683-696 Castaldini - Conflitti dimenticati

aggiornamenti sociali 9-10/1999
84. Questione curda 1
PANORAMI ESTERI
LA QUESTIONE CURDA E IL PRINCIPIO
DI «AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI»
ALBERTO CASTALDINI
Giornalista, studioso di problemi internazionali
Il dramma secolare del popolo curdo è tornato d’attualità nei mesi
scorsi in seguito alla vicenda di Abdullah «Apo» Öcalan. Il 12 novembre
1998 il leader del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), dopo essere
sbarcato all’aereoporto romano di Fiumicino con un volo proveniente
da Mosca, viene preso in consegna dalle autorità italiane. Öcalan, ricercato per terrorismo dalla polizia turca e da quella tedesca, viene arrestato. Il 20 novembre la Corte d’Appello di Roma ne ordina però la scarcerazione, disponendone l’obbligo di dimora nella periferia della capitale.
La Turchia ne richiede l’estradizione, ma il Governo italiano rifiuta di
consegnarlo a un Paese dove è in vigore la pena di morte. Si propone di
consegnarlo alla Germania, ma il Governo tedesco rifiuta. L’Italia allora suggerisce che Öcalan venga processato da un tribunale internazionale. La Turchia si oppone e il 16 dicembre la Corte d’Appello di Roma
revoca l’obbligo di dimora e il divieto di espatrio. Il 16 gennaio 1999 il
leader curdo lascia il territorio italiano: la Grecia gli ha offerto ospitalità
nella propria ambasciata di Nairobi, in Kenya. Nella capitale africana
scatta però la trappola dei servizi segreti turchi. Öcalan viene catturato
il 15 febbraio e trasportato nell’isola di Imrali, sul Mar di Marmara. Il
31 maggio inizia il processo a suo carico. Il 29 giugno si arriva alla condanna a morte, ma una legge turca prevede che l’esecuzione della pena
capitale debba essere votata dal Parlamento, che non ne ha più votate
dal 1984 (1). Nel frattempo Öcalan è pronto a preparare la resa e il disarmo dei membri del PKK. In cambio Ankara dovrebbe approvare una
legge di amnistia per i guerriglieri che si consegnano. Il Governo turco
ha respinto l’offerta.
Nel corso della vicenda, i mezzi d’informazione dell’Occidente hanno fatto di Abdullah Öcalan un vero e proprio simbolo dell’identità curda.
Va ricordato però che Öcalan è il capo di una delle tante formazioni po-
✂
(1) Sul «caso Öcalan» si veda M. GALLETTI, L’Europa nuova frontiera del Kurdistan,
in «Fondazione Internazionale Lelio Basso», n. 1-2 (gennaio-giugno) 1999, pp. 10-12.
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litiche che nel corso degli ultimi decenni — spesso in conflitto fra loro
— si sono fatte carico delle istanze del popolo curdo. È questo uno degli
aspetti politici della questione curda, la cui complessità rappresenta la
principale difficoltà per una sua soluzione. Prima di affrontare il problema e le sue possibili prospettive per il futuro, è necessario illustrare le
vicende storiche di questo popolo antichissimo (2).
1. Le origini del «popolo senza terra».
I curdi sono un popolo autoctono che, nonostante l’asprezza del territorio e la rigidità del clima, vive da migliaia di anni in un’ampia area
denominata Kurdistan, posta a cavallo delle attuali Turchia, Siria, Iraq,
Iran e Armenia (cfr. cartina qui sotto). Appartenenti al ceppo indoeuropeo, la loro identità storica e culturale risale al I millennio a.C., parlano
una lingua appartenente alla famiglia delle lingue indoeuropee del ramo
ariano (indoiraniche) e al gruppo nordoccidentale della famiglia delle
lingue iraniche. I curdi con ogni probabilità sono il frutto della fusione
di popolazioni auLa regione del Kurdistan
toctone del Kurdistan con tribù inARMENIA
doeuropee, che a
partire dal III millennio a. C. si sono
spinte fino all’Alta
Mesopotamia provenendo dalle steppe attorno al Mar
Caspio e dagli altopiani afghano e iranico. A queste tribù
appartengono anche i Medi, fondatori di un grande
Regione abitata
dai Curdi
impero alla fine
dell’VIII secolo a.C.
(2) Sul tema si vedano: B. NIKITINE, Les Kurdes. Etude sociologique et historique,
Editions d’Aujourd’hui, Paris 1975; G. CHALLAND (a cura di), Les Kurdes et le Kurdistan,
Librairie François Maspero, Paris 1981; M. GALLETTI, I curdi nella storia, Vecchio Faggio,
Chieti 1990; F. FROIO, I curdi. Il dramma di un popolo dimenticato, Mursia, Milano 1991;
M. JASIM TAWFIK, Kurdi. Il dramma di un popolo e la comunità internazionale, BFS, Pisa
1994; ID., Kurdistan: una terra in cerca di libertà, in «Federalismo e libertà», n. 1, 1998, pp.
191-203.
