Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 1 Il ruolo delle reti sociali e la formazione di relazioni multiculturali nell’insediamento di Dr Maja Korac School of Social Sciences, Media, and Cultural Studies University of East London Migranti (forzati) nelle società riceventi: Il ruolo delle reti sociali In questo paper esamino i diversi tipi di relazioni e di legami sociali stabiliti all’interno delle società riceventi dai nuovi arrivati che formano le cosiddette minoranze etniche. Più specificatamente, considero quei migranti forzati che portano l’etichetta di “rifugiato” o di “richiedente asilo”. Queste etichette riferite alla procedura legale volta a garantire o a negare certi aspetti dei diritti di cittadinanza rappresentano anche dei marcatori di differenze spesso associate a forti meccanismi sociali di esclusione. Negoziare l’ingresso nella nuova società, in un’area urbana non familiare e nelle sue strutture, costituisce una parte integrante delle esperienze di immigrati e rifugiati. Implica uno sforzo per superare o aggirare la mancanza di diritti e di accesso, così come una serie di sintonizzazioni funzionali, cognitive e fondate su valori. Porta anche a dei cambiamenti per quanto riguarda competenze, conoscenze, atteggiamenti, visioni del mondo, così come nelle identità. Il processo di negoziazione dell’ingresso riguarda il diritto a stabilire una “casa” nella società ricevente, mentre la serie di cambiamenti e aggiustamenti appena menzionati riguarda il processo per crearsi una “casa” e per diventare “del posto”. Con “casa” in questo contesto si fa riferimento a un insieme complesso di relazioni che rendono l’azione possibile e significativa attraverso una comprensione e interpretazioni condivise dell’azione, così come descritto da Xenos (1996: 243). Di conseguenza, la negoziazione dell’ingresso, così come il processo di diventare “del posto”, sono modellati da diverse forme di contatto e di integrazione sociale stabilite dai rifugiati. Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 2 Attraverso diverse forme di interazione sociale, i soggetti si danno da fare per soddisfare i propri bisogni e tentano di creare una vita e un posto significativi per loro stessi all’interno delle società di accoglienza. I contatti che stabiliscono possono essere reti co-etniche istituite all’interno di gruppi che provengono dallo stesso paese, multi-etniche create attraverso contatti inter-etnici tra compatrioti o tra persone provenienti da paesi diversi, e reti minoranza-maggioranza sviluppate tra membri di gruppi di minoranza o etnici e gruppi di maggioranza. Gli ultimi gruppi, quelli di maggioranza, fanno riferimento a quelli che solitamente sostituiscono anche la società dominante, e più generalmente ai gruppi non considerati come “etnici”. Molte relazioni di questo tipo prendono avvio e si consolidano attraverso strutture istituzionali di particolari contesti urbani (per esempio organizzazioni ecclesiastiche, gruppi di comunità, organizzazioni non governative, comuni). Possono anche essere istituite, e questo rappresenta qui il mio focus principale, attraverso dei micro-legami di sociabilità semi-invisibili, connessi a contatti informali tra diversi gruppi di persone presenti in aree urbane all’interno delle quali “vivono insieme d’amore e d’accordo” e nelle quali sviluppano, in alcuni contesti e circostanze, una positiva rete di supporto. Già nel 1961, Jane Jacobs segnalava l’importanza delle reti sociali sviluppate attraverso dei contatti apparentemente “non intenzionali” e “casuali” tra vicini all’interno delle città, attraverso le quali si formavano reti sociali e relazioni di fiducia. Alcune di queste reti informali di supporto sono inserite in reti sociali che possiamo definire – mantenendo il termine inglese (n.d.t.) - bonding, ovvero stabilite tra co-etnici e pertanto all’interno dei confini (etnici) del gruppo. L’importanza per il processo di adattamento dei nuovi arrivati di reti sociali tra coetnici è stata riscontrata già da lungo tempo (si veda per es. Gurak e Caces, 1992). D’altra parte, una rete positiva di supporto che può e spesso viene creata attraverso reti sociali che possono essere chiamate bridging, “di ponte”, è