Anno XI - Numero 22 - 28 aprile 2005
L’Intervista
Parla il Direttore Alain Lombard
A Pag 2
La Storia dell’Opera
La Turandot nata in
un ristorante
A Pag 6
I finali postumi
Da Franco Alfano
a Luciano Berio
A Pag 8 –9 e 10
Gastronomia e Musica
Il baccalà di Adami ed
I fagioli di Puccini
A pag. 14 e 15
TURANDOT
di Giacomo Puccini
Turandot
2
Parla il direttore d’orchestra Alain Lombard
Una Turandot con il secondo
finale di Alfano,
ma senza i tagli tradizionali.
A
l solo nome della
Turandot
di
Giacomo Puccini,
la mente del maestro Alain
Lombard, sul podio del
Teatro dell’Opera per
questa edizione, corre
subito al passato: «E’ un’opera verso la quale ho sempre un grande affetto. L’ho
diretta moltissime volte ed ho
anche realizzato una incisione
con
Montserrat
Caballe, Mirella Freni e Josè
Carreras, che ha riscosso un
grandissimo successo, che ha
guadagnato
moltissimi
premi».
«Turandot è un’opera molto,
molto difficile. Si deve avere
una orchestra grande e solida.
Tante volte ho lavorato su
questo pezzo e sempre ho pensato a ciò che Puccini diceva.
Voleva fare un’opera importantissima, che rimanesse un
capolavoro assoluto. Ma la
cosa che mi stupisce è che essa
arriva dopo il Trittico (1918),
che a mio avviso è di per se un
capolavoro assoluto. Puccini
aveva già toccato il tema dell’orientalismo, tanto in voga
all’epoca, con Madama
Butterfly nel 1904 e quello
d’ambientazione americana
con La fanciulla del West
(1910), ma egli voleva
ritornare su ambientazioni
“esotiche”».
«E’ un’opera difficile da
eseguire per l’orchestra – continua il Maestro Lombard perché è una partitura
estremamente raffinata, con
strumenti esotici, dal gong in
poi. Come al solito Puccini ha
realizzato una partitura molto
precisa, con tutto appuntato,
dai tempi ad alcune note
esplicative. Come musica, in
alcuni punti – come con le tre
maschere di Ping, Pong e Pang
- è vicinissima a Gianni
Schicchi».
Al Teatro dell’Opera di
Roma Tutandot fu rappresentata per la prima volta il
29 aprile 1926, appena quattro giorni dopo la prima
rappresentazione assoluta
del Teatro alla Scala del 25
aprile, con un cast formato
da Bianca Scacciati, Rosina
Torri e Francesco Merli,
diretti dal maestro Edoardo
Vitale.
Questa volta, al momento
di mettere in scena
all’Opera di Roma l’allestimento del Teatro Carlo
Felice di Genova con la
regia di Giuliano Montaldo
– allestimento che ha
affrontato anche la famosa
trasferta cinese per essere
rappresentato ai piedi della
Città Proibita - si è discusso
su quale finale adottare.
«Con il direttore artistico,
Maestro Trombetta, abbiamo a
~~
lungo pensato se proporre
l’opera con il primo od il secondo finale di Alfano», dice il
direttore. «Poi siamo
arrivati alla decisione di
optare per la seconda versione, quella più snella. La
prima sarebbe stata troppo
lunga e meno bella. Io quella versione non l’ho mai
eseguita, ma all’Opera di
Roma non avrebbe funzionato. Questa seconda
versione, invece, la presentiamo in versione integrale,
senza alcun taglio, come ad
esempio quello tradizionale
delle maschere all’inizio del
secondo atto».
D. – A proposito di finali,
cosa ne pensa di quello di
Luciano Berio?
«Il finale di Berio lo conosco
bene, l’ho studiato perché ad
un certo punto ho pensato di
cimentarmici. E’ magnificamente fatto, ma è molto differente dal lavoro e dallo stile di
Puccini. Con questa regia,
molto classica, non sarebbe
andato bene».
Andrea Marini
La Locandina ~ ~
Teatro Costanzi, 28 aprile – 11 maggio 2005
TURANDOT
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
EDITORE: CASA RICORDI - MILANO
Maestro concertatore e Direttore Alain Lombard
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA
Allestimento del Teatro Carlo Felice di Genova
Maestro del coro
Regia
Ripresa da
Scene
Costumi
Movimenti coreografici
Disegno luci
Turandot (S)
Calaf (T)
Liù (S)
Timur (B)
Ping (Bar)
Pong (T)
Pang (T)
Altoum (T)
Mandarino (Bar)
Andrea Giorgi
Giuliano Montaldo
Marco Gandini
Luciano Ricceri
Elisabetta Montaldo Bocciardo
Hal Yamanouchi
Bruno Monopoli
Personaggi / Interpreti
Giovanna Casolla / Lucia Mazzaria (29/4;7, 11/5)
Giuseppe Giacomini / Piero Giuliacci (29/4), 6/5 /
Renzo Zulian (8, 11/5)
Anna Laura Longo / Katia Pellegrino (29/4; 7, 8, 10/5)
Michail Ryssov / Alfredo Zanazzo (29/4; 7, 8, 10/5)
Damiano Salerno / Armando Ariostini (29/4; 7, 11/5)
Mario Bolognesi / Cesare Ruta (29/4)
Aldo Orsolini
Fernando Cordeiro Opa /
Aldo Bottion (6, 7, 8, 10, 11/5)
Roberto Nencini / Stefano Meo (29/4; 6, 8, 11/5)
Il
Giornale dei Grandi Eventi
I prossimi appuntamenti
della Stagione 2005
17 - 25 giugno 2005
THAÏS di Jules Massenet
Direttore:
Pascal Rophè
Amarilli Nizza, MarcoVinco, Claudio Di Segni
Regia:
Alberto Fassini
ALLESTIMENTO DEL TEATRO DELL’OPERA
Stagione estiva alle Terme di Caracalla
(Due opere ed un balletto)
5 - 6 luglio
ROMEO E GIULIETTA
balletto su musica di Sergej Prokof’ev
Coreografia:
Jean-Cristophe Maillot
Interpretato dalla Compagnia Les Ballet de Monte-Carlo
Dal 9 luglio
MADAMA BUTTERFLY
di Giacomo Puccini
Donato Renzetti
Direttore:
Dal 26 luglio
AIDA
di Giuseppe Verdi
Placido Domingo
Direttore:
Dal 10 agosto
IL LAGO DEI CIGNI
balletto su musica di Pêter Ciaikovskij
Coreografia:
Galina Samosova
ORCHESTRA E CORPO DI BALLO DEL TEATRO DELL’OPERA
22 – 29 settembre
LE NOZZE DI FIGARO
di Wolfgang Amadeus Mozart
Direttore:
Gianluigi Gelmetti
Anna Rita Taliento,
Laura Cherici, Marco Vinco, Laura Polverelli
Regia e Scene:
Quirino Conti
NUOVO ALLESTIMENTO
DAS RHEINGOLD (L’Oro del Reno)
di Richard Wagner
Direttore:
Will Humburg
Ralf Lukas, Kristian Frantz, Hartmunt Welker,
Katia Litting, Hanna Schwarz, Eva Matos
Regia, Scene e Costumi:
Pier’ Alli
ALLESTIMENTO TEATRO ALLA SCALA
In lingua originale con sovratitoli
18 – 25 ottobre
23 Novembre – 1 Dicembre
LA SONNAMBULA
di Vincenzo Bellini
Direttore:
Bruno Campanella
Stefania Bonfadelli, Nina Makarina Dimitri Korchak,
Enzo Capuano
Regia:
Pier Francesco Maestrini
Il G iornale dei G randi Eventi
Direttore responsabile
Andrea Marini
Direzione Redazione ed Amministrazione
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Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
Trama
Turandot
L’azione si svolge a Pekino (così è riportato nel libretto originale, n.d.r.), al
tempo delle favole
3
Le Repliche
Venerdì
Sabato
Venerdì
Sabato
29 aprile,
30 aprile,
6 maggio,
7 maggio,
ore 20.30
ore 18.00
ore 20.30
ore 18.00
Domenica 8 maggio, ore 17.00
Martedì 10 maggio, ore 20.30
Mercoledì 11 maggio, ore 20.30
ATTO PRIMO
Davanti alle mura e al palazzo imperiale di Pechino – Al tramonto, un Mandarino
annuncia alla folla che il Principe di Persia, non avendo sciolto i tre enigmi proposti dalla bella principessa Turandot a tutti i principi che aspirano alla sua mano,
sarà decapitato pubblicamente dal boia al sorgere della luna. La folla, eccitata, travolge un vecchio e la giovane Liù che per lui invoca subito soccorso. Un giovane
accorre e riconosce nell’anziano il proprio padre Timur, Re tartaro spodestato. I
due si abbracciano, ma il giovane Calaf lo prega di non pronunciare il suo nome,
poiché ha paura dei regnanti cinesi, usurpatori del regno del padre. La schiava Liù
è molto devota a Timur ed alla famiglia, in quanto un giorno Calaf nella reggia le
sorrise. Intanto il boia Pu-Ti-Pao, affilando la lama, si prepara all’esecuzione del
Principe di Persia. Ai primi chiarori lunari, su note lugubri, giunge il corteo che
accompagna la vittima al supplizio. La folla, prima eccitata, si commuove per questo giovane ed invoca la grazia per il condannato.
Nella pallida luce si presenta, glaciale, la principessa Turandot che impone di fare
silenzio e con un gesto imperioso ordina al boia di giustiziare il Principe.
Calaf è impressionato dalla magica bellezza della Principessa e decide di tentare la prova dei tre enigmi. Timur e Liù cercano di trattenerlo, ma lui si lancia verso il grande gong. Tre bizzarre figure lo fermano: si tratta dei ministri
del Regno, Ping, Pong e Pang, i quali provano a dissuadere Calaf, descrivendo il rischio dell’impresa. Anche Timur, invocando la pietà filiale e la giovane
Liù, disperata ed in lacrime per il proprio amore segreto, tentano di far ragionare Calaf, il quale, ormai in preda ad una sorta di delirio, percuote per tre
volte il gong, invocando ogni volta Turandot, al cui nome Liù, Timur ed i tre
ministri rispondono con «la morte!».
ATTO SECONDO
In un padiglione - E’ notte. Ping, Pong e Pang, chiusi nella loro tenda ripassano il protocollo nuziale e quello funebre per essere pronti ad ogni evenienza.
Si lamentano che, come Ministri, devono accompagnare all’esecuzione troppe
sfortunate vittime. Preferirebbero vivere tranquilli in campagna. Ma quando
il sole sorge, si avviano ad assistere all’ ulteriore supplizio.
Il piazzale della reggia con una grande scala dove è posto il trono imperiale - Tutto
è pronto per il rito degli enigmi. L’imperatore Altoum invita il Principe
ignoto a rinunciare, ma Calaf rifiuta tre volte.
