CIVILTÀ LATINA CLASSI 1ª L & 2ª L LICEO SCIENTIFICO E LINGUISTICO FRANCESCO REDI ANNO SCOLASTICO 2015/2016 INTRODUZIONE HO SEMPRE RITENUTO FONDAMENTALE AVVICINARE GLI ALUNNI DEL BIENNIO ALLA CULTURA LATINA PER INTERVALLARE LE LEZIONI DI GRAMMATICA NORMATIVA CHE, TROPPO SPESSO, “ALLONTANANO” LO STUDENTE DALLA DISCIPLINA, INVECE DI INTRODURLO AD UN MONDO RICCO DI TUTTI QUEI SENTIMENTI, ARTI, DISCIPLINE, MODELLI DI VITA, LUOGHI CHE POSSONO ANCORA AFFASCINARCI E AIUTARCI A COMPRENDERE TUTTO CIÒ CHE È “UOMO E DELL’UOMO DI SEMPRE”. DA QUESTO PRESUPPOSTO HA PRESO AVVIO IL LAVORO DEI RAGAZZI. PROFESSORESSA MARIA PIA NANNINI CLASSE 1ª L KEISI ABDULLA LUCREZIA ALARI FILIPPO MARIA AURELI FLAVIA BASAGNI FEDERICA CAMPRIANI RACHELE CETICA MARTINA DELFINI FRANCESCA FABBIANELLI SOFIA GHINI LUDOVICA GIGLI ALESSIA GIOMMONI ELEONORA GNASSI CAMILLA GROTTI CARLOTTA MACCIONI MATILDE MAJOLI KATRINA MARINAS SOFIA MARTINI FRANCESCA MAZZI FILIPPO MISESTI RENÉ NEUMANN MARTA PERUZZI LUCREZIA RICCIARINI LINDA ROSSI PIETRO SABATINI ELISA SBARRA MARTINA TAVANTI CHIARA TENTI ELISA ZANELLI CLASSE 2ª L MARINA ALDEA MIRUNA BADALITA FABIO BALLERINI LETIZIA BEGLIOMINI CAMILLA BULGARELLI GRETA BURALI CATERINA CACIOLI REBECCA CHIARO EDOARDO CHIERICONI OLIVIA COTTER SOFIA CRULLI ELENA DETTI CHIARA DONATI SERENA FORZONI YLENIA GALEOTA LORENZO GIORGI GIULIA MAGI AGNESE MENCI CRISTINA MINOPOLI SOFIA NANNI FEDERICA NARDI LAURA OLIVIERI LISA OLIVOTTI ALICE PERNA ELEONORA REFI CATERINA ROSSI SARA ROSSI LINDA SASSOLI BENEDETTA TORZONI GIULIA ZUCCHI LE TERME INTRODUZIONE ED ORIGINI Le terme romane nascono proprio dalle influenze greche legate al culto che si svolgeva nel ginnasio e a quelle della cura del corpo, erano degli edifici pubblici spesso affiancati dal ginnasio e rappresentavano uno dei principali luoghi di ritrovo durante l’antica Roma. I primi edifici termali sembra siano stati costruiti in Campania nel II secolo a.C.. Inizialmente nacquero in luoghi dove era possibile sfruttare le sorgenti naturali di acque calde o dotate di particolari doti curative. Con il tempo, soprattutto in età imperiale, si diffusero anche dentro le città, grazie allo sviluppo di tecniche di riscaldamento a legna, basato sul passaggio dell’aria calda sotto il pavimento. In questo campo Roma arrivò piuttosto tardi. Il primo edificio termale pubblico della Capitale fu quello costruito da Agrippa presso il Pantheon insieme ad un complesso di giardini e porticati. In seguito gli imperatori romani fecero a gara per superare quelle dei loro predecessori con terme sempre più imponenti. Queste erano abbellite con marmi pregiati e mosaici e arrivavano a poter contenere 6000 persone. Ogni centro termale offriva una caratteristica particolare come un paesaggio, una grande biblioteca, un centro sportivo di grande livello anche se l’attrazione principale erano sempre i bagni. I rituali legati a questo “mondo termale” variavano da provincia a provincia e dal periodo storico in cui si trovava. Le terme erano viste come un luogo in cui poteva avere accesso chiunque, anche le classi sociali meno abbienti, in quanto in molti stabilimenti l’entrata era gratuita o quasi. Le numerose terme erano un luogo di socializzazione, di relax e di sviluppo di attività per uomini e donne che, in spazi separati, facevano il bagno completamente nudi. Il cittadino romano di solito si recava alle terme nelle prime ore del pomeriggio dopo aver lavorato. Il tipico ciclo all’interno dello stabilimento iniziava con esercizi fisici o dentro o nel parco circostante, successivamente si recava ai bagni partendo dall’acqua più tiepida fino a quella più calda: Tiepidarium,stanza più lussuosa e grande dove rimanevano per un’ora e si intingevano di oli e unguenti. . Calidarium la stanza più piccola. Loconicum, la stanza ultima con un caldo secco. Dopo la pulizia e i massaggi facevano una nuotata nella vasca del frigidarium. Successivamente ai bagni pubblici sorsero anche i bagni di proprietà privata in abitazioni o in parchi di grandi ville fino a concepire terme di uso privato come “club”. Famose sono le terme del Golfo di Napoli, Pompei