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Il Logos cristiano e l’Induismo
di Bryan Lobo*
Per la complessità dell’Induismo e per lo spazio esiguo a me affidato, sarebbe impossibile trattare il
tema sopramenzionato nella sua profondità. Comunque, possiamo toccare vari punti per darci una visione
globale in quest’ambito. È ovvio, pertanto, che non ci addentreremo in una presentazione approfondita né del
termine Logos né del Logos cristiano, bensì cercheremo di presentarlo concisamente per aiutarci nelle
riflessioni successive riguardanti l’Induismo.
Fra i vari significati del Logos nel contesto ellenistico, il significato più pertinente per noi, senza
entrare nelle sfumature o nei dettagli di questo aspetto, sarebbe quello di “principio sottostante all’ordine e
alla conoscenza nell’universo”, oppure di “principio razionale divino che pervade tutto l’universo”. Fra le
varie traduzioni del sostantivo Logos, quelle che ci interessano sono “parola, discorso, ragione”. Con la
traduzione della Bibbia ebraica in greco, la parola Dabar è stata tradotta con Logos, dando così un significato
creativo a Logos perché con la Parola di Yahweh (Dabar Yahweh) i cieli sono stati creati (Sal 33:6). Nella
letteratura sapienziale, la creazione avviene per mezzo della Sapienza di Dio – Hokma in ebraico. Questo
termine è stato tradotto in greco con Sophia, e poi è stato identificato con Logos. Pertanto, nella prospettiva
cristologica del termine Logos – usato nel vangelo secondo Giovanni (1:1-18) –, tutte queste forme
precedenti di utilizzo della parola Logos sono già prese in considerazione. Successivamente, si aggiunge il
significato proprio dell’incarnazione vera e storica al Logos (Il Logos [Verbo] si fece carne), facendo
riferimento a Gesù Cristo, Figlio di Dio. Insomma, possiamo presentare questo percorso in modo stringato:
Logos – Gesù Cristo – Logos Cristiano. Seguendo lo stesso percorso possiamo verificare se risulta possibile
trovare nella tradizione induista la parola, anzi, le parole con delle connotazioni equivalenti (anche andando
oltre) al Logos prima di Cristo, per poi applicarle a Gesù Cristo, con riferimento alle diverse prospettive.
La Vāk:1 la “Parola”, il Logos
La parola Vāk (un sostantivo femminile), scritta anche Vāc e Vāg, viene dalla radice Vach che
significa “parlare” congiunto con “voce” e “parola”. In senso generale, la Vāk può essere usata nel contesto
divino ed umano. Nel contesto divino si trova a volte la parola Parā aggiunta come un prefisso che vuol dire
“oltre” o “supremo”, riferito alla parola divina (Parā Vāk).
Nella scrittura e (nelle) traduzioni induiste troviamo una tale e affascinante varietà di significati
attribuiti a Vāk che sarebbe un’ingiustizia semantica collegarla strettamente all’idea greca del Logos. Allo
stesso tempo, a livello sia filosofico che teologico, non possiamo negare l’esistenza di un legame fra le due
parole.
1. La divinità di Vāk: fra le più antiche letterature nel mondo, i testi Veda, Vāk appare nel Ṛg Veda,
ovvero nel più antico dei quattro Veda. Nonostante la sua presenza negli altri libri sacri e nelle tradizioni
dell’Induismo, l’introduzione di Vāk nei due inni del Ṛg Veda (10.71 e 125) già parla del suo stato divino
1
In questa sede non avverto il bisogno di offrire una bibliografia esaustiva, ma ritengo importante presentare i seguenti
libri e articoli utili per una ricerca più approfondita. A. Padoux, Vāc: The Concept of the Word in Selected Hindu
Tantras, J. Gauntier (tr.), New York, 1990; A. Weber, « vâc und lo/gov », in: Indische Studien, 9, Leipzig, 1865, pp.
473-480; B. Guy, Sonic Theology: Hinduism and Sacred Sound, California, 1993; B. Madeleine, Théorie de la
connaisance et philosophie de la parole dans le brahmanisme classique, Paris, 1964; G. Gispert-Sauch, « Vāk », in:
ACPI: Encyclopedia of Philosophy, vol. II, Bangalore, 2010, pp. 1477-1481; Id., « Vāk », in: G. Gispert-Sauch (ed.),
Gems from India, Delhi, 2006, pp. 63-66; J. Arapura, « Spirit and Spiritual Knowledge in the Upaniṣads », in: K.