Il Mandarino (sulla stessa musica dissonante del primo atto, n.d.r.) bandisce la
prova, mentre appare Turandot. La Principessa avanza guardando negli
occhi il nuovo pretendente e spiega le ragioni del suo comportamento:
molti anni prima il suo Regno fu invaso dai tartari ed una sua antenata
cadde preda di uno straniero. In ricordo della sua morte, Turandot ha giurato che mai si lascerà possedere da un uomo. La Principessa invita Calaf
a rinunciare alla prova, ma egli non vuole desistere. Il primo enigma viene
proposto e Calaf lo risolve senza tentennamenti: la speranza! Turandot
scende la scala e si avvicina a lui per il secondo enigma. Calaf pensa a
lungo, ma poi risponde: il sangue!
La folla, sperando nel successo, esulta, ma Turandot la obbliga al silenzio
e, minacciosa, presenta il terzo enigma.
Calaf, sembra voler rinunciare, provocando lo scherno della Principessa, ma
“La morte di Liù” in un figurino di Liebig
finalmente intuisce la risposta e dice felice: Turandot! Conquistando la vittoria.
Turandot, ormai vinta ma non doma, si getta ai piedi del padre e lo supplica di non consegnarla allo straniero, ma per l’Imperatore la parola data
è sacra. Turandot inveisce contro il Principe, dicendogli che così egli conquista una donna riluttante e piena d’odio.
Calaf spiega che cerca una donna che lo ami e quindi la libera dall’impegno, proponendole a sua volta una nuova sfida: lui è pronto a morire se
lei riuscirà prima dell’alba ad indovinare il suo nome. Il nuovo patto è
accettato, mentre risuona solenne l’inno imperiale.
ATTO TERZO
Nel giardino della reggia - E’ una notte gravida di attesa ed in lontananza gli
araldi portano in giro l’ordine della Principessa: Questa notte nessun
dorma in Pechino! Il nome del principe ignoto deve essere scoperto. Calaf
è sveglio e pregusta il vittorioso bacio a Turandot, immaginandola liberata dal gelo dell’odio.
Giungono i Ministri che, per paura delle ire di Turandot, offrono a Calaf
donne bellissime, ricchezze e gloria in cambio del suo nome, ricevendone
però un secco rifiuto.
Intanto Timur e Liù, insanguinati e logori, vengono trascinati davanti ai
tre Ministri: sono sospettati di conoscere il nome del principe, visto che
sono stati notati parlare con lui.
Giunge Turandot. Liù, per cercare di salvare Timur, dice che solo lei conosce il nome dello straniero, ma non lo rivelerà. Iniziano le torture, ma Liù
resiste e continua a tacere. Turandot è incredula: cosa dà tanto coraggio e
forza alla giovane schiava? Liù le risponde che è semplicemente l’amore.
Turandot resta turbata, ma poi ordina ai Ministri di carpire il segreto ad
ogni costo.
Liù, conscia di non poter resistere, strappa il pugnale ad uno dei torturatori e si uccide, cadendo ai piedi dell’amato Calaf. Con Timur e Calaf che
compiangono Liù morta, si avvia il mesto corteo funebre.
(Fin qui l’opera che Puccini riuscì a portare a termine prima della morte, avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924)
———————————(Finale realizzato da Franco Alfano, sugli appunti pucciniani)
Uscita la folla, Turandot e Calaf rimangono soli. Calaf, con l’impeto della
passione, bacia la principessa. Questa dapprima lo respinge, ma poi gli
confessa il “brivido fatale” e l’odio da cui fu colta la prima volta che lo
vide ed anche di essere orami travolta dalla passione. Ma, orgogliosa, lo
supplica di non umiliarla e di andarsene senza svelare il proprio nome.
L’ignoto principe le dice, però, di essere Calaf, figlio del re Timur.
“La risoluzione degli enigmi” in un figurino di Liebig
Davanti al Palazzo Imperiale - E’ giorno. Tutti i dignitari ed una gran folla sono
davanti al trono dell’Imperatore. Squillano le trombe per annunciare l’arrivo
di Turandot, che annuncia di conoscere il nome dello straniero: il suo nome è
Amore! e, tra le grida di festa dei presenti, si abbandona nelle braccia di Calaf.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
5
Giovanna Casella e Lucia Mazzaria
Giuseppe Giacobini, Piero Giuliacci e Renzo Zulian
L’impavido Principe Calaf La principessa del ghiaccio
I
l ruolo del principe Calaf è interpretato dal tenore Giuseppe
Giacomini. Diplomato con il massimo dei voti all'Istituto Musicale
Pollini di Padova, ha iniziato la sua esperienza artistica vincendo i
concorsi internazionali di Adria, di Vercelli, della
Scala di Milano e del S. Carlo di Napoli. Ha
debuttato nel 1967 con Madama Butterfly e da
allora ha cantato nei maggiori teatri d'opera dal
Covent Garden di Londra al Metropolitan di
New York, dalla Deutsche Oper di Berlino al
Colon di Buenos Aires. L'artista vanta prestigiose registrazioni discografiche tra cui l'integrale
di Cavalleria Rusticana realizzata nel 1990 per la
Philips, in concomitanza con il Centenario della
prima rappresentazione al Costanzi di Roma
Giuseppe Giacomini
(17 maggio 1890).
Piero Giuliacci (29/4) ha compiuto gli studi di canto sotto la guida di
Maria Negrelli. Vincitore assoluto del Puccini Foundation Competition
di New York nel 1996, da allora è stato invitato a cantare nei principali
teatri internazionali. Ha cantato Aida in Europa e nel Sud America, è
stato in tournée con l'Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino in Sud
Africa e a Lisbona. All'Arena di Verona ha cantato ne Il Trovatore di
Zeffirelli, nell' Aida e in Turandot.
Tra gli impegni futuri un Ballo in maschera, Adriana Lecouvreur e Il
Trovatore a Tel Aviv.
Renzo Zulian (30/4; 6, 8, 11/5), veneziano di nascita, ha debuttato nel
1992 al teatro dell'Opera di Timisoara (Romania) come Pinkerton nella
Butterfly.
A Salisburgo (Teatro Festival Hall) ha interpreato Rigoletto, e sempre
con quest'opera ha compiuto una tournèe in Inghilterra (Teatri di
Canterbury, Buxton, Oxford), in Germania (Teatri di Berlino,
Mannheim) a Luzern, Strasbourg...
Recentemente ha cantato Traviata in Giappone, Conchita di Zandonai al
Festival di Wexford (Irlanda), Manrico nel Trovatore al Teatro Regio di
Parma, Teatro Comunale di Modena e Reggio Emilia, Calaf nella
Turandot a Mannheil in Germania.
I
l ruolo della gelida principessa cinese è affidato al soprano
Giovanna Casolla. Diplomatasi in canto e pianoforte al
Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, ha proseguito
gli studi musicali con Michele Lauro e Walter Ferrari. L’esordio
teatrale è avvenuto con La campana sommersa di Respighi al
Teatro Verdi di Trieste a cui è seguito Il Castello del Principe
Barbablù di Bartòk al
Regio di Torino. Nel 1982
il suo ingresso alla Scala
con il pucciniano Tabarro
sotto la direzione di
Gavazzeni che l’ha poi
diretta anche nella Fedora
di Giordano sempre nel
teatro
scaligero.
Successivamente
al
Metropolitan di New York
ha cantato il Don Carlo di
Verdi e la Tosca di Puccini,
quest’ultima con la direzione di Placido Domingo.
E’ regolarmente ospite dei
principali teatri e festival
del mondo. Ricordiamo la
sua ultima presenza, nel
2004, al teatro dell'Opera
Giovanna Casella
di Roma come interprete di
Santuzza in Cavalleria Rusticana.
Ad alternarsi con la Casolla sarà il soprano Lucia Mazzaria
(29/4; 7, 11/5). Nata a Gorizia e, terminati gli studi di canto, si
è aggiudicata un primo premio al Concorso Puccini di Lucca
ed il secondo al Concorso Internazionale di Rio de Janeiro. Ha
debuttato nel 1987 al Teatro La Fenice di Venezia e da allora si
è esibita in teatri italiani e stranieri: dal Covent Garden di
Londra, al Metropolitan di New York, ma anche in Norvegia e
Giappone. A Roma ha cantato nel Macbeth di Verdi alle Terme
di Caracalla. I suoi ultimi debutti la vedono nei ruoli di Abigail
nel Nabucco a Fermo e Atene, nonché Turandot a Lisbona e
Catania. Fra i suoi impegni futuri due nuovi attesissimi debutti in Gioconda di Ponchielli e in Ernani di Verdi.
Katia Pellegrino e Anna Laura Longo
Liù schiava siucida per amore
A
nna Laura Longo, nata a Milano, si è diplomata in pianoforte e tecnica
vocale, perfezionandosi con Rodolfo Celletti. Nel 1996 ha vinto il concorso internazionale di Roma, e l'anno dopo si è esibita in Otello
(Desdemona) al teatro Pergolesi di Iesi, a Mantova e al Cairo. Nel 1998 ha debuttato nelle Nozze di Figaro al Teatro dell'Opera di Roma, dove torna poco dopo per il
Barbiere di Siviglia. Dal 2000 collabora anche con il Teatro Verdi di Trieste dove è
stata Susanna nelle Nozze di Figaro, Dalinda in Ginevra di Scozia, e Rosina nel Barbiere
di Siviglia di Paisiello. Al Festival di Torre del Lago è stata Mimì nella Bohème e Liù
in Turandot.
Al Teatro San Carlo è stata Euridice nell' Orfeo di Gluck.
Tra gli impegni futuri da segnalare Le Nozze di Figaro in settembre al Teatro
dell’Opera di Roma MacBeth al Teatro Comunale di Bologna. Don Giovanni (Donna
Anna) al Bellini di Catania e Un segreto d'importanza di Rendine al Teatro
Comunale di Bologna ed al Teatro dell’Opera di Roma.
Katia Pellegrino (29/4; 7, 8, 10/5) è nata a Lecce ed ha studiato violino e canto
presso il Conservatorio "B. Marcello"di Venezia. Nel 1991 ha frequentato
l'"Accademia lirica mantovana" con corsi
tenuti da Katia Ricciarelli e, nel 1997 ha
debuttato in "La Bohème" presso il Teatro
Marrucino di Chieti. Nell'ottobre 1998 ha
debuttato come protagonista in "La
Traviata" a Salerno, Como e Freiburg.
Nell'ottobre 1999 ha poi cantato "Bohème"
ad Adria, Lonigo, Legnago e Padova ed ha
Anna laura Longo
quindi debuttato a Bologna in "Petite Messe
Solemnelle" di Rossini. Ha cantato "Norma" a Cremona, Como, Brescia, Pavia e
Piacenza, "Il Trovatore" all'Opera di Roma, a Busseto, Sofia e Lisbona, "Luisa Miller"
nel Circuito Lirico Lombardo, "La forza del Destino" a Lima, "Otello" e "Eugenio
Onieghin" a Sassari, "Il Trovatore" al San Carlo di Napoli e a Sassari. E' stata diretta,
tra gli altri, da Fabio Biondi, Paolo Carignani, Riccardo Chailly, Rafaeò Fruebeck de
Burgos, Daniele Gatti. Tra i suoi prossimi impegni "I Lombardi alla Prima Crociata"
a Firenze.
