BAIG IV, gennaio 2011 LETTURA COME PERFORMANCE Lorella BOSCO (Bari) Il performative turn verificatosi negli studi culturologici e letterari a partire dagli anni Novanta ha portato a evidenziare la differenza tra lettura come mera attività di decodifica di un testo letterario e lettura come performance, come evento, nel processo di fruizione della letteratura (non solo di quella originariamente destinata alla rappresentazione teatrale). Nel secondo caso viene fortemente sottolineata la materialità del testo letterario, non solo di quello poetico,1 che si esprime attraverso elementi come la voce, il ritmo, il movimento, il corpo, la messa in scena. Essi divengono da semplice medium condizioni costitutive del processo di generazione del senso. Il Metzler-Lexikon Literatur- und Kulturtheorie descrive perciò l’atto della lettura come: «eine bewusst-intentionale und primär innere, d. h. geistige Handlung eines Individuums, in der komplexe Prozesse der visuellen Aufnahme und Wahrnehmung vor allem von Sprache in der Form schriftlicher Zeichen und des geistigen Verstehens zur Bedeutungsgenerierung zusammenwirken».2 Appare evidente in questa definizione il tentativo di aprire a una nuova prospettiva culturologica la tradizionale concezione della lettura come atto di raggiungimento del senso attraverso un’operazione trascendente, spirituale (geistig) rispetto all’aspetto sensoriale (qui evocato attraverso la «visuelle Aufnahme und Wahrnehmung»). Un tentativo che, a giudicare dalla terminologia, non sempra pienamente riuscito. La ricorrenza di espressioni come «primär innere» «geistige Handlung» o «geistiges Verstehen» induce a più di una diffidenza, mentre ha il merito d’altro canto di mettere in luce la perplessità con cui la tradizione degli studi di letteratura ha guardato all’insorgere di nuovi paradigmi interpretativi dell’atto della lettura secondo i quali la complessità dei processi di generazione del senso non può essere risolta invocando il primato della comprensione spirituale o ricorrendo nel migliore dei casi, come qui, allo schema di interazione di «Schriftlichkeit» e «geistiges Verstehen». Persino il MetzlerLexikon Literatur und Kulturtheorie, un’opera per molti versi meritoria, finisce quindi per fornire una documento di questo attrito. Nel suo saggio Die Sprache der Dinge. Der lange Blick und die wilde Semiose,3 Aleida Assmann aveva evidenziato come la materialità della lingua sia, al contrario di quanto comunemente ritenuto, un elemento costitutivo dell’atto della lettura. Al modello tradizionale di lettura, fondato sulla proprietà del significato immateriale di trascendere la materialità del significante, sulla legge semiotica che sancisce la relazione inversa di presenza e assenza, sull’esaltazione di uno sguardo in grado di penetrare la materialità del testo, dominandola, la Assmann oppone il paradigma dello «starren» (gazing) altrimenti definito «wilde Semiose». Ma come si configura secondo la studiosa il percorso della tradizione ermeneutica rispetto al fenomeno della materialità del linguaggio? In un saggio del 1996, 4 la Assmann delinea una sorta di storia in tre tappe dell’ermeneutica letteraria. In una prima fase, all’insegna del motto «Deuten als Dolmetschen», la coscienza dell’estraneità intrinseca che l’esperienza del testo letterario reca con sè genera l’impulso a superare questa condizione attraverso un’attività interpretativa 1 Si ricorda a tale proposito il lavoro di Julia Kristeva (1979). In generale la materialità del linguaggio poetico è un concetto sostanzialmente acquisito dagli studi letterari. Il mio contributo si propone di allargare l’orizzonte d’analisi anche ad altre tipologie testuali e ad altri generi letterari a proposito dei quali più azzardato può sembrare il discorso di performatività della lettura. 2 Ansgar Nünning (Hg., 2008), 417. 3 In Hans Ulrich Gumbrecht / K. Ludwig Pfeiffer (Hg., 1988), 237-251. 4 Aleida Assmann (1996), 7-26. 15 BAIG IV, gennaio 2011 che ricalca le forme e le funzioni della traduzione, solo che in questo caso non si tratta più della ricodifica di un testo da una lingua ad un altra, bensì di un procedimento più complesso che involve i differenti codici culturali di testo e lettore. Siamo di fronte cioè a un’operazione che traduce da un livello di significati in un altro, permettendo ad esempio ai padri della chiesa di appropriarsi della tradizione scritturale ebraica per renderla conforme al messaggio evangelico. In questa prima fase, quindi, è l’interprete a fare da guida al lettore che viene perciò condotto per mano in quello che altrimenti sarebbe un minaccioso universo di segni, ma al prezzo della delegittimazione della sua capacità di intendere rettamente da solo, senza il ricorso ad una superiore auctoritas, i testi cui si accosta. Nella seconda fase, all’insegna della parola