Corteccia - Erboristeria Arcobaleno

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L’ E R B O L A R I O
L
O
D
I
CORTECCIA
In riva ad un ruscello accanto ai salici ombrosi e amanti del fresco, sotto l’ombrello aromatico e protettivo del pino marittimo, nel brusio pieno di vita di un
querceto ad alto fusto, per scoprire quella sempre simile e perfondente sensazione di pace, rarefazione e tranquillità.
Proprio qui, al fianco di alberi gioiosi e pieni di vita, nasce la linea da bagno
Corteccia dell’Erbolario, quando, alla profumazione verde e boschiva rapita a
questi luoghi, abbiamo voluto affiancare l’azione preziosamente attiva di sostanze funzionali estratte dalla scorza dura di alberi tanto generosi e fruttiferi.
L’ALBERO DEGLI ALBERI,
LA QUERCIA FORTE E MAESTOSA
Della quercia possente la corteccia sa marcare l’età: rimane infatti liscia, come
le gote di un giovane uomo, fino circa ai 30 anni dell’albero e poi segna con
mille rugosità e fessurazioni sempre più intricate il passare dei decenni, anzi dei
secoli. Sì, perché le querce sono alberi molto, molto longevi: si conoscono con
certezza individui più che millenari, che con i loro bruni rami nodosi e massicci sembrano, come scrive Giuseppe Sermonti, dei giganti selvaggi, dalla forma imponente ed affascinante, quasi colossale. E’ questo il caso di un famosissimo esemplare di farnia, sita a Allouville di Bellefosse (Normandia) e meglio
nota come Quercia Cappella, poiché, nel 1696, nel suo sconfinato tronco cavo, si costruì appunto una piccola cappella, sormontata da una seconda camera,
detta “Stanza dell’Eremita”.
La fama di albero potente, nonché il nome specifico di Robur -forza in latino-,
attribuito dagli studiosi alla farnia, derivano alla quercia probabilmente dal fatto che, fino a quando gli uomini non ebbero fabbricato strumenti da taglio in
ferro, essa sempre e con ostinazione resistette ad ogni tentativo di abbattimento.
La sua imponenza e la sua longevità, unite alla generosità dei tanti doni che,
buona come la dice il Pascoli, offre ad uomini ed animali (le ghiande innanzi-
tutto, che si crede siano state il primo alimento dell’uomo), hanno poi ispirato ovunque nel bacino del mediterraneo il parallelismo con l’immagine del padre, celeste e terreno, e quindi l’associazione a Zeus, dio della folgore e del
tuono. Il più antico oracolo greco era in effetti, come ricorda Alfredo Cattabiani
nel suo bellissimo Florario, una maestosa quercia sacra a Zeus che si trovava
a Dodona, nell’Epiro. Secondo Socofle qui Zeus vaticinava tramite la voce di
due colombe, mentre Pausania riferisce che chi avesse voluto consultare l’oracolo presieduto da profetesse donne doveva semplicemente avvicinarsi all’albero ed attendere che le sacerdotesse interpretassero lo stormire rivelatore delle fronde sacre.
Anche Ulisse, narra Omero, si recò al santuario “per udire dalla quercia divina di alte fronde il volere di Zeus”.
Cara al padre degli dei, la quercia possedeva un secondo privilegio rispetto agli
altri alberi: essa ospitava al suo interno non una, ma due specie di ninfe. Le prime, le Driadi (da dryàs, quercia sacra), potevano abbandonare l’albero (ecco perché era impossibile abbattere una quercia prima che i sacerdoti ne avessero allontanato ritualmente le sacre ospiti), mentre le seconde, le Amadriadi (da hàma,
insieme) erano indissolubilmente legate all’esemplare che abitavano e con esso consumavano la loro vita e la loro morte.