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84. Questione curda 2
Nel VII secolo d.C. inizia nella regione l’ espansione arabo-islamica.
Dopo vane resistenze i curdi vengono sconfitti dagli arabi. La loro religione, lo Zoroastrismo, viene bandita e sostituita dall’Islam. Da quel
momento i curdi contribuiscono a favorire l’espansione islamica.
Fino al secolo XV si susseguono in Kurdistan le invasioni dei turchi
selgiuchidi (1051), dei mongoli (1231) e dei turchi di Tamerlano (1402).
Questi eventi compromettono storicamente lo sviluppo economico e sociale del popolo curdo.
Tra il XV e il XVI secolo il Kurdistan diviene terreno di battaglia fra
l’impero sciita, comprendente l’Iran, e quello sunnita localizzato in Tur-
chia. Nel 1514 i curdi alleati dei turchi sconfiggono i persiani, e successivamente gran parte dei loro territori cadono sotto il dominio ottomano.
Nel frattempo i curdi sottoposti alla dominazione iraniana lottano contro il Governo centrale. Nel 1608 affrontano l’esercito dello Shah nei
pressi della fortezza di Dim Dim, uscendone sconfitti. Nel 1639 il Kurdistan viene spartito fra gli imperi ottomano e persiano.
Fino al secolo scorso sopravvivono, in particolare nella parte ottomana, numerosi «principati indipendenti», sorti nel Cinquecento, con proprio esercito e una relativa autonomia politica. All’interno di queste entità le attività più diffuse sono l’agricoltura, l’artigianato e la pastorizia.
L’amministrazione della giustizia nei «principati indipendenti» si basa
sia sulla legislazione islamica denominata sciariha, sia sulle consuetudini
feudali proprie della tradizione curda. L’esistenza di queste realtà politico-territoriali a base tribale ha fortemente influito sulla formazione
della coscienza nazionale del popolo curdo.
2. Le sopravvivenze di una società profondamente arcaica.
Quella curda è tuttora una società fortemente conservatrice sul piano
sociale e culturale. Ciò si spiega facilmente sia sulla base dell’esperienza
storica di questo popolo, sottoposto per secoli al Governo di regimi dispotici che non ne hanno certo favorito l’emancipazione, sia in virtù
dell’isolamento geografico determinato dalla natura montagnosa del
Kurdistan. Gli storici però sostengono che un ostacolo alla formazione
di una coscienza nazionale compiuta sia stato rappresentato dalla presenza dei «principati indipendenti» a base tribale, governati spesso da
capi in rivalità fra loro.
La regione è stata per secoli caratterizzata dalla pratica dell’allevamento transumante. Ciò ha comportato per le popolazioni nomadi frequenti e lunghi spostamenti alla ricerca di nuovi pascoli. L’atteggiamen-
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to ostile dei gruppi umani stanziali ha fatto sì che i legami tra i nomadi
fossero cementati da vincoli solidissimi. La struttura della tribù ha risposto appieno a questa esigenza, tanto da rimanere ancora oggi il modello
sociale dominante in quei contesti dove l’allevamento rimane l’attività
economica principale (3).
Questo secolare stile di vita ha influito su quello che potremmo definire il carattere nazionale dei curdi. Il curdo è fiero della propria origine,
del suo passato, degli avi che hanno combattuto per la propria libertà. Si
trova a proprio agio fra i componenti della propria tribù, alla quale riserva una totale dedizione, rimanendo fedele al suo capo. Questi riveste un
ruolo ereditario e gli viene attribuita una grande autorevolezza. Amministra la giustizia avvalendosi del diritto consuetudinario locale e può infliggere anche la pena di morte ispirandosi al Corano. Al di sotto del capo tribù vi sono le famiglie distinte per genealogia e ricchezza, condizione quest’ultima che viene valutata sulla base del numero di capi di bestiame posseduti (4).
3. Il sentimento nazionale curdo: nascita ed evoluzione.
Nel corso dell’ Ottocento si accelera il processo di decomposizione
dell’Impero ottomano. L’influenza delle potenze occidentali diventa sempre più pressante, risvegliando le coscienze dei popoli sudditi. Nel 1889
gli intellettuali appartenenti alle diverse nazionalità dell’Impero fondano la «Società dei Giovani Turchi», il cui ideologo è il curdo Abdulla
Jewdat. Nel 1898 al Cairo viene pubblicato il primo giornale in curdo.
Sulle sue colonne vengono rivendicati l’uso della lingua curda e l’istruzione scolastica per i curdi.
Una spinta al rafforzamento del sentimento comune di appartenenza
è rappresentata dalla salita al potere dei Giovani Turchi nel 1908. Dapprima gli ufficiali che depongono il sultano Abdul Hamid, dopo averlo costretto a promulgare la Costituzione, si propongono di trasformare la
Turchia in uno Stato costituzionale, che riconosca l’autonomia delle varie
nazionalità dell’Impero, ritenendo questo l’unico modo per salvarlo dal
disfacimento. Sempre nel 1908 nasce a Istanbul un’Associazione per
l’elevazione e il progresso dei curdi. Nel 1910 sorge la prima organizza(3) Cfr. F. FROIO, op. cit., p. 116; cfr. anche B. NIKITINE, op. cit.