d’ordine del Verstehen, l’ermeneutica abbandona la ricerca di un senso metatemporale della lettura sotto la tutela della Chiesa per muoversi nell’orizzonte secolare della comprensione storica. Il senso del testo viene letto a partire dal testo stesso e poichè questo processo ha luogo nella storia esso è potenzialmente ineusaribile. L’esperienza estetica che nasce dalla recezione dell’opera d’arte produce una doppia e paradossale reazione: da un lato il silenzio, dall’altro l’inarrestabile flusso delle interpretazioni. La complessità inafferrabile del testo letterario diventa, secondo la metafora della Assmann, un colosso mai visibile per intero, ma riconoscibile dall’ombra che esso produce nella storia della sua recezione. L’interpretazione, soprattutto quella degli studiosi di professione, si eleva al rango di doppio paradossale dell’opera, originando un dispositivo di potere accademico che dà vita a sua volta a una doppia strategia dell’esclusione: esclusione dal canone degli autori non conformi agli ideali artistici vigenti e esclusione dei lettori non specialisti. Unverständlichkeit diventa in tal modo il contrassegno della letteratura della Moderne. Secondo la Assmann, l’epoca contemporanea (la terza fase) è marcata invece dal paradigma della Unlesbarkeit, da un’ermeneutica che non vuole più essere «armoneutica», assolvere cioè a una funzione supplementare rispetto al testo difficile e incomprensibile da ricondurre comunque attraverso la lettura a un orizzonte di senso caratterizzato da continuità e coerenza. La terza fase preferisce concentrarsi invece sul «blinder Fleck», 5 realizzando un’inversione delle strategie di lettura che avevano caratterizzato il periodo precedente. Persegue una lettura che si rifiuti di trovare un senso a ogni costo, un procedimento che può ben essere sussunto nella figura dell’allegoria, così come è stata teorizzata da De Man. Questa lettura restituisce i testi alla loro originaria estraneità (anch’essa da postulare però in termini non totalizzanti), spostando al contempo l’attenzione su quegli elementi che interferiscono con l’operazione di produzione del senso: la frammentarietà, la discontinuità, l’alogicità, la mancanza di nessi e relazioni. L’idea di un lettore ideale viene in tal modo seriamente posta in discussione. Al suo posto subentra una pluralità di voci e posizioni di lettori (e lettrici) che attraverso l’atto della lettura fanno esperienza di se stessi. «Lektüren sind mögliche Erfahrungsformen, auf die man sich einläßt oder auch nicht. Die Fundamentalisierung der Lektüre zerstört die Illusion einer objektiv gültigen, vorbildlichen, übertragbaren Interpretation».6 L’atto della lettura così inteso ha una forte valenza politica perchè assesta un duro colpo alla concezione egemonica di cultura, dando alle minoranze il loro spazio e la loro voce. La Assmann parla di un literalistic turn verificatosi alla fine del XX secolo e ancora in atto, di una «schrift-philosophische Wende» tesa al recupero della perduta consapevolezza della materialità del testo letterario come luogo in cui si sedimenta come scrittura l’ineludibile traccia della materialità dei segni. Punto di partenza della riflessione della Assmann è la definizione che Lacan fornisce della schizofrenia come dissoluzione, scissione della catena dei significanti. L’atomizzazione della percezione della realtà in un numero infinito di frammenti comporta l’emergere enfatico della pre-senza, intesa come vitalità dirompente della materialità del mondo fenomenico. I significanti sottratti al loro ordinamento in nomenclature tradizionali di senso possono dare vita a nuove, inattese relazioni. La «wilde Semiose» porta alla ribalta il concetto dello «Buchstäblich-Werden des Signifikanten», dunque il fenomeno della processualità, a discapito dei «Grundpfeiler der etablierten Zeichenordnung».7 Essa si adatta alla materialità dei segni, ripristinando così la presenza del mondo. Al contrario di quanto avviene nel processo del Lesen, che rappresenta un’operazione referenziale e gerarchica, un movimento teso alla 5 Ivi, 14. 6 Ivi, 19. 7 Aleida Assmann (1988), 239. 