Anche i serpenti hanno un’anima ed una dea tutta per loro . Favola morale Indù con spiegazione e foto di Luciano Zambianchi Ho provato a raccontare ad alcuni amici dell’associazione Erpisa una fiaba che avevo ascoltato in un mio viaggio in Bangladesh, purtroppo come spesso accade con le storie che racconto, la trama ha incominciato a complicarsi e a collegarsi con le altre mille storie di quel paese, con la storia della crescita della nazione e la storia delle religioni. Eravamo in una mostra e quindi c’erano diverse interruzioni e per questo motivo, per dare la possibilità di seguirne il filo, mi sono offerto di scriverla. Ricordo che il Bangladesh è la “vecchia India”, il luogo dove le divisioni religiose sono all’origine e il risultato di lotte fratricide che ancora oggi sono solo assopite ma non certo terminate. Sopportate una premessa storica, politica e religiosa, che vi permetterà di contestualizzare quello che vi racconterò. Intanto il Bangladesh come nazione nasce nel 1972 dopo una sanguinosa guerra di liberazione (milioni di morti). Ma questo evento ha come tutto quello che succede in India un’origine antica che provo a raccontare in pillole: anticamente l’India venne unificata dall’imperatore Asoka, famoso per la sua particolare ferocia e per il suo essere buddista, Asoka nel III secolo a.C. iniziò (dopo essersi convertito al buddismo) una specie di conversione forzata in tutte le provincie del subcontinente indiano, imponendo la sua fede come religione di stato. Dopo secoli di scontri si svilupparono dei centri di potere legati ai traffici e ai commerci con l’oriente, ma anche con l’occidente. Dhaka, l’attuale capitale del Bangladesh, ne era uno dei principali e proprio in questi centri, a partire dall’anno 1000 e per tutto il medioevo si sviluppò dapprima la cultura e poi il potere politico, specialmente sotto la dinastia Moghul. Da Dhaka il Moghul, quello che noi occidentali chiamiamo il “Gran Mogol”, guidava l’intero territorio indiano. Nel frattempo si erano succedute più religioni, dall’originario Induismo al Buddismo (che non considero una religione), all’Islamismo. Con scontri e sovrapposizioni che prima che ideologici erano economici e addirittura fisici, a partire dall’antichissimo Induismo dei secoli precedenti nel III secolo a.C. ci fu la conversione al buddismo che però non fu così capillare. In pratica a cambiar fede erano soprattutto i signorotti, i capi, che se non si affrettavano a convertirsi sarebbero stati immediatamente sostituiti nelle loro cariche da personaggi ossequienti alla religione di stato. Già fino al 1000 l’Induismo era stato soppiantato dal Buddismo che durò alcuni secoli, poi tornò l’Induismo, poi di nuovo ci furono un paio di secoli di Buddismo e poi di nuovo l’Induismo, solo nell’VIII secolo d.C. si incominciò ad infiltrare (sempre con metodi non proprio dialettici) l’Islamismo, introdotto prima da pellegrini e poi dall’ XI secolo in avanti da vari condottieri ottomani che convertivano a fil di scimitarra. Le difficoltà di comunicazione e la vastità del territorio permisero, nonostante gli odi e le reciproche diffidenze, una convivenza armata tra le varie religioni; ne approfittarono in epoca moderna gli inglesi che prima con i mercanti e poi con il loro esercito a protezione dei liberi commerci (i loro) colonizzarono l’intera India. Anche a Salgari era arrivato all’orecchio il disamore che gli indiani avevano per i loro dominatori, chi ha letto le avventure del leggendario Sandokan è al corrente che la “Compagnia delle Indie” aveva la sua sede principale a Dhaka. Il film su Gandhi ha ricordato quanto fu complicato per gli indiani liberarsi dal dominio della Corona