Sivaraman (ed.), Hindu Spirituality: Vedas through Vedanta, Delhi, 1995, pp. 64-85; L. Renou, « Les pouvoirs de la
Parole dans le Rgveda », in: Etudes Védiques et Paninéennes, I, Paris, 1955, pp. 1-27; O. Strauss, « Altindische
Spekulationen über die Sprache und ihre Problemen », in: Zeitschrift der Deutschen Morgenländischen Gesellschaft,
82, 1927; P. Raimundo, The Vedic Experience: Mantramaṅjarī, London, 1977; R. Gnoli, « Vâc, il secondo capitolo
della Śivadṛṣṭi di Somānanda », in: Rivista di Studi Orientali, 34, 1959, pp. 5-75; R. Griffiths, The Hymns of the
Rgveda, Delhi, 2004.
così come è compreso dai saggi antichi. Nascosta fra i Ṛṣi (saggi), le tracce di Vāk si possono trovare con
sacrificio (10.71.3), lasciando capire che quelli che cercano la parola sacra – Vāk – la trovano.2 Lei (la Vāk),
comunque, decide a chi rivelarsi (10.71.4). In quest’inno la Vāk sembra un “mezzo” o una “mediatrice” della
comunicazione divina e umana.3
L’inno 10.125 parla della Vāk in modo tale che è la Vāk ad auto-presentarsi.4 La Vāk, non solo
viaggia con gli dèi ma è il loro sostegno (1-2). Coloro che gli fanno oblazioni, ricevono da Lei ricchezza (2).5
Da un lato si vede che la Vāk è stabilita dagli dèi (3), dall’altro lato, contemporaneamente, è Lei che tiene
insieme tutta la realtà esistenziale (8). Nel settimo versetto di quest’inno, notiamo una grande espansione
della Vāk, poiché si estende a tutte le creature fino al punto di toccare anche i cieli. Poco a poco, la Vāk nelle
Brāhmaṇa6 gioca un ruolo importante nella creazione del mondo – come vedremo nella sessione successiva
– ed è già considerata come madre dei Veda e divinità che protegge il popolo (Taittiriya Brāhmaṇa 2.8.8.5).
Nell’Induismo popolare, la Vāk è considerata in diversi modi. Gli studenti la venerano prima degli esami
come dea Saraswati. Nello shivaismo del Kashmir, la Vāk è presentata come la dea (Śakti) espressione e
articolazione della pura e divina coscienza – Śiva. Come consorte del Dio personale – Śiva, Śakti è l’energia
divina e intrinseca di Dio.7 Lei discende nel mondo ed esiste nella sua molteplicità per poi sviluppare in noi
la coscienza divina. In ogni caso, l’obiettivo spirituale di questa scuola è quello di arrivare ad una coscienza
non-dualistica con la Śakti, senza pertanto negare la molteplicità del mondo.8
2. Vāk nella creazione: prima della sua esposizione dell’inno (10.125.8), Colebrooke, uno fra i primi
commentatori inglesi delle scritture e della filosofia dell’Induismo, scrive che quest’inno è di Vách. L’inno è
in lode di se stessa in qualità di Anima suprema e universale,9 e Lei è la potenza divina di Brahma (il Dio
creatore). Questa idea ha spinto Weber a cercare qualche legame tra la Vāk e il Logos greco, mettendo anche
in prospettiva il prologo giovanneo.10 Inoltre, Weber cerca di capire quale somiglianza esista, almeno su un
piano analogico, con il prologo stesso e i versetti di Kāṭhak Brāhmaṇa (12.5) e di Pañcaviṃśa Brāhmaṇa
(20.14.2). Osserviamo che in tutti e due versetti, la Vāk è considerata come il secondo principio ed è
associata a Prajāpati11 per creare il mondo. Prendiamo il versetto di Pañcaviṃśa Brāhmaṇa, dove è scritto
che, all’inizio, Prajāpati era solo in quest’universo, e che Vāk (la Parola) era il suo unico bene. Così, Vāk era
la seconda ad esistere. Prajāpati ha pensato di emettere la Vāk che pervaderà l’universo.12
Secoli dopo, Śankara (788-821 d.C.), uno fra i più famosi santi e filosofi dell’Induismo, scrivendo il
suo commentario Brahma Sūtra Bhāṣya del libro Brahma Sutra di Bādāryaṇa (IV sec. d.C.), sostenne che
l’universo emerge dalla Parola (Vāk). Egli citava una śloka non documentata, secondo la quale l’autoesistente (Dio) rilascia la sua divina ed eterna Voce (Vāk), costituita dai Veda (Conoscenza), da cui
procedono tutte le attività.13 Tale idea è sostenuta dal Taittiriya Brāhmaṇa (2.8.8.5), dove è scritto che la
Parola (Vāk o Vāg) immortale è il primogenito della Verità e la madre dei Veda. Commentando il
2
Senza entrare nelle varie interpretazioni del testo, presento solo la frase che si trova nel libro dei Proverbi 8:17. Qui la
Sapienza, facendo un elogio di se stessa, dice: « Quelli che mi cercano mi troveranno ».