16 BAIG IV, gennaio 2011 comprensione in cui il significante materiale viene sussunto al significato immateriale, «die Sprache der Dinge» si rivela periò «kompaktes Zeichen, das sich nicht in Signifikant und Signifikat auflösen läßt», 8 restando perciò nell’atto della lettura atto eminentemente mediale, non traducibile, non comunicabile, inesauribile plurivocità, «denn neben dem schnellen, schlauen Blick durch die Oberfläche gibt es den langen faszinierten Blick, der sich von der Dichte der Oberfläche nicht abzulösen vermag. [...] Dem Drang zur verflüssigenden Spiritualisierung tritt die Materialisierung des Textes als ein Veto entgegen.»9 Al processo transitorio della lettura che mette in atto un veloce movimento dell’intelletto dalla lettera allo spirito, dal particolare al generale, dalla superficie alla profondità, lo Starren oppone invece un indugiare sull’oggetto dello sguardo in un gesto che arrestandosi genera stupore nel soggetto. Da ciò si evince che il fissare si riverbera sul soggetto, producendone una trasformazione nell’atto della contemplazione che lo schiude all’esperienza estetica, mentre la lettura in senso tradizionale è un atto transitivo fondato sulla centralità del soggetto, sulla sua facoltà di concentrazione che non si lascia distogliere dalla materialità dei segni. Il linguaggio delle cose e quindi l’emergere della materialità della lingua contiene secondo la Assmann un potenziale intrisecamente sovversivo nei confronti delle regole discorsive istituitesi durante la svolta epistemologica che progressivamente, tra Settecento e Ottocento, ha portato al passaggio da una concezione della natura come libro e geroglifico scritto in una lingua recondita e simbolica a una natura quantificabile, analizzabile, interamente a disposizione di un soggetto analitico che si pone in una posizione distante e superiore rispetto ad essa. A questa transizione che culmina nel trionfo del modello capitalistico di merce su quello di oggetto, la semiosi selvaggia in quanto lingua degli oggetti oppone la retorica della Plötzlichkeit,10 l’enfatizzazione dell’attimo imprevedible che scardina la continuità stabilita da modelli analitici e da meccanismi di organizzazione del reale miranti a perpetrarne la conservazione. In quanto «controlinguaggio» (Gegensprache), essa produce inoltre una rottura dello schema di comunicazione, presentandosi piuttosto come «Rhetorik der unmittelbaren Evidenz»,11 accentuazione della presenza, incomunicabile perchè evidente, intraducibile nella sua pienezza che epifanicamente si rivela nella fugacità e irrepetibilità dell’attimo. La lingua dello Starren si articola perciò in una retorica dell’estasi, in una percezione potenziata del sé e del mondo fenomenico nel momento nell’uscita dal sé per rivolgersi alla materialità delle cose. Il senso di ciò che costituisce l’oggetto della lettura non si dà come mera conseguenza di un processo di decodificazione dei segni. Rifacendomi alle più recenti teorizzazioni della cosiddetta «cultura della performatività» cercherò di dimostrare attraverso alcuni esempi le possibilità di applicazione che questi concetti possono avere negli studi germanistici. L’atto performativo si articola nella disposizione chiastica (ovvio il riferimento alla teoria del chiasma della visione elaborata dalla fenomenologia di Merleau-Ponty) di lingua e corpo (Sprachkörper / Körpersprache) che oltre ad accentuare la corporeità e la materialità del linguaggio implica anche un nesso strettissimo tra messainscena del corpo e figurazione. Già la retorica antica, giova ricordarlo, parlava di elocutio (la dottrina dei tropi e delle figure) e di actio propriamente detta che definiva l’arte dell’esposizione del pensiero mediante un corpo concepito come corpo che parla. Pur nel rispetto della specificità degli studi di letteratura, che rimane una insopprimibile conditio sine qua non, la categoria della performatività favorisce quindi un’apertura della disciplina filologico-letteraria alle categorie dei cultural studies in un’ottica che può solo in apparenza sembrare paradossale, considerata la tradizione occidentale incentrata sul dominio della testualità e sull’esercizio del’ermeneutica letteraria. Com’è noto, il concetto di «performatività» prende le mosse dalla distinzione tra enunciati constativi e performativi teorizzata da Austin nel suo How to do things with words (1955). Questa nozione viene successivamente declinata con accenti diversi da Bourdieu (la forza della lingua è conseguenza diretta del potere sociale di chi parla), da Derrida (performatività come frutto della relazione tra iterazione e differànce) e Judith Butler (in una prospettiva di gender studies). In un contributo pubblicato nel volume Materialität der 8 Ivi, 241. 9 Ivi, 240 sg. 10 La Assmann rimanda infatti a questo proposito, ovviamente, al volume di Karl Heinz Bohrer, Plötzlichkeit. Zum Augenblick des ästhetischen Scheins, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1981. 11 Aleida Assmann (1988), cit., 248. 