e Ischia che videro sorgere complessi maestosi sia per le bellezze naturali sia per le caratteristiche delle sorgenti curative. La fine dello splendore termale avvenne con il declino dell’impero romano, con le invasioni barbariche con l’affermarsi della cultura cristiana con i suoi elementi di demonizzazione della nudità. A Roma il fenomeno termale conobbe un enorme sviluppo che coinvolse in modo evidente l'edilizia ma che accrebbe soprattutto il significato igienico del bagno con connotazioni di ordine sociale e culturale. Agli inizi dell'era repubblicana si effettuavano bagni all'aperto ed in acqua fredda, ma ben presto molte case romane adibirono una stanza al bagno, dapprima sempre freddo, in seguito riscaldato e sempre più ricco di locali adibiti ad usi complementari (sauna, massaggio, relax). I primi stabilimenti termali pubblici erano piccoli e semplici. Durante l'impero sorsero i grandiosi edifici termali di cui ammiriamo ancora le vestigia e che rappresentarono, per l'epoca, una istituzione sociale a tutti gli effetti. Le terme erano aperte a tutti: i romani le frequentavano si può dire quotidianamente ed indipendentemente dal ceto sociale. Ai complessi più grandi, resi maestosi da marmi e decorazioni pregevolissime, erano annesse biblioteche, sale per riunioni e conferenze, palestre, stadi, solari. Vi si svolgevano scambi sociali, culturali e commerciali; i porticati ospitavano botteghe di ogni genere, c'erano giardini e passeggiate. Le terme romane rappresentavano, in conclusione, quanto di più vicino possibile si può immaginare ad un "luogo di benessere" in senso moderno. Ai bagni pubblici, nei quali le tariffe erano scrupolosamente contenute per permetterne la frequentazione da parte dei ceti meno abbienti, si aggiunsero in seguito bagni privati più costosi, più raffinati, a carattere di club, che tuttavia segnarono poco la storia della civiltà romana delle terme, sopravanzati nel ruolo igienico e sociale dai grandi complessi statali ed in quello elitario, culturale e politico, dalle terme delle maggiori domus romane. Le donne vennero ammesse abbastanza presto ai luoghi pubblici; all'incirca nel 31 a.C. in locali a loro riservati od in orari diversi da quelli degli uomini. LE ABITUDINI Una delle abitudini legate all'uso delle terme era quella di gettare nell'acqua profumi e vini speziati (similmente agli antichi Egizi che mescolavano nell'acqua varie sostanze). Spesso si di lino o di lana. Per lavarsi, i Romani usavano la pietra pomice e la cenere di faggio (sostanze che portavano all'inaridimento della pelle), oppure una pasta composta da polvere d'equiseto leggermente abrasiva e argilla e olio; accompagnati da schiavi e clienti che li assistevano nelle cure corporee, si servivano con asciugamani asiva), . Dopo il lavaggio, i fruitori delle terme erano soliti spostarsi nelle sale adibite ai massaggi, che effettuavano con oli profumati e unguenti speciali (importati per lo più dall'Oriente e dall'Egitto, come la mirra e l'olio di mandorle). PATOLOGIE Oltre alle controindicazioni igieniche, i continui sbalzi di temperatura cui erano sottoposti i frequentatori delle terme dall'acqua calda all'acqua fredda in rapida successione, potevano generare nei canali auricolari e nasali dei fruitori, delle neoformazioni ossee globulari (tipiche ancora oggi nei nuotatori), che potevano portare alla sordità o ad una deviazione del setto nasale (ne sono state riscontrate diverse durante lo studio di crani appartenuti ad antichi romani). Spesso anche gli schiavi addetti alle terme si ammalavano per il pesante lavoro. LE TERME NELL’ANTICA ROMA Il culto delle terme nell’antica Roma era particolarmente sentito, e in diverse parti della città sorgevano degli stabilimenti termali di cui oggi si possono ancora ammirare i resti. Molte di queste strutture erano dedicate a tutti, ai ricchi patrizi come alla gente più povera, con l’intento di unire il benessere del corpo alla socializzazione tra i romani. Già nell'antica Grecia il bagno assunse un carattere sociale. Il ginnasio greco era composto da una palestra, da un bagno e da