(4) Cfr. F. FROIO, op. cit., pp. 118 s. La rigida struttura patriarcale della tribù non ha
conosciuto deroghe nemmeno durante la guerriglia, quando migliaia di donne curde si sono impegnate direttamente nella lotta. Alcune di loro hanno inteso la guerra di liberazione come una nuova prospettiva sulla difficile strada dell’emancipazione dal regime patriarcale.
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84. Questione curda 3
zione politica curda, Hiviya Kurd («Speranza curda»), legalmente autorizzata due anni dopo. Questi segnali alimentano le speranze dei curdi,
che però vengono ben presto deluse. I militari turchi decidono di mettere
sotto controllo le attività politiche dei nazionalisti curdi, chiudendo
scuole e associazioni (5).
La prima guerra mondiale cambia completamente lo scenario geopolitico dell’area mediorientale. Gli intellettuali curdi vedono nel conflitto
l’occasione buona per realizzare l’unità nazionale, ma i leader dei movimenti indipendentisti non sono in grado di compiere uno sforzo unitario
diretto in tal senso. Nel corso delle operazioni militari alcune tribù combattono a fianco dei turchi contro gli Alleati (6), altre lottano a fianco
dell’Intesa. Ciò dimostra come la coscienza nazionale curda agli inizi del
Novecento sia non ancora unitaria: le complesse vicende secolari di questo popolo e la presenza di strutture sociali arcaiche al suo interno non
ne favoriscono ancora oggi una compiuta maturazione.
4. Le speranze di Sèvres.
Gli anni fra il 1918 e il 1923 sono determinanti per il destino del «popolo senza terra». La sconfitta degli Imperi centrali sembra in un primo
tempo realizzare le speranze dei curdi. Il presidente americano Thomas
Woodrow Wilson alla conferenza di Parigi si fa propugnatore dei celebri
14 punti sui quali edificare una pace fondata su principi di eguaglianza e
democrazia. L’art. 12 che riguarda le popolazioni soggette all’Impero
turco così recita: «Le nazionalità che vivono attualmente sotto l’Impero
turco devono godere una sicurezza certa di esistenza e di potersi sviluppare senza ostacoli; l’autonomia deve essere loro concessa».
Le indicazioni di Wilson sono recepite dal Trattato di Sèvres del 10
agosto 1920. Gli articoli 62, 63, 64 riconoscono ai curdi il diritto a uno
Stato nazionale. Ben presto però il progetto del presidente americano
viene insabbiato, e il nuovo ordine internazionale da lui auspicato è boicottato dagli interessi economici delle potenze dell’epoca, interessate a
sfruttare i giacimenti di petrolio dell’area. Inghilterra e Francia preferiscono ottenere dei «mandati» sui territori dell’ex impero, che permettono di fatto l’esercizio della loro sovranità.
Nel 1923 il generale Mustafà Kemal Atatürk alla testa del ricostituito
esercito turco fronteggia le truppe dell’Intesa. La Turchia non intende
(5) Cfr. F. FROIO, op. cit., pp. 37 s.
(6) L’Impero ottomano il 2 agosto 1914 aveva firmato con la Germania un patto segreto d’alleanza che sarebbe entrato in vigore in caso di un attacco russo al territorio turco.
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infatti accettare le durissime condizioni stabilite dal trattato di pace. La
vittoria sull’esercito greco che occupa l’Anatolia galvanizza Atatürk,
che nell’ottobre di quell’anno depone il Sultano e proclama la repubblica.
Nel frattempo le potenze occidentali modificano il Trattato di Sèvres. Il
24 luglio 1923, assieme a una rinvigorita Turchia, siglano infatti il Trattato di Losanna, dove si insabbia il progetto di un Kurdistan indipendente, rimettendo alla neonata Società delle Nazioni la questione della provincia di Mosul, abitata da curdi. Due anni dopo la Società delle Nazioni decide l’annessione di Mosul (comprendente i giacimenti petroliferi
di Kirkuk) all’Iraq, che si trova sotto il mandato britannico. Il Kurdistan viene smembrato. In questo modo i curdi, che prima dei trattati di
pace vivevano in due Paesi, la Turchia e l’Iran, vengono ulteriormente
divisi, con la conseguente demolizione delle loro strutture economiche e
sociali. Il popolo curdo reagisce. Negli anni Venti e Trenta è un susseguirsi di rivolte in Turchia, Iraq e Iran, mentre il presidente turco
Atatürk decide la deportazione di centinaia di migliaia di curdi in Anatolia, dopo aver chiuso le scuole, vietato le associazioni e le pubblicazioni
curde e aver sciolto la prima assemblea turca dove sedevano 72 rappresentanti del Kurdistan.
5. La storia recente.
La fine della seconda guerra mondiale non riporta affatto la pace nello scacchiere mediorientale. Della dissoluzione dell’assetto coloniale, instaurato con la forza prima del conflitto, approfittano i vari gruppi armati che da anni lottano per l’indipendenza del Kurdistan.