17 BAIG IV, gennaio 2011 Kommunikation, Karl-Heinz Barck12 parlava dell’affermarsi di nuove forme di materialità della comunicazione basate sul riconoscimento di una «integrative Ästhetik des Lebendigen»13 che si è manifestata soprattutto in ambito teatrale. Il Tanztheater di Pina Bausch, le performances teatrali di Robert Wilson e Heiner Müller assurgono in quest’ottica a modelli di una prassi teatrale che sperimenta lo sconfinamento a molteplici livelli e tra numerose sfere e linguaggi: tra arte e vita, natura e tecnica, testo e messinscena. Performance diventa così non solo un concetto interculturale, ma anche storico-culturale. Sempre nel volume di Gumbrecht e Pfeiffer dedicato all’analisi della materialità della comunicazione, Zumthor che, giova ricordarlo, era uno studioso di letterature romanze medievali, parte da una riflessione sui concetti di recezione e performance di un’espressione poetica per giungere poi a formulare una distinzione tra testo, produzione linguistica contrassegnata dalla compiutezza a livello semantico, e opera, che indica invece «das hier und jetzt poetisch Mitgeteilte»,14 includendo quindi non solo il testo, ma anche i suoni, il ritmo, gli elementi ottici e perciò l’insieme degli aspetti performativi, promuovendo quindi un tipo di recezione che agisce su un livello sensoriale plurimo. Mentre il testo è solo leggibile, l’opera può essere invece al contempo udibile e visibile. Ma anche la lettura di un testo, un atto in cui il messaggio deve essere essenzialmente visto, può contenere elementi performativi, non solo quando essa sia tenuta in forma di recitazione rivolta a un pubblico. Qui Zumthor ricorda che fino al XV-XVI secolo anche in Europa era invalsa una pratica di lettura individuale non silenziosa, fatto questo che implicava il movimento dei muscoli del viso nell’atto dell’emissione della voce. Certo, lo studioso precisa che la performance è caratteristica essenzialmente dell’opera e cioè della letteratura che può essere vista e udita, manifestandosi in misura più attenuata nella recitazione di un testo e in misura pressocchè vicina allo zero nella lettura silenziosa. Il merito di Zumthor rimane però quello di aver rivolto l’attenzione sugli elementi da lui chiamati «sociocorporei» , in cui si localizzano tracce di un sapere selvaggio legato alla materialità del corpo e della voce. Egli steso ammette che la differenza da lui teorizzata tra oralità e testualità non è valida in maniera assoluta.15 In questo contesto mi sembra di particolare interesse la teoria della performatività formulata da Erika Fischer-Lichte, professore di Theaterwissenschaft alla Freie Universität di Berlino, che la àncora alla istituzione di una nuova estetica, un’estetica del superamento dei tradizionali paradigmi semiotici ed ermeneutici. L’opera d’arte non è più concepita come artefatto, prodotto compiuto di un atto artistico, la stessa netta differenziazione tra soggetto e oggetto, osservatore e cosa osservata, fruitore e oggetto della fruizione, autore e lettore viene seriamente messa in discussione. Fondamentale in questo modello è il riconoscimento del carattere processuale, di messinscena dell’opera d’arte e quindi, nel nostro caso, del testo. Testualità e performatività non sono però pensati in termini di opposizione, bensì di relazione dinamica. La materialità del testo viene per così dire esposta, messa in scena: si pensi ad esempio alla pratica di consapevole Selbststilisierung da parte di un autore o ai processi performativi di mediazione della letteratura. Una lettura performativa evidenzierà da un lato l’esibita materialità del testo che viene così consapevolmente inscenata; dall’altro questa attenzione agli aspetti materiali risulterà accresciuta dalla lettura orale attraverso un processo di trasformazione del Lesen in Vorlesen, atto implicito in qualsiasi lettura.16 Si pensi in questo contesto alla lettura fatta da Edith Clever della Marquise von O*** di Kleist nel 1989 (e dodici anni prima la stessa attrice aveva interpretato il personaggio kleistiano nella «lettura» cinematografica data del racconto dal regista francese Rohmer). La differenza tra ascolto e pratica di lettura individuale e silenziosa di un testo letterario produce la realizzazione enfatica di letteratura come messainscena, come evento, potenziandone la fruizione grazie all’attivazione di altri organi sensoriali come ad esempio l’udito o la voce che è anche ritmo, potenza, volume. Le mutate modalità di percezione producono e rendono vieppiù evidente quel processo di trasformazione che è da sempre una delle caratteristiche dell’esperienza estetica e che coinvolge quindi testo e fruitore. Si genera un 12 Karlheinz Barck (1988), 121-138. 13 Ivi, p. 133. 14 Paul Zumthor (1988), 705. 15 Cfr. ivi, 707. 16 Cfr. Erika Fischer-Lichte (2004). 