stata meno spesso riconosciuta come una risorsa cruciale per il ristabilimento delle vite dei rifugiati e degli altri migranti. Mancano in modo particolare le ricerche sui ruoli delle connessioni tra gruppi di minoranza (etnici) e gruppi di maggioranza. Qualora prese in considerazione, le reti sociali che fanno da ponte tra minoranza e maggioranza vengono più frequentemente considerate in quanto effetto collaterale della cosiddetta integrazione positiva tra individui che, come argomentato da Castles (2000:199), “normalmente si raggruppano insieme e sviluppano le loro proprie infrastrutture”, ma Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 3 talvolta “gli immigrati di successo” stabiliscono legami con “i quadri sociali” dominanti. Desidero mettere in discussione la nozione secondo cui sarebbe naturale per i nuovi arrivati raggrupparsi insieme. Questa nozione implica che i confini etnici e culturali siano fissi, definiti da norme e valori, e da un senso di appartenenza alla comunità, condivisi e immodificabili, oltre che definiti al singolare. La stessa nozione suggerisce anche che gli stessi nuovi arrivati abbiano come primo e principale scopo quello di “inserirsi” (nest) all’interno di un ambiente co-etnico. Questa naturalizzazione dei raggruppamenti co-etnici all’interno delle società riceventi rende difficile riconoscere che il processo di inserimento è una pratica sfaccettata, caratterizzata da una relazione dialettica tra diversi tipi di legami e connessioni sociali che influenzano gli obbiettivi e gli atteggiamenti dei singoli migranti. Il modo in cui si sviluppa questa relazione è sempre contestuale, plasmato da situazioni storiche, economiche, socio-politiche e culturali e dalle caratteristiche sia del luogo di origine che di quello di destinazione. Ugualmente, dipenderà anche dalle circostanze della migrazione dell’individuo o del gruppo, che tende a plasmare i loro scopi e i loro atteggiamenti. Proverò ora a sviluppare empiricamente alcuni di questi punti, facendo riferimento a uno studio etnografico che ho condotto alcuni anni fa a Roma e ad Amsterdam. Nell’ambito di questa ricerca ho esaminato la situazione dei rifugiati provenienti dagli stati nati in seguito allo smembramento dell’ex Jugoslavia (Bosnia, Croazia, Montenegro e Serbia) dopo un periodo di massimo dieci anni di vita in queste due città in cui hanno cercato di ristabilire le loro vite. Qual era il contesto in cui si sono formati i legami bonding e bridging stabiliti dai rifugiati a Roma e ad Amsterdam e come e perché sono stati creati? Le persone incontrate nel mio caso studio a Roma erano relativamente giovani e con un livello di istruzione elevato, provenienti da contesti urbani o semi-urbani. Erano stati ammessi per motivi umanitari e avevano un permesso temporaneo di soggiorno, lavoro e/o studio in Italia grazie un decreto del governo, emesso senza alcuna procedura prolungata. Al momento della mia ricerca, dopo massimo dieci anni dal loro arrivo, la maggioranza aveva ancora questo status umanitario temporaneo, Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 4 rinnovabile su base annuale. Solamente i pochissimi sposati con Italiani avevano la cittadinanza italiana. Al loro arrivo in Italia non avevano ricevuto praticamente alcuna assistenza e di conseguenza i loro primi anni in città sono stati caratterizzati da una lotta per la sopravvivenza fisica, che andava dal trovare un luogo in cui dormire, all’apprendimento della lingua, alla ricerca di un lavoro. La mancanza di assistenza li ha spinti a fare affidamento sulle proprie risorse per soddisfare i bisogni più urgenti. Immediatamente dopo il loro arrivo, si sono impegnati in un’intensa attività di rete con e tra gruppi di concittadini. Attraverso questi legami hanno costituito un sistema alternativo di auto-accoglienza che faceva fronte ai loro bisogni primari. Queste reti spontanee comportavano contatti all’interno e attraverso le linee etniche (in questo caso “multi-etnico” fa innanzitutto riferimento a concittadini, ovvero persone provenienti dall’ex Jugoslavia), dal momento che questo tipo di legami e di comunicazioni si rivelava cruciale per la loro sopravvivenza fisica a Roma. Essendo per lo