da Giuseppe Sermont, Dimenticare Darwin. Ombre sull’evoluzione, [Milano, Rusconi 1999] Nella primavera dell'82 fui invitato, presso la Casina Pio IV nei giardini vaticani, ad un convegno dell'Accademia delle Scienze sulla Evoluzione dei Primati. Giunti alla fine, si dovette trarre una conclusione e il paleontologo sudafricano Phillip Tobias propose che si dichiarasse che l'origine dell'uomo e dei primati si inquadrava entro la Teoria dell'Evoluzione. Gli obiettò Jéróme Léjeune, citologo francese: "A Theory of Evolution does not exist!" (Una teoria dell'evoluzione non esiste!). Nessuno si avventurò a formularne una e si pervenne alla salomonica conclusione che i lavori avevano provato "il concetto della discendenza divergente dell'uomo e dei primati". Una "teoria" scientifica dell'evoluzione non è in realtà mai esistita. La "discendenza divergente" è un modo elusivo per dichiarare la parentela tra i viventi, mentre l'evoluzione pone il problema delle vie e dei meccanismi attraverso cui le specie separate si sono mosse sui sentieri del miglioramento biologico: dall'ameba all'elefante, dal batterio all'uomo, o, come si preferisce oggi, "Dalle Molecole all'Uomo". Le definizioni del concetto di evoluzione si devono ancor oggi cercare sui dizionari letterari. Il Webster la definisce (b,1): "un processo di cambiamento continuo da una condizione inferiore, più semplice o peggiore ad uno stato superiore, più complesso o migliore". Il Devoto-Oli non si allontana granché: «Processo incessante basato su fattori diversi che consiste nel passaggio lento e graduale degli organismi viventi da forme inferiori e rudimentali a forme sempre più complesse". In realtà l'Evoluzionismo è più un paradigma, o una metodologia, che una teoria. Per i suoi moderni sostenitori è un processo che è avvenuto "per cause naturali" (G. Montalenti), cioè fisico-chimiche, "cause" che ne costituiscono la definizione. Il fatto che esso sia stato continuo, incessante, graduale e migliorativo non interessa molto i suoi cultori e alcuni ne dubitano, altri lo ritengono irrilevante. Faremo una breve disamina di queste cause, o meccanismi, con una premessa generale: tutte queste cause fisiche o sono degenerative o sono conservative, e nessuna di esse assicura quindi il passaggio dal semplice al complesso, dall'inferiore al migliore. C'è tra di esse una vaga promessa di progresso, ma in un senso tautologico e corrivo, e una concessione alla gradualità, che la osservazione fattuale sembra però escludere o, quanto meno, non dimostrare. La legge fondamentale che l'adozione del fisicalismo ha importato nella biologia è il famoso secondo principio della termodinamica o "principio dell`entropia". In virtù di questa legge ogni sistema isolato tende all'uniformità, al livellamento, come un castello di sabbia che il tempo spiani e che nessun futuro possa mai ricostruire. Un altro enunciato del secondo principio è questo: "un sistema isolato non passa due volte da uno stesso stato". Il termine '4entropia" significa precisamente "evoluzione" ed esprime la tendenza del mondo fisico a procedere verso il disordine, cioè esattamente il rovescio di quello che il termine «evoluzione" significa per il biologo. Jacques Monod (1969) accoglie l'entropia nell'evoluzione biologica adottando il suo imperativo di irreversibilità: l'evoluzione non torna sui suoi passi. Ma di fronte alla vocazione entropica a radere al suolo la complessità, a scompaginare i castelli di sabbia, egli se la cava con un sofisma. Il principio dell'entropia, ragiona, è una legge statistica. Esso non esclude perciò che per una brevissima durata e per un movimento di piccolissima ampiezza, un sistema macroscopico possa risalire quel poco la china dell'entropia. Se si disponesse di un meccanismo capace di catturare e immobilizzare questi soli e fuggevoli passi a ritroso, si potrebbe costruire dal semplice il complesso, dal disordine l'ordine, dalla distesa di sabbia il castello. Per lui, il meccanismo c'è: è la Selezione Naturale cumulativa. Ma per costruire un castello (e un batterio è enormemente più complesso di un castello di sabbia o di mattoni), captando i granelli (o i mattoni) sbattuti in giro da una tempesta occorre, per lo meno, disporre del progetto del castello, che consenta di individuare i rarissimi movimenti giusti e fortunati, oltre a un sistema che difenda l'opera in costruzione dalla tendenza a dissolversi. Altri studiosi hanno difeso la plausibilità di questa risalita della vita nel tempo, avanzando l'idea che il vivente non è un sistema isolato, e così