18 BAIG IV, gennaio 2011 movimento di interazione tra testo e recettore che il Vortragen rende assolutamente esplicito, ma che è nondimeno parte integrante della letterarietà di un testo. Nel caso della Marquise ci troviamo di fronte a un testo intrinsecamente performativo,17 che sembra prestarsi di per sè alla trasposizione in un altro medio, sia esso il teatro o il cinema, una caratteristica che gli viene riconosciuta da Rohmer a più riprese, quando ne osserva la struttura al contempo teatrale e cinematografica. A proposito del suo film ispirato alla novella kleistiana, il regista francese sottolinea la docilità della materia nei confronti della trasposizione cinematografica.18 Il testo ha già di per sè l’aspetto di un «Drehbuch»: i dialoghi sono tutti in forma di discorso diretto o indiretto, quindi perfetti per la trasposizione cinematografica; non vi è alcuna introspezione , «alles ist von außen her beschrieben und mit der gleichen Ungerührtheit betrachtet wie durch das Objektiv einer Kamera»19; l’autore descrive per questo motivo con estrema precisione, quasi si trattasse delle didascalie di un copione o di un’opera teatrale, la mimica e i movimenti delle sue figure in qualsiasi momento, favorendo in modo decisivo il lavoro del regista. Secondo l’interessante osservazione di Rohmer, è proprio il complesso del linguaggio non verbale a costituire la vera ossatura dell’opera. Esso non può per questo motivo essere impunemente toccato senza compromettere la verosimiglianza di una storia ambientata in un’epoca il cui l’erompere degli Affekte e la loro espressione sono inscindibilmente connessi alla rigidità delle convenzioni sociali. Lo stile della narrazione kleistiana rappresenta per Rohmer un modello per la sua prassi cinematografica: Ich möchte gerne so filmen, wie Kleist erzählt. Das ist meine Absicht. [...] Ich möchte die Objektivität von Kleists Stil bewahren. [...] Kleist erzählt wie ein Erzähler, der den Rücken zum Publikum dreht. Deshalb ist die Kamera ziemlich weit von den Schauspielern entfernt. Es gibt keine Nahaufnahme. Die Person sieht man, wie in den Gemälden der Epoche, nicht von nahem.20 Il fenomeno dell’intrinseca teatralità (o medialità) della letteratura è stato oggetto dell’analisi di molti studi usciti nel corso dell’ultimo decennio,21 che si rivolgono all’analisi di questo aspetto come componente fondamentale della produzione di significato nel linguaggio. Tale processo si configura come una messa in scena in cui sono discusse e riflesse le categorie letterarie tradizionali, non da ultimo quella di mimesi, della rappresentazione che imita o ri-produce la realtà, una nozione divenuta problematica a partire dalla Genieästhetik del Settecento. L’attenzione alla dimensione performativa della letteratura ha portato in tempi recenti a una rinnovata ‘lettura’ del passo 1448b della Poetica aristotelica che, com’è noto, definisce il concetto di mimesi. Per Aristotele essa è fondamentalmente una facoltà connaturata all’essere umano che gli consente per mezzo del suo corpo e della sua voce di imitare ciò che gli è estraneo, appropriandosene. Avvalersi di una sua peculiare caratteristica equivale dunque per l’essere umano in questo caso a uscire da sè stesso, a essere diverso da sè. Il riconoscimento della differenza appare perciò come momento costitutivo del sè e della relazione con l’altro. La mimesi non si pone quindi come restituzione della presenza o raddoppiamento dell’esistente, quanto piuttosto come una raffigurazione del reale in cui è insito già il momento della differenza, ciò che è possibile secondo le regole della verosimiglianza o della necessità.22 Recenti riletture del passo aristotelico hanno appunto messo in evidenza il potenziale ‘teatrale» che la definizione di mimesi viene così ad assumere, in un superamento dialettico della tradizionale contrapposizione tra imitazione e creazione, testo e performance, rappresentazione e presenza. Il momento della percezione della differenza tra la 17 Sull performatività dell’opera kleistiana vedi i contributi del convegno «Kleists Choreographien» (2006), pubblicati su «Kleist-Jahrbuch» 2007. 18 «Für mich enthält Kleists Werk schon im voraus den Film. Und man könnte sagen, den Film als Sprachfilm und auch als Stummfilm», in «Interview mit Eric Rohmer», in Heinrich von Kleist (1979), 119. 19 Eric Rohmer, «Anmerkungen zur Inzenierung», ivi, 112. 20 Ivi, 118. 21 Penso a questo proposito tra gli altri a Gerhard Neumann / Caroline Pross / Gerald Wildgruber (Hg., 2000) o a Ethel Matala de Mazza / Clemens Pornschlegel (Hg., 2003); o ancora al saggio di Gerhard Neumann (2004), 139-197. 22 Cfr. il saggio di Arbogast Schmitt (1998), 17-53. 