IL CONTRIBUTO DEI CATTOLICI AL GOVERNO DELLE COMUNITA

DIOCESI DI CREMONA - COMMISSIONE DELLA PASTORALE SOCIALE E DEL LAVORO
IL CONTRIBUTO DEI CATTOLICI
AL GOVERNO DELLE COMUNITA’ LOCALI
E PER L’INTEGRAZIONE EUROPEA
Una riflessione pastorale in vista delle prossime elezioni amministrative ed europee
I. E’ TEMPO DI PARTECIPAZIONE
Il 24 e 25 maggio prossimi saremo impegnati nelle consultazioni per il rinnovo di consigli
comunali, con l’elezione diretta del sindaco, e per l’elezione dei nuovi membri del Parlamento
Europeo.
Partecipare con il voto all’amministrazione della cosa pubblica è diritto e dovere di ogni cittadino e
per i credenti è parte integrante della loro vocazione di laici cristiani.
Il contesto di malessere causato dalla crisi economica, dalle profonde trasformazioni che investono
la società e la cultura italiana e dal diffuso e crescente senso di sfiducia nei confronti di coloro che
si impegnano in politica, non deve paralizzare o rendere indifferenti i cristiani rispetto al voto e
all’impegno diretto in ambito politico. Proprio perché ci troviamo all’interno di un panorama
politico ed istituzionale nazionale bisognoso da troppo tempo di riforme e nell’ambito di un
processo d’integrazione europea troppo lento, siamo chiamati a riscoprire le motivazioni per andare
a votare e per prepararci ad un impegno serio e gratuito a favore delle nostre comunità.
La Chiesa, che «non è e non intende essere un agente politico» 1, sente come suo preciso dovere
indicare ai fedeli laici, particolarmente in questo momento di difficoltà, il compito di partecipare,
con la loro originalità di ispirazione, di competenza e di coerenza, al governo delle comunità.
Ultimamente Papa Francesco ci ricorda che “L’accettazione del primo annuncio, che invita a
lasciarsi amare da Dio e ad amarlo con l’amore che Egli stesso ci comunica, provoca nella vita della
persona e nelle sue azioni una prima e fondamentale reazione: desiderare, cercare e avere a cuore il
bene degli altri” (E.G. 178). “ Di conseguenza, nessuno può esigere da noi che releghiamo la
religione alla segreta intimità delle persone, senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale,
senza preoccuparci per la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli
avvenimenti che interessano i cittadini.” (E.G. 183)
II. PER UN RINNOVATO IMPEGNO DEI CRISTIANI IN POLITICA
I fedeli cattolici, per il patrimonio della loro fede e dottrina, sono in grado di portare idee e progetti,
sia per il governo delle nostre comunità che nell’ambito dell’Unione Europea.
Invitiamo pertanto le comunità parrocchiali a svolgere un’azione di sensibilizzazione dei credenti
perché pongano attenzione al dibattito politico per conoscere i diversi programmi e i candidati che
si proporranno, con l’obiettivo di compiere scelte informate e mature.
Ai cristiani impegnati in politica – ovunque essi siano schierati – ricordiamo che debbono adottare
uno stile comune e riconoscibile nel vivere l’esperienza politica. Il cristiano in politica è chiamato,
in primo luogo, a prepararsi con professionalità all’espletamento dei compiti che mira a svolgere in
ambito politico ed amministrativo, poi ad agire con rettitudine esemplare, ad orientare le sue scelte
alla carità e alla giustizia verso i fratelli, a prendere le decisioni pubbliche sempre in spirito di
servizio, a mostrare in ogni momento un rispetto incondizionato per l’altro, evitando di
demonizzare l’avversario o chi non la pensa come lui.
Da parte sua la comunità cristiana è necessario che segua, con un più deciso sostegno, coloro che si
impegnano in senso cristiano nell’azione politica per aiutarli a svolgere con coerenza il loro
compito. Le scelte che essi sono chiamati a fare, specie in questi momenti di crisi, quando occorre
agire secondo priorità per tutelare i più deboli, possono andare contro interessi costituiti o attese.