Il 22 gennaio del 1946 viene proclamata in Iran la Repubblica curda di
Mahabad, che l’anno successivo cade in seguito all’intervento armato delle forze
iraniane. Il capo curdo Mustafà Barzani, che aveva precedentemente conquistato il Kurdistan iraniano, si rifugia in Unione Sovietica. Nel 1956, sotto l’egida
degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, viene stipulato il Patto di Baghdad fra
Turchia, Iran e Iraq. Una delle clausole prevede per gli Stati firmatari una collaborazione nella repressione di eventuali rivolte che esplodessero all’interno dei
propri confini.
Il 14 luglio 1958 in seguito a un colpo di Stato viene proclamata la repubblica in Iraq. La Costituzione provvisoria riconosce per la prima volta che «arabi e
curdi sono associati in questa patria». Il 27 maggio 1960 viene destituito il Governo turco di Menderes. Dopo averlo esautorato con un golpe i militari emanano una Costituzione più liberale. Nel settembre 1961, in seguito alla politica discriminatoria attuata dal Governo iracheno nei confronti dei curdi, Barzani, tornato in patria, si mette alla testa della rivolta che si trasforma successivamente
in movimento popolare di liberazione nazionale. Dieci anni dopo, nel 1970, viene siglato l’accordo tra curdi e iracheni per «l’autonomia del Kurdistan». Nel
1974 riprenderà il conflitto.
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84. Questione curda 4
Il 6 marzo 1975 Iran e Iraq stipulano l’ «Accordo di Algeri», in cui si considera il movimento nazionale curdo un elemento distruttivo nei rapporti fra i due
Paesi. Nel 1979 muore Barzani, e dopo la proclamazione della Repubblica islamica in Iran, l’Imam Khomeini dichiara una «guerra santa» contro i curdi che
durerà fino alla fine degli anni Ottanta.
Scoppiata nel dicembre 1980, la guerra fra Iran e Iraq (che durerà fino al
1988) vede direttamente coinvolti i curdi. Il Kurdistan diviene terreno di battaglia e i Governi di Baghdad e Teheran strumentalizzano la guerriglia curda nei
rispettivi territori. Approfitta della situazione l’esercito turco, che ingaggia una
guerra di annientamento nei confronti dei curdi dell’Iraq.
Nell’agosto 1984 il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) inizia la lotta
armata in Turchia. Due anni dopo, il Rapporto annuale sulla violazione dei diritti umani nel mondo del Dipartimento di Stato degli USA denuncia per la prima volta la situazione dei curdi in Turchia.
Il 16 marzo 1988 ad Halabja cinquemila curdi vengono uccisi dalle armi chimiche degli iracheni. Nel marzo 1991, terminata la Guerra del Golfo con la resa
del dittatore iracheno Saddam Hussein, curdi e sciiti proseguono la lotta contro
il regime di Baghdad. L’impresa fallisce e due milioni di curdi si rifugiano in
Iran e in Turchia.
Il 5 aprile 1991 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU vota la risoluzione n.
688 a favore del popolo curdo. È la prima volta che le Nazioni Unite riconoscono l’esistenza del «dovere di ingerenza umanitaria» negli «affari
interni di uno Stato». Il presidente americano George Bush diffida Baghdad dall’intraprendere azioni militari a nord del 36° parallelo e viene
contemporaneamente inviata una Forza di pronto intervento internazionale a protezione del Kurdistan iracheno. Si forma così sotto l’egida
dell’Occidente la Regione autonoma del Kurdistan iracheno che nel 1992,
dopo le elezioni vinte dal PDK-Iraq di Mas’ud Barzani e dall’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) di Gialal Talabani, darà vita a un Governo
regionale e ad un’assemblea nazionale. Nel maggio del 1994 nella Regione autonoma del Kurdistan iracheno iniziano i combattimenti tra il
PDK e l’UPK per il controllo dell’area.
Agli inizi di febbraio del 1995 viene chiuso l’unico quotidiano curdo
turco. Nel marzo dello stesso anno militari di Ankara varcano il confine
iracheno per distruggere le basi del PKK. Nell’agosto del 1996 il regime
di Baghdad si allea con il PDK-Iraq per espellere le forze dell’UPK alleate di Teheran.
Il 17 settembre 1998 alla presenza del segretario di Stato americano,
Madeleine Albright, i due leader curdi Barzani e Talabani accettano di
risolvere le loro controversie in attesa delle elezioni che rinnoveranno
l’assemblea regionale del Kurdistan. Il 20 ottobre dello stesso anno, in
base a un accordo fra Ankara e Damasco, il leader del PKK Abdul Öca-
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lan deve essere espulso dalla Siria assieme a 3mila suoi uomini. Il 9 giugno del 1999 il Consiglio d’Europa intima alla Turchia il rispetto dei diritti umani da essa ripetutamente violati.