Diffusa anche tra i Germani, che consacrarono la quercia a Thor, dio protettore dell’ordine stabilito e promotore della fecondità, tra gli Slavi, che la votarono al dio del tuono Perun, sovrano di tutte le cose, e tra i Celti, che fra i suoi
rami fogliosi e verdi scorsero la rappresentazione visibile della divinità, la venerazione delle querce belle e maestose suscitò invece, nella prima fase della
cristianità, forte avversione ed ostilità perché collegata al culto pagano degli alberi. Molti, moltissimi furono gli esemplari ed i boschetti di querce sacre abbattuti, sradicati e tagliati un po’ ovunque, nell’Europa centrale, dagli evangelizzatori cristiani.
Solo a prezzo del sacrificio di migliaia e migliaia di alberi, vinte le ultime resi-
stenze pagane, la quercia cominciò ad essere considerata con più benevolenza, ispirando vari simboli, a partire da quello dell’immortalità, ed arrivando, durante il medioevo, ad ospitare tra le sue fronde svariate apparizioni della
Madonna.
Un tempo caratterizzante le grandi formazioni forestali dell’Italia, in particolare della pianura padana insieme ad altre latifoglie quali il pioppo bianco, l’ontaro nero e l’olmo, oggi la quercia è assai meno diffusa nel nostro paese, mentre ancora trionfante popola i verdeggianti paesaggi tedeschi e scandinavi. Perché la
bellezza unica dei querceti non vada persa alla memoria italiana, esistono residui
di questi boschi protetti come beni preziosi (è il caso del bosco della Mesola, in
provincia di Ferrara, e del bosco della Fontana, in provincia di Mantova).
E un bene prezioso è davvero questo albero, anche perché si dovrebbe ricordare che nessun bosco è più brulicante e pieno di vita di un querceto ad
alto fusto. L’aperta cupola delle querce consente infatti che molta luce raggiunga il suolo della foresta; qui le foglie cadute marciscono in fretta e concimano riccamente il terreno, consentendo rigogliosa la crescita di altri alberi ed arbusti (frassini, cornioli e noccioli) e fornendo cibo e riparo a animali
ed insetti, tra cui le cicale che i greci chiamavano dryokòitai, “quelle che dormono nelle querce”.
IL SALICE AMICO DELL’ACQUA
E DEL FRESCO
Genere molto antico già presente in Belgio agli inizi del terziario, con le sue
numerose specie (più di trenta) e i suoi svariatissimi ibridi, la famiglia dei salici non è solo la più estesa della nostra flora legnosa ma anche quella che si
presenta sotto i più diversi e mutevoli aspetti. A partire dall’albero più piccolo
del mondo, il Salix herbacea il cui minuscolo tronco (7 mm di diametro) va
cercato in ginocchio tra le erbe delle pasture alpine, e concludendo con gli svettanti salici fragili che possono raggiungere i 25 metri di altezza, si incontrano,
tra le varie specie di salice, tutte le dimensioni e tutte le stature. Lo stesso dicasi per il colore: dal bianco tomento del Salix alba alle foglie scure del salice
rosso, è possibile imbattersi in ognuna delle sfumature del verde, dal bronzo
vecchio alla giada, dal verde bluastro al grigio verde. La stessa variegata palette si ripete sulla preziosa corteccia del salice, di solito glabra, tenera e piacevole al tatto.
La tendenza a crescere rigoglioso e spontaneo ai bordi dei fiumi, dei laghi e
dei fossati, laddove cioè la sua sete permanente può essere continuamente soddisfatta, ha reso manifesta fin dall’antichità la predilezione del salice per l’acqua ed il fresco ed ha nell’antica Grecia conquistato a quest’albero la consacrazione alle divinità lunari. Anche se la tradizione vuole che la culla di Zeus
fosse, sul monte Ida dove era nato, appesa ai rami di un salice, il culto di quest’albero non fu mai collegato a quello del padre degli dei ma sempre e solo
a quello delle dee madri, splendide e notturne personificazioni della Luna.
Ecco allora il salice consacrato a Era, nata tra i salici dell’Heràion di Samo, ad
Artemide, venerata a Sparta con il nome di Lygosdesma (da Lygos, particolare
specie di salice) ed ancora alle divinità infere Ecate, Circe e Persefone.
Anche in Lituania a lungo sopravvisse il culto di una dea lunare venerata con
il nome di Blinda, che in quella lingua significa salice.