19 BAIG IV, gennaio 2011 rappresentazione e il suo oggetto viene a costituire nella riflessione contemporanea la conditio sine qua non della produzione di segni e, quindi, di fizioni. E’ in particolare il teatro a rendere palese, a esporre, la natura mediata (attraverso i segni) della rappresentazione che comunque è un tratto distintivo della fizione. La scena su cui si svolge la performance teatrale conduce davanti agli occhi dello spettatore l’assenza dell’oggetto reale alla base della costituzione dell’universo simbolico dei segni e quindi della rappresentazione. La teatralità non può perciò essere relegata all’ambito del teatro e dell’azione puramente scenica, sondern sie ist überall dort wirksam, wo Zeichen in ihrer Abständigkeit von der Wirklichkeit als Zeichen ausgestellt werden und ihr eigenes Zeichen-Sein exponieren: im Theater, dem auf der Bühne gezeigten, symbolisch vermittelten Geschehen; aber ebenso in der Literatur, die sich als szenisch dargebotene Rede begreifen läßt.23 Gerhard Neumann descrive con grande efficacia e con la consueta pregnanza la «teatralità» come «inneres Dispositiv anderer gründender Verhaltensweisen in der Kultur», come «dynamisches Muster von anthropologischer Qualität», «performativer Gestus»,24 che agisce come consuetudine implicita del pensiero, del linguaggio, della scrittura e persino della fantasia, come schema della percezione, della rappresentazione e della conoscenza. La scoperta della dimensione performativa dei processi culturali rappresenta anche per la filologia (e quindi per la germanistica) una sfida ad ampliare la propria sfera di competenza in una prospettiva culturologica e antropologica che consenta di cogliere la profonda interconnessione tra teatralità come «generatives Element von Bedeutungsproduktion» da un lato e la testualità e la linguisticità della letteratura dall’altro. Essa offre una prospettiva di scambio e di arricchimento che non segna la resa delle discipline letterarie davanti a procedimenti ad esse originariamente estranei o la conferma della loro subalternità nel nuovo paradigma epistemologico, al contrario: Neumann rinvia giustamente a questo proposito al metodo della «dicke Beschreibung» di Geertz che è chiaramente mutuato dal close reading da sempre praticato dalle filologie, a riprova della permanente importanza dell’ermeneutica letteraria.25 La riflessione di Neumann prende le mosse da Roland Barthes che, com’è noto, nel suo libro Sade, Fourier, Loyola, aveva puntato la sua attenzione sulla dimensione teatrale comune al gesto autobiografico dei tre autori esaminati. Per Neumann, la categoria della teatralità, nella sua doppia accezione di messa in scena e performance, costituisce più in generale la cifra di tutta la riflessione semiologica del critico francese. 26 Successivamente, accogliendo il suggerimento del suo intervistatore Jean Ristat, Barthes aveva ulteriormente definito l’aspetto della teatralità di un testo letterario come «scenografia», arricchendo in tal modo di nuove suggestioni una nozione fondamentale della prassi teatrale. «Il y a une autre théâtralité qui se rattache à l’idée de mise en scène, au sens presque étymologique de l’expression […] une théâtralité fondée sur des mécanismes de combinatoires mobiles, conçus de telle sorte qu’elle déplace complètement, à tout instant, le rapport entre celui qui lit et celui qui écoute».27 «Scenografia» lega inscindibilmente il gesto della scrittura (grafía, grafein) a quello della messinscena; la centralità che le viene così attribuita nella prassi teatrale attenua al contempo il ruolo dominante attribuito agli attori nella tradizione teatrale a partire da Settecento. La categoria della teatralità ha per Neumann inoltre il merito di superare l’opposizione tra una cultura letteraria incentrata sui testi e i documenti scritti e una cultura teatrale basata sul corpo in movimento degli attori. Il linguaggio ha di per sè carattere di messa in scena, di evento scenico. 28 Il testo si configura perciò come «‘Bühne’ 23 Ethel Matala de Mazza / Clemens Pornschlegel (Hg., 2003), 14. 24 Gerhard Neumann (2000a), 12. 25 Id. (2004), 139 sg. 26 Cfr. Id. (2000b), p. 66. Neumann evidenzia fra l’altro l’importanza che la scoperta del teatro brechtiano ha rivestito per Barthes nell’elaborazione di una teoria della teatralità della prassi semiologica. 27 Roland Barthes (1994), 1485. 28 Vedi a questo proposito anche il saggio di Gerald Wildgruber (2000), 35-63. 20 BAIG IV, gennaio 2011 sprachlicher Performanz»,29 come luogo (immanente) privilegiato in cui vengono proiettati e articolati i modelli di produzione di senso di una cultura e di una società. Il riconoscimento di questo elemento centrale della produzione letteraria permette di tracciare una linea di evoluzione che partendo dalla fine del XVIII secolo si articola fino alla nostra realtà postmoderna o post-postmoderna.30 Si pensi ad esempio al racconto di Kafka Wunsch, Indianer zu werden. Esso inscena una caratteristica fondamentale della prosa kafkiana, il processo senza fine della scrittura, quella scrittura che anche nel suo aspetto più vilmente materiale (muco, secrezione) pervade di sè tutto l’universo narrativo dello scrittore praghese: Wenn man doch ein Indianer wäre, gleich bereit, und auf dem rennenden Pferde, schief in der Luft, immer wieder kurz erzitterte über dem zitternden Boden, bis man die Sporen ließ, denn es gab keine Sporen, bis man die Zügel wegwarf, denn es gab keine Zügel, und kaum das Land vor sich als glatt gemähte Heide sah, schon ohne Pferdehals