6. Il popolo curdo oggi.
I curdi, secondo recenti stime, sono circa 30 milioni, così distribuiti: 12
milioni 857mila in Turchia, 8 milioni 736mila in Iran, 5 milioni 292mila in
Iraq, un milione 375mila in Siria, un milione 200mila nei territori dell’ex
Unione Sovietica. Il resto vive nella diaspora (solo in Germania la colonia curda ammonta a 400mila persone) (7). Le principali attività economiche della popolazione sono tuttora l’agricoltura e la pastorizia, anche
se il Kurdistan (500mila kmq) costituisce una delle regioni più ricche e
autosufficienti del Medio Oriente per la grande presenza d’acqua (le
sorgenti del Tigri e dell’Eufrate sono situate nel Kurdistan turco) e di
petrolio (il Governo iracheno estrae il 75% del proprio greggio in territorio curdo). Quasi tutta la ricchezza prodotta finisce infatti nelle casse
dei Paesi in cui è suddiviso il Kurdistan.
La loro lingua è con ogni probabilità l’unica al mondo che si scrive
in tre alfabeti: in arabo (in Iraq e in Iran), in latino (in Turchia e in Siria) e in caratteri cirillici (nell’ex URSS). I curdi sono per lo più di religione musulmana, in maggioranza sunniti, con una minoranza di circa 3
milioni di sciiti. A essi però sono estranei gli eccessi di fanatismo religioso propri di certe frange dell’Islam. I curdi conservano infatti da sempre
un tradizionale atteggiamento di tolleranza. Libri e giornali in curdo se
non sono vietati, sono sottoposti a una severissima censura. In questo
modo il tasso di analfabetismo è elevato. A conservare e trasmettere la civiltà curda sono sorte in Europa numerose associazioni. Spicca per le
sue molteplici iniziative l’Istituto culturale curdo di Parigi.
7. Una sistematica violazione dei diritti umani.
Negli anni Novanta il Governo turco ha attuato nei confronti dei curdi la medesima politica di pianificata distruzione applicata da Saddam
Hussein nel 1987-88, quando fece distruggere 4mila villaggi curdi iracheni. Dal 1993 l’esercito di Ankara ha impiegato preponderanti forze per
piegare la resistenza curda nel tentativo di creare, al posto del Kurdistan, la
cosiddetta Grande Anatolia (8). Dal 1984, anno di inizio della guerriglia,
(7) I dati sono riportati da M. JASIM TAWFIK, Kurdistan: una terra in cerca di libertà,
cit., p. 200.
(8) Cfr. M. VERRIER, «Carte blanche» à l’armée turque au Kurdistan, in «Le Monde
Diplomatique», ottobre 1993, pp. 14 s.; C. CHESNOT, Les objectifs cachés du Grand Projet
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84. Questione curda 5
sono stati inviati a fare il servizio militare nella Turchia sudorientale due
milioni e mezzo di giovani. Il malcontento fra la popolazione turca per
quella che viene definita dal Governo una «gloriosa epica patriottica»
cresce, ma le voci di dissenso sono messe a tacere dalla censura (9).
Questa difficile situazione crea non poco imbarazzo sul piano internazionale. La Turchia è membro della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, si propone come Stato guida in una regione del
mondo dall’equilibrio fortemente precario, intervenendo nei momenti
di crisi a fianco degli alleati della NATO. Nonostante ciò il Governo di
Ankara si oppone all’ipotesi di un Kurdistan indipendente, difendendo
la propria integrità territoriale, ribadendo che il problema dei curdi è
una questione interna che rientra nel cosiddetto «dominio riservato»,
ovvero nell’ambito degli affari di propria sovrana competenza (10).
Inoltre da anni la Turchia aspira a entrare nell’Unione Europea. La
questione curda, l’occupazione di Cipro, la violazione dei diritti umani,
la crisi economica aggravata dal terremoto che ha colpito il nord-ovest
del Paese il 17 agosto scorso, rendono assai improbabile il suo ingresso
in Europa (11). In questo scenario il Governo italiano ha dimostrato più
di una volta di essere sensibile al problema curdo. Non ci riferiamo in
particolare alla gestione della vicenda di Abdullah Öcalan, per la verità
sin dall’inizio contorta e impacciata, ma all’atteggiamento riservato all’arrivo dei profughi sul territorio nazionale. Gli altri membri dell’UE
hanno accusato l’Italia di non essere in grado di impedire il flusso migratorio sulle proprie coste. La stessa Turchia in più di un’occasione ha
accusato l’Italia di concedere troppo facilmente l’asilo politico ai profughi. Nel gennaio del 1998 la Commissione Esteri della Camera ha approvato una risoluzione in cui si impegnava il Governo a promuovere
un’iniziativa in sede comunitaria diretta a far cessare i combattimenti
nei territori curdi. Da più parti si è insistito sulla necessità che l’Europa
anatolien, in «Le Monde Diplomatique», ottobre 1993, p. 14; K. NEZAN, Fuite en avant au
Kurdistan, in «Le Monde Diplomatique», maggio 1995, p. 3; P. MAIOLA, Viaggio in una
nazione senza Stato, in «Guerre & Pace», n. 3, marzo 1995, pp. 8-13; M. GALLETTI, Kurdistan: i giochi regionali proseguono, in «Politica Internazionale», n. 3 (luglio-settembre)
1994, pp. 81 ss.