Questo suo stretto legame con la luna, durante il Medioevo, trasformò il salice nell’albero degli incantesimi prediletto dalle streghe che ne utilizzavano i rami non solo nella fabbricazione di scope ed altri magici utensili, ma anche come prezioso ingrediente per filtri e pozioni (atti soprattutto a contrastare
l’insonnia o ad inibire la sfrenatezza sessuale) e come legno da ardere durante i riti e i sabba.
Diffuso in tutta Europa, in Asia minore e nell’Africa settentrionale, il salice in
ogni caso fin dall’antichità aveva già suscitato attorno a sé l’interesse e l’entusiasmo della medicina ufficiale, con Galeno che nel secondo secolo ne raccomandava le foglie tritate sulle piaghe fresche e assicurava che pochi medicamenti avevano gli usi della linfa di quest’albero. Dioscoride invece dichiarò
la foglia di salice emostatica e vi vide pure una droga anticoncezionale.
La credenza greca secondo la quale l’albero favoriva la castità fu in effetti confermata prima dal Matthioli nel Rinascimento e poi dal medico Dalichamp, che
afferma che le foglie, somministrate in bevanda, raffreddano coloro che sono
troppo caldi per amore.
Perché fossero riconosciute alla pianta l’azione antipiretica e quella antireumatica che le derivano dall’acido salicilico, estratto proprio dalla corteccia, bisognerà invece aspettare fino alla fine del XVII secolo: utilizzata a partire dal 1694
da Etner contro le febbri intermittenti, la corteccia di salice ben presto conquistò
presso i medici del tempo la fama di febbrifugo per eccellenza, arrivando persino a sostituire nell’uso il chinino.
Soppiantato oggi dall’acetilsalicilico che è alla base dell’aspirina, al salice non
si fa più ricorso come rimedio scacciafebbre mentre ancora vengono apprezzate e utilizzate dalla fitoterapia moderna le sue capacità sedative e antispasmodiche. Conosciuto anche presso i romani, come testimonia Plinio, il salice
fu da questi amato soprattutto per l’utilizzo poliapplicativo del suo legno.
Tanto è vero che, pur derivando il suo nome dal latino Salix (da salire = saltare, balzare, perché il salice cresce tanto in fretta che sembra salti fuori dal terreno), appellativo attribuitogli da Virgilio, il salice fu conosciuto presso i romani quasi sempre con il nome di Vimen (vimine), poiché i suoi rametti flessibili
venivano già allora utilizzati, come si fa ancora oggi, per la fabbricazione di ceste, panieri, nasse per la pesca e uccelliere.
Da Vimen deriva anche il nome di uno dei sette colli di Roma, il Viminale, così detto perché un tempo ricoperto di salici verdeggianti.
E’ ancora Virgilio che, ricordando agli apicoltori latini di piantare salici in prossimità degli alveari, sottolinea un’altra utilissima caratteristica della pianta: quella cioè di fornire dall’inizio della primavera con i suoi numerosissimi fiori polline e nettare in abbondanza alle api.
IL PINO, SEMPREVERDE
SIMBOLO DI FECONDITA’
Da sempre molto apprezzati dall’uomo, oltre che per la loro figura slanciata e
armoniosa, per il corroborante profumo balsamico che tutt’attorno, in ogni momento, essi sprigionano, i pini sono alberi gioiosi e belli a vedersi.
Il nome “pino” fu donato loro dalla ninfa Piti la cui triste storia, tra gli altri, nei
suoi “Dialoghi degli Dei”, narra Luciano: contesa da due pretendenti, il vento
del nord Borea ed il dio Pan, Piti si risolvette a concedere il suo amore al diocapro. Infuriato e offeso, Borea scatenò un vento violentissimo che dall’alto di
una roccia fece precipitare la povera ninfa, il cui corpo morente Pan commosso trasformò in un pino marittimo (che in greco si chiama appunto Pitus). Vuole
il mito che da allora la fronte di Pan sia adornata di corone di pino e che quan-
do in autunno Borea (la tramontana) comincia a scuotere con la sua brezza gli
alberi, la ninfa arborea Piti pianga disperata, come la resina trasparente che stilla dalle pigne testimonia. Triste leggenda per un’essenza che, con i suoi rami,
le pigne e la spessa, inconfondibile corteccia (se la accarezzi si fa a lungo ricordare con il suo profumo resinoso) per noi è diventata sinonimo irrinunciabile e gioioso delle feste invernali.