più persone singole o conviventi, senza figli o reti familiari nella città o in Italia, questi contatti erano basati su legami deboli piuttosto che su legami familiari, di parentela o di stretta amicizia, ed erano funzionali a una rapida mobilitazione delle risorse. Anche se le fasi iniziali delle loro vite a Roma si sono caratterizzate per l’appartenenza a reti co-etniche e multi-etniche, il processo intensivo, informale e per lo più spontaneo di costruzione di reti tra le persone che ho incontrato e Italiani/residenti a Roma è emerso poco dopo il loro arrivo. Sono state le donne, quasi esclusivamente impiegate come collaboratrici domestiche e baby-sitter, ad attivare questo tipo di legami, che non erano mediati da fornitori professionali o volontari di servizi. I loro contatti con le famiglie italiane, con i datori di lavoro e con le reti di amici sono stati centrali per facilitare gli ulteriori aggiustamenti funzionali di queste donne, attraverso corsi di lingua, il riconoscimento dei titoli di studio, l’acquisizione di nuove competenze e conoscenze. Gli uomini che appartenevano alle reti deboli di concittadini a Roma beneficiavano a loro volta dei contatti e delle reti che le donne intrecciavano con gli Italiani, attraverso i quali in molti hanno trovato il loro primo lavoro, una sistemazione ecc. A questo proposito, erano i legami bridging (“ponte”) di questo tipo che li aiutavano a cavarsela. Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 5 I contatti spontanei, informali con gli Italiani, residenti a Roma, non venivano esclusivamente stabiliti attraverso le donne che lavoravano per le famiglie italiane. Cominciavano anche spesso in situazioni sociali e contesti urbani diversi, che andavano dal circondario in cui vivevano, dai mercati locali, dai negozi e dai bar, fino ai luoghi di lavoro, di istruzione e ad altre istituzioni incontrate nel momento in cui queste persone cercavano informazioni vitali o un aiuto di qualche tipo. Alcuni di questi legami, inizialmente contrassegnati da un aiuto materiale in cui mancavano reciprocità e uguaglianza, si sono gradualmente evoluti in legami sociali più stretti, di tipo emotivo. Molti di questi contatti sono stati descritti come buone amicizie, con uscite regolari, vacanze insieme e anche matrimoni. Il modo in cui si sono sviluppati questi legami e queste relazioni bridging va a rafforzare l’idea che la fiducia e il sostegno non costituiscono relazioni fisse (Wellman, 1981). Al momento della mia ricerca, dopo circa sette o otto anni di permanenza a Roma, più di metà del gruppo aveva più contatti con Italiani che con persone provenienti dal proprio luogo di origine. Questa comunicazione veniva per lo più vista come parte di un tentativo di conoscere e capire la cultura, piuttosto che come uno sforzo di assimilarsi o di perdere le peculiarità della loro identità e della loro cultura. Molti di questi contatti venivano spesso descritti come caratterizzati sia da confronto che da fraintendimenti. Ciononostante, questi legami bridging promuovevano l’apertura delle persone nei confronti degli Italiani, così come verso le “regole” e le norme sottostanti la società italiana, la sua cultura e la vita quotidiana a Roma. Dal momento che questi contatti erano spontanei e informali, venivano principalmente vissuti come incontri in due direzioni tra individui membri di gruppi diversi che vivono nella città andando d’accordo. Di conseguenza non venivano percepiti come minacce alla loro identità, provocando il bisogno di “innalzare una barriera simbolica” (Bauböck, 1996) tra gruppi e culture. Questi contatti non li hanno solamente aiutati a cavarsela e a tirare avanti, hanno anche contribuito a “dare un senso” al loro nuovo ambiente sociale e culturale e a sentirsi “di Roma”, cosicché queste reti bridging li hanno aiutati a inserirsi e a sentirsi parte della fabbrica sociale della vita della città. Dal momento che a livello micro non si sentivano in alcun modo particolare socialmente isolati ed esclusi, si sono sentiti più a loro agio anche per quanto riguarda Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 6 il loro status legale incerto. Anche se la temporaneità del loro permesso ha causato allo stesso