esso può disobbedire al principio dell'entropia. Questo è un argomento che poteva essere addotto da Darwin, ma non può essere certo accettato dai neo-darwinisti moderni. Il "Dogma Centrale" della biologia moderna asserisce l'isolamento assoluto dal mondo del depositario della eredità, il DNA. Esso trascorre indifferente agli inviti dell'ambiente o alle seduzioni dell'organismo, a dispetto di Lamarck e, diciamolo, anche del vero Darwin. Sulla Selezione Naturale come meccanismo di origine delle specie si possono fare molte considerazioni. Ma una Selezione Naturale proposta come creatrice della vita, dei suoi segni, dei suoi tipi e dei suoi ordini non può che lasciarci allibiti, come si tace di fronte alla follia. Ci auguriamo che il secolo a venire ricordi le fantasticherie evolutive di metà Novecento come il Grande Scherzo, che si poterono permettere i magnifici fondatori della biologia molecolare. La loro teoria corrisponde all'ipotesi del testo dell'Iliade nato per caso e per gradi - lettera dopo lettera a partire da un organismo inferiore di poche strofe. La Selezione Naturale, alla cui espressione si è preferita quella di Sopravvivenza Differenziale, è un fenomeno indiscutibile e mai negato. Senza farla lunga, dirò che a sua principale funzione è quella di eliminare gli anormali, i marginali, i trasgressivi e di normalizzare la composizione delle popolazioni naturali, un ruolo chiaramente conservativo, censoriale. Si è autorevolmente parlato di Selezione Stabilizzante come di un processo di difesa della specie dalle deviazioni. Talvolta si è ipotizzato che, al cambiare delle condizioni ambientali, la selezione possa favorire i più adatti alla nuova situazione. Spostare i propri valori normali produce una sofferenza per la specie e nessuno ha ancora dimostrato che una sofferenza istituzionalizzata sia il modo per innovare la vita. Oggi c'è un largo consenso sull'idea che il principale meccanismo di fondazione della specie sia l'isolamento, geografico o riproduttivo, sul quale la selezione gioca un ruolo modesto, se pure ne gioca alcuno. A questo riguardo, lo scambio sessuale è il processo conservativo per eccellenza. Esso si oppone all'isolamento, mescolando continuamente i corredi genetici dei figli della popolazione. Esso va a pescare ogni deviazione marginale e la rimescola con la norma (o la scarta). Eppure la sessualità fu per qualche tempo considerata l'elisir della variazione, per le sue capacità combinatorie, che avrebbero consentito a poche mutazioni di associarsi a formare il massimo numero di novità, e tra queste la derby-winner. Questa concezione era legata all'idea che ogni gene corrispondesse a un carattere, e combinare geni avesse come effetto quello di assortire caratteri. Ma il rapporto tra i geni e i caratteri è risultato sempre più complesso ed oscuro, e le mutazioni non sono fiori all'occhiello. Rimane dunque valido il precetto di sempre, che se vuoi isolare le cose è meglio che eviti di rimescolarle. La mutazione sembrò a tal punto la risorsa prima dell'evoluzione che si definì la vita: riproduzione con mutazione. In realtà, nella vita selvatica, la mutazione morfologica è la mosca bianca, ed i testi accademici al capitolo Mutazione mostrano solo la pecora nana (l'immancabile razza Ancon a gambe corte), il bambino albino, la pianta atrofica. Mutazioni assistite, perché la natura non le avrebbe tollerate. Dal punto di vista molecolare, cioè della variazione nel testo del DNA, la mutazione è il fenomeno degenerativo per eccellenza, l'errore di copiatura, l'entropia del patrimonio genetico. La ridondanza del codice genetico e la fungibilità di molti amminoacidi rende molte mutazioni «neutra rispetto al fenotipo. La cellula possiede meccanismi di riparo della mutazione, e l'organismo opera processi eliminatori dei mutanti che comprendono la selezione e la sessualità. Senza queste difese la mutazione distruggerebbe in breve tutti i testi genetici. In ogni caso il suo compito, poiché i biologi molecolari la pretendono cieca, è demolitivo. Fare di essa il motore del mondo, contando sul rarissimo evento di sbagli fortunati, è davvero una povera risorsa, tanto più che queste trasgressioni legittimate non sono mai state trovate. Chiarito, come ho potuto, che i meccanismi invocati per spiegare l'evoluzione molecolare sono tutti fondamentalmente degenerativi o conservativi, voglio insistere su questo secondo punto: che la moderna teoria molecolare della evoluzione "è fatta di meccanismi", di quei meccanismi, con un riguardo scarsissimo ai fatti, alle forme