inglese, ed anche come mai l’India uscì divisa in molte nazioni a seconda delle religioni dominanti nei territori. Il Bengala Orientale (Mussulmano per oltre l’80%) fu annesso al Pakistan (ugualmente Mussulmano), tra i due territori l’India (prevalentemente Induista), ai margini la nuova religione dei Sikh (che era sorta nel XIV secolo), che con il suo monoteismo aveva fatto proseliti nelle caste più basse e si era consolidata dall’India settentrionale a tutto il Punjab. Il Buddismo si era rifugiato in Tibet e nel Kasmir, già il monaco cinese Hsüan Tsang (VII secolo) famoso per il suo viaggio di sedici anni in India per raccogliere i Sutra e portare il buddismo in Cina, aveva avuto i suoi problemi a trovare i libri che cercava. Ma torniamo ai nostri giorni, nel 1971 il Pakistan occidentale (che aveva la direzione politica ed economica dei due Pakistan) iniziò un tentativo di unificazione culturale (imponendo come lingua ufficiale l’Urdu al posto del Bangla) e fu la goccia che fece traboccare il vaso e il pretesto per l’inizio della guerra di liberazione che portò alla nascita nel 1972 dell’attuale Bangladesh. Ma come è evidente anche da noi in Europa, la sovrapposizione di religioni che si alternano nei secoli porta a delle straordinarie contaminazioni, così i riti Islamici si sovrappongono ai festosi riti Indù che avevano già in parte trasformato il Buddismo, da cui precedentemente erano stati a loro volta contaminati. Cosa c’entra tutto questo con i rettili e con la favola morale che cercavo di raccontare agli amici nel tempo di una mostra? È semplice: il Bangladesh è pieno di serpenti di cui molti anche velenosi, durante il periodo dei monsoni (quando tutto il paese si allaga) i rettili si rifugiano nei manufatti allagati e difendono dagli uomini i loro nuovi rifugi come sanno fare, di solito mordendo. Ricordo che la superficie di tutto il territorio bengalese equivale a metà di quella italiana, in compenso la popolazione che ci vive è di circa 250 milioni di persone. Avete capito bene, la densità della presenza umana è 10 volte superiore alla nostra e questo anche nella capitale, insomma la cosa più rara in Bangladesh è lo spazio vitale, anche per gli animali! Pensate che lo scorso anno in Bangladesh sono morti per colpa dei morsi di serpente oltre 6000 persone, e non vengono morse solo le persone di ceto inferiore, anche Rafik Dhali il capo della nostra famiglia bengalese (di ceto medio alto) è stato morso ed è stato molto tempo in coma, si è salvato per il tempestivo intervento medico e, come dice lui, per le preghiere dei suoi amici e famigli. Questo è il primo collegamento, per cui Islam a parte, la Dea Manasa che ha il potere di comandare sui serpenti, è rispettata e conosciuta da tutti, anche dai non Indù. Il secondo collegamento sta nella stratificazione anche fisica delle religioni e nel contemporaneo abbandono dei manufatti non più usati: così i luoghi sacri del buddismo, una volta abbandonati vengono dimenticati e con il tempo ne viene dimenticato anche l’uso. È solo da poco che è ripresa l’attività archeologica e lo studio della storia anche non islamica, non c’è ancora una cultura del vecchio o dell’antico, così il popolo, quando ha visto stanze senza finestre intorno ad una stanza centrale, ha collegato le vecchie storie alle rovine degli scavi, introducendo alcune libertà poetiche. Anch’io sono andato a visitare il sito archeologico che ha dato origine alle fantasie popolari, un antico stupa buddista poi riutilizzato (sempre dai buddisti) nel VI-VII secolo, riporto alcune delle immagini di quello che ho potuto vedere e potrete leggere le iscrizioni in lingua originale (per fortuna in questo posto c’è uno dei rarissimi cartelli bilingue)! È ufficiale, la fantasia popolare ha collegato le 172 stanze cieche (che formano i muri di supporto dello stupa) alla storia di Behula e Lakshinder, una fiaba Indù di una “esemplare” moglie fedele e del suo povero marito eroe. Ora che ho dato il contesto penso di potervi narrare la favola, nella versione che mi ha raccontato per 10 Taka (l’equivalente di 10 centesimi di euro) un ragazzino del posto che mi ha assediato con la precisa richiesta: <Ten Taka, ten Taka, ten Taka !!!