Pagina a cura di Andrea Cionci
Turandot
6
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Storia dell’opera
In un ristorante milanese la nascita di Turandot
L
a composizione della Turandot, ultima opera di
Puccini, si svolse tra il 1920 e il 1924, in quegli
ultimi quattro anni di vita del Compositore tristemente segnati dalla malattia che lo condurrà alla
morte. Dopo il successo del Trittico nel gennaio 1919
al Costanzi di Roma, Puccini si pose nuovamente
con l’aiuto del fedele amico Giuseppe Adami alla ricerca di un soggetto per un’opera. Determinante per la
nascita della Turandot fu però l’incontro con il giornalista Renato Simoni nell’autunno del 1919 a Torre del
Lago, residenza amatissima dal Maestro, dove si dedicava alla sua grande passione, la caccia. Simoni, commediografo e critico drammatico sensibilissimo e raffinato, sembrò a Puccini il più adatto da affiancare ad
Adami. L’intesa tra i due librettisti fu subito cordiale e
produttiva: la prima proposta fu un testo tratto dalla
riduzione teatrale dell’Oliver Twist di Dickens. L’opera,
il cui titolo avrebbe dovuto essere Fanny, non piacque
però a Puccini: l’ambientazione nello squallido clima
dei sobborghi londinesi avrebbe potuto offrire solamente tematiche e situazioni già ampiamente utilizzate dal
compositore, che invece aveva l’intenzione di “tentare
vie non battute”.
sembrò più volte propendere per l’atto unico. Inoltre
occorreva « lasciare un po’ da parte Gozzi e lavorare di
logica e fantasia». Il primo rimaneggiamento operato
Triste presagio
Nata in un ristorante milanese
I biografi raccontano che la nascita della Turandot –
soggetto così “regale” - avvenne, invece, in circostanza meno “nobile”: a tavola! Nel febbraio del 1920
Puccini e Simoni erano in un ristorante milanese, per
ingannare il tempo in attesa che il Maestro prendesse un treno per Roma. Simoni disse: «E Gozzi? … se
ripensassimo a Gozzi?… una fiaba che fosse magari la
sintesi di altre fiabe più tipiche?… Non so… qualche cosa
di fantastico e di remoto, interpretato con sentimento di
umanità e presentato con colori moderni?». Puccini fece
il nome di Turandot e Simoni mandò immediatamente a prendere il volume nella sua biblioteca, in modo
che Puccini potesse portarlo con se in treno. La
Turandot di Carlo Gozzi, rappresentata per la prima
volta a Venezia nel 1761 al teatro di San Samuele con
la compagnia di Antonio Sacchi, affascinò subito il
compositore per il carattere orientaleggiante che
avrebbe potuto aprire più ampi e sfaccettati orizzonti. Puccini iniziò immediatamente a documentarsi,
leggendo la versione in italiano del poeta Andrea
Maffei - noto come librettista di Verdi - basata sulla traduzione in tedesco di Schiller. Puccini visionò anche
riproduzioni sceniche e figurini di Max Reinhardt, il
quale poco prima aveva curato la messa in scena della
fiaba in Germania. Sull’argomento Puccini scrisse con entusiasmo a Simoni: «…in Reinhardt, Turandot era una donnina
piccola piccola; attorniata da uomini di donnina viperina e con un
cuore strano di isterica. Insomma io ritengo che Turandot sia il
pezzo di teatro più normale e umano di tutte le altre produzioni di
Gozzi. In fine: una Turandot attraverso il cervello moderno, il tuo,
d’Adami e il mio».
Difficoltà dietro l’angolo
L’entusiasmo però era destinato ad essere frenato
dall’effettiva difficoltà di ridurre la fiaba.
L’epistolario pucciniano è il testimone delle difficoltà incontrate durante i quattro anni dedicati alla
Principessa cinese. Puccini fu a lungo indeciso se
costruire l’opera in uno, due o tre atti. La versione
che né risultò fu quella in tre atti, ma il musicista
ancora notizia ad Adami: «Penso ora per ora, minuto
per minuto a Turandot e tutta la mia musica scritta fino ad
ora mi pare una burletta e non mi piace più».
in quest’ottica dai librettisti, fu la trasformazione
delle quattro maschere della commedia italiana presenti nella fiaba - Tartaglia, Pantalone Truffaldino e
Brighella - nei tre ministri cinesi Ping, Pang e Pong.
L’altro cambiamento fondamentale fu l’introduzione
della figura di Liù, non presente nella favola di
Gozzi, con la funzione di umanizzare attraverso il
suo sacrificio la figura della Principessa.
Nella primavera del 1920 Puccini manifestava il suo
sconforto ad Adami: «metto le mani al piano e mi si
sporcano di polvere! La scrivania mia è una marea di lettere, non c’è traccia di musica. La musica? Cosa inutile. Non
avendo il libretto come faccio con la musica? Ho quel gran
difetto di scriverla solamente quando i miei carnefici burattini si muovono sulla scena…». Nel Natale dello stesso
anno i librettisti sottoposero il primo atto a Puccini,
ma l’iniziale giudizio fu negativo. Dopo alcune modifiche, in cui si diminuirono molte cineserie, Puccini lo
approvò ed iniziò a strumentarlo. Nel 1921, a distanza di un anno, il primo atto fu completato. Ben più
faticosi, invece, furono gli altri due atti per i quali il
Maestro fu spesso sul punto di abbandonare la composizione. L’11 dicembre 1922 amaramente scriveva
ad Adami: «di Turandot niente di buono. Comincio a
impensierirmi della mia pigrizia! Che io sia saturo di Cina
per aver fatto il primo e quasi il 2° atto? Il fatto sta che non
riesco ad attecchire niente di buono. Sono anche vecchio!
Questo è sicuro…. A Milano deciderò qualcosa. Forse
restituisco i soldi a Ricordi e mi liberi».
I primi mesi del 1923 furono ancora molto difficili,
ma in primavera il compositore, rinfrancato nello spirito e con nuovo entusiasmo, si dedicò a strutturare e
musicare il secondo atto. Nel gennaio 1924 Puccini
annunciò ad Adami l’inizio dell’orchestrazione del
terzo atto. In aprile finalmente la composizione della
Turandot era a buon punto ed il compositore né diede
L’autunno di quello stesso anno - 1924 - fu caratterizzato dall’incontro a Salsomaggiore e dalla riappacificazione con Arturo Toscanini, dopo lo screzio sorto a
causa di una incomprensione, quando in aprile il
direttore diede l’ordine di non ammetterlo alla prova
generale della prima esecuzione postuma del Nerone
di Boito al Teatro Alla Scala. Pochi giorni dopo i due
si incontrano a Milano e Puccini fece ascoltare all’amico ritrovato il terzo atto di Turandot, fino al punto
in cui Liù sacrifica la propria vita. Ad esecuzione terminata Puccini disse a Toscanini la frase che egli
avrebbe dovuto pronunziare davanti al pubblico se
lui fosse stato nell’impossibilità di concludere l’opera: «E qui, signori, il maestro è morto». Presagio sinistro. Il male alla gola, manifestatosi già da parecchi
mesi, iniziò ad aumentare ed in ottobre Puccini si era
recato a Firenze per essere visitato. La diagnosi atroce fu cancro alla gola. Come ultimo tentativo fu consigliata una cura presso una clinica specializzata in
Belgio e Puccini si recò a Bruxelles per essere ricoverato. La sera del 28 novembre sopraggiunse una crisi
cardiaca. Puccini lottò per la vita l’intera notte e il mattino successivo. Il 29 novembre 1924 verso mezzogiorno
il cuore del maestro cessò di battere. Turandot, come il
suo stesso creatore aveva funestamente previsto, era
rimasta incompleta.
Un finale postumo
Gli editori di casa Ricordi, Clausetti e Valcarenghi,
decisero allora di farla terminare dal musicista
Franco Alfano. Questi pensò di utilizzare le trentasei
pagine di abbozzi lasciati dal Maestro per il duetto e,
nelle parti in cui gli schizzi non erano di aiuto, i temi
precedentemente usati dal compositore all’interno
dell’opera. Il lavoro, così completato, era pronto per
andare in scena. Alla vigilia la recita rischiò, però, di
essere annullata per un increscioso incidente diplomatico. Mussolini, in quei giorni a Milano, fu invitato alla “prima” dalla direzione della Scala. Il Duce
impose come condizione che durante la serata fosse
eseguito l’inno fascista in suo onore, dal momento
che Toscanini nel 1923 si era rifiutato di eseguirlo
davanti ad un gruppo di Camicie Nere. Ancora una
volta Toscanini si oppose ed il Duce non prese parte
alla “prima”.
Il 25 aprile del 1926, dinanzi al commosso pubblico
della Scala, la Turandot andò in scena. Il cast composto da Rosa Raisa nel ruolo di Turandot, Maria
Bamboli in quello di Liù e Miguel Fleta in quello di
Calaf, utilizzo le scene di Galileo Chini. Dopo la
morte di Liù, Toscanini – come è noto - seguì la
volontà di Puccini: interrompendo la musica e voltandosi verso il pubblico, con voce velata, disse:
«Qui finisce l’opera, perché a questo punto il maestro è
morto. La morte in questo caso è stata più forte dell’arte». e poi: “viva Puccini!”. Subito scrosciarono gli
applausi, mentre il sipario calava. Dalla sera successiva le recite proseguirono con il finale realizzato da
Alfano.
C.C.
Giornale dei Grandi Eventi
Il
Turandot
7
Le invettive del Maestro sulle speculazioni milanesi
E Mascagni disse:
«Lasciate Turandot com’è!»
“P
iango la perdita del caro
Giacomo, che amai con
affetto di fratello, con
ammirazione di discepolo.
Accolgano il conforto del rimpianto universale per l’uomo dalla sua
opera fatto immortale”. Così il 29
novembre 1924 da Vienna, dove
si trovava per una serie di concerti, Mascagni scriveva ad
Elvira Puccini. Poche ore prima
a Bruxelles l’amico Giacomo si
era spento, distrutto dal tumore
alla gola.
La morte del grande collega e
amico con il quale aveva in gioventù condiviso sogni e sofferenze, scosse profondamente il
compositore livornese, il quale
nelle lettere di quel periodo si
espresse con forti accenti polemici.
Vale la pena leggere ad esempio
quella inviata il 4 dicembre alla
figlia Emy: «…non so dirti quale
colpo sia stato per me l’annunzio
improvviso della morte di Puccini.
Avevo notizie abbastanza buone:
ero tranquillo il giorno; prima
avevo avuto tali notizie favorevoli,
che con vera commozione avevo
telegrafato
all’Ambasciatore
d’Italia a Bruxelles pregandolo di
portare all’amico carissimo il mio
saluto ed augurio. E invece..... E
quale morte terribile, povero
Giacomo! Io sono ancora molto
impressionato e non riesco a rimettermi. Non posso crederci ancora. E
sono anche molto addolorato ed
avvilito che quei bottegaî dei
Milanesi hanno già iniziato una
speculazione su Puccini. Mentre la
famiglia voleva che la salma andasse a Lucca, i bravi (?) milanesi
l’hanno voluta a Milano.... e
Toscanini ha messo a disposizione
la tomba della propria famiglia....
Sono cose che fanno male.... Ed
intanto si sta già preparando la
speculazione sull’opera postuma.