un'esedra dove i filosofi dissertavano con i loro discepoli. Dopo intensi esercizi fisici nella palestra i giovani facevano un'abluzione di acqua calda, raggiunta una piena distensione dopo la fatica fisica, passavano nella esedra per ricevere l'educazione dello spirito. Le terme romane trassero la loro origine dalla fusione del ginnasio greco con il bagno a vapore egizio. L'Egitto in effetti, già dai tempi di Tolomeo, raggiunse il livello di conoscenze tecniche necessario per realizzare tali opere, come dimostrano dei reperti archeologici nel delta del Nilo formati da due locali circolari, chiaro precedente del laconium romano. Già 200 anni prima che Agrippa creasse le prime terme pubbliche nel 25 a.C., il bagni (balneum) erano molto frequentati dai romani; in seguito gli imperatori romani fecero a gara per superare i loro predecessori con Terme sempre più grandiose: in particolare Nerone nel 65 d.C. , Tito nell'81 d.C. , Domiziano nel 95 d.C., Commodo nel 185 d.C., Caracalla nel 217 d.C., Diocleziano nel 302 d.C. e Costantino nel 315 d.C.. Per assicurare la loro popolarità, le tariffe di ingresso alle terme venivano tenute molto basse, se non gratuite. Terme sorsero ovunque nell'impero, dalle sabbie del deserto alle Alpi; alcune Terme erano tanto grandi da poter contenere 6000 persone.Se le prime terme erano posizionate laddove sgorgavano direttamente le acque calde, in un secondo momento vennero aggiunti dei focolai, antesignani degli odierni sistemi di riscaldamento. I rituali potevano variare da provincia a provincia a secondo dei costumi locali, tuttavia il concetto generale era il medesimo: si trattava di un centro ricreativo polifunzionale. La maggior parte delle terme includeva centri sportivi, piscine, parchi, librerie, piccoli teatri per ascoltare poesia e musica e una grande sala per le feste, una città nella città. Si trovavano anche ristoranti e locande per dormire o …passare alcune ore in "piacevole" compagnia. Ogni centro termale offriva attrazioni specifiche: un paesaggio particolare, una magnifica libreria, un centro sportivo di alto livello, anche se l'attrazione principale rimanevano sempre i bagni. Durante l'ultimo periodo cristiano dell'impero fu proibito recarsi alle terme la domenica o nelle feste, mentre prima raramente venivano chiuse. Talvolta uomini e donne prendevano i bagni insieme, ma tale usanza variava da periodo a periodo e da zona a zona: a Pompei ad esempio uomini e donne prendevano i bagni separatamente. Terme importanti del tempo furone le terme di Agrippa, le terme di Caracalla e le terme di Diocleziano. LA STRUTTURA • • • • • • • • Esse erano veri e propri monumenti o addirittura piccole città all' interno della città stessa, esistevano due classi di terme, una più povera destinata alla plebe, e una più fastosa destinata ai patrizi. Lo sviluppo interno tipico era quello di una successione di stanze: FRIGIDARIUM, la parte destinata ai bagni in acqua fredda, poteva avere forma rotonda o più spesso rettangolare, con una o più vasche in acqua fredda. Per mantenere la temperatura ottimale i frigidari erano esposti generalmente al lato nord delle terme, con piccole aperture verso l’esterno, quel tanto che era sufficiente per garantire l’illuminazione e a impedire il riscaldamento attraverso il calore solare; CALIDARIUM, una sala calda orientata a sud-ovest per sfruttare il calore dei raggi solari; si trovava generalmente al centro di tutte le stanze calde per conservare il calore di queste e sporgeva dalla costruzione in modo tale che confluisse verso di esso; TEPIDARIUM, la parte destinata ai bagni in acqua tiepida, solitamente situato tra il figidario e il calidario, in modo tale da mantenere la temperatura moderata. NATATIONES, vasche utilizzate per nuotare. Attorno a questi spazi principali, si sviluppavano gli spaziaccessori: APODYTERIUM, lo spazio non riscaldato adibito allo spogliatoio; HELIOCAMINUS, il luogo destinato alle cure solari e privo di pareti nella zona sud-ovest per ricevere i raggi del sole; PALESTRA, il luogo adibito agli esercizi ginnici e derivato dal ginnasio greco, era