3
Cf. Griffith, The Hymns of the Ṛgveda, p. 584, nt. 1.
4
Secondo gli studiosi Vāk è il nome della figlia del Ṛṣi (saggio) Ambhṛina.
5
Cf. Proverbi 8:20-21: « Io cammino per la via della giustizia, per i sentieri dell’equità, per far eredi di beni reali quelli
che mi amano, e per riempire i loro tesori ».
6
I Veda contengono due orientamenti: le Mantrā (canti /inni agli dèi e alle dee. Collettivamente sono chiamati Saṁhitā)
e le Brāhmaṇa. Le Brāhmaṇa sono scritti che elaborano i complessi rituali dei Veda.
7
Per questo aspetto, rimando a: A. Padoux, Vāc: The Concept of the Word in Selected Hindu Tantras.
8
Cf. G. Gispert-Sauch, « Vāk », p. 1479.
9
H.T. Colebrooke, Miscellaneous Essays, London, 1837, p. 32. Qui si nota che Colebrooke scrive Vāk in modo diverso.
10
A. Weber, « vâc und lo/gov », pp. 476-77.
11
Letteralmente, Prajāpati significa “Signore del popolo”. Deità vedica, Prajāpati, divenne in seguito il nome di Dio
invocato come creatore. Cf. R. Griffiths, The Hymns of the Ṛgveda, p. 629, nt. 10.
12
Cf. W. Càland, Pañcaviṃśa-Brāhmana: The Brahmaṇa of Twenty- five Chapters, Calcutta 1931; A. Weber, « vâc und
lo/gov », p. 477.
13
Cf. G. Gispert-Sauch, « Vāk », p. 1478.
Bṛhdāranyaka Upaniṣad (1.2.4), Śankara dichiarava che l’universo della voce (i Veda) esce dalla mente di
Prajāpati.
Śabda Brahman: Il Logos-Dio
Śabda (sostantivo maschile) significa in sanscrito “parola”. Brahman è la parola usata per l’Assoluto
nelle Upaniṣad, e letteralmente significa “crescita”, “espansione”. Già durante il tempo delle Upaniṣad,
riscontriamo una trasposizione linguistica di Vāk con Śabda. Di conseguenza, si perde la dignità divina di
Vāk. Evidentemente, come accade per ogni parola usata tanto in grammatica che in letteratura, l’uso di Śabda
era limitato. Con l’aggiunta di Brahman, Śabda comincia a significare la realtà suprema (Śabda Brahman),
ma è presentato come un livello basso del Brahman assoluto. Il Brahman come Śabda non è identico al
Brahman assoluto. Tuttavia, esso può aiutare a raggiungere il Brahman.14 Nel suo secondo livello, Śabda
Brahman presenta le caratteristiche del Logos greco.15
Grazie agli studi dei vari specialisti della grammatica dei primi sei secoli della nostra era,16
osserviamo che Śabda Brahman esiste sia nell’universo che nell’intelligenza umana. Il Verbum eterno si
manifesta nella coscienza umana attraverso la forma del suono che è chiamato sphoṭa – una rivelazione del
suono che è portatore di significato. L’obiettivo principale di questi studi era di mostrare come una parola sia
capace di condurre alla conoscenza della realtà.17
Nel contesto summenzionato, nel quale non era necessario entrare particolarmente in profondità,
occorre una certa cautela. Da un lato, avendo presenti i vari significati plurisecolari della parola, dobbiamo
fare attenzione ad identificare il Śabda Brahman con il Logos di cui parla il vangelo di Giovanni. Dall’altro
lato, dobbiamo essere coscienti del fatto che, nel linguaggio biblico o liturgico del Cristianesimo indiano
(con le sue diverse e giuste interpretazioni), la parola Śabda è stata preferita a Vāk. Secondo G. GispertSauch, la ragione andrebbe ricercata nel fatto che Śabda è un sostantivo maschile, dunque che può essere
collegato con Gesù Cristo, il Verbo incarnato.18 In ogni caso, il padre della teologia cristiana in India,
Brahmabandhab Upadhyay (1861-1907), ha dichiarato che il Śabda Brahman esprime il Logos-Dio.19 E
questo per indicare il Logos nella Trinità immanente, oltre che per mostrare l’unità esistente tra il Logos,