Prima con Boito, ora con
Puccini!... Ho avuto molto dispiacere nell’apprendere, da un telegramma dell’Avv. Belli, che lo stesso Belli, unitamente a Gasco,
abbiano affacciato l’idea di far terminare a me la Turandot. Meno
male che, in una intervista che ebbi
qui col corrispondente della
“Tribuna”, espressi già il mio pensiero in proposito. Peccato che la
“Tribuna” non l’abbia riportato
esattamente, ma in ogni modo si
capisce che io ho detto che l’opera
deve essere eseguita così come si
trova, anche se incompiuta: non si
deve ripetere lo sconcio commesso
col Nerone (l’opera che Boito
lasciò incompiuta e che fu portata a termine da Tommasini e
Smareglia sotto la supervisione
di Toscanini, n.d.r.), tanto più
che, per Puccini, sarebbe ancora
una profanazione, perché Puccini è
stato un vero e grandissimo musicista e non uno stitico che aspettava sempre l’aiuto e l’elemosina di
qualcuno, e che in vita non la
trovò.... e l’ha trovata dopo
morto....».
La morte di Liù è
già un finale
Mascagni, dunque, riteneva che
Turandot dovesse rimanere
come l’aveva lasciata Puccini.
Una scelta dettata in lui dal
Puccini e Mascagni ai funerali di Ruggero Leoncavallo
rispetto nei confronti dell’amico, ma suggerita anche da considerazioni di tipo drammaturgico: la morte di Liù è già di per
sé un “finale”, lascia la storia fra
Calaf e Turandot sospesa, ma
chiude coerentemente l’opera.
Ma a proposito di Mascagni,
può essere interessante riportare ancora la seguente lettera
inviata il 22 dicembre alla figlia:
«…io sono veramente sorpreso di
tutta la speculazione che in Italia si
fa sopra la sventura: la morte di
Puccini ha svegliato nuove cupidigie e nuovissime ambizioni: la città
di Milano vuole avere il monopolio
delle salme degli uomini illustri.
Hai letto il discorso del Sindaco
Mangiagalli sul feretro di
Puccini?... Non si può andare più
in là in materia di speculazione e di
réclame: ha detto che Verdi morì e
fu sepolto in Milano; e, dopo Verdi,
Boito morì e fu sepolto in Milano;
ed oggi, per quanto Puccini sia
morto all’estero, Milano ha la gloria di avere la sua salma.... Alla
larga di questi necrofori jettatori!
Mi aspettavo che continuasse, con
l’augurio (?) di avere in Milano
tutti i morti illustri, anche se la
loro morte avviene lontana dalla.....
necropoli lombarda..... Da Roma, il
Marchese Monaldi mi perseguita
con lettere e telegrammi per avere
da me una prefazione al libro che
egli scrisse sopra Puccini, e del
quale sta preparando la seconda
edizione, in occasione della morte
del Maestro. Insomma, si specula
in modo indegno; e non si capisce
che io non intendo di prestarmi a
questo basso giuoco. E non rispondo neppure: sono nauseato! [...]».
Roberto Iovino
Nella casa natale di Puccini a Lucca
Tra i cimeli, il pianoforte su cui fu composta Turandot
I
l 22 dicembre 1858, nelle
prime ore della notte,
Giacomo Puccini nasceva a
Lucca, nella casa di corte
S.Lorenzo, a Lucca. Fu battezzato il giorno successivo, al
fonte battesimale dei SS.
Giovanni e Reparata, con i
nomi di Giacomo Antonio
Domenico Michele Secondo
Maria. Era infatti l’ultimo
musicista di una singolare
dinastia che in un arco temporale di un secolo e mezzo aveva
dominato la vita musicale lucchese.Al momento della sua
nascita abitavano la casa i genitori, Michele e Albina Magi, la
nonna Angela Cerù, le sorelle
Otilia, Tomaide (la terza nata,
Temi, era vissuta meno di un
anno), Maria Nitteti e Iginia, e
una serva. Un anno dopo
nascerà l’altra sorella Ramelde,
sarà assunta un’altra serva, e
più avanti nasceranno ancora
Macrina e infine, dopo la morte
del padre, Domenico Michele
(Lucca, 1864 - Rio de Janeiro,
1891) anch’egli musicista.
Giacomo, rimasto presto orfano di padre, visse in questa
casa gli anni dell’infanzia e
della prima giovinezza, prima
del trasferimento a Milano per
proseguire gli studi. Restò sempre legato ai ricordi che lo legavano alla sua casa natale e si
adoperò, quando le condizioni
economiche glielo consentirono, affinché rimanesse di proprietà
della
famiglia.
La famiglia Puccini, che nella
prima metà del XVIII secolo si
era stabilita a Lucca in un’abitazione posta in via Pozzotorelli,
l’odierna via Vittorio Veneto, si
era trasferita in corte S. Lorenzo
intorno al 1815, poco dopo la
morte improvvisa e prematura
di Domenico, nonno di
Giacomo e pregevole operista.
Aveva voluto così la giovane
vedova, Angela Cerù, per riavvicinarsi alla sua famiglia d’origine, che abitava nello stesso
stabile. La famiglia Cerù - in
particolare Nicolao, cugino del
padre Michele - svolgerà un
ruolo importante nella formazione di Giacomo.
L’appartamento,
piuttosto
grande ma appena sufficiente
per una famiglia numerosa
come quella di Giacomo (in cui
tutti, almeno il padre e i figli,
facevano musica) aveva, come
oggi, due ingressi sul medesimo pianerottolo, come testimonia una lettera del 1817 di
Antonio, bisnonno di Giacomo.
Oggi museo
Oggi la casa natale di Giacomo
Puccini custodisce oggetti a lui
appartenuti: mobili di famiglia, un cappotto, preziose
onorificenze che testimoniano
gli straordinari successi ottenuti dal compositore in tutto il
mondo. Sono anche esposti:
autografi di importanti composizioni giovanili, la Messa a
4 voci (1880) e il Capriccio sinfonico (1883), una ricca collezione di lettere scritte e ricevute
dal compositore tra il 1889 e il
1915 (destinatari e mittenti: la
moglie Elvira, il figlio Antonio,
Giulio Ricordi), e una serie di
emozionanti testimonianze
degli ultimi momenti di vita
del compositore, che - a causa
dell’operazione subita per l’asportazione del tumore alla
gola - comunicava solo tramite
brevi messaggi scritti. L’ultima
opera, Turandot - la cui composizione fu interrotta appunto
dalla morte dell’autore a
Bruxelles, il 29 novembre 1924
- è evocata dalla presenza del
pianoforte Steinway su cui l’opera fu composta, nella villa di
Viareggio (una fotografia
ritrae Puccini proprio davanti
a questo strumento, con il
figlio Antonio), e dallo splendido costume di scena per il II
atto, donato alla Fondazione
Puccini dalla celebre cantante
Maria Jeritza, a ricordo del
primo allestimento dell’opera
al Metropolitan Opera House
di New York, nel 1926. Il costume realizza il disegno studiato
da Brunelleschi per la prima
assoluta, poi sostituito da
quello di Caramba.
Si possono infine ammirare
alcuni bei quadri, come i pregevoli ritratti di Giacomo
Puccini senior e di sua moglie
Angela Piccinini, eseguiti da
un importante pittore lucchese, Giovanni Domenico
Lombardi detto “L’omino”, in
occasione delle loro nozze;
come il ritratto di Antonio
Puccini, probabilmente una
copia d’epoca dell’originale
custodito presso il Civico
Museo Bibliografico Musicale
di Bologna; od anche lo
Stemma della famiglia, che il
compositore non era disposto
a lasciare in casa di altri parenti. E’ esposto, infine, lo stupendo ritratto di Giacomo Puccini,
opera di Leonetto Cappiello,
con dedica “A Giacomo Puccini
con grande ammirazione e vera
amicizia” e data “Paris, 11 gennaio 1899”.
Mi. Mar.
Turandot
8
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Le due versioni del finale postumo dell’opera
L’ingrato compito di Franco Alfano:
L
a sera del 25 aprile 1926 va in
scena al Teatro
alla Scala di Milano la
prima rappresentazione assoluta di Turandot
di Giacomo Puccini.
Appena conclusa la
scena dello straziante
corteo funebre per Liù,
la musica si interrompe
e Arturo Toscanini, dal
podio, con una voce
resa incerta dall’emozione, si rivolge al pubblico trepidante:
«Qui finisce l’opera, perché
a questo punto il maestro è
morto. La morte in questo
caso è stata più forte dell’arte».
Dopo qualche istante di
stupore, gli spettatori
prorompono in fragorosi applausi, gridando
«Viva Puccini!».
Toscanini aveva deciso
per la “prima”- come
volontà espressagli da
Puccini - di onorare in
questo modo la memoria del compositore, terminando l’esecuzione
Giacomo Puccini nel 1924
Franco Alfano
nel punto esatto in cui
la mano del “Lucchese”
si era fermata. (Il compositore era morto in
seguito a complicazioni
post-operatorie
nel
1924 a Bruxelles, dove
si era recato per curare
un cancro all’esofago).
Peraltro,
lo
stesso
Toscanini era stato,
insieme ai parenti del
musicista e alla Casa
Ricordi, fra coloro che
avevano
fortemente
voluto che Turandot
venisse completata da
un altro compositore.
Infatti, sebbene nella
musica strumentale un
lavoro
incompiuto
possa esercitare un
indiscutibile fascino e
mantenere comunque
inalterato il suo impatto comunicativo, nel
teatro musicale, soprattutto a partire da quello
tardo ottocentesco, una
grave
mutilazione
come la mancanza del
finale poteva mettere in
seria discussione la
fruibilità di un’intera
opera.
Lasciare in sospeso il
corso dell’azione di
Turandot,
avrebbe,
però, fatto traballare le
colonne portanti dell’intera struttura musicale e drammatica dell’opera.
I primi compositori che
vennero contattati furono
Riccardo Zandonai e
Pietro Mascagni, i quali
però declinarono l’offerta.
cando. I committenti
del lavoro pensarono
che l’indiana Sakuntala
sarebbe potuta efficacemente diventare sorella
della cinese Turandot.
punto un intermezzo
orchestrale, che avrebbe
rievocato la magica
atmosfera
dell’opera
wagneriana nel momento del bacio di Calaf.
La scelta cadde su
Alfano
Fu invece il compositore napoletano Franco
Alfano, allora cinquantenne, che, seppure
dopo molte perplessità,
accettò il gravoso compito,
che pure gli
avrebbe dato quella
duratura fama che le
sue altre opere, come
Resurrezione (1904) o La
leggenda di Sakuntala
(1921), non sarebbero
riuscite a procurargli.
Compositore di rilievo,
artista esuberante ed
entusiasta, Alfano si era
formato sulle orme di
Puccini, del quale era
anche divenuto amico
personale. Era anch’egli
un compositore legato
alla Casa Ricordi e si
era
affermato
con
discreto successo qualche anno prima con l’opera La Leggenda di
Sakuntala, anch’essa di
ambientazione orientale, che tuttavia il pubblico stava già dimenti-
Figurino prima di Turandot
Puccini aveva portato
con sé, nella clinica di
Bruxelles dove si doveva operare, 36 fogli
pentagrammati contenenti gli appunti per il
finale di Turandot, a cui
contava di lavorare
durante la convalescenza. Quando Alfano li
prese in esame, si trovò
di fronte un materiale
confuso, pieno di cancellature, tagli e sommarie, quasi incomprensibili, annotazioni
come «qui trovare la
melodia tipica vaga
insolita» oppure «Poi
Tristano…».