costituito da un cortile porticato a pianta quadrata. All’interno delle terme più sontuose (come le terme di Caracalla) si poteva trovare spazio anche per piccoli teatri, fontane, mosaici,statue e altre opere d’arte, biblioteche, sale di studio e addirittura negozi. RISCALDAMENTO Il riscaldamento degli ambienti era ottenuto col sistema della circolazione d’aria calda sotto i pavimenti e dietro le pareti, attraverso i vespai e gli intercapedini.Le sale con i bagni caldi erano riscaldate da un sistema detto ad hypocaustum (ohypokausis). Il nome greco del sistema, che troviamo a partire dal I secolo a.C. in tutto il mondo ellenistico, significa “riscaldamento da sotto”. Con questo sistema si riscaldavano il pavimento, le pareti e l’acqua. La combustione di legna e di carbone avveniva nel praefurnium, una camera di combustione accessibile dall’esterno dell’edificio. I fumi e l’aria calda passavano sotto il pavimento rialzato,asportati da canne fumarie (tuboli) inserite nella muratura delle pareti, e uscivano poi sopra il tetto. I “tubuli” potevano essere disposti anche in serie in modo da formare un sistema di riscaldamento a parete. Il fattore più importante è che i canali nei quali passano i fumi abbiano una leggera inclinazione verso la camera di combustione. La regolazione del sistema di riscaldamento e di ventilazione avveniva non solo dal praefurnium, ma in massima parte dal tetto. Vicino al praefurnium, si trovava la grande caldaia di bronzo o di rame chiamata testudo (forse in riferimento alla sua forma, molto simile ad una testuggine) in cui veniva prodotta l’acqua calda. Vitruvio descrive un sistema costituito da tre recipienti, uno per l’acqua calda, uno per l’acquatiepida e uno per quella fredda. I tre elementi erano collegati in serie affinché la quantità d’acqua calda uscita fosse sostituita con acqua tiepida e quella tiepida con acqua fredda. Questo sistema di riscaldamento aveva un rendimento straordinario, spesso superiore al 90%. RIFORNIMENTO IDRICO L’approvvigionamento idrico delle grandi terme imperiali era assicurato dagli acquedotti: Agrippa aveva fatto costruire, per alimentare le sue terme, l’acquedotto dell’ Acqua Vergine (Aqua Virgo). In seguito si provvide di volta in volta con la realizzazioni di apposite derivazioni di acquedotti già esistenti per servire anche altri usi. In tutti questi casi, l’acqua non arrivava direttamente all’edificio balneare, ma veniva prima raccolta in apposite cisterne, costruite in prossimità o all’interno dello stabilimento. Poi dalle cisterne una complessa rete di tubazioni, di piombo o di terracotta, portava l’acqua nelle vasche per il bagno freddo e nella piscina natatoria, mentre l’acqua, che doveva essere riscaldata, veniva convogliata nel settore dei forni. ACQUEDOTTO ACQUA VERGINE Unico acquedotto romano ad essere funzionante, ancora dopo venti secoli, anche se solo per l’alimentazione di quasi tutte le più imponenti e grandiose fontane della zona del centro (Piazza Navona, Barcaccia, Terrina etc…) e, prima fra tutte, della Fontana di Trevi, l'Acquedotto dell'Acqua Vergine fu voluto da Agrippa, genero dell'imperatore Augusto, che lo inaugurò il 9 giugno del 19 a.C. per alimentare la nuova zona di Campo Marzio e soprattutto per rifornire le omonime terme. Il condotto dell'Acqua Vergine, così come accade per altri acquedotti, non segue la via più breve. Spesso questo accorgimento era necessario per mantenere costante la pendenza del canale ed evitare che l'acqua prendesse una velocità tale da compromettere la tenuta dell'acquedotto stesso. TEPIDARIO Il tepidario (dal latino tepidarium, da tepidus = tiepido) era la parte delle antiche terme romane destinata ai bagni in acqua tiepida. Le antiche terme romane erano costituite di norma da una successione di stanze, con all'interno la sala del frigidario, solitamente circolare e con copertura a cupola e acqua a temperatura bassa, seguita all'esterno dal calidario, generalmente rivolto a mezzogiorno, con bacini di acqua calda; probabilmente situato tra il frigidario e il calidario, una stanza mantenuta a temperatura moderata (il tepidario, per l'appunto). Riscaldato moderatamente da una corrente d'aria calda che passava sotto il pavimento sorretto da suspensura, il tepidario era un ambiente di passaggio tra le sale del calidario, destinate ai bagni caldi e alla sudorazione, e al frigidario, la sala destinata ai bagni freddi. Dal tepidario delle grandiose terme di Diocleziano, a Roma è stata ricavata l'attuale basilica di Santa Maria Degli Angeli. FRIGIDARIO Il frigidario (in latino: frigidarium, da frigídus = freddo) era la parte delle anticheterme romane dove potevano essere presi bagni in acqua fredda. Il frigidario poteva avere forma rotonda (come le Terme Stabiane a Pompei), o più spesso rettangolare, con uno o più vasche (piscinae) di acqua fredda. Nella sala si giungeva attraverso il calidario e il tepidario Per mantenere la temperatura ottimale, i frigidari erano esposti generalmente al lato nord delle terme, con piccolissime aperture verso l'esterno, quel tanto che era sufficiente per garantire l'illuminazione e a impedire il riscaldamento attraverso il calore solare. A differenza della piscina natatoria, il frigidario era generalmente coperto. Se necessario, l'acqua era mantenuta fresca con l'aggiunta di neve. I più grandi frigidari che ci sono pervenuti dall'antichità sono entrambi nella città di Roma: nel complesso delle terme di Caracalla (il frigidario, subito dopo l'ingresso, misura 58 x 24m) e in quelle diDiocleziano, coperto da una volta a crociera, in prossimità del piccolo chiostro. CALIDARIO Le antiche terme romane assomigliano agli impianti odierni e rappresentavano uno dei principali luoghi di ritrovo durante l'antica Roma, a partire dal II secolo a.C.. Alle terme poteva avere accesso quasi chiunque, anche i più poveri, in quanto in molti stabilimenti l’entrata era gratuita. Le numerose terme erano un luogo di socializzazione, di relax e di sviluppo di attività vive per uomini e donne che, in spazi ed orari separati, facevano il bagno completamente nudi. Il calidario (o caldario; dal latino caldarium o calidarium, da caldus o calidus = "caldo") era la parte delle antiche terme romane destinata ai bagni in acqua calda e ai bagni di vapore. Le antiche terme romane erano costituite di norma da una successione di stanze, con all'interno la sala del frigidario, solitamente circolare e con copertura a cupola e acqua a temperatura bassa, seguita verso l'esterno dal tepidario, con acqua a temperatura moderata, e infine dal calidario, generalmente rivolto a mezzogiorno con bacini di acqua calda. Il calidario poteva avere forma rotonda o rettangolare, con una o più vasche (piscinae) di acqua calda, o bagni individuali. Gli architetti li costruivano generalmente nel lato sud o sudovest delle terme, allo scopo di sfruttare il calore naturale del sole Nelle strutture più antiche il calore era ottenuto con semplici bracieri. Col tempo venne sempre più utilizzato dai Romani un sistema di riscaldamento per mezzo di aria calda circolante sotto il pavimento e attraverso le pareti, l’ipocausto la cui ideazione veniva attribuita a Sergio Orata. Il pavimento del calidario era formato da uno strato di calcestruzzo, che poggiava su pilastri di mattoni (suspensura) in uno spazio cavo destinato alla circolazione dell'aria calda. Questo sistema poteva essere completato trasportando l'aria calda anche nelle pareti del calidario per mezzo di condotti in laterizio (tubuli). Negli scavi archeologici, la presenza delle strutture dell'ipocausto (le suspensure in mattoni e i tubuli nelle pareti), permettono di identificare i calidari, e quindi le terme. Il calidario poteva comprendere il laconicum, la sudatio (ambienti surriscaldati per provocare la sudorazione) e l'alveum (vasca per il bagno in acqua calda)Non è nota con sicurezza la temperatura che veniva ottenuta di solito nei caldari. La temperatura nei moderni bagni turchi è dell'ordine di 35-40 °C mentre nelle saune finlandesi si possono raggiungere i 90 °C. È noto che i Romani calzavano sandali con suola di legno; poiché queste calzature dovevano resistere alla temperatura dei calidari, si ritiene