III° Translation Course, Dott.ssa Judith Evans, University of Bergamo, Anno accademico 2016/2017 E’ la domanda per definizione, quella che l’uomo si pone fin dalla notte dei tempi: “Che scopo ha la mia vita?” E non è certo rimasta senza risposta. Anzi: per rispondere è nata un’intera disciplina, la filosofia. “Una parola che non deve spaventare: per come la vedo io, molti di noi possono dirsi filosofi, “ dice lo scrittore De Crescenzo che nei suoi libri ha spesso accostato a pensatori come Socrate o Cartesio anche persone ‘normali’. Del resto la domanda riguarda tutti, uomini e donne. La riflessione filosofica parte da una constatazione che è comune a ogni uomo, ovunque; la vita appare come incompiuta, dà cioè a ciascuno di noi la sensazione di ‘aspettare qualcosa’. Dando uno scopo alla vita si tenta proprio di compierla. Gli psicologi spiegano che queste sensazioni deriva dal fatto che l’uomo, a differenza di quasi tutti gli altri animali, nasce ‘incompiuto’ e solo nel corso dei primi mesi di vita diventa autonomo. Il pensiero umano si è quindi diviso in tre grandi filoni: coloro che pensano che la vita non abbia un compimento (siamo qui per caso e tanto vale godersela, oppure morire), quelli che credono che la vita possa trovare un senso nel modo di comportarsi dell’uomo (dobbiamo agire con virtù, rispettando gli altri) e infine che trova il fine ultimo nel rapporto con Dio (la vita è costruire qualcosa per sé e per gli altri in vista di un disegno divino). All’interno di questi tre filoni ci sono poi sfumature e posizioni diverse. Nella filosofia contemporanea, comunque, è presente un’altra grande scuola di pensiero, quella che afferma che la vita non ha senso e che al massimo possiamo cercare di non sbranarci l’un l’altro e c’è perfino chi nega che la domanda possa essere posta. Secondo Wittgenstein, divenuto celebre per il suo detto “di ciò di cui non si può parlare, meglio tacere,” è una domanda inammissibile: lui cerca una determinazione logica di principi incontrovertibili e non trovandola, dice di tacere. Adapted from Le risposte (im)possibili, Raffaella Procenzano, Focus, Maggio 2003 21 Giugno: la primavera se ne va per far posto all’estate e ci saluta col giorno più luminoso dell’anno. Come al solito, qualcuno commenterà che ‘le stagioni non sono più quelle di una volta,’ vecchio luogo comune che già Leopardi citava per dissentirne, ma ormai avallato anche dai climatologi che ci minacciano stagioni sempre più bizzarre e irriconoscibili. Staremo a vedere. Sta di fatto, comunque, che proprio per il nostro modo di vivere sempre più lontano dai ritmi della natura, quasi non ci accorgiamo più del passaggio da una stagione all’altra. Fenomeno recente nella storia dell’uomo: per millenni l’uomo è stato così legato ai ritmi stagionali da creare attorno a essi un intero mondo mitologico nel quale le stagioni venivano ‘interpretate’ da specifiche divinità. Col tempo le divinità della vegetazione e della primavera decaddero, ma non scomparvero del tutto: cambiarono solo nome e aspetto. E anche se dovettero abbandonare ruoli divini, trovarono una sistemazione tutt’altro che secondaria nel linguaggio simbolico della cultura occidentale, soprattutto rinascimentale. Uno degli esempi più celebri è la Primavera del Botticelli, il grande dipinto che da oltre 5 secoli sfida gli studiosi con la sua complessa simbologia. Che cosa si nasconda davvero nell’insieme della raffigurazione, nei particolari del paesaggio, dietro l’identità dei diversi personaggi raffigurati e nei loro atteggiamenti, è ancora oggetto di discussioni, ma sul primo livello di lettura del dipinto gli studiosi paiono ormai tutti concordi. L’interpretazione simbolica più nota vede nel quadro un’allegoria ispirata dalle idee filosofiche di Marsilio Ficino, fondatore del neo-platonismo e personaggio di primo piano alla corte dei Medici. Il quadro rappresenterebbe il processo di trasformazione della forza primordiale della passione amorosa in contemplazione intellettuale. Viviano Domenica, Sette N° 25, 2001. 7