Quest’ultima frase è
stata variamente interpretata: secondo Mosco
Carner, grande biografo
di Puccini, egli avrebbe
voluto inserire in quel
Secondo Teodoro Celli,
invece, il compositore
avrebbe voluto ritornare
al tema inserito nel concertato finale del primo
atto, che sembra già ispirato al tema del mare nel
Tristano.
Delle 375 battute scritte
da Alfano, appena 97
sono quelle originali di
Puccini, desunte dalla
sua bozza, e precisamente: l’inizio del
duetto Principessa di
gelo fino all’aria Del
primo pianto, di cui il
materiale tematico era
solo accennato. Gli
stessi cenni sommari
riguardavano il tema
degli ottoni che introducono il secondo quadro e la ripresa del tema
del Nessun dorma nel
coro finale.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
9
finire Turandot
Le due versioni
Il lavoro di Alfano fu
completato e consegnato nel gennaio 1926 e
Ricordi ne stampò uno
spartito per canto e pianoforte. Questa edizione rappresenta una
vera rarità, di cui esistono solo 12 copie in
tutto il mondo. Infatti
venne ben presto ritirata
dal
mercato:
Toscanini la rifiutò con
la motivazione che in
essa vi fosse «troppo
Alfano e poco Puccini».
Le discussioni e i malumori non mancarono,
ma alla fine la volontà
dello scorbutico ed
inflessibile
direttore
d’orchestra prevalse e
107 battute di Alfano
vennero tagliate impietosamente, conducendo
alla stesura di una
seconda versione della
partitura.
Le parti tagliate non
erano state scritte a
caso da Alfano ed erano
funzionali a rendere
La prima edizione di Turandot
con gradualità e penetranza psicologica il
progressivo mutamento
interiore di Turandot,
come per i fondamentali momenti successivi al
bacio di Calaf o alla
rivelazione del nome
del principe. Toscanini,
tuttavia, da grande
conoscitore
della
vocalità, era anche
consapevole che l’impegno richiesto ai cantanti nell’esecuzione
della prima versione
sarebbe stato eccessivo. Fu questa, probabilmente, la motivazione della sua impuntatura.
La prima versione di
Alfano fu riesumata
solo nel 1982, in forma
d’oratorio,
alla
Barbican
Hall
di
Londra, dopo il ritrovamento della partitura negli archivi Ricordi
e da allora è stata
ripresa in diverse
occasioni,
l’ultima
delle quali al Teatro
Bozzetto del secondo atto per la prima rappresentazione di Turandot
del Giglio di Lucca,
nel 2003.
Alfano ebbe la sfortuna di nascere in un
momento di crisi del
melodramma, dove,
per giunta, giganteggiava la figura di
Puccini. Il suo caratte-
re sanguigno e indipendente non gli consentiva di inseguire i
gusti del pubblico ed
egli cercò pertanto di
imporre una sua idea
di teatro musicale.
Morì quasi dimenticato dalla critica, ricor-
dato solo per il suo
lavoro di completamento di Turandot,
che, pur essendo stato
compiuto con scrupolo e sensibilità, venne
bistrattato da direttori
d’orchestra e critici
musicali.
Andrea Cionci
Proposta per un finale
Uccidete Calaf!
C
i ha provato subito dopo la
morte di Puccini, Franco Alfano,
ci ha provato recentemente
Luciano Berio. Ma nell’opera degli enigmi, l’enigma centrale, quello dell’epilogo a lieto fine con la gelida Turandot
che si scioglie per Calaf, rimane a tutt’oggi irrisolto.
Il trionfo dell’amore, il mutamento della
principessa di ghiaccio, per quanto lo si
rallenti (e Berio ha inserito un breve
interludio strumentale, quasi a voler
concedere qualche minuto in più alla
donna per la metamorfosi) rimane
improvviso e inaspettato.
Certo, la trasformazione repentina di
Turandot era già in Gozzi, ma lì l’atmosfera fiabesca la giustificava.
In Puccini la dimensione favolistica è
appena evocata da Ping,Pong e Pang;
nel resto si è in un dramma alquanto
forte e vibrante che sfocia in commedia
a lieto fine con qualche difficoltà.
E così, dopo l’interruzione di Toscanini
all’esecuzione dell’opera alla “prima
assoluta” del 1926 al momento della
morte di Liù dove l’aveva lasciata
Puccini (così diversa dalla gozziana
Adelma), dopo il finale (anzi il doppio
finale: quello tagliato e quello intero) di
Alfano, dopo l’ultima fatica di Berio, si
potrebbe suggerire un ulteriore finale a
sorpresa: la morte di Calaf.
Calaf, in effetti, merita di morire. Egli,
infatti, è - si badi bene - molto più crudele di Turandot. La Principessa fa
decapitare i suoi spasimanti, ma non li
conosce neppure. Ella mantiene un
atteggiamento distaccato, li invita
anche a desistere prima di leggere i fatidici tre enigmi. Se poi, volontariamente
ed incoscientemente, quelli si lanciano
nel “quiz”, la responsabilità è anche e
soprattutto loro.
Calaf, invece, getta allo sbaraglio il
povero padre e la deliziosa Liù per un
semplice capriccio. Guarda Liù che si
suicida per salvarlo e non muove un
dito. Manda in giro il padre cieco per il
mondo senza alcuna pietà. Di quale
umanità, dunque, è capace?
Dalla morte di Calaf, Turandot avrebbe
tutto da guadagnare. Manterrebbe la
propria coerenza, dimostrando fino in
fondo la propria crudeltà, giocando uno
splendido tranello al suo spasimante e
battendolo dopo averlo blandito e
sedotto. Una gran donna.
«O Padre Augusto… ora conosco il
nome dello straniero.
Il suo nome… è Calaf!»
Uccidete Calaf. Avanti un altro!
Roberto Iovino
Turandot
10
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Intervista a Luciano Berio, autore dell’ultimo finale
Ancora un altro finale per Turandot
A
lcuni anni orsono Casa Ricordi
incaricò il compositore Luciano Berio,
scomparso a Roma il 27
maggio 2003, di mettere
mano agli appunti
lasciati da Puccini al
momento della morte
avvenuta a Bruxelles il
29 novembre 1924, e di
rifare un finale per la
Turandot più ragionato
di quello steso all’epoca
da Franco Alfano. La
“prima” mondiale della
rinnovata Turandot è
andata in scena all’opera di Los Angeles il 25
maggio 2002, seguita da
quella europea allo Het
Muziektheater
di
Amsterdam (1° giugno
2002), e dalle recite al
Festival di Salisburgo (7
agosto 2002). L’intero
atto terzo, col nuovo
finale, era tuttavia già
stato eseguito in forma
di concerto al Festival
delle Canarie il 24 gennaio 2002
Pubblichiamo un’intervista
rilasciata
da
Luciano Berio a Sandro
Cappelletto pubblicata
sul quotidiano “La
Stampa” il 12 Gennaio
battute dell’opera con le
terze e quarte aumentate, che mi portano a
segnalare una presenza
virtuale in questa partitura della Settima di
Mahler, dei Gurrelieder
di Schönberg. Diciamo
che questo materiale
l’ho commentato, non
l’ho mai lasciato solo,
c’è da parte mia un elemento non di disturbo,
ma di esemplificazione,
di commento appunto.
2002 in cui il Maestro
spiega le motivazioni
e le finalità del suo
lavoro.
D. - Com’è nato questo
progetto?
Da parecchie parti, da
parecchi anni, mi chiedevano di farlo. Finora mi
ero sempre sganciato da
questa possibilità, però poi,
approfondendo il lavoro
sugli schizzi, mi sono convinto. Ho sempre amato
Turandot, la conosco
benissimo, il primo atto è
davvero mirabile, e poi alle
Canarie c’è questo bellissimo festival di orchestre
internazionali, che amo
molto.
D. - Riassumendo,
un Puccini che guarda avanti ma è
impossibilitato
a
procedere dalle forzature della materiatrattata?
D. - Come ha orientato
il Suo lavoro?
Turandot è un’opera speciale nel panorama pucciniano. Credo che non l’abbia finita non perché è
morto, ma perché è stato
tradito da un libretto
intrattabile: questo racconto orientale che finisce
con l’happy end è di una
volgarità indicibile, era
con questo che Puccini
aveva problemi, non con
altro, lo si vede dagli schizzi che ha lasciato, materiale estremamente interessante da cui si capisce che
stava avviandosi su vie
musicalmente nuove. Ho
ripensato il finale in modo
totale, non più un happy
en, ma una conclusione
più sospesa e reticente,
come si addice ad una
visione orientale delle cose,
meno
deterministica,
meno ovvia.
D. - Dunque è intervenuto anche sul libretto.
Ho semplificato, sottratto,
eliminato le cose più volgari, sempre in rapporto al
progetto musicale concepito esaminando gli schizzi,
che mettono in luce le questioni musicali che preoccupavano Puccini in
Turandot. Puccini è stato
un musicista italiano di
cultura europea, viaggiava, ascoltava tutto, andava
spesso a Bayreuth, aveva
conosciuto Schönberg che
nutriva per lui un’enorme
ammirazione. Gli sviluppi
armonici
additati
in
Turandot sono in un certo
senso
nuovi,
solo
Stravinskij nella Sagra
della primavera dieci anni
prima aveva fatto qualcosa
del genere, con il tessuto
armonico concepito non
solo come sviluppo di funzioni, che è la cosa normale, ma anche come produzione di accordi-oggetto, di
entità armoniche isolabili ad esempio accordi politonali - che hanno significato di per sé. Ma ci sono
tantissime cose, ad esempio un ripensamento di
Wagner (in questi schizzi
e altro materiale pucciniano relativo a Turandot troviamo notazioni come «e
poi Tristano» e «San Graal
chinese»), come nei cromatismi sotto «Tu che di gel
sei cinta».
D. - Ha enfatizzato questi aspetti?
Diciamo che ho solo spinto
le cose più in là, evidenziato un tessuto nascosto, ad
esempio, negli schizzi pucciniani, un ambiente di “la
minore” che mi suggerisce
l’«accordo del Tristano»,
oppure le prime quattro
Sì, mi interessava tirar
fuori, mettere in evidenza, non in maniera
plateale e ovvia, quello
che questa partitura
contiene e le difficoltà che
l’autore ha incontrato.
Certo Puccini era un compositore di successo e questo ha determinato la sua
opera, dietro di lui c’era la
paurosa macchina finanziaria di Casa Ricordi:
doveva avere successo e
l’ha avuto, del resto questa
è la vicenda di tutti gli
operisti italiani, con l’eccezione parziale di Verdi, che
si muoveva su un’altra
dimensione,
etica
se
vogliamo: il successo era
una condizione “sine qua
non”, che determinava l’opera, imponeva delle strategie. Ma Turandot pose
dei problemi, a Puccini: la
concezione del racconto,
della favola, la traiettoria
narrativa, non era così
semplice come nelle altre
opere, doveva andarci
piano.