>. Ho scoperto da poco che della fiaba esistono diverse versioni. Tutto ha inizio in cielo (o dove vivono gli dei Indù): Manasa, figlia di Shiva e aspirante Dea dei serpenti ha dei problemi con un mortale, Chand Sadagar, che è devoto a Shiva ma non apprezza Manas; Chand è un bravo fedele, esegue le preghiere e gli scongiuri rituali per tutti gli Dei, ma mai con la stessa cura nei confronti di Manasa, soprattutto si rifiuta di usare la mano sinistra per onorarla ed era proprio questo il riconoscimento che mancava a Manasa per diventare Dea. Per questo, dopo aver richiesto e non ottenuto il desiderato rispetto da Chand, Manasa lo maledice e ordina ai suoi sudditi (i serpenti) di uccidere in ordine di nascita i sette figli di Chand. In questo modo l’aspirante Dea aveva intenzione di mandare un messaggio a chi non rispettava e non aveva paura dei suoi sudditi. Chand per ogni figlio che moriva odiava ancora di più la semidea Manasa ed arrivò a giurare che mai più avrebbe fatto sacrifici per lei. Quando rimase vivo solo il suo ultimo figlio (Lakshinder) Chand chiese aiuto agli altri Dei e ai santi sacerdoti per sapere come l’avrebbe potuto salvare. Purtroppo tutti concordarono che Lakshinder sarebbe morto per un morso di serpente il giorno delle sue nozze. Disperato decise di mettere in atto diverse strategie, cercò per suo figlio una ragazza per cui l’oroscopo decretava che mai sarebbe rimasta vedova, la ragazza era Behula, e poi si rivolse ai migliori artigiani per far costruire una stanza che fosse realmente sicura e a prova di serpente (secondo i locali le 172 stanze cieche intorno alla camera da letto). Ma la semidea infida e più furba di Chand corrompe uno dei muratori che lascia un forellino quasi invisibile, ma sufficiente a far passare un serpente. Così nella notte delle nozze, quando Behula si stava coricando con Lakshinder arrivò Kalnagini (il giustiziere di Manasa) che controllando con i suoi occhi penetranti scoprì che Behula era così eccezionale da non aver peccati e quindi non avrebbe meritato la pena che indirettamente gli avrebbe inflitto uccidendo il marito, ma il capo è il capo e quando è addirittura una aspirante Dea è meglio trovare una scappatoia, così Kalnagini improvvisò uno stratagemma: intrise con l’olio della lampada la sua coda e la passò sui capelli di Behula che risultarono unti sulla riga, questo secondo la credenza Indù era un peccato, anche se non proprio mortale e sicuramente truffaldino. Behula quando vide il serpente Kalnagini gli scagliò contro tutto quello che aveva ma non riuscì a fermarlo. Lakshinder era già stato morso ed era morto. Qui viene il bello, intanto Behula era ancora pura, il matrimonio non era stato consumato, e in aggiunta aveva un oroscopo che le impediva di restare vedova, ma soprattutto non era disposta ad arrendersi: quella che aveva subita era un’ingiustizia inaccettabile sia per sé che per il suo amato sposo. Quindi si ribellò rifiutando l’evidenza: non era giusto che il suo sposo fosse morto, si rifiutò di cremarne il corpo (come imponeva la fede Indù) e pianse, fino a perdere tutte le sue lacrime, poi messo il corpo su una zattera risalì