(9) Cfr. E. KURKCU, Turchia, il muro del silenzio, in «Internazionale», 16 luglio
1999, p. 56.
(10) Si veda in proposito A. DARWISH, Il popolo kurdo e il diritto all’autodeterminazione, Edizioni Cultura della Pace, Fiesole (FI) 1997, pp. 103 ss., in cui l’A. contesta tale
posizione sulla base del fatto che i diritti umani e l’autodeterminazione dei popoli sono
materia di diritto internazionale.
(11) Cfr. T. MEYER, L’eterna aspirante, in «Internazionale», 20 agosto 1999, pp. 41 ss.
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intervenga direttamente nella soluzione della questione. Gran Bretagna
e Francia hanno infatti storiche responsabilità (12).
8. L’autodeterminazione: irrinunciabile aspirazione del popolo curdo.
Il presidente americano Thomas Woodrow Wilson aveva così affermato nei suoi Wartime address (1918): «Nessuna pace che non riconosca
e accetti il principio che i Governi derivano tutto il loro potere dal consenso dei governati può, né potrebbe, durare: non esiste in assoluto un
diritto di trascinare i popoli da una sovranità all’altra come se fossero
una proprietà» (13). Le parole di Wilson per il popolo curdo si sono rivelate senza dubbio profetiche. I principi che avevano animato il Trattato di Sèvres furono disattesi tre anni dopo da quello di Losanna. Il Kurdistan venne smembrato con le conseguenze che si conoscono da tre
quarti di secolo, non da ultima l’instabilità di una regione di grande importanza economica e strategica per il Medio Oriente.
Alla soluzione del problema curdo è infatti strettamente connesso
anche il futuro assetto dell’area e il suo ruolo in quello che potrebbe essere il «nuovo ordine internazionale democratico», fondato sul «diritto
umano alla pace», quale «diritto delle persone e dei popoli a un ordine
internazionale che assicuri la promozione della persona, in ogni sua
espressione individuale e collettiva» (14). Parlando al Congresso di Washington nel 1918, al termine del primo conflitto mondiale, Wilson ribadì
che nessun Governo poteva arrogarsi il diritto di disporre del territorio
e di decidere le alleanze di un popolo libero. Perciò, nel definire il nuovo ordine mondiale, le potenze vincitrici si sarebbero dovute ispirare all’autodeterminazione dei singoli popoli. La Società delle Nazioni creò a
questo scopo l’istituto dei «mandati», ritenendo che potesse costituire un
primo passo sulla strada dell’autodeterminazione nazionale, coinvolgendo allo stesso tempo la comunità internazionale nella costruzione progressiva di Stati indipendenti. È noto come l’esperimento dei «mandati»
si sia rivelato fallimentare. Le nazioni mandatarie avrebbero dovuto stabilire il grado di «maturità» raggiunto da un popolo, ovvero la sua capacità di autogovernarsi (e per questo non si poteva parlare di completo
diritto all’autodeterminazione), ma in realtà esse sfruttavano tale incarico per perseguire vantaggi politici ed economici. Il ruolo avuto dalla
(12) Cfr. M. JASIM TAWFIK, Kurdistan: una terra in cerca di libertà, cit., pp. 191 s.
(13) Cit. in A. DARWISH, op. cit., p. 38.
(14) A. PAPISCA, Democrazia internazionale, via di pace. Per un nuovo ordine internazionale democratico, Istituto Internazionale J. Maritain- Angeli, Milano 1995, p. 154.
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84. Questione curda 6
Gran Bretagna e dalla Francia nella questione curda nella prima metà
del secolo ne è un chiaro esempio.
La politica di autodeterminazione segnò profondamente le relazioni
internazionali durante gli anni Venti e Trenta, ma solo nel secondo dopoguerra , con la nascita dell’ ONU e il progressivo completamento del
processo di decolonizzazione, si arrivò a una più compiuta definizione di
questo universale diritto dei popoli (15).
Il diritto all’autodeterminazione nell’immediato dopoguerra è stato
finalmente sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo del 1948. Il 16 dicembre 1966 la comunità
internazionale ha approvato il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali. In
entrambi (entrati in vigore nel 1976) compare il medesimo dettato dell’art. 1, che consacra la portata universale del diritto all’autodeterminazione (16).
Stabilito che quello curdo è un «popolo» con propri tratti linguistici e
culturali, individuabili sulla base del suo passato storico, dei criteri descrittivi propri delle scienze sociali (l’etnologia, l’antropologia culturale,
la sociologia e la psicologia sociale), oltre che sulla scorta di una coscienza nazionale dalla tormentata evoluzione (17), la comunità internazionale non può non riconoscergli il diritto all’autodeterminazione.
