia di
mercato – e cioè, collettivisti – i problemi qui trattati
scompaiano. Quando invece dovrebbe essere chiaro che la concentrazione
del potere (economico e politico) e i (correlati) minori meccanismi di
controllo, acuiscono, se mai, i rischi di comportamenti negativi.
5.
Verso il bilancio etico e l’impresa sociale.
Come si vede, uno dei messaggi che si possono ritrarre è quello, da un lato,
dell’importanza dei meccanismi di repressione dell’illegalità, e dall’altra
dell’importanza di una formazione che porti a valori condivisi.
Quanto alla repressione, credo che il sequestro dei beni provenienti
dall’illegalità sia il fattore più efficace. (“Economia e legalità: la sicurezza
per lo sviluppo”, Rassegna economica Banco di Napoli, 2006). Quanto ai
valori condivisi, scuola, famiglia, valorizzazione delle radici religiose della
società, sono i protagonisti; l’esempio e la meritocrazia, sono la sociologia
essenziale.
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Mi sia consentita un’ultima annotazione. In una cultura dai valori condivisi,
l’impresa conosce l’importanza della reputazione come fattore di
affermazione sul mercato. La reputazione richiede impegno, e comporta
forse anche costi specifici volti a costruirla o ad assicurare benefici agli
stakeholders. Ma assicura preferenze maggiori da parte dei consumatori e
da parte della stessa società.
A queste considerazioni – o, se volete, a questo auspicio – si ispirano
concetti come bilancio “morale” o “etica” dell’impresa, o l’“impresa
sociale”: cui io stesso, con il Ministro del Welfare, dedicammo una legge
(13 giugno 2005, n. 118).
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