Accompagniamoli con la nostra attenzione a ciò che fanno, anche critica, ma esprimendo alto
riconoscimento del loro compito.
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III. I PRINCIPI IMPRESCINDIBILI PER UN POLITICO CRISTIANO
Punto di riferimento imprescindibile per chi desidera impegnarsi sono il Vangelo e la Dottrina
Sociale della Chiesa. Per questo desideriamo ricordare alcuni principi che devono ispirare l’agire
dei laici cristiani in politica.
La persona al centro dell’azione politica
«La persona umana è fondamento e fine della convivenza politica» (GS 25) e l’idea cristiana di
persona non è uguale a quella liberista di individuo, ripiegato su di sé e preoccupato di difendere i
suoi interessi particolari davanti agli interessi degli altri individui, come differisce da quella
statalista, che non riconosce il primato della persona rispetto allo stato. La persona si concepisce al
centro di un sistema di relazioni che la fanno quella che è, e per questo sente ogni vita, sempre
diversa dalla propria, come dono e ricchezza. Ogni persona merita l’attenzione della comunità, e la
sua sola presenza è per tutti richiesta di promozione e tutela.
Nella cultura individualistica, che domina il pensiero occidentale, ciò non è affatto scontato. Da
tempo assistiamo a tentativi volti a ridurre l’uomo a semplice prodotto della natura, mortificandone
la dignità e la costitutiva vocazione alla trascendenza. Siamo provocati, soprattutto nell’ambito delle
istituzioni europee, a recuperare e riproporre l’unicità e grandezza della persona umana: nel suo
assetto genetico non manipolabile, in ogni sua età, dal concepimento al suo naturale tramonto, e in
ogni razza, nazionalità, stato o credo religioso, che si esprima nel rispetto della convivenza
improntata a giustizia.
La ricerca del bene comune
L’agire politico ha la finalità di perseguire il bene comune. Questo «non consiste nella semplice
somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale; essendo di tutti e di ciascuno è e
rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e
custodirlo, anche in vista del futuro»2.
Il bene comune non esiste in modo oggettivo, ma si concretizza storicamente attraverso la ricerca
della migliore armonia possibile tra presenze culturali e interessi settoriali molteplici. Esso è frutto
di uno stile di dialogo e di condivisione di progetti e intenti che sappia anteporre le esigenze della
giustizia agli interessi personali o di una categoria sociale o anche di uno Stato. Non spetta quindi
all’autorità politica in assoluta autonomia - sebbene espressione di una maggioranza
democraticamente eletta - dire cosa sia il bene comune e men che meno a un individuo o a un
gruppo organizzato portatore di interessi corporativi.
L’individuazione e l’edificazione del bene comune nella città terrena è un compito che – attraverso i
meccanismi di partecipazione e confronto – deve impegnare e coinvolgere tutti i membri della
società. Lo si raggiunge vivendo una responsabilità politica e amministrativa che si faccia carico di
ricercare il «bene altrui come se fosse il proprio» 3 e che si sforzi di favorire la partecipazione
democratica di tutti alla vita politica, attraverso la promozione del dibattito e del confronto, anche
quando esistono differenti visioni o opinioni in merito alle questioni dibattute.
Anche la Chiesa nell’occuparsi del bene della società umana deve agire «non per preservare un
“interesse cattolico”, bensì per offrire il suo peculiare contributo per costruire il futuro della
comunità sociale in cui vive e alla quale è legata da vincoli profondi»4.
“Nel dialogo con lo Stato e con la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni
particolari. Tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le proposte che meglio
possono rispondere alla dignità della persona umana e al bene comune. Nel farlo, propone sempre
con chiarezza i valori fondamentali dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi
possano tradursi in azioni politiche”. (E.G 241)
Dunque, il primo modo per promuovere il bene comune è indirizzare, al momento di esercitare il
diritto di voto, il proprio consenso verso candidati che non abbiano palesi interessi personali, che
possano risultare in contrasto con il bene comune, e che siano invece intenzionati a favorire la
massima partecipazione democratica nell’amministrare la cosa pubblica.