9. Attuali prospettive della «questione curda».
È facile intuire come quella dell’autodeterminazione del popolo curdo sia però una strada di difficilissima percorribilità. Quali le pietre
d’inciampo? Prima di tutto, per creare uno Stato curdo indipendente e so(15) Prima della seconda guerra mondiale si ebbe un uso esagerato e strumentalizzato del principio di autodeterminazione, secondo una direzione opposta a quella manifestatasi nel secondo dopoguerra. È il caso dell’aggregazione «di popolazioni dichiarantisi dello
stesso ceppo a Stati già costituitisi» (come avvenne per i Sudeti nel 1938), con conseguenze inverse al frazionamento di uno Stato preesistente. Cfr. C. CURCIO, Autodecisione dei
popoli, in Novissimo Digesto Italiano, vol. I, UTET, Torino 1958, p. 1556.
(16) Recita il 1° comma: «Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù
di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale». Cit. in E. VITTA - V. GREMENTIERI,
Codice degli atti internazionali sui diritti dell’uomo, Giuffrè, Milano 1981, pp. 66 e 98.
(17) Come si è stabilito nel 1989 in un seminario dell’UNESCO, per «popolo» si intende «un gruppo di esseri umani che hanno in comune alcune o tutte le seguenti caratteristiche: a) una tradizione storica comune; b) un’identità razziale o etnica; c) un’omogeneità
culturale; d) un’identità linguistica; e) affinità religiose o ideologiche; f) legami territoriali;
g) una vita economica comune» (Diritti dei popoli. Seminario di esperti UNESCO, in «Pace,
diritti dell’uomo, diritti dei popoli», n. 1, 1990, p. 91).
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vrano, è necessaria la secessione di una porzione del territorio di ciascuno dei Paesi in cui il Kurdistan è diviso (utopistica l’ipotesi di una volontaria rinuncia da parte dei singoli Stati). Questo atto rappresenta allo
stesso tempo un attentato alla sovranità dei Paesi coinvolti. Se il popolo
curdo rivendica il diritto all’autodeterminazione, una nazione come la
Turchia rivendica invece il diritto alla propria integrità territoriale. La
volontà del primo va allora legittimata alla luce di quanto formulato in
tema di diritti umani dagli organismi internazionali negli ultimi cinquant’anni (18). Ma non è così semplice affermare che, se a un popolo si
impedisce con la forza l’esercizio del diritto di autodeterminazione,
«viene legittimata non solo la sua lotta, ma anche la sua secessione come unico mezzo a disposizione e viene accettata la creazione di un suo
Stato indipendente» (19). Non va dimenticato che lo scenario della secolare vicenda dei curdi è una delle aree più instabili del pianeta.
Un compromesso (che tenga cioè conto degli affari interni di competenza del «dominio riservato» [art. 2.1 della Carta delle Nazioni Unite] di
uno Stato) può essere rappresentato dalla concessione di un regime di autonomia o di una forma di autogoverno. Essa potrebbe rappresentare una
soluzione temporanea, finalizzata a creare le condizioni per una piena indipendenza. Questa opzione è già stata sperimentata dai curdi dell’Iraq,
ma le divisioni interne allo stesso schieramento, che — come abbiamo visto — vedono da anni duramente opposti il PDK e l’UPK, non facilitano
una serena valutazione delle rivendicazioni politiche da parte della comunità internazionale. Inoltre, se a concedere l’autonomia, pur con la
garanzia della comunità internazionale, è un regime come quello iracheno o quello iraniano, o quanto meno un Governo, come quello turco, che
solleva numerose riserve sul piano democratico, allora lo scenario si fa
più complesso, e si riduce l’ipotetico ventaglio di soluzioni. Intanto la popolazione civile soffre le conseguenze di una situazione drammatica.
Non manca chi critica gli eccessi di quella che viene definita «una
esasperazione teorica, ben oltre i limiti del reale, dell’identitarismo etnico» (20), frutto di un eccessivo «eurocentrismo, perché si pretende di
trasferire in realtà geopolitiche completamente diverse, un concetto di
identità fra Stato e nazione maturato [...] nella piccola “provincia” euroccidentale nel corso di lunghi secoli, e al prezzo di massacri terribili
(18) Cfr. A. DARWISH, op. cit., p. 123.
(19) Ibidem, p. 135.
(20) C. MOFFA, «Popoli senza Stato» e ideologi senza cervello, in «Limes», n. 1, 1999,
p. 270.
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aggiornamenti sociali 9-10/1999
84. Questione curda 7
dalla guerra dei Trent’anni all’ultimo conflitto mondiale» (21). In nome
della Realpolitik bisognerebbe perciò non assimilare il «diritto di autodecisione» al «diritto alla secessione», per rivendicare piuttosto «concreti e specifici diritti nazionali», e cioè «spazi e diritti dentro gli Stati
esistenti, in tema di uguaglianza sociale, libertà linguistica, culturale, religiosa» (22). Solo in questo modo sarebbe possibile rileggere correttamente la «questione nazionale» (23).