il fiume contro corrente fino ad arrivare in cielo, lì gli Dei la ascoltarono ma non furono tutti convinti delle sue buone ragioni ed allora Behula, con la morte nel cuore ma con tutta la sua passione, si mise a danzare in modo sublime e tutti gli Dei capirono il suo dolore, si commossero e cercarono una soluzione, ne parlarono anche con Manasa e alla fine stabilirono che Lakshinder era stato ucciso ingiustamente e doveva essere resuscitato, a patto che Chand si decidesse ad onorare in modo corretto Manasa. Tornata a casa Behula raccontò la sua avventura al suocero e lo implorò di rispettare la volontà degli Dei. Chand Incredulo, ma disperato per la morte dell’ultimo figlio, ed anche lui commosso per i sacrifici della nuora, rinunciò al suo orgoglio, venne meno al suo giuramento e usò la mano sinistra per onorare Manasa. A questo punto Manasa divenne ufficialmente una Dea, per la contentezza e per il rispetto che è dovuto ad un uomo giusto resuscitò tutti i sette figli di Chand Sadagar. Per il suo coraggio, la sua ferrea volontà, il suo amore e la sua fedeltà Behula è diventata il simbolo della donna bengalese, ed è ancora oggi ricordata in romanzi radiofonici, nelle poesie (Jibananda Das), nella letteratura moderna, ricordo ai distratti che il premio Nobel Tagore, il moderno cantore dell’India, è bengalese. Come avete potuto verificare sul cartello Behula è ricordata anche in archeologia. La versione Indiana della fiaba non colloca la camera da letto dei due al centro dello stupa, ma al centro di una camera di ferro a prova di serpente, costruita dal miglior artigiano indiano che però, ricattato da Manasa, lasciò il buchino fatale. Un’ultima nota è per i miei amici occidentali che difficilmente si rendono conto di come la “vittima” di un matrimonio combinato possa comportarsi in questo modo, anch’io non me ne capacitavo, poi ho potuto constatare di persona (ho avuto l’onore di fare il sensale in un “normale” matrimonio combinato) e ho potuto vedere da vicino le espressioni del volto della futura sposa: lei era incredibilmente raggiante, anche se aveva visto solo una foto del suo promesso sposo. A proposito, Manasa viene rappresentata come una bellissima donna con sette cobra che le fanno corona ed altri serpenti a guardia del suo altare, a volte ha più braccia, altre volte ha in grembo suo figlio Astika. Nel pantheon induista Manasa risulta figlia di Lord Shiva e da lui sposata e ripudiata, venne odiata dalla matrigna (che si chiamava Chandi !? Parente serpente?) che la vessò in ogni modo ed arrivò a toglierle un occhio. Per questo la Dea del veleno e dei serpenti è anche la Dea degli occhi. Ho trovato e ve le mostro alcune foto che ho scattato all’altare dedicato a Manasa in una zona agricola della provincia di Shariatpour, nel luogo in cui, secondo il prete Indù, un avamposto dell’esercito di Alessandro Magno aveva costruito una torre di cui sono ancora visibili i ruderi. In terra ai piedi della Dea si possono vedere i simulacri di Behula e Lakshinder; In casa del religioso ho fotografato anche la corona di Manasa. DIDASCALIE: Foto 1: Lo stupa; secondo la tradizione bengalese la camera da letto di Behula e Lakshinder. Foto 2: Il cartello bilingue in cui gli archeologi descrivono lo stupa. Foto3: Ornella con Rafik ai piedi dello stupa, circondata da piccoli ammiratori. Foto4: Il terribile restauro di una delle due stanze centrali dello stupa. Foto5: Un altare dedicato alla Dea Manasa in un centro religioso in una località agricola. Foto6: Davanti all’altare di Manasa le statuette di Behula e Lakshinder. Foto7: L’antica corona di Manasa utilizzata nelle processioni Indù alla fine della stagione dei monsoni.