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I principi di solidarietà e sussidiarietà
“L’uomo singolo, la famiglia, i corpi intermedi non sono in grado di pervenire da se stessi al loro
pieno sviluppo; da ciò deriva la necessità di dotarsi di istituzioni politiche, la cui finalità è quella di
rendere accessibili alle persone i beni necessari – materiali, culturali, morali, spirituali – per
condurre una vita veramente umana.”5 Il principio di sussidiarietà ci ricorda che compito della
comunità politica non è però sostituire l’iniziativa e la capacità delle persone, delle famiglie e dei
corpi intermedi, ma occuparsi degli interventi necessari per sostenerle nelle loro necessità,
provvedendo a ciò che esse da sole non sono in grado di fare. La sussidiarietà riconosce che ogni
persona, famiglia o istituzione ha qualcosa di originale da offrire alla comunità. In particolare
riconosce alla famiglia il diritto alla libertà di educazione e di scelta della scuola per i propri figli.
Attuando la sussidiarietà l’amministrazione pubblica sollecita e promuove la responsabilità sociale
e la partecipazione di tutti al bene comune. Il principio di sussidiarietà non può tuttavia divenire
semplice giustificazione o difesa degli interessi di parte di alcuni gruppi a scapito del bene comune.
Ai corpi sociali intermedi viene riconosciuto un ruolo sociale importante, ma sempre in vista
dell’edificazione del bene comune. Ed è proprio il riferimento al bene dell’intera comunità a tenere
in stretta relazione sussidiarietà e solidarietà. Questo secondo principio della solidarietà nasce dalla
consapevolezza del debito che tutti i cittadini hanno nei confronti della società in cui sono inseriti, e
porta a pensare e costruire una società inclusiva, in primo luogo dei più deboli.
L’inclusione sociale degli ultimi
Due passi espliciti dell’esortazione apostolica di papa Francesco sono di per sé illuminanti:
“Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la
preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società”. (E.G.186)
“Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano
di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti
accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. Sebbene si possa dire in generale
che la vocazione e la missione propria dei fedeli laici è la trasformazione delle varie realtà terrene
affinché ogni attività umana sia trasformata dal Vangelo, nessuno può sentirsi esonerato dalla
preoccupazione per i poveri e per la giustizia sociale: « La conversione spirituale, l’intensità
dell’amore a Dio e al prossimo, lo zelo per la giustizia e la pace, il significato evangelico dei poveri
e della povertà sono richiesti a tutti ». Temo che anche queste parole siano solamente oggetto di
qualche commento senza una vera incidenza pratica. Nonostante ciò, confido nell’apertura e nelle
buone disposizioni dei cristiani, e vi chiedo di cercare comunitariamente nuove strade per
accogliere questa rinnovata proposta”. (E.G. 201)
IV. ALCUNE QUESTIONI IMPORTANTI
Infine, desideriamo porre all’attenzione dei fedeli laici, che intendono candidarsi, alcune questioni
importanti che riteniamo meritino di essere prese in attenta considerazione in occasione della
redazione dei loro programmi elettorali.
1. L’Integrazione europea
In maggio siamo chiamati a eleggere oltre gli amministratori locali anche i 73 membri italiani del
nuovo Parlamento Europeo, quasi un decimo del totale di coloro che avranno la responsabilità di
decidere le politiche dell’Unione Europea e incidere, così, sulla sorte dei 28 Paesi che oggi la
costituiscono. Condivideremo questo appuntamento con tutti i nostri concittadini europei.
Mai, come in questi ultimi anni, si è sentita forte l’esigenza di un’Europa più coesa e unita, capace
innanzitutto di scelte politiche lungimiranti per il bene concreto dei suoi cittadini, oltre che nelle
politiche finanziarie o monetarie.