che in essi la temperatura non potesse superare i 50-55 °C. SAUNA La parola sauna è un'antica parola finlandese dall'etimologia non del tutto chiara, ma che, probabilmente, poteva essere originariamente legata al significato di dimora invernale. Per avere una sensazione di maggiore calore veniva prodotto del vapore gettando acqua su pietre fatte riscaldare sul fuoco fino a diventare roventi. Tale accorgimento permetteva di far aumentare la temperatura tanto da consentire alle persone di levarsi gli abiti. Nelle prime saune le pietre erano riscaldate con un fuoco a legna e il fumo (in finlandese savu) veniva fatto uscire dopo essersi diffuso nella stanza. Costruzioni utilizzate sia come sauna sia come casa si trovavano ancora in Finlandia fino al XIX secolo anche se come eccezioni dovute principalmente alla povertà o all'utilizzo temporaneo di tali costruzioni, poiché sin dal XII secolo si possono rintracciare documenti che descrivono la separazione delle saune dalle case. Il primo tipo di sauna fu quindi utilizzata principalmente come casa invernale e solo secondariamente per una pratica idroterapica. Oggi, sauna può indicare l'ambiente relativo, la pratica idrotermoterapica che consiste nel suo utilizzo, o l'esercizio commerciale o il club che offra quanto necessario al pubblico o ai suoi membri, spesso insieme ad altri trattamenti estetici, idroterapici, o di benessere. SAUNA TERME DI TITO Le terme di Tito sorgevano sul Colle Oppio tra il Colosseo e San Pietro, si tratta di uno dei più antichi esempi di terme romane di tipologia “imperiale”. Le terme sono state iniziate da Vespasiano e completate da Tito per l’ inaugurazione del Colosseo nell’80 d.C. Erano collegate con quest’ultimo da un portico, mentre ad est erano confinanti con la Domus Aurea. Le loro dimensioni (1,40 ettari) erano modeste in confronto a quelle mastodontiche che le seguirono nei secoli. La pianta si presentava rettangolare con una parte occupata dall’edificio termale a nord composto da: frigidario, costituito da tre stanze, e il calidario costituito da due. Il resto dell’edificio, posto a sud, era occupato da stanze calde secondarie, dietro le quali si trovavano due cortili porticati che avevano la funzione di palestre e altre stanze di servizio. La caratteristica che le diversificava dalle altre terme era la fusione del ginnasio con le terme vere e proprie. Le terme si presentavano a più piani con una terrazza che si affacciava sul colle a cui si accedeva tramite una scala. Il terrazzamento era arricchito da pergolati, tettoie, tavoli, siepi e fontane. Nei sotterranei vi erano alcuni degli appartamenti di Nerone che Tito fece servire da sostegno alle sue terme, restando però privi di aria e luce. Oggi delle Terme di Tito rimane ben poco, solo una parete e l’emiciclo, mentre dei sotterranei i resti sono ancora tutti integri. Le uniche testimonianze delle terme che abbiamo sono i disegni di Palladio. TERME DI TITO TERME DI DIOCLEZIANO Le terme di Diocleziano furono le più grandi e sontuose terme della Roma antica ed erano poste sul Viminale. Venivano usate per servire i popolosi quartieri del Quirinale, Viminale ed Esquilino e si trovano tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via Volturno e via XX Settembre dove si possono ammirare tutt’oggi numerosi resti. Vennero iniziate nel 298 d.C. dall’imperatore dell’Impero Romano d’Occidente Massimiano e aperte nel 306 d.C. dopo l’abdicazione sua e di Diocleziano. Nel 1560 il tepidario venne trasformato nell’attuale chiesa di santa Maria degli Angeli. Erano alimentate da un ramo dell’Acqua Marcia che partiva da porta Tiburtina e dall’Acqua Felice che portavano l’acqua in una cisterna detta “botte di termini”. Le terme di Diocleziano furono distrutte nel 1876 per costruire la stazione termini che deve il nome ad esse. Tra via Parigi e via Orlando si vede un buon tratto conservato della parete del lato nord-occidentale, mentre le facciate delle case moderne e l’esedra della piazza ridisegnano fedelmente un tratto del recinto. Agli angoli del recinto su questo lato si sono anche conservate le due aule