tempo frustrazione e amarezza, le loro esperienze di inclusione e di accettazione sociale a livello dei contatti e della comunicazione quotidiana con gli Italiani hanno avuto l’effetto di compensare l’esclusione sperimentata a livello statale. Anche le persone incontrate nel corso del mio studio ad Amsterdam erano per lo più giovani e con un livello di istruzione piuttosto elevato, provenienti da contesti urbani o semi-urbani. Ma a differenza delle persone incontrate a Roma erano per lo più sposati e i singles avevano reti familiari nel paese. Inoltre, a differenza di quelli di Roma, avevano sperimentato una lunga e, nella loro percezione, “umiliante” procedura di determinazione che comportava un soggiorno di un anno nei cosiddetti centri di accoglienza. Dopo che la domanda di asilo era stata accettata, veniva loro offerta ospitalità in uno dei comuni, dove dovevano seguire un corso di lingua obbligatorio e si vedevano offerta la possibilità di riqualificarsi per migliorare le loro prospettive di trovare un impiego. Ciononostante, al momento della mia ricerca, e a differenza di Roma dove tutti avevano un lavoro, più di un terzo delle persone intervistate ad Amsterdam era disoccupato. Del resto, le persone con un lavoro erano per lo più sottoimpiegate, un problema comune alla maggioranza dei rifugiati e degli immigrati nelle grandi città. Il processo di accoglienza per fasi, condotto dallo Stato, e una minima sistemazione della propria vita nei Paesi Bassi, così come qui descritta, richiedeva generalmente degli anni. Al momento della mia ricerca, una politica di naturalizzazione relativamente liberale comportava anche che quasi tutte le persone da me incontrate avessero la cittadinanza olandese. Dal momento che il sistema si avvicinava ai rifugiati di Amsterdam come a degli oggetti di policies, piuttosto che come degli agenti e come una risorsa vitale nel processo volto a riguadagnare il controllo delle proprie vite, non erano stimolati a cercare delle vie alternative nella società olandese. Piuttosto, sperimentavano la sistemazione della loro vita in città come un processo dall’alto (top-down), all’interno del quale dovevano seguire le “regole di integrazione” stabilite per loro dallo Stato, dal comune, dalle ONG e da altre strutture istituzionali controllate dallo Stato. Di conseguenza le reti sociali all’interno, attraverso e all’esterno delle barriere etniche non erano necessarie per cavarsela e tirare avanti in quel nuovo contesto Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 7 sociale che portava al loro isolamento sociale, isolamento che percepivano in modo molto forte. Il fatto che le persone venissero “aiutate” e “prese in carico” in un modo istituzionalmente ben supportato e per fasi segnava l’istituzione ad Amsterdam di legami bridging. L’assenza di legami tra minoranza e maggioranza erano impressionanti. Questa distanza sociale non sembrava auto-imposta dal momento che legami sociali stretti con gli Olandesi sembravano essere molto importanti per le persone coinvolte nel mio studio. Tuttavia, i loro legami con la società dominante e di maggioranza si limitavano a relazioni di supporto involontarie, stabilite formalmente, con diversi fornitori di servizi, professionali e volontari. Queste persone sono anche diventate i mediatori chiave tra i nuovi arrivati e la società di maggioranza, dal momento che non avevano praticamente nessun altro contatto con gli Olandesi. Poiché questo tipo di assistenza e di sostegno è incorporato all’interno del quadro strutturale di una situazione di minoranza nella quale la cultura della società di accoglienza è qualificata come superiore, le persone da me incontrate ad Amsterdam trovavano spesso che questi contatti e queste forme di assistenza non rispondessero alle loro esigenze, alle loro intenzioni e ai loro scopi, o a volte che risultassero umilianti. Queste esperienze, combinate con i ricordi del soggiorno prolungato presso i centri di accoglienza, portava a sentimenti di distacco dalla società olandese e alla percezione di una profonda distanza culturale tra loro e il loro vicini, colleghi di lavoro e concittadini olandesi di Amsterdam. Il loro isolamento sociale, profondamente sentito, si