D. - Come reagirà il
pubblico?
Ah, non so. A me il successo non interessa!
Sandro Cappelletto
Il
Turandot
Giornale dei Grandi Eventi
11
Le origini dell’opera
Turandot, dalla favola di Gozzi
all’opera di Puccini
L
a
prima
della
Turandot pucciniana
risale al 25 aprile
1926. Siamo a Milano, al
Teatro alla Scala, l’autore è
morto da quasi due anni
senza riuscire a terminare
l’opera; altri porteranno a
compimento la sua ultima
fatica. Ma come è arrivata
in Europa la storia della
gelida principessa di Cina
che ha affascinato Puccini?
I suoi natali sul continente
risalgono al veneziano
Carlo Gozzi (1720-1806).
Figlio di un’aristocratica
famiglia in gravi difficoltà
economiche fu il fondatore, insieme con il fratello
Gasparo, di una delle istituzioni più conservatrici
del Settecento italiano:
l’Accademia dei Granelleschi
di Venezia. Le sue posizioni conservatrici lo videro
contrapporsi al pensiero
illuminista e alle scelte
artistiche dei contemporanei Goldoni e Chiari, innovatori importanti della
Commedia dell’Arte e
spesso portatori sulla
scena anche di argomenti
realistici d’ambientazione
popolare e borghese.
Nel 1762 Gozzi scrisse la
favola teatrale di Turandot
traendone l’argomento fiabesco dal ciclo persiano
delle Mille e una notte e più
precisamente da La storia
del principe Calaf e della
principessa di Cina. In questa prima trasposizione
occidentale, coerentemente all’epoca storica in cui
essa è prodotta, troviamo
accanto ai personaggi
principali anche la presenza delle più importanti
maschere
italiane:
Tartaglia, Pantalone e
Truffaldino. Il lavoro gozziano è un continuo alternarsi di passione e gioco
sospesi fra realtà e irrealtà,
atmosfera quotidiana e
fantasia
esotica.
Probabilmente le maschere
avevano il compito di creare un legame tra il pubblico veneziano e l’Oriente
fittizio rappresentato sulla
scena.
Saranno proprio quelle
atmosfere esotiche, evocatrici di mondi lontani, ad
affascinare Puccini.
Nel passaggio dalla favola
all’opera il compositore fu
però chiamato a risolvere
più di un problema. Ad
esempio, la presenza delle
Figurino di Umberto Brenellechi per la prima rappresentazione di Turandot
maschere, nel momento
storico in cui compone
Puccini, ha perso la sua
valenza. Vanno quindi trasformate nel contrario di
ciò che rappresentavano
per Gozzi: non un ponte
tra Occidente e Oriente ma
un elemento propriamente
cinese. Nascono così i tre
dignitari di corte, dal
nome un po’ faceto Ping,
Pong, Pang, modellati sul
genere dei fools shakesperiani, che assolvono alla
funzione di commento ironico e disincantato, a volte
cinico, della realtà che li
circonda.
Inoltre perché l’intera
struttura reggesse, Puccini
fu costretto a concentrarsi
sulle linee essenziali della
vicenda e a trascurare gli
intrecci secondari della
fiaba. La crudeltà di
Turandot dovette quindi
essere spiegata e riequilibrata. Fu necessario trasformare la Principessa da
esecutrice tragica di un
destino di vendetta, (quello che si rifà alla violenza
subita dalla sua antenata
Lo-u-ling), in un personaggio capace di esprimere un
sentimento psicologicamente più sfaccettato, come quello della
paura del maschio
dominatore. Turandot
non è infatti la vittima di un trauma
ancestrale, da lei
usato come pretesto,
bensì una donna che
vuole fare di se stessa
un monumento di
virtù. Fuggire l’uomo
vuol dire conservare
la purezza. Ignorare
il sesso, la cui conoscenza porta alla perdita dell’innocenza, è
certamente un metodo tra i più efficaci
per evitare il confronto con l’umanità
maschile. In virtù di
una simile necessità
Puccini e i suoi libret-
Carlo Gozzi
tisti introdussero il personaggio della sciava Liù che
funziona da elemento
patetico e permette, con il
suo suicidio d’amore, lo
“sgelamento” di Turandot.
La soluzione degli enigmi
da parte di Calaf e la morte
della schiava fanno così
convergere l’apparato simbolico della vicenda verso
l’inevitabile discesa dell’algida principessa al
livello degli uomini e
verso il consueto lieto fine,
per quanto amaro, delle
favole. L’umanizzazione di
Turandot è compiuta.
E’ pur vero che Puccini
morì subito dopo aver
scritto il suicidio di Liù e
che il trionfante finale con
la principessa innamorata
è opera di Alfano. In sordina possiamo legittimamente domandarci se il
Maestro, avendone avuta
la possibilità, avrebbe scelto lo stesso epilogo.
Maria Elena Latini
Le Opere di Giacomo Puccini
e le loro prime esecuzioni
Le Villi (31.5.1884 Teatro dal Verme, Milano)
Le Villi [rev] (26.12.1884 Teatro Regio, Torino)
Edgar (21.4.1889 Teatro alla Scala, Milano)
Edgar [rev] (28.2.1892 Teatro Communale, Ferrara)
Manon Lescaut (1.2.1893 Teatro Regio, Torino)
La bohème (1.2.1896 Teatro Regio, Torino)
Tosca (14.1.1900 Teatro Costanzi, Roma)
Madama Butterfly (17.2.1904 Teatro alla Scala, Milano)
Madama Butterfly [rev] (28.5.1904 Teatro Grande, Brescia)
Edgar [rev 2] (8.7.1905 Teatro Colón, Buenos Aires)
Madama Butterfly [rev 2] (10.7.1905 Covent Garden,
Londra)
Madama Butterfly [rev 3] (28.12.1905 Opéra Comique,
Parigi)
La fanciulla del West (10.12.1910 Metropolitan Opera,
New York)
La rondine (27.3.1917 Opéra, Monte Carlo)
Il trittico: (Il tabarro - Suor Angelica - Gianni Schicchi)
(14.12.1918 Metropolitan Opera, New York)
Turandot (25.4.1926 Teatro alla Scala, Milano)
Turandot
12
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Franco Alfano, autore del finale postumo
Storia di un compositore minore
F
ranco Alfano visse in un momento storico
dominato dalla confusione - si pensi ai due
conflitti mondiali - che non lasciò molto
spazio alle sue aspirazioni di operista, ostacolate
dalla difficoltà di trovare libretti corposi, con
intrecci affascinanti e coinvolgenti.
Il compositore nasce a Napoli l’ 8 Marzo 1875.
Studia al Conservatorio S. Pietro a Maiella e si perfeziona poi in composizione a Lipsia. Nel 1896,
alla ricerca di un ambiente culturalmente più stimolante, si trasferisce a Berlino dove la vita musicale si nutre di interessanti scoperte stilistiche.
Nel 1899 è a Parigi per mettere in scena due balletti presso le «Folies Bergères» e dove comincia a
scrivere l’opera Resurrezione, portata poi a termine tra Mosca e Napoli.
Gli anni a cavallo tra ‘800 e ‘900, dopo la morte di
Wagner nel 1883, musicalmente erano stati
espressione di un forte scossone stilistico di cui
Alfano è testimone. Egli, insieme con la sua generazione, sentì la necessità di un rinnovamento nel
campo del teatro lirico ormai da tempo sclerotizzato, nonché l’esigenza di spaziare anche nel
mondo della musica sinfonico-strumentale.
Resurrezione, il suo più valido successo, è un lavoro che rivela una grande vena teatrale oltre ad
una naturale forza di linguaggio, entrambe preferite all’uso di melodie facilmente memorizzabili.
Le pagine della sua musica risultano quindi
molto dense sinfonicamente e spesso di difficile
comprensione. Il principe Zilah, sua seconda
opera, è un esempio di tale difficoltà d’ascolto. Si
tratta di un lavoro interessante dal punto di vista
musicale, affiancato però da un libretto mediocre.
Nonostante gli insuccessi, Alfano continuò a
lavorare freneticamente fra le due guerre.
Franco Alfano
Ragguardevole la sua produzione di musica da
camera: sonate per violino e per violoncello e il
Quartetto n° 2, ricco di contenuti poetici e di
sonorità dolci e mediterranee.
La sua opera maggiore è La Leggenda di Sakùntala,
di cui scrive personalmente il libretto, in prosa e
non in versi, tratta dal dramma di Kalidasa:
Abhijnanasakuntala risalente al 400 a.C. circa. .
L’azione, ambientata nell’India primordiale.
Testo e musica sono nell’opera fortemente compenetrati e l’orchestrazione raggiunge uno sfarzo
lussureggiante. La prima rappresentazione è al
Teatro Comunale di Bologna, il 10 dicembre del
1921, ma la partitura originale andò distrutta
durante la seconda Guerra mondiale. Sarà Alfano
stesso a strumentarla nuovamente, sulla base
della riduzione per canto e pianoforte, riproponendola nel 1952 al Teatro dell’Opera di Roma.
Intraprende anche la carriera di insegnante:
docente di composizione e direttore del
Conservatorio di Bologna tra il 1916 e il 1923,
diventerà poi direttore del Liceo Musicale di
Torino, carica che manterrà fino al 1939.
Tra le tappe più importanti della sua vita c’è,
paradossalmente, proprio l’incontro con un grande libretto di cui è chiamato a musicare il finale.
Nel 1925 infatti, su richiesta di Toscanini, la famiglia Puccini e l’editore Ricordi lo invitano a terminare la Turandot, capolavoro incompiuto di
Puccini, morto l’anno precedente. Si tratta di un
lavoro delicato: musicologi e musicisti hanno gli
occhi puntati sul risultato.
A questa parentesi seguono, tra il 1940 e il 1942,
la Sovrintendenza al Teatro Massimo di Palermo
e la cattedra di Studi per il teatro lirico al
Conservatorio di Roma. Ultimo incarico della
carriera didattica è la direzione del Liceo
Musicale di Pesaro dal 1947 al 1950.
Il suo ultimo lavoro è il Cyrano de Bergerac del
1936. Critica e pubblico ne apprezzano la ritrovata sobrietà dell’orchestra.
Franco Alfano muore a San Remo, quasi dimenticato, il 27 Ottobre 1957.
Ma. E. La.
Carlo Gozzi, autore della fiaba Turandot
Un aristocratico sedotto dal fiabesco
Tradizionalista e antilluminista in filosofia ed in
politica, purista e classicista in estetica, questa la
sintesi del carattere aristocratico e conservatore,
a tratti sprezzante, di Carlo Gozzi.
Amante del fantastico, nelle
sue Fiabe scritte tra il 1761 e
il 1765, Gozzi risuscita nelle
sue opere teatrali le maschere della commedia dell’arte,
trasportandole nell’atmosfera dei racconti per bambini.
Vissuto a Venezia tra il 1720
e il 1806, proveniva da una
nobile famiglia decaduta e
per tutta la vita dovette
combattere con le difficoltà
economiche.
Nonostante
l’intensa e produttiva attività di letterato, Gozzi si rifiutò sempre di trarne guadagno per una sorta di orgoglio aristocratico.