und Pferdekopf.31 Messo in moto il galoppo della scrittura, culminato autoreferenzialmente nella fusione cavallo/cavaliere, il movimento si libera, attraverso una serie di negazioni, di tutti gli elementi che compongono l'immagine, degli sproni, delle briglie e persino del mezzo che consente la corsa, il cavallo, qui evocato pars pro toto attraverso il collo e la testa. Non rimane che la brughiera falciata, il vuoto dei significati, l'impossibilità di stabilire una referenza univoca. La lettura segue perciò il ritmo di questo movimento sempre più veloce della scrittura che rifugge dall’essere fissata nell’univocità del senso ed evoca quindi infinite possibilità interpretative.32 Ma, come si è detto, la teatralità è conseguenza intrinseca dell’atto del Lesen, non solo del Vor-lesen che si limita ad accentuare questo aspetto. La relazione chiastica tra Körpersprache e Sprachkörper è ben esemplificata anche da un episodio tratto da un’opera contemporanea, Opium für Ovid (2000) di Yoko Tawada,33 un testo che elegge a suo principio compositivo proprio la metamorfosi e l’esibita materialità del linguaggio accentuata dal riferimento al modello canonico. In uno dei ventidue episodi ispirati a eroine ovidiane che compongono il libro, la danzatrice Thetis ha al mattino gli occhi gonfi per aver passato tutta la notte a leggere le Metamorfosi, «dalla prima all’ultima pagina». Una lettura che non resterà senza conseguenze: Jedes Buch eine Mausefalle. Eine Maus, eine leidenschaftliche Leserin. Am Abend entdeckte Thetis ein dickes Buch auf ihrem Schreibtisch. Wer hatte es dort hingelegt? Es war aufgeschlagen, sie sah dichte Schriftzüge auf vergilbtem Papier. Thetis beugte sich über das geöffnete Buch und legte ihre Finger darauf. In dem Moment klappte die Falle zu. Thetis schrie vor Schmerzen, versuchte ihre Finger herauszuziehen, aber das Buch war schon verwachsen. Sie konnte nicht mehr verheimlichen, daß sie las.34 I lacci di Peleo che secondo il mito avvinsero Teti sono sostituiti nell’opera della Tawada dalla lettura del poema ovidiano a cui ella si salda con il suo corpo. Nella lettura delle Metamorfosi di Ovidio, l’opera che elegge a suo principio compositivo e tematico la trasformazione dell’identità, possono incontrarsi l’intriseca performatività dell’arte della danza con il suo fragile equilibrio di linee e spazi e l’artefatto costituito da un classico della letteratura occidentale. La nozione di metamorfosi consente di superare la concezione marmorea e monumentale di classico aprendola alla performatività, mentre d’altro canto la 29 Gerhard Neumann (2000a), 15. 30 Cfr. in proposito il volume di Stephan Jaeger / Stefan Willer (Hg., 2000) (l’introduzione dei due autori fornisce un utile orientamento alla complessità delle questioni qui discusse). 31 Franz Kafka (1994), 32 sg. 32 Vedi in proposito Detlef Kremer (1989), 58 sgg. 33 Yoko Tawada (2001), 122. 34 Ibidem. Traduzione mia. 21 BAIG IV, gennaio 2011 danza, «corpo munito di scrittura»35 si apre al concetto di tradizione e durata, realizzando una nuova, inconsueta metamorfosi: il corpo della danzatrice, in grado di costruire «una fragile, invisibile serie di spazi»,36 che si fonde con il libro, dando così origine a una testualità plurivoca e dalle molteplici manifestazioni. Il riferimento alla danza mi permette di introdurre una della più suggestive declinazioni che della nozione di lettura sono state fornite negli ultimi anni. Nel suo volume del 1995, divenuto nel frattempo fondamentale per lo studio delle avanguardie storiche, Tanz-Lektüren. Körperbilder und Raumfiguren der Avantgarde, la germanista e studiosa di teatro Gabriele Brandstetter (cui, sia detto per inciso, si deve l’istituzione della cattedra di Tanzwissenschaft presso la Freie Universität di Berlino) istituisce una relazione dinamica tra corpo e atto della lettura: questa relazione dinamica scaturisce da un lato dal «Lesen von Körpern als Körperbilder und ihre Raumkonfigurationen» e dalla «körperliche, im Tanz selbst inszenierte Form der Lektüre bestimmter kultureller und künstlerischer Phänomene in Bild und Text»,37 dall’altro. Punto di partenza dell’analisi della Brandstetter è la crisi della percezione e della sua rappresentazione simbolica che interessa la letteratura e le arti nel fin de siècle, ispirando molteplici strategie estetiche che ne consentano la soluzione. In questo senso si può senz’altro affermare che la «nuova danza» nasca come forma di critica epistemologica e linguistica a un modello di rappresentazione e percezione razionale del mondo impostosi nella cultura occidentale a partire dal XVII sceolo.38 A differenza del Mallarmé dei Ballets che definiva la danza écriture corporelle, al centro del libro della Brandstetter sta invece la lecture corporelle che si esercita sui movimenti coreografici, diventando una