della vita o alle loro storie. La rivoluzione molecolare è consistita proprio nella messa in disparte delle osservazioni naturalistiche, nell'esplicito disinteresse per le forme. Dal momento che tutto avverrebbe per caso e l'evoluzione avrebbe potuto perciò seguire qualunque altro corso e passare per organismi del tutto differenti da quelli che conosciamo, la vera storia dell'emergenza della vita e il suo viaggio verso la complessità interessano men che nulla. Alla domanda: "se la vita rinascesse, apparirebbero le stesse specie?" l'evoluzionista di avanguardia risponde: "certo che no!". E allora che cosa possono interessargli fossili, faune e giardini zoologici? La biologia molecolare ha coltivato la passione per la vita assoluta, per le vite possibili, per i modelli di vita. A questi la forma particolare reca offesa, pretendendo un diritto ad essere quello che è, mentre questo diritto non ha, perché potrebbe essere stata quello che non è, potrebbe non esserci stata del tutto. L'evoluzione molecolare è quella teoria per cui leoni, mosche, cipressi e margherite, e naturalmente uomini, avrebbero potuto non esserci. Al limite, avrebbero "dovuto" non esserci. Non chiedetele di spiegarvi perché ci sono. Questa era la domanda iniziale, la domanda dei naturalisti dell'Ottocento. Oggi la domanda è cambiata. Si è spostata sui meccanismi e sul loro uso. Il massimo cui il biologo molecolare aspira è quello di poter fabbricare in provetta, o quanto meno di poter modificare la vita a suo piacimento, di farsi "ingegnere genetico" e non contemplatore della bellezza del mondo. Un numero di ottobre '98 del settimanale scientifico inglese New Scientist porta in copertina il titolone Evolution is dead, (l'evoluzione è morta). L'articolo che riprende l'annuncio non parla per nulla di Teoria dell'Evoluzione, ma solo di ingegneria genetica, dell'ingegneria germinale dell'uomo. Un certo Dr. G. Stock dichiara: "La tecnologia prenderà il posto dell'evoluzione, e la scala temporale sarà molto più veloce. Gli uomini stanno divenendo oggetti di un progetto cosciente». In altre parole, quando saremo divenuti capaci di creare il superuomo in provetta, non sarà stato questo sufficiente dimostrazione che la specie si può formare con soli strumenti naturali e meccanici? Non basta questo a mettere fuori causa finalismo vitalismo e il grande orologiaio? Allora lasciamo da parte ~ misterioso e inverificabile cammino naturale che in tre miliardi di anni ha portato dalla non vita ai primi palpiti di animalucci marini, dimentichiamo le storie misteriose che in centinaia di. milioni di anni hanno generato da quelle forme i mammiferi, rimettiamo nel cassetto la improbabile vicenda attraverso cui un recente scimmione si è trasformato in un bipede antichissimo. In altre parole, dimentichiamo l'evoluzione e trasferiamo la gloria alla specie costruita in laboratorio, al superuomo faustiano, che è più sicuro, più sbrigativo e più esclusivo per la Scienza. Il rozzo ed eterno lavoro di un Demiurgo perditempo e per di più cieco non ci insegna più nulla di interessante. 1 biotecnologi celebrano le esequie di quel dio minore, che si è onorato di farsi a nostra immagine e somiglianza, e insieme le esequie dell'Evoluzione. Dimesso il suo antico Signore e il suo Adamo, il biologo molecolare ha perso anche quell'orgoglio di specie che poneva, nelle rappresentazioni tradizionali, l'Homo in cima all'albero. Se le formiche prendessero il controllo della terra, l'ultimo biologo, dissolvendosi, direbbe: "Tanto meglio così: vuol dire che erano migliori di noi!". Per fare solo un cenno ai fatti storici documentati dalle ricostruzioni fossili, essi dimostrano semmai vicende profondamente diverse dalle definizioni di vocabolario dell'Evoluzione. Vicende che comunque non contraddicono né confermano i Meccanismi Evolutivi, che non possono essere smentiti né verificati. La vita unicellulare è comparsa quattro miliardi di anni fa, appena dopo la formazione della terra, e c'è da presumere che con essa l'evoluzione verso la complessità abbia fatto il novanta per cento della sua strada. Gli organismi pluricellulari sono emersi in breve tempo, in tutti i loro "tipi", mezzo miliardo di anni fa, senza forme intermedie e senza forme premonitrici. I mammiferi moderni sono anch'essi apparsi, ben distinti nei loro "ordini", praticamente tutti insieme, all'inizio del Cenozoico. Quindi il "cambiamento continuo", il "passaggio lento e graduale" e persino il miglioramento e la complessificazione sono tutt'altro che documentati. Ma la teoria attuale "non