circolari simmetriche, una trasformata nella chiesa di San Bernardo alle terme, l'altra visibile dall'esterno all'angolo di via del Viminale con piazza dei Cinquecento. In mezzo sta la grandiosa esedra circolare, usata forse come teatro, e intervallata da aule rettangolari con colonne, forse biblioteche. Nelle terme si trovavano dopotutto, per ordine imperiale, i libri già nella Biblioteca Ulbia del Foro di Traiano, a quell'epoca semi abbandonato (come dimostrano anche gli elementi scultorei da esso provenienti riciclati nell‘Arco di Costantino pochi anni dopo). IL CORPO CENTRALE Il modello sul quale venne disegnata la pianta era quello delle Terme di Traiano, con le quali ha in comune l'esedra semicircolare e il calidarium rettangolare con tre nicchie semicircolari. Il complesso era orientato a sud-ovest affinché l'energia solare riscaldasse il calidarium senza interessare il frigidarium .Al centro si trovava una grande basilica, dove si incontravano i due assi di simmetria del complesso. Lungo l'asse minore erano allineati i bagni (calidarium, tepidarium e frigidarium), mentre sull'asse maggiore (nord-ovest/sud-est) si trovavano le palestre. Sul lato nord-orientale di piazza della Repubblica sono ancora visibili i resti di una delle absidi che si aprivano nel calidarium, accanto all'ex Facoltà di Magistero. Un'altra di queste absidi ospita l'ingresso della Balisica di Santa Maria degli Angeli, che è stata ricavata nell'aula centrale delle terme, la "basilica" appunto. La chiesa ingloba anche il tepidarium subito dopo l'ingresso, composto da una piccola sala circolare con due nicchie quadrate, e due ambienti laterali alla navata centrale; a parte le aggiunte e modifiche di Michelangelo e del Vanvitelli (il pavimento sopraelevato e le nuove colonne in mattoni imitanti il granito) l'aspetto antico dell'interno si è mirabilmente conservato. L'abside sorge dove si trovava la grande piscina rettangolare della natatio. L'unica colonna superstite della natatio, in granito egiziano, fu donata da papa Pio VI a Cosimo I de’ Medici, e oggi si trova aFirenze (detta la Colonna della Giustizia). Le tre volte a crociera superstiti del transetto della basilica, sorrette da otto enormi colonne monolitiche in granito forniscono ancor oggi uno dei pochi esempi dell'originale splendore degli edifici romani. Un'altra parte del complesso fa oggi parte del Museo delle Terme: qui si trovano gli ambienti del lato nord-orientale tra la basilica e la palestra, che anticamente era un cortile colonnato oggi quasi completamente scomparso. Qui si vede anche una parte superstite della natatio, con gli elementi decorativi delle pareti, come le mensole che sostenevano colonnine pensili, elemento tipico dell‘architettura dioclezianea presente anche nel suo palazzo di Spalato. L'angolo dell'edificio conserva una grande sala ovale (probabilmente l‘apodyterium, lo spogliatoio) e una rettangolare (l'atrio). Questo gruppo di ambienti doveva avere i corrispettivi simmetrici sull'altro lato, ma oggi sono completamente scomparsi. Dal giardino del museo si può ammirare un tratto della facciata, mentre dall'altro lato del giardino si vedono le due esedre che appartenevano all'angolo nord-orientale del recinto, abbastanza ben conservate, dove forse si tenevano le conferenze e letture pubbliche (auditoria): una mantiene anche l'originario pavimento mosaicato. IL RECINTO Tra via Parigi e via Orlando si vede un buon tratto conservato della parete del lato nord-occidentale, mentre le facciate delle case moderne e l‘esedra della piazza ridisegnano fedelmente un tratto del recinto. Agli angoli del recinto su questo lato si sono anche conservate le due aule circolari simmetriche, una trasformata nella chiesa di San Bernardo alle Terme, l'altra visibile dall'esterno all'angolo di via del Viminale con piazza dei Cinquecento. In mezzo sta la grandiosa esedra circolare, usata forse come teatro, e intervallata da aule rettangolari con colonne, forse biblioteche. Nelle terme si trovavano dopotutto, per ordine imperiale, i libri già nella Biblioteca Ulbia del Foro di Traiano, a