Le grandi sfide poste oggi al continente dalla crisi economica e dai mutamenti globali - segnati
dall’emergere con forza di nuovi paesi protagonisti mondiali - hanno dimostrato come pensare
all’Europa come la semplice somma geografica di tanti paesi indipendenti (molti dei quali di
dimensioni davvero piccole) e a volte litigiosi non permette più un’efficace azione politica innanzi a
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problemi che sono spesso comuni, complessi e i cui effetti locali sono fortemente interconnessi da
paese a paese.
L’impennata della disoccupazione nell’Unione (più di 20 milioni di disoccupati), l’inaccettabile
tasso elevato di disoccupazione giovanile, la questione dei rapporti coi mercati emergenti, la tutela
dei diritti dei cittadini, la necessità di affrontare in modo sempre più coordinato sfide a cui i singoli
Paesi da soli non sanno trovare soluzioni impongono una decisa svolta verso una maggiore
integrazione politica dei Paesi dell’UE.
Chi andrà a rappresentare il nostro a paese a Strasburgo e a Bruxelles dovrà sapersi assumere con
decisione l’impegno di realizzare davvero l’unità dei popoli europei, dando vita a un sistema
politico più integrato, che parta da una rappresentanza vera e diretta dei cittadini e sappia costruire
non un sistema burocratico di lacci e lacciuoli, ma un’organizzazione politica dotata di una visione
condivisa di pace e giustizia, di una comunione d’intenti e di una capacità d’azione comune; un
sistema politico che affronti all’unisono le sfide della politica internazionale così come le politiche
per lo sviluppo del lavoro, dell’istruzione e dell’integrazione sociale nei suoi Paesi Membri.
In un mondo sempre più interconnesso, connotato dai flussi intensi delle informazioni, dalla
crescente mobilità delle persone e dai cambiamenti veloci indotti dalle innovazioni tecnologiche, in
un mondo afflitto da problemi che richiedono soluzioni complesse e avanzate con risorse spesso
scarse, non ha più senso agire in modo frammentato e diviso.
Come comunità cristiane chiamate, a nostra volta, all’integrazione pastorale, dobbiamo educare
alla collaborazione e promuovere l’integrazione sociale e territoriale, pur nel rispetto delle identità e
delle diverse storie.
C’è necessità di sostenere una vera corresponsabilità delle persone nel prendere scelte collettive in
virtù di un bene comune superiore a qualsiasi interesse particolare.
Questo afflato verso una maggiore comunione tra le comunità umane, infatti, non riguarda solo le
istituzioni europee, ma vale ancora di più per il piano della politica locale e interpella innanzitutto le
comunità che condividono storie e luoghi tra loro prossimi.
Questa strada, ineludibile per rinnovare un sistema pubblico altrimenti non più sostenibile e
inefficace, richiede però un cambio radicale di mentalità ai cittadini e agli amministratori.
Si consideri che la comunità locale è definita dalle relazioni delle persone, prima ancora che dai
luoghi.
Oggi le relazioni private, professionali e di formazione delle persone, soprattutto delle nuove
generazioni, superano di molto l’ambito del “paese”.
Le risposte ai propri bisogni (materiali e immateriali) si trovano spesso in relazioni che superano la
dimensione puramente locale.
2.
L’Integrazione territoriale
Il nodo essenziale perché le nostre comunità diano risposte adeguate ai bisogni delle persone è il
corretto dimensionamento delle amministrazioni locali che garantiscono i servizi pubblici essenziali
e sono la prima frontiera per fronteggiare il disagio sociale. Comuni con un territorio troppo esteso
sono inefficienti ed inefficaci a garantire i servizi ai cittadini e debbono ricorrere a strutture
decentrate. Al contrario enti locali troppo piccoli sono appesantiti dai costi burocratici che divorano
gran parte delle loro modeste risorse, anzi obbligano ad aumenti continui della tassazione locale per
perpetuarli. Questo impedisce di effettuare investimenti pubblici e riduce i servizi alla persona
(minori, disabili, anziani, disoccupati), più necessari nei periodi di crisi economica. Il risultato è che
le amministrazioni locali più piccole divengono sempre più marginali, con servizi scadenti e
tassazione crescente, anche quando dispongono di valenti e generosi amministratori.