vuole" spiegare i fatti particolari della vita, perché il suo primo postulato è che essi non abbiano senso, ordine, intenzione, e per quel che essi siano, essi vanno male, vanno bene e sono indifferenti. Ecco, forse, c'è una sola pretesa fattuale, ed è che gli organismi siano tutti "utili", in ogni pelo e in ogni molecola, perché questo vuole la Selezione Naturale. Brutti, magari, o antipatici, ma utilitaristi, furbi. Questa esigenza pesa su tutti i documentari di vita selvatica che la televisione ci trasmette, ove ad immagini talvolta affascinanti si sovrappone un commento che ignora la bellezza e rimarca solo l'economia e l'opportunismo animale, col risultato paradossale che la teoria che nega i fini e le intenzioni ci presenta una realtà stucchevolmente finalista e antropomorfa. Il risultato di questa prospettiva utilitaristica è che l'ordine intrinseco e la bellezza senza praticità vengono oscurati. Tutta la vaghezza e grazia della vita, i suoi "torrenti di felicità", le sue meraviglie inattese, tutto l'accordo che pervade il Creato, sono stati esclusi dalla scienza positiva per insofferenza lessicale. Per le riserve che nutro nei confronti dell'Evoluzionismo sono stato accusato d'essere un "creazionista". Non lo sono: se me lo si permette, aspirerei soltanto ad essere una creatura. [...] Verrebbe da dire che una forma finale "attrae" lo sviluppo verso se stessa, a riempire il suo spazio. E allora non solo il freddo occhio della salamandra, o l'animalino tutto, ma ogni forma della natura sembra accorrere verso un bacino preparato per lei, verso un paesaggio predisposto. "Ogni forma propria - ha scritto René Thom - aspira all'esistenza e attrae il fronte d'onda degli esseri ... " Questo pensiero trova un equivalente nella teoria delle "onde convergenti" di Luigi Fantappié. La caduta di un sasso nell'acqua d'uno stagno produce una turbolenza locale che si apre in onde circolari concentriche e divergenti. Queste si estendono e assottigliano al margine sino a scomparire. Invertendo la freccia del tempo, sullo stagno immoto una sottile onda circolare estesa si disegna sull'acqua e si restringe verso il centro, via via, sollevandosi, seguita da altre onde più sottili, convergenti come lei dal nulla. Infine, mentre le onde liberano il campo e si raggruppano al centro, si determina una turbolenza che sputa fuori il sassolino. Fantappié (1941) chiamò un tale processo "sintropico" per opporlo alla decadenza "entropica" del mondo fisico. Negli stessi anni Schrödinger (1944) avanzò l'analogo concetto di "neghentropia". Trasferita al mondo vivente, l'onda convergente corrisponde a una rana che si rimpicciolisca e si converta in un girino, in una gastrula e poi in un uovo. Questo, naturalmente, non succede mai, tuttavia mutando l'ordine del tempo, possiamo figurarci un futuro che chiami verso di sé il presente e lo accompagni lungo le opportune vie (equifinali) perché si attualizzi. Un esperimento non si può fare, ma la storia si può raccontare e, implausibile com'è, offre una strana logica invertita che riesce a descrivere matematicamente come le forme concluse attraggano la realtà. Nella cosiddetta "induzione primaria", il labbro del blastoporo della gastrula di rana corrisponde al sassolino. Esso produce pieghe e cavità sino all'esito finale di una ranocchia. Ma, sappiamo, quel labbro può essere sostituito da qualunque particola organica, morta o minerale. Esso non è la «causa" del processo, il quale è comunque predisposto, è "auto-organizzato", ed attende solo un segnale per accorrere alla chiamata e aprirsi verso l'onda estrema che ne segna il confine. In questo lago cristallino il destino, l'innato, non si impone dal passato, ma attende nel futuro, come l'ultima onda che ripercorra a rovescio le distese verso il presente. L'onda finale - la forma - non "produce" gli eventi dello sviluppo e della vita; li adotta e li calibra perché la raggiungano. Il mondo "sintropico" è un universo, o una sua parte, che gira a rovescio nel tempo... Ma non è stato il destino sempre situato nel futuro? E non hanno piuttosto invertito il mondo coloro che hanno depositato il fato nei geni, per poterlo analizzare e manipolare? Il compositore d'un Lied parte da un canto mentale mai cantato, punteggiando sul pentagramma note che non sono la «causa" di quel canto a venire, ma la sua registrazione. La cantante che esegue il pezzo svolge a rovescio il processo, procedendo dalle note al canto aperto. Canto che potrà essere, ahimè, l'ululo della cagna o - ascoltate, ascoltate! - la melodia di un usignolo.