metafora dell’atto della lettura tout court: come nel processo di astrazione dei passi di danza in segni del movimento, i segni del testo devono rimandare autoreferenzialmente a se stessi, privi di intenti puramente mimetici. L’analisi dei movimento coreografici del corpo danzante si confronta con la ‘lettura’ di un medium non discorsivo che può legittimamente affiancare la tradizionale operazione di lettura d un testo scritto. Rispetto ai modelli teorici di lettura più autorevoli e diffusi (Blumenberg, Derrida, De Man), la lecture corporelle proposta dalla Brandstetter non diviene mai supplementare rispetto all’analisi di testi letterari. Così, se per un verso la sua indagine contempla, in senso comparatistico, l’analisi delle modalità di rappresentazione del movimento nella letteratura, dall’altro la sua lettura si rivolge al processo di interpretazione di segni e sistemi non verbali e non scritti così come essi si sono sedimentati nella messa in scena di uno spettacolo di danza in tutto il complesso intreccio che così si viene a istituire tra l’atto di lettura compiuto dall’autore, dal regista, dagli interpreti e dagli spettatori. Tanz-Lektüre significa perciò «Vermittlungsebene der Konstruktion» e «Entzifferung von spezifischen Körperbildern»,39 laddove il Körperbild funge da costrutto simbolico che media tra l’evento scenico e il testo. Attraverso le immagini del corpo e le figure spaziali è possibile individuare i modelli iconici (Bildmuster), sorti all’incrocio di più discorsi (teatrali, letterari etc.), tra rappresentazione e discorso, che costituiscono per così dire l’intelaiatura di fondo, la Tiefenstruktur della danza del fin de siécle. Questa prospettiva di ricerca permette inoltre di gettare nuova luce su una tematica centrale nella formazione della Moderne: la costruzione e la decostruzione dell’idea di soggetto che procede di pari passi con il cambiamento della nozione di natura.40 Con le sue Pathosformeln, dinamogrammi e archivi delle origini cultuali e simboliche di una cultura, Warburg ha fornito una chiave di grande importanza per lo studio dell’antropologia e della storia psichica dell’umanità e in ultima analisi alla comprensione dei Körperbilder del fin de siècle. Essi assurgono a figure simboliche in cui le Pathosformeln tornano a rivivere nella lettura che, nella doppia accezione di costruzione e decostruzione del sè, il soggetto moderno dà di se stesso. Nella danza i Körperbilder diventano poi figure spaziali, trascritte in forma astratta nello spazio: si compie così la loro metamorfosi da Pathosformeln a Toposformeln,41 formule di una topologia 35 Ivi, p. 115. Traduzione mia. 36 Ivi, p. 119. Traduzione mia. 37 Gabriele Brandstetter (1995), 21. 38 Cfr. in proposito anche Inge Baxmann (1988), 360-373. 39 Gabriele Brandstetter (1995), 25. 40 Ivi, 27. 41 Cfr. ivi, 30. 22 BAIG IV, gennaio 2011 della danza, in cui attraverso i movimenti coreografici si esprimono le modalità di percezione simbolica della relazione fra il soggetto e lo spazio che lo circonda (Umraum). Esse documentano l’insorgere di un nuovo modello di soggettività, eminentemente plurale, che tende a scomparire nella struttura spaziale, nell’astrazione, nella frantumazione, nel montaggio. «Nicht das Werk, sondern der Prozeß der Metamorphose im poetischen Spiel der Gestaltfindung und Gestaltlöschung rückt in das Zentrum ästhetischer Produktion und Reflexion».42 Per il fin de siécle e le avanguardie la danza costituisce la realizzazione della poesia pura: l’autore scompare dietro le spirali o nel labirinto del movimento e nella transitorietà della coreografia si compie l’esperienza estetica e il processo di metamorfosi. Allo stesso modo, le danzatrici del freier Tanz (Loïe Fuller, Isadora Duncan, Ruth St. Denis) abbattono i confini tra interprete e autore, tra il ruolo interpretato e chi lo interpreta. La lecture corporelle funge quindi nella sua processualità da modello per una lettura che presti attenzione agli aspetti materiali del testo letterario, al movimento della scrittura che «steht nicht still und stellt nicht still», liberando l’energia dinamica dell’opera per evitare che essa sia fissata per sempre in una marmorea fissità. Essa si nutre della tensione e dell’aporia fra la fugacità irripetibile dei passi di danza e l’intrinseca storicità e temporalità della rappresentazione che trascende il movimento nell’immagine e nel testo letterario. Bibliografia Assmann, Aleida (1988), Die Sprache der Dinge. Der lange Blick und die wilde Semiose, in Gumbrecht, Hans Ulrich / Pfeiffer, K. Ludwig (Hg.), Materialität der Kommunikation, Frankfurt a. M., 237251. _______ (1996), Einleitung: Metamorphosen der Hermeneutik, in Ead. (Hg), Texte und Lektüren. Perspektiven in der Literaturwissenschaft, Frankfurt a. M., 7-26. 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