traduceva in dubbi riguardanti l’uguaglianza e la sicurezza dei loro diritti di cittadinanza appena acquisiti. In molti esprimevano un certo grado di disagio o persino di paura rispetto alla possibilità che la loro cittadinanza venisse revocata nel caso di un cambiamento della situazione politica nei Paesi Bassi, tanto da trasformare in qualche modo tutti gli Olandesi non autoctoni in stranieri indesiderati. Fintanto che l’acquisizione dei formali diritti di cittadinanza di inclusione e uguaglianza non viene accompagnata da contatti e legami “di ponte” (bridging), a livello micro, tra minoranza e maggioranza, l’esperienza dei gruppi di minoranza rimarrà fortemente plasmata dai loro sentimenti di “alterità”, dalle percezioni di ineguaglianza e di esclusione. Ciò avviene perché lo sviluppo della fiducia tra gruppi Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 8 di minoranza (etnica) e gruppi di maggioranza dipende solo parzialmente da un set di diritti che possono essere garantiti ai gruppi “etnici” o di “minoranza”. In assenza di legami informali a livello micro con gli Olandesi, le persone da me incontrate ad Amsterdam si rivolgevano ai membri della famiglia più vicini e alle reti co-etniche, nel loro sforzo di superare l’isolamento sociale e di soddisfare il loro bisogno di socialità e di “inserimento”. A differenza dei rifugiati di Roma, i rifugiati di Amsterdam vivevano nella città ma non sentivano di essere “di Amsterdam”. Pensieri conclusivi Non c’è dubbio che i legami sociali bonding tra co-etnici sono in molti casi cruciali per cavarsela in nuovi contesti urbani. Possono infatti essere strumentali per lo sviluppo di strategie di sopravvivenza individuali e di gruppo e per la creazione di fonti di sostentamento. Questi legami sono altresì centrali nel processo di tirare avanti nella vita, dal momento che forniscono un legame con le vite precedenti dei rifugiati, aiutandoli a mantenere un senso di continuità. Mantenendo la loro lingua e gli elementi della loro cultura, così come alcuni legami con i loro ruoli e le loro identità precedenti, i contatti co-etnici sono spesso centrali per il benessere di persone le cui vite sono state gravemente interrotte e le cui identità sono state messe in discussione. Tuttavia, come questa discussione ha cercato di mettere in evidenza, le reti di relazioni bridging possono essere altrettanto vitali per il processo volto a riguadagnare il controllo sulle vite delle persone che stanno vivendo la migrazione. Se i legami bridging con i gruppi di maggioranza vengono stabiliti presto, questi contatti aiutano i rifugiati a cavarsela e a tirare avanti nelle proprie vite fornendo informazioni cruciali, contatti, e promuovendo l’utilizzo del consistente capitale sociale che portano nei nuovi contesti urbani. È molto importante, d’altra parte, dire che i contatti bridging sono centrali anche nel processo di inserimento di per sentirsi “del posto”. Ciò avviene perché i legami e le reti bridging non solo incanalano le informazioni e garantiscono l’accesso alle risorse, ma anche perché interpretano le informazioni e articolano il significato e in questo senso servono da dizionario per i contesti urbani locali, così come per la società e la cultura in senso più ampio, come mi è stato rivelato da un giovane immigrato russo a Londra, in una comunicazione personale. Dr M.Korac/Milan paper/May 2008/ 9 Gli stessi rifugiati spesso identificano questo tipo di legame sociale come altamente desiderabile e non necessariamente legato a tentativi di assimilazione e di perdita del loro peculiare senso di identità e di cultura, così come indicato nella mia ricerca. In questo senso, le reti bridging sono percepite come una comunicazione in due direzioni, centrale al processo di reciproco aggiustamento e cambiamento che è condizione necessaria per sviluppare la diversità. Tuttavia, il desiderio e le strategie per raggiungere questo tipo di comunicazione a due direzioni sono spesso bloccati da muri visibili e invisibili che si parano davanti alle persone che cercano di inserirsi in contesti urbani non familiari. I sistemi e le prospettive di policy sono solo uno dei numerosi muri che circondano i nuovi arrivati nelle aree urbane.