Tradizionalmente collegato alla vite (si credeva che esso meglio crescesse nei
terreni caldi, zone predilette dalle viti, e che la sua resina fosse utile alla conservazione e all’aromatizzazione del vino, usanza questa che sopravvive ancor
oggi nel vino resinato greco), il pino era anche sacro al dio della fertilità
Dioniso: non a caso, infatti, il tirso caro alle Baccanti era costituito da un ramo
di pino adornato da vite ed edera, sulla cui cima era ritualmente posta una pigna. Del pino come simbolo di fertilità parla anche Virgilio che chiama quest’albero Pronuba, dal momento che le fiaccole usate durante le nozze erano
fatte del suo legno. Ed infatti i fauni, che propiziavano la fecondità, si coronavano la fronte di pino.
Tale simbolismo si ritrova anche in Giappone, dove esso, fino a qualche decennio fa, presiedeva alla cerimonia nuziale come segno di buon augurio.
L’incorruttibilità della sua resina, che, estratta, forma traslucide e purissime concrezioni dette lacrime, nonché la perennità del suo fogliame sempreverde hanno invece portato, in tutto l’estremo oriente, a considerare il pino, insieme al
cipresso, una sacra raffigurazione dell’immortalità.
Per questo gli immortali taoisti si nutrono di resina, pinoli ed aghi; ed è la resina del pino che, colando lungo il tronco e penetrando nella terra, produce
nell’arco di mille anni il Fu-Ling, fungo meraviglioso capace di donare la vita
eterna. Con i legni di pino e cipresso si costruiscono poi i templi shintoisti e
sempre la tradizione shintoista fa vivere le Kami, le divinità, fra i rami del pino.
In Cina, infine, il pino compone, insieme al fungo ed alla gru, la triade della
longevità.
LINEA CORTECCIA
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cosmetica innovativa che sposa gli aspetti
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un importante surplus di sostanze funzionali capaci di contrastare il precoce invecchiamento cutaneo e di ben nutrire e tonificare l’epidermide.
Sapone non Sapone
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dell’amido di Grano, emolliente e protettivo, e del super-idratante olio di Girasole, il
sapone non sapone Corteccia tratterà con
uguale dolcezza la pelle del viso come
quella del corpo, lasciandola morbida e
ben levigata, freschissimamente
perfusa delle note
boschive e frizzanti di questa linea.
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Con i fitocosmetici de L’Erbolario sei vicino all’ambiente e agli animali, a favore di uno
sviluppo sostenibile.
L’Erbolario infatti:
si è dotato di un Sistema di Gestione Ambientale (certificazione UNI EN ISO 14001
nr. cert. 497-2002-AE-MIL-SINCERT DNV);
utilizza esclusivamente energia elettrica da fonti rinnovabili;
certifica tutte le sue attività agricole con ICEA (Istituto per la Certificazione Etica
Ambientale), secondo il Reg. CE 834/07 dell’Agricoltura Biologica (codice di certificazione nr. C517);
sostiene la Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus;
aderisce allo “Standard Internazionale” Stop ai Test su Animali. Tutti i suoi prodotti sono controllati da ICEA (Istituto per la Certificazione Etica Ambientale) per LAV Lega Anti
Vivisezione;
contribuisce al finanziamento delle attività del FAI (Fondo per l’Ambiente Italiano).
La sicurezza e l’efficacia dei prodotti dell’Erbolario sono certificate dai test clinici supervisionati dall’Università di Pavia: formulati e preparati nel sito produttivo di Lodi, i nostri
cosmetici vengono prodotti senza discriminazione nè sfruttamento del lavoro.
Perché all’Erbolario pensiamo che la vera bellezza debba avere sempre un profilo etico.
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