Il territorio cremonese presenta storicamente una drammatica frammentazione amministrativa,
acuita dai flussi demografici verso i centri maggiori, dalla riduzione dell’occupazione in agricoltura
e dall’invecchiamento della popolazione. Nonostante ciò sia noto e malgrado esista una strategia del
governo centrale (stato e regione) per rendere più razionale l’assetto territoriale locale, permane una
grande resistenza – soprattutto degli enti locali più piccoli che temono la perdita della loro identità –
a qualsiasi azione di integrazione territoriale stabile.
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In questo contesto storico non appare né saggio né lungimirante rimandare la decisione di adottare
nuove forme di gestione del territorio più sostenibili ed efficaci.
I prossimi amministratori locali saranno chiamati a scelte coraggiose in questo senso per il bene
delle loro comunità. In particolare dovranno scegliere con quali realtà limitrofe aggregarsi per
formare una unità territoriale funzionale a garanzia dei bisogni della loro comunità (gestione dei
servizi essenziali, scolarizzazione, sicurezza, viabilità, assistenza sociale ecc.) e quale forma
giuridica adottare per raggiungere questi obiettivi. Alcune norme regionali già definiscono percorsi
in relazione all’entità della popolazione dell’ente comunale, ciò non toglie, che per molte realtà si
prospettino differenti opzioni, da cui la rilevanza delle competenze dei futuri amministratori. La
prima opzione è quella di operare con buon senso, evitando di rigettare tutto quanto già fatto in
precedenza, con l’idea che ripartendo da capo si possa far meglio, secondo quanto avvenuto
ripetutamente negli ultimi 40 anni. Certamente l’opzione più importante riguarderà le forme di
aggregazione. Gli amministratori potranno scegliere tra fusione dei comuni (legame definitivo tra
più enti con la formazione di una nuova amministrazione comunale di maggiori dimensioni) e
unione dei comuni (ove gli enti storici rimangono soggetti istituzionali autonomi, e nasce una nuova
amministrazione sovra-comunale con specifici compiti: tributari ed amministrativi).
I vantaggi teorici delle due forme sono simili, ma sul piano pratico molto diversi: il primo predilige
la stabilità, il secondo si presta ad ulteriori ripensamenti.
Agli amministratori spetta il coraggioso compito di fare proposte credibili, che effettivamente
rendano più sostenibili le amministrazioni locali senza sminuire l’identità storica, economica,
sociale, culturale dei comuni che si aggregano. In questa direzione appare possibile tanto la
riduzione delle tasse locali quanto il miglioramento dei servizi, se verranno realizzate significative
economie di scala.
Occorrerà condividere risorse, mezzi e professionalità già disponibili a beneficio di una realtà più
ampia, eliminando spese inutili e ripetitive, sfruttando meglio le opportunità delle nuove tecnologie
(l’informatica consente di centralizzare molti servizi e di raggiungere i singoli utenti nelle proprie
case con costi irrisori), superando tentazioni campanilistiche (ad esempio un municipio dovrebbe
essere sufficiente).
In questo ambito la neutra tecnica amministrativa lascia spazio alle scelte politiche, alle capacità e
competenze degli amministratori e all’idea di comunità umana che intendono realizzare: una
comunità aperta e inclusiva.
3. L’Integrazione sociale
L’obiettivo della società inclusiva vede oggi, come soggetti privilegiati, la famiglia e gli immigrati.
La famiglia è il soggetto destinatario privilegiato di ogni scelta politica. Alla famiglia, infatti,
vanno riconosciuti l’identità di soggetto sociale e un ruolo sociale fondamentale per il benessere
dell'intera comunità.
La famiglia, in quanto soggetto sociale, va, in primo luogo, definita anche giuridicamente, sia a
livello europeo che locale, come unione matrimoniale tra uomo e donna con un progetto
generativo, distinta da forme di convivenza di individui che decidono di vivere assieme e sono
titolari di altra soggettività.