Concludendo, se da un lato è innegabile per il popolo curdo l’applicazione del «principio di autodeterminazione» (è necessario porre fine
alla ripetuta violazione dei diritti umani a danno della popolazione civile
— nei confronti dei curdi dell’Iraq è stato perpetrato dal regime di Baghdad un autentico genocidio con più di 400 mila vittime —, ma anche impedire che si vieti, come fa la Turchia, a un popolo di parlare e stampare
nella propria lingua) (24), dall’altro la pura secessione di porzioni del
Kurdistan dalle nazioni in cui è attualmente ripartito è un’opzione dalle
conseguenze imprevedibili, che va sostituita con una gestione non violenta. Antonio Papisca ha suggerito di coinvolgere la comunità degli Stati
attraverso la presenza sul terreno di una missione inviata da un’istituzione sopranazionale competente, valutando l’ipotesi di una gestione «sopranazionale» transitoria del territorio (25). La possibilità di una confederazione fra gli Stati in cui è distribuito il Kurdistan appare invece remota.
È infatti difficilmente concretizzabile a breve tempo, quale presupposto
assolutamente necessario, una loro democratizzazione interna (26). A
complicare il quadro — lo abbiamo già sottolineato — è l’assetto attuale
del fronte politico curdo: fortemente diviso (e impegnato contro Governi
diversi), difficilmente in grado di elaborare una politica comune, impreparato ad assumersi la gestione di una nazione.
A questo punto, di fronte alle due attuali più realistiche prospettive,
e cioè l’assimilazione dei curdi negli Stati a cui appartengono, o la lotta
armata permanente contro di essi, entrambe inaccettabili sotto il profilo
del diritto internazionale, si impone la necessità di un primo impegno concreto della comunità internazionale, per la verità maggiormente interessata a mantenere lo statu quo in un contesto regionale (delicata «cerniera»
(21) Ibid., p. 275.
(22) Ibid., p. 276.
(23) Ibidem.
(24) Cfr. il rapporto HUMAN RIGHTS WATCH, Iraq’s Crime Genocide. The Anfal
Campaign against the Kurds, Yale University Press, New Haven and London 1995.
(25) Cfr. A. PAPISCA, prefazione a A. DARWISH, op. cit., p. 12.
(26) Cfr. C. MOFFA, op. cit., p. 276.
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tra i Balcani, l’Asia centrale e il Medio Oriente) dove la Turchia ha un
ruolo politico di primo piano, determinante sotto il profilo delle attuali
geostrategie. Anche se per il «diritto di autodeterminazione», diversamente da quanto accade per gli altri diritti umani, non è previsto alcuno
strumento di garanzia internazionale (27), è indispensabile assicurare al
popolo curdo un’effettiva (ed efficace) protezione internazionale. Solo in
questo modo si consentirebbe la progressiva maturazione di una coscienza politica interna, necessaria premessa a qualsiasi forma di autogoverno (regime di autonomia compreso), e si aprirebbe la strada a un
confronto più costruttivo tra le parti.
O forse che anche per il Kurdistan ci si deve piegare all’ineluttabilità degli scenari geopolitici conflittuali tracciati da Samuel P. Huntington? (28). Se è vero che, essendo venuto meno lo scontro ideologico fra
i due «blocchi», i gruppi umani tendono a definire la propria identità
esclusivamente in base alla lingua, alla fede religiosa, alle tradizioni, è
anche vero che non si può arginare l’eventuale scontro fra le civiltà sacrificando la tutela dei diritti umani alle deboli garanzie offerte dall’attuale e fragile statu quo.
La secolare vicenda del popolo curdo per le sue drammatiche conseguenze umanitarie non può essere ignorata dalla comunità degli Stati,
soprattutto perché nella gestione dei futuri equilibri del pianeta essi non
possono non tener conto del primato della persona e del valore universale dei diritti umani. Solo questa logica sostanzialmente «umanocentrica» può fare in modo che — contro ogni tentazione «etnocentrica» —
l’autodeterminazione di un popolo non sia lesiva dei diritti degli altri
componenti la famiglia umana.
(27) Infatti per i diritti civili e politici, umani e individuali, è previsto che la singola
persona possa, attraverso la «comunicazione individuale», rivolgersi direttamente al Comitato dei diritti umani operante sulla base dell’art. 28 del Patto internazionale sui diritti
civili e politici. La comunicazione individuale e il ricorso giudiziario non sono invece previsti per il soggetto collettivo «popolo». Lo stesso vale per i soggetti individuali in tema di
diritti economici, sociali e culturali. Sul tema si veda G. B. KUTUKDJIAN - A. PAPISCA, Rights of Peoples. Droits des Peuples, CEDAM, Padova 1991 (numero speciale della rivista
«Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli»); INSTITUT INTERNATIONAL J. MARITAIN (a
cura di), Droits des peuples, droits de l’homme. Paix et justice sociale internationale, Centurion, Paris 1984; F. VIOLA, Popolo, in Dizionario delle idee politiche (diretto da E. BERTI
e G. CAMPANINI), AVE, Roma 1993, pp. 651-656.
(28) Cfr. S. P. HUNTINGTON, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,
Garzanti, Milano 1997.
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