Nel 1747 fondò con il fratello Gasparo
l’Accademia dei Granelleschi, tra le istituzioni letterarie più conservatrici della sua epoca. Fu
aspro critico di Goldoni, al quale rimproverava
un difetto profondo di sensibilità morale: conte-
stava nelle opere del suo avversario “virtù e
vizi mal collocati, sovente il vizio trionfatore”, la mancanza di idealità poetica e l’insufficiente disciplina stilistica. Considerava
Goldoni come “uno
scrittore, levatolo dal
dialetto veneto del
volgo, nel quale era dottissimo, da porre nel
catalogo dei più goffi,
bassi e scorretti scrittori
del nostro idioma”.
La vena poetica che
anima le Fiabe, rievoca
nostalgicamente
un
mondo rarefatto di semplice grazia e gentilezza,
infantile e popolare, cui
l’occhio di Gozzi si
rivolgeva con sguardo
benevolo e ironico e con
il senso di rimpianto
tipico del “laudator temporis acti”.
Questi sentimenti resero l’opera di Gozzi particolarmente gradita all’Europa dell’età romantica e
le Fiabe incontrarono l’apprezzamento di Goethe,
Schiller, Schlegel e Madame de Staël, fino a
Wagner e ai De Goncourt. In Italia, tuttavia, il suo
successo fu immediato quanto effimero.
Tardiva, seppur fortunata, fu la ripresa di alcune
delle sue Fiabe più riuscite da parte del teatro
musicale: pensiamo a L’amore delle tre melarance,
rielaborata da Mejerchol’d per l’omonima opera
di Profi’ev nel 1921, Turandot, ripresa da Busoni
(1917) e Puccini (1926) .
Le ambientazioni magiche ed esotiche popolate
di maghi e principesse offrivano, comprensibilmente, uno spazio ricco di possibilità per il melodramma. E’ pur vero che gli argomenti fiabeschi
delle opere di Gozzi, tratti dalle Mille e una notte e
dal Pentamerone del Basile, si appesantiscono a
volte di ragioni satiriche e di spunti polemici, che
fanno decadere sovente la fiaba dal poetico
mondo irreale e fantastico in un pedantesco
allegorismo.
Un cospicuo gruppo di carte in gran parte inedite, appartenenti a Gasparo e Carlo Gozzi,
individuato di recente da Fabio Soldini, noto
studioso gozziano, è stato acquistato di recente dalla Biblioteca Nazionale Marciana di
Venezia. Il materiale è in corso di riordino ed
inventario e sarà quindi disponibile per la consultazione solo tra alcuni mesi.
A. C.
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
13
I librettisti
Renato Simoni
Giuseppe Adami
C
G
ommediografo, librettista, sceneggiatore, critico teatrale e regista
iornalista, critico teatrale, commediografo, regista di teatro e cinema,
cinematografico, Giuseppe Adami è nato a Verona il 4 febbraio 1878.
Renato Simoni finito il liceo, rimasto orfano di padre, deve lavorare
Fin da giovanissimo si dedica al giornalismo, collaborando con il
anche per provvedere alla famiglia e comincia così quella che sarà la
quotidiano veronese L’Arena e, dal 1913 come critico musicale a La Sera di sua brillante carriera di giornalista.
Milano, città nella quale si è in quegli anni trasferito.
Nato il 5 settembre 1875 a Verona, entra nel 1894 nel giornale veronese L’Adige
Scrive circa una quarantina di commedie comico-sentimentali, delle quali dove assume anche l’incarico di cronista teatrale. Cinque anni dopo diventa crialcune in dialetto veneto: I fioi de Goldoni (1905), El paese de l’amor (1907) con tico drammatico e letterario del quotidiano L’Arena e collabora a periodici umoArnaldo Fraccaroli, Bezzi e basi (1915) in veneziano, mentre in italiano La ristici firmandosi con lo pseudonimo di “Turno”.
sorella lontana (1909), La capanna e il tuo cuore (1913), Pierrot innamorato (1914), Nel 1899 si trasferisce a Milano come critico drammatico del Tempo, testata
Capelli bianchi (1915), quest’ultima
che lascerà nel 1903 per passare al
forse la migliore delle sue commeCorriere della Sera dove inizialmendie.
te si mette in luce con una serie di
I suoi lavori sono quasi tutti ben
brillanti
corrispondenze
accolti dal pubblico per l’ottimidall’Oriente, articoli vari ed elzesmo borghese che le anima. Le
viri di terza pagina, finché nel
commedie sono, infatti, di un
1914 sostituisce Giovanni Pozza
tenue sentimentalismo, graziose e
nell’incarico di critico drammatico
piacevoli per compostezza di
che eserciterà con equilibrio e sotespressioni e vaghezza colorita di
tigliezza di gusto, fino alla morte.
stile. Di esse, in buona parte recitaSimoni tiene, inoltre, la rubrica di
te da Dina Galli, particolare fortufondo dell’Illustrazione italiana e la
na ebbero Felicita Colombo (1935)
direzione della Lettura, ed è collaboda cui fu tratto anche un film nel
ratore dell’umoristico Guerin
1937 e Nonna Felicita (1936) in cui è
Meschino, della Domenica del Corriere
rappresentata la conquista della
e del Corriere dei piccoli.
buona società milanese da parte di
Durante la prima guerra mondiale
una Madame Sans-Gêne meneghiorganizza al fronte il “Teatro del soldana, l’arricchita salumaia Felicita.
to”(1917) e fonda e dirige La Tradotta,
Giuseppe Adami, Giacomo Puccini e Renato Simoni
Giuseppe Adami ha scritto anche
giornale di trincea della terza armata.
diversi libretti per opere, dei quali i più conosciuti sono La via della finestra Notevoli i suoi scritti come critico su Shakespeare, sulla commedia italiana del
(1919) per Riccardo Zandonai e quelli per Giacomo Puccini: La rondine Cinquecento, sulla commedia dell’Arte, sul prediletto Goldoni e certi suoi
(1917), Il tabarro (1918), Suor Angelica ed, in collaborazione con Renato ritratti di commediografi, di attori, di critici come Gli assenti (1920), Ritratti
Simoni, Turandot (1926).
(1923), Teatro di ieri (1938) e Uomini e cose di ieri (1952).
Stretto amico di Puccini, cura nel 1928 il primo epistolario pucciniano e scri- Tra il 1902 e il 1910 scrive per la scena quattro commedie in dialetto veneto che
ve due biografie del musicista, delle quali la maggiore è Il romanzo della vita vengono tutte interpretate dal sensibilissimo Ferruccio Benini: La vedova (1902),
di Giacomo Puccini (1932). E’ anche autore di soggetti cinematografici e di Carlo Gozzi (1903) , Tramonto (1906) e Congedo (1910).
un’azione coreografica Vecchia Milano per la musica di Franco Vittadini La sua prima commedia fu La vedova che riscosse discreto successo, come
(1928).
Congedo. Successo che invece non ottennero i lavori Carlo Gozzi e Tramonto,
Muore a Milano il 12 ottobre 1946.
mentre con indifferenza fu accolta il Matrimonio di Casanova (1910), la commeA. C. dia scritta da Simoni in collaborazione con Ugo Ojetti. Opere per lo più originali, intimiste, ricche di psicologia, talora anticipatrici di una drammaturgia
moderna. Del 1908 è la rivista Turlupineide, una piccante satira di personaggi
della vita politica e letteraria, prima del genere in Italia e subito imitatissima.
Dalle commedie ai libretti
Nel 1910 scrive il libretto per l’operetta La secchia rapita, prima esperienza in
campo librettistico proseguita poi con collaborazioni più impegnative. E’
anche regista di memorabili spettacoli goldoniani e di classici come
Shakespeare, Pirandello, Tasso, nonché autore di vari libretti d’opera:
Madame Sans-Gêne (1915) per Umberto Giordano, Turandot (1926) realizzato
in collaborazione con Giuseppe Adami per Giacomo Puccini e il Dibuck per
Lodovico Rocca.
La sua pungente visione critica appare nelle recensioni del Corriere della Sera,
raccolte postume in 5 volumi sotto il titolo di Trent’anni di cronaca drammatica 1911-52 (1951-60), nelle Cronache della ribalta (1927) e nei commenti del
giorno Le fantasie del nobiluomo Vidal (1953).
Nel 1939 è nominato accademico d’Italia e nel 1951 presidente del Circolo
della Stampa di Milano.
Lascia al museo della Scala la sua cospicua raccolta teatrale composta da
40.000 volumi, collezioni di riviste, costumi, maschere, manifesti e altri
oggetti di interesse teatrale.
Muore a Milano il 5 luglio 1952 e nello stesso anno è commemorato al
Festival di Venezia con La vedova.
Alice Calabresi
Renato Simoni
Turandot
14
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Consigli gastronomici del librettista Giuseppe Adami
Una ricetta d’autore: Il Baccalà alla goldoniana
G
iuseppe Adami,
veronese
di
nascita (4 febbraio 1878), ma milanese di adozione, è noto
per aver legato il suo
nome a quello di grandi compositori, tra i
quali Giacomo Puccini
per il quale oltre ad
altri
lavori
(La
Rondine, Il Tabarro),
con Renato Simoni
adattò il testo di una
fiaba di Carlo Gozzi
come libretto della
Turandot, messa in
scena la prima volta
alla Scala di Milano il
25 aprile del 1926.
Molto apprezzato dalla
borghesia meneghina,
sulla quale scriveva
brillanti
commedie,
recitate in gran parte
dall’attrice più famosa
in quei tempi: Dina
Galli, inizia la sua produzione drammatica
nel 1910. Critico musicale e teatrale per il
quotidiano veronese
“L’Arena”, sceneggiatore cinematografico e
commediografo,
il
mondano, ma anche
schivo, Adami è autore
di una ricetta gastronomica realizzata per
l’Istituto
Editoriale
Italiano nel 1932, pubblicata in un delizioso
volumetto dal titolo La
Tavola della Celebrità.
Tra i “celebri” partecipanti c’è anche Sibilla
Aleramo,
Filippo
Tommaso Martinetti,
fondatore del movimento
futurista,
Riccardo Bacchelli e
altri famosissimi personaggi del mondo letterario, teatrale, artistico
e giornalistico dell’epoca.
Nel testo, il librettista si
cimenta con il “Baccalà
alla Goldoniana”. Un
“piatto” non certo facile per i nostri tempi
frettolosi, ma per un
buon “gusto” letterario
Giuseppe Adami
e per quel positivo
desiderio “mondano”
di riscoprire i sapori
“antichi”, merita di
essere presentato.
Adami scrive testualmente: «Come è da tempo
stabilito che per fare la
lepre in salmì occorre
prima di ogni altra cosa la
lepre, resta assodato che
per raggiungere la perfezione nel piatto che ora
prepareremo, è necessario
procurarsi il miglior baccalà, da non confondersi,
Dio ci scampi e liberi, col
comunissimo merluzzo.
Consiglio senz’altro di
rivolgervi a qualche
amico del Veneto perché, o
da Verona o da Padova, da
Vicenza o da Venezia vi
spedisca questa materia
prima che già all’epoca
della Repubblica si importava dai mari del nord per
la delizia dei Dogi, delle
Dogaresse e del popolo.