Perché la famiglia svolga il suo ruolo sociale gli enti locali tendano a favorire l’armonizzazione tra
le esigenze della famiglie e quelle delle imprese, in particolare per quanto riguarda l'interazione tra i
tempi di vita familiare e quelli di vita lavorativa e gli orari dei pubblici servizi. Una valutazione
particolare va fatta sui tempi e orari di apertura dei servizi commerciali la domenica e i giorni
festivi, preservando la vita delle famiglie, secondo l’indicazione di “mai tutta la domenica, mai
tutte le domeniche”.
La famiglia, per il suo ruolo sociale, deve essere considerata “soggetto fiscale” per riconoscerle una
condizione di priorità. Oggi la politica sociale è ancora tesa a privilegiare la libertà e il benessere
individuali. Occorre passare dalle politiche sociali alle politiche familiari, collocando la persona
dentro il contesto delle sue relazioni vitali. Ai fini del calcolo delle imposte locali e nella
compartecipazione ai costi dei servizi alla persona si scelga di considerare la situazione reddituale
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della famiglia con l’applicazione di coefficienti che la favoriscano in modo crescente secondo il
numero dei componenti della famiglia stessa, in conformità con l’indicatore della situazione
economica ISEE.
L’immigrazione è in stato di stabilizzazione dal punto di vista numerico e si sta gradualmente
trasformando da immigrazione individuale a residenzialità familiare: sempre più, a livello locale, le
politiche familiari vedono coinvolti nuclei familiari immigrati. L’immigrazione richiede
un’intelligente politica di dialogo interculturale e interetnico, che favorisca la costruzione di ponti
tra i popoli, nel rispetto dei diritti/doveri di cittadinanza garantiti dalla nostra Costituzione, dai
Trattati europei e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani.
La centralità della persona come principio ispiratore dell’agire del cristiano in politica ha bisogno di
essere affermata e declinata anche in questo campo.
Il tema dell’immigrazione, infatti, non può essere affrontato solo a partire dal ruolo degli immigrati
per la vita economica del Paese, né può essere confuso con la questione della sicurezza e della
legalità, oppure ridotto a un mero problema di autorizzazioni all’ingresso e alla residenza nei nostri
confini. Deve essere affrontato con l’ottica dell’accoglienza e dell’integrazione.
Le politiche di accoglienza vanno accompagnate da serie politiche di integrazione, che siamo mirate
alla costruzione di una relazione e di uno scambio culturale.
Le politiche urbanistiche e abitative favoriscano l’interscambio culturale mirando al giusto
equilibrio tra esigenze di espressione delle identità e necessità di integrazione culturale e sociale.
La scuola al riguardo è luogo profetico d’incontro con l’alterità, di educazione al confronto e di
fraternità universale.
Dentro tale contesto è necessario riconoscere la cittadinanza a chi è nato in Italia ed ha percorso
l’iter scolastico obbligatorio.
In ambito locale anche l’accesso ai pubblici servizi può rivelarsi momento di conoscenza e di
costruzione di reciproca fiducia, nella misura in cui, accanto alla qualità della prestazione, ci sia
apertura all’ascolto e valorizzazione delle specificità della persona immigrata.
Al di sopra di ogni scelta politica e di comportamento sta l’idea di una società fondata sul
riconoscimento della dignità di ogni persona e il suo diritto e dovere rispetto ai beni necessari per la
sua vita e la sua crescita.
4. La tutela, l’accesso e l’uso dei beni comuni
Nella tradizione cristiana è presente la consapevolezza che non tutti i beni sono uguali. Ve ne sono
alcuni che si legano inscindibilmente alla vita sociale e ne sono condizione di possibilità; mentre
altri sono opzionali e “posizionali”, ossia sono oggetto di libera scelta e servono per «posizionarci»
nelle gerarchie sociali. I beni comuni si caratterizzano non solo per la loro indispensabilità, ma per
la loro finalizzazione comunitaria (bene comune). Così che il servizio al bene comune di una
comunità mette in gioco il rapporto con i beni comuni, fondamentali per la vita umana.