come seconda persona della Trinità, e il Padre. Per tale ragione, Upadhyay si fondava sulla teologia trinitaria
del Logos di Tommaso d’Aquino e sulla filosofia dell’Advaita Vedānta di Śankara.20
Per Śankara, il Brahman assoluto era Nirguṇa – senza attribuiti e perciò il Śabda Brahman sarà preso
come il Brahman con attribuito (Saguṇa), indicando un concetto di un livello più basso. In ogni caso, per
quanto attiene al Brahman Nirguṇa, l’affermazione positiva è riconosciuta come Sat Cit Ānanda (Essere,
Coscienza, Beatitudine). Partendo dalla Cit (Coscienza) in Dio, Upadhyay spiegava che, a causa del Cit, il
Dio assoluto (il Padre) conosce se stesso e genera il Logos (suo Figlio).21 In questo senso possiamo dire che
il Śabda Brahman è stato elevato al Logos cristiano da Upadhyay come il Logos greco è stato elevato al
Logos cristiano.
14
G. Gispert-Sauch, « Vāk », p. 1480.
Cf. J. Woodroffe, The Garland of Letters: Studies in the Mantra-Śāstra, Madras, 2008, p. 3.
16
Per una breve informazione sui nomi degli studiosi in questione: cf. G. Gispert-Sauch, « Vāk », p. 1480.
17
Ibidem.
18
G. Gispert-Sauch, « Vāk », p. 65.
19
B. Upadhyay, Twentieth Century, I, 1901, pp. 6-7.
20
La più famosa delle scuole filosofiche dell’Induismo che predica il non-dualismo. Ci sono varie divisioni in questa
scuola. Qui si tratta della scuola più stretta del non-dualismo di Śankara – Kevala Advaita Vedānta.
21
Per spiegazioni dettagliate su quest’aspetto e per una breve presentazione della teologia trinitaria di Upadhyay,
rimando ad un mio articolo: B. Lobo, « Tripersonalising the Hindu God of Advaitā Vedānta – Parabrahman » in:
Gregorianum, 92, 1, 2011, pp. 159-182.
15
Osservazioni conclusive
Nell’Induismo troviamo concetti religiosi che spalancano le porte al confronto, che ci invitano ad un
dialogo proficuo sul tema da noi trattato: il Logos cristiano nel suo rapporto con l’Induismo. Nonostante le
varie differenze delle nozioni filosofiche e teologiche, di cultura e di Weltanschauung, possiamo impegnarci
al fine di raggiungere una comune intesa. Come ulteriore passo in avanti in questa direzione, e per dare un
esempio del percorso che noi abbiamo compiuto fin qui, possiamo dire e riassumere: Vāk (Śabda) – Gesù
Cristo – Vāk (Śabda) cristiano. Vorrei concludere con le parole di G. Gispert-Sauch:
« La Vāk racchiude tutto il mistero della rivelazione di Dio all’umanità. La Vāk è un dono divino per
mezzo del quale Dio ha voluto entrare in comunione con noi nella propria Parola personale. Il grande
inno “upanishadico” di San Giovanni alla Vāk (Gv 1:1-18) ci dice che la Vāk “era nel mondo e il
mondo fu fatto per mezzo di lui” (lei). Purtroppo, il mondo non la riconobbe. Comunque, a tutti
coloro che l’hanno accolta e hanno creduto nel suo nome, Dio “ha dato potere di diventare figli di
Dio: i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati
generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” ».22
* Bryan Lobo è un teologo gesuita indiano. Dopo aver compiuto studi di filosofia e teologia in India, ha
conseguito un dottorato alla Pontificia Università Gregoriana. Nello stesso Ateneo è professore di filosofia
indiana, teologia delle religioni, Trinità e missione, ed è stato direttore del Dipartimento di teologia delle
Religioni. Attualmente è vice-direttore del Centro Studi Interreligiosi della Pontificia Università Gregoriana,
istituto dedito allo studio e al dialogo tra culture e religioni.
22
G. Gispert-Sauch, « Vāk », p. 65. La traduzione italiana è dell’autore dell’articolo.
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