Bisogna subito confessare
che il primo gesto per la
preparazione del baccalà
alla goldoniana, è un
gesto brutale e violento: il
baccalà va battuto. Molto
battuto. Senza remissione. Senza Scrupoli. Senza
pietà. Ma compiuta questa prima operazione,
quasi a sanare i lividi
delle percosse, si depone
in un placido bagno d’acqua fresca e là si abbandona per otto o dieci ore. E’
con quella stessa acqua
che, successivamente, si
mette sul fuoco. Ma appena levato il bollore, lo si
toglie, e si incomincia la
delicata operazione della
ripulitura. Bisogna assolutamente che non rimanga la più piccola lisca. I
bei pezzi morbidi e bianchi che se ne traggono,
più o meno interi o sbriciolati, si infarinano e si
mettono quindi nel sof-
fritto che avrete
preparato in apposita casseruola. In
questo soffritto ricordatelo - consiste gran parte della
riuscita del piatto.
E mettetevi bene in
testa questa massima fondamentale: il
baccalà va molto
condito. Perciò, per
un chilo di materia
prima, occorre non
meno di un etto di
burro e altrettanto
di olio finissimo.
Un po’ di cipolla
profumerà inizialmente l’atmosfera.
Ma il vero, il sano,
l’irresistibile profumo si sprigionerà
più tardi, indimenticabile.
Procediamo nella
preparazione.
Rimestando, dunque, il baccalà nel
soffritto,
vi
si
aggiunge un po’ di
quell’acqua nella
quale ha levato il
bollore, e si chiude
ermeticamente la
casseruola.
Fate bollire il più lento
possibile, per quattro ore.
Il segreto è questo: bollitura lunga e sommessa. A
metà bollitura aggiungerete cinque o sei acciughe,
prezzemolo
finemente
trattato, un po’ di pepe.
Richiudete la casseruola.
Di tanto in tanto, sorvegliate, rimestate, sbriciolate i pezzi più grossi, in
modo che la bagna riesca
nello stesso tempo morbida e densa, e baccalà ed
intingolo fraternizzino
pienamente.
All’ultima mezz’ora di bollitura, preparate la polenta.
Non dimenticatevi, a cottura compiuta, di lasciar
riposare senza fuoco il baccalà nel tegame, per una
decina di minuti. Quel
riposo darà la fusione classica all’intingolo.
Sedete a tavola. Servite.
Polenta e baccalà vi
riconciliano con la crisi
del Teatro italiano».
A cura di
Michela Marini
Il
Giornale dei Grandi Eventi
Turandot
15
Nei primi, goliardici, anni di studi del compositore lucchese
Fagioli e minestrone per Puccini
A
lla fine dell’ottobre 1880, Puccini
lasciò la sua casa
toscana per andare a studiare al Conservatorio di
Milano. Sostenne l’esame
e scrisse alla madre:
«Cara mamma per ora non
ho ancora saputo niente
della mia ammissione al
Conservatorio, perché sabato si aduna il Consiglio per
deliberare circa gli esaminati e vedere quali possono
ammettere; i posti sono
molto pochi. Io ho buone
speranze avendo riportato
più punti. Dica al mio caro
maestro Angeloni che l’esame fu una sciocchezza, perché mi fecero accompagnare
un basso scritto di una riga,
senza numeri è facilissimo,
e poi mi fecero svolgere una
melodia in re maggiore, che
mi riuscì felicemente. Basta,
è andata anche troppo bene!
...Vado spesso dal Catalani
che è gentilissimo...La sera
quando ho palanche vado al
caffè, ma passano moltissime sere che non ci vado perché un ponce [sic] costa 40
centesimi. Però vado a letto
presto, mi stufo a girare su e
giù per la galleria. Ho una
cameretta bellina, tutta
ripulita con un bel banco di
noce a lustro che è una
magnificenza. Insomma ci
sto volentieri. La fame non
la pato. Mangio maletto, ma
mi riempio di minestroni
brodo lungo e...seguitate!
La pancia è soddisfatta....».
In una successiva lettera
ancora alla madre, il giovane artista raccontava la
sua giornata: «Ieri ho
avuto la seconda lezione di
Bazzini e va benissimo...Mi
sono fatto un orario così
disposto. La mattina mi alzo
alle otto e mezza, quando ci
ho lezione, vado. In caso
diverso studio un po’ di pianoforte...Seguito: alle dieci e
1/2 faccio colazione, poi
esco. All’una vado a casa e
studio per Bazzini un paio
d’ore; poi dalle tre alle cinque via daccapo col pianoforte, un po’ di lettura di
musica classica...Alle cin-
della cucina lucchese, si bevevano e nessuno, Dio ci
rivolgeva alla madre: liberi, si dava il pensiero di
«Avrei bisogno di una cosa, pagare....A nessuno saltava
ma ho paura a dirgliela, per- mai in mente di tirar fuori
ché capisco anch’io Lei non un centesimo; e Gigi, il
può spendere. Mi stia a sen- padrone, onorato da tanta
tire, è roba da poco. Siccome fiducia dimostrava la sua
ho una gran voglia di fagio- gratitudine in due maniere:
li (anzi un giorno me segnava a libro e teneva a
li fecero, ma non li mente. Quando per caso
potei mangiare a capitava qualche novizio il
cagione dell’olio che quale per ignoranza o per
qui è di sezamo di inavvertenza pagava subito,
lino!) dunque dice- la “Laringe Etrusca” - il
vo...avrei bisogno di bollettino manoscritto dei
un po’ d’olio, ma di clienti dell’Excelsior - usciquello nuovo. La pre- va fuori il giorno dopo con
gherei di mandarmene queste poche ma significanti
righe della cronaca artistica
un popoino....».
A Milano si era crea- teatrale: “Ieri all’Excelsior è
ta una «colonia» avvenuto un putiferio. Una
toscana.
Artisti persona forse affatto ignara
buontemponi dalla degli usi e dei costumi di
battuta facile e dal quel ritrovo, dopo aver manAlbina Magi Puccini , madre di Giacomo
sorriso sempre pron- giato una bistecca alla fiomezzo litro di vino. Dopo to. Luogo di riunione, rentina, ha osato imprudenaccendo un sigaro e me ne l’Excelsior, una modesta temente di volerla pagare.
vado in Galleria a fare una trattoria toscana: «Da Questo incidente spiacevole,
passeggiata in su e in giù, Puccini a Mascagni fino ai senza precedenti, per buona
secondo il solito. Sto lì fino più ignoti maestri paesani fortuna non ha avuto lutalle nove e torno a casa spie- sparsi oggi giorno per tuose conseguenze”».
dato morto. Arrivato a casa l’Italia e all’estero...o
faccio un po’ di contrappun- quali maestri di capto, non suono perché la pella in qualche ignoto
notte non si può suonare. villaggio, tutti i giovaDopo infilo il letto e leggo notti etruschi che stual
sette o otto pagine di un diavano
romanzo. Ecco la mia Conservatorio non
mancavano mai. Vi
vita!...».
La vita di Puccini studen- faceva signorilmente
te assomiglia a quella di qualche rara apparitanti suoi colleghi, dalla zione in cerca di un
provincia arrivati nella amico o di un concitgrande città, armati solo tadino, oppure una
del talento e della deter- pietanza casalinga,
minazione. In tasca pochi Alfredo Catalani, semsoldi. Stomaco costante- pre pallido, elegante,
mente vuoto, o quasi. modesto e melanconico, Giacomo Puccini ai tempi del soggiorno milanese
Sembra di rivivere nella sobrio di parole e di gesto, Le difficoltà per Puccini
realtà le storie di Rodolfo, freddo, ma garbato e signo- si protrassero per diversi
anni. Ancora il 30 aprile
Marcello, Schaunard e rile...
Colline i quattro sfortu- Quando c’era bisogno di 1890 scriveva al fratello:
una voce schietta, di un «...Qui c’è un gran fermennati artisti di Bohème.
Casa e scuola, combattuti vocabolo nuovo, di una fra- to per il primo maggio. Tutti
fra una realtà certamente settina viva che non facesse gli operai fanno sciopero.
difficile e il sogno di una una grinza, si andava Io... vado in campagna.
carriera ancora tutta da all’Excelsior dove il puzzo Stanotte ho lavorato fino
conquistare e da vivere. di cucina, quello che la alle tre e dopo ho cenato con
Puccini, come Mascagni, buona anima di Raffaellino un mazzo di cipolle..». Poi,
come Leoncavallo si Fornaciari, già insegnante finalmente, nel 1893,
accontentava, limitava i d’italiano al Liceo Lucca, Manon Lescaut diede
bisogni a quelli stretta- sua città nativa, avrebbe notorietà, fama e benesmente necessari. Quando chiamato leppo, tappava il sere al Lucchese che potè
era tentato dai ricordi naso. Tutti mangiavano e rientrare da vincitore
que vado al pasto frugale
(ma molto di quel frugale!) e
mangio minestrone alla
milanese, che per dire la
verità è assai buono. Ne
mangio tre scodelle, poi
qualche altro empiastro; un
pezzetto di cacio coi bei e un
nelle sue terre dove praticò tutta la vita, ogni volta
che la musica glielo consentiva, la caccia e la
pesca.
Il tono nelle sue lettere
cambia. Si legga la
seguente indirizzata da
Torre del Lago al librettista Luigi Illica, il 4 agosto
appunto
del
1893:
«...Pomè mi ha scritto che
tu forse verrai a Lucca. In
casa mia, qui, esistono letti
soffici, polli, oche, anitre,
agnelli, pulci, tavoli, sedie,
fucili, quadri, statue, scarpe, velocipedi, cembali, macchine da cucire, orologi, una
pianta di Parigi, olio buono,
pesci, vino di tre qualità
(acqua non se ne beve), sigari, amache, moglie, figli,
cani, gatti, rhum, caffè,
minestre di varie forme, una
scatola di sardine andate a
male, pesche, fichi, due
latrine, un eucaliptus,
pozzo in casa, una scopa,
tutto a vostra disposizione
(eccetto la moglie)...».
In quegli anni si fecero
stretti i rapporti fra
Puccini, Illica, Giacosa
(suoi collaboratori per
Bohème, Madama Butterfly
e Tosca) e naturalmente
Giulio Ricordi, il suo
grande editore.
Proprio a Ricordi nell’ottobre 1895, Puccini inviò
una certa quantità di
fagioli con la ricetta per
cucinarli: «Carissimo sig.
Giulio, riceverà un poco di
fagiuoli... sono di quelli
straordinari e si cuociono
così: si mettono al fuoco in
acqua fredda (l’acqua deve
essere una dose giusta, nè
troppa nè poca) devono bollire due ore a fuoco lento e
quando sono cotti non deve
restarci che 3 o 4 cucchiai di
brodo. Ergo, attenzione alla
dose dell’acqua.
N.B. Quando si mettono al
fuoco bisogna aggiungere 4 o 5
foglie di salvia, 2 o 3 teste d’aglio intere, sale e pepe e quando sono (i fagiuoli) a mezza
cottura metterci un poco d’olio
a bollire insieme...».
Ro. Io.