Già Giovanni Paolo II suggeriva in Centesimus Annus (CA): «È compito dello Stato provvedere
alla difesa e alla tutela di quei beni collettivi, come l'ambiente naturale e l'ambiente umano, la cui
salvaguardia non può essere assicurata dai semplici meccanismi di mercato» (40). Il sodalizio
mercato-beni comuni non può fagocitare tutto. Benedetto XVI nella Caritas in veritate, (CIV),
denuncia che «il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati,
non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare».(35). La
logica del mercato è contrattualistica, tende a mercificare, si basa sul “do ut des” che non può
divenire l’unico modo di vivere relazioni tra gli uomini.
Dunque, laddove è in gioco la vita umana e l’ambiente che la custodisce, occorre ricorrere ad altri
meccanismi che non siano solo quelli del mercato. I beni comuni sono quei beni che costituiscono il
fondamento delle relazioni. Quasi sempre, dietro alla mancanza di acqua o di cibo o di
scolarizzazione o di sanità, si nasconde la mancanza di un assetto sociale (cfr.CIV 27). Infatti, sia la
logica del mercato che quella dello Stato finiscono per generare il monopolio dei rispettivi ambiti di
influenza, minando alla radice le condizioni di «solidarietà nelle relazioni tra i cittadini, la
partecipazione e l’adesione, l’agire gratuito» (cfr.CIV 39), che sono altra cosa dalla logica del dare
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per avere o dello scambio. Senza quote di gratuità e comunione non è possibile una relazione
autentica tra gli uomini. Esistono beni che realizzano la fraternità e la comunione tra gli uomini,
riproducono il progetto di Dio sull’umanità e per questo possono rispondere solo a logiche di
gratuità. Senza persone aperte al dono reciproco sia il mercato che la politica ne risultano
impoverite.
Papa Francesco nella Evangelii gaudium (EG) ricorda non solo la necessità di garantire a tutti
l’accesso al cibo, ma anche di assicurare «prosperità nei suoi molteplici aspetti. Questo implica
educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente lavoro» (n. 192).
Le amministrazioni che usciranno dalla prossima tornata elettorale saranno chiamate ad esercitare la
loro responsabilità gestionale dei beni comuni nel contesto della crisi economica attuale, che ha
messo in seria difficoltà molte famiglie del nostro territorio. L’attualità insegna che vanno rivisti
modelli gestionali di società «partecipate» che mentre speculano nella finanza tagliano utenze,
rivolgendosi in seconda battuta alla politica per l’assistenza a chi non ce la fa.
Il procedimento dovrebbe essere inverso.
Alle politiche sociali, infatti, tocca promuovere giustizia, non assistenzialismo.
Esse hanno il dovere di orientare le scelte al principio del bene comune e non a logiche di
efficienza aziendale.
I casi frequenti di famiglie che non riescono a pagare le utenze esigono scelte di diversificazione
delle tariffe, proporzionate alle possibilità economiche certificate di ogni famiglia in difficoltà.
Infine il dibattito intorno ai rifiuti, alla qualità dell’aria nella pianura padana, alla vocazione agricola
del territorio, richiede politiche coraggiose in favore di un impiego sostenibile delle risorse, in grado
di tutelare l’ambiente in cui viviamo dal degrado e da un progressivo depauperamento.
Il campanilismo amministrativo, che guarda solo al proprio giardino senza aprirsi al territorio più
grande, è miope in partenza e genera profonde ingiustizie anche nel campo della tutela dei beni
comuni.
Cremona, gennaio 2014
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1 Benedetto XVI, omelia al Convegno ecclesiale di Verona, 19 Ottobre2006
2 Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 164.
3 Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa,, n.167
4 Conferenza Episcopale Italiana, “Rigenerati per una speranza viva” (1 Pt 1,3): testimoni del grande “sì” di Dio all’uomo”, Nota
pastorale dell’Episcopato italiano, dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale, 29 giugno 2007, n. 18
5
Pontificio Consiglio della giustizia e della pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa,, n. 168.