quell'epoca semiabbandonato (come dimostrano anche gli elementi scultorei da esso provenienti riciclati nell‘Arco di costantino pochi anni dopo). TERME DI NERONE Le Terme di Nerone o Alessandrine (poiché costruite da Nerone e restaurate da Alessandro Severo) erano un complesso termale di Roma antica, costruite nel Campo Marzio nel 62 e rifatte nel 227 o 229. Erano alimentate inizialmente dall'Acquedotto Vergine, che già serviva le vicine Terme di Agrippa, poi, in occasione del restauro severiano, dall'Acqua Alessandrina. Si trattava molto probabilmente delle prima terme romane di tipo "imperiale", cioè con gli ambienti organizzati simmetricamente attorno a un asse centrale, impostate a una notevole scenograficità. Come nel caso delle terme di Agrippa, la pianta del complesso, di forma quadrata, è conosciuta da disegni rinascimentali ed è probabile, anche se non sicuro, che fosse la stessa del tempo di Nerone. Al centro si trovava la natatio (piscina) e le sale calde e fredde, affiancate da ambienti laterali, tra cui due peristili in funzione forse di palestre. Oltre ai marmi pregiati riutilizzati nel tempo per l'edificazione di palazzi nobiliari e chiese, dall'area di queste terme provengono le due colonne di granito rosa reimpiegate nel 1666 per il restauro del pronao del Pantheon e un capitello monumentale conservato attualmente nei Musei Vaticani, dove fa da base al Pignone. Una cornice e due colonne sono attualmente rialzate presso i resti delle terme a piazza Sant'Eustachio, mentre un'altra colonna fu rialzata nel 1896 presso Porta Pia. Una monumentale vasca, già nelle raccolte di villa Medici, si trova oggi nell'anfiteatro del Giardino di Boboli, a Firenze. Dell'edificio restano oggi pochi resti al di sotto di Palazzo Madama: durante i lavori di risistemazione della centrale termoidraulica del Senato fu scoperta alla fine degli anni Ottanta del XX secolo una grande vasca di granito bicromica (nero-rossa, del tipo importato dall'Egitto in epoca imperiale), probabilmente utilizzata per il bagno nel 'calidarium' delle terme. Restaurata nei suoi tre punti di frattura, fu donata dal presidente del Senato Giovanni Spadolini alla cittadinanza di Roma e collocata - a mo' di fontana - su di un piedistallo rinascimentale nello slargo immediatamente esterno all'ingresso fornitori, da allora ribattezzato 'piazza della Costituente', che collega via degli Staderari con via della Dogana vecchia e piazza Sant'Eustachio. TERME DI NERONE TERME DI TRAIANO Le terme di TRAIANO erano delle terme dell’antica Roma, erette a pochi anni dall‘incendio della Domus Aurea (104d.C.) e concluse nel 100d.C. da Traiano, con inaugurazione il 22 giugno. Sebbene precedute cronologicamente dalle terme di Agrippa e da quelledi Nerone e di Tito, furono le prime "grandi terme" di Roma e all'epoca infatti erano il più grande edificio termale esistente al mondo. Situate sulla sommità del Colle Oppio, nella terza regione augustea, le terme furono costruite, come ricordano le fonti letterarie antiche, su progetto del più famoso architetto dell'epoca, Apollodoro di Damasco e dedicate da Traiano nel 109 d.C. Il 22 giugno del 109 d.C. l'imperatore Traiano inaugurò e aprì al pubblico il grandioso impianto termale da lui fatto costruire sul versante meridionale del colle Oppio. Il complesso si estendeva su una superficie di circa 60.000 metri quadri sopra altri ambienti, in parte appositamente edificati, con la funzione di sotterranei di servizio e di collegamento fra le varie parti delle terme. Il progetto dell’impianto termale, dovuto ad Apollodoro di Damasco, si presentava sicuramente innovativo rispetto a quanto fino allora conosciuto, con la caratteristica di un’ampia area verde, libera da costruzioni racchiusa in un recinto porticato, che circondava su tre lati il corpo edilizio centrale con gli ambienti destinati ai bagni e alla cura del corpo. L’orientamento su un asse Nord-Est/Sud-Ovest, differente da quello Nord-Sud delle strutture precedenti, è stato probabilmente condizionato dalla volontà di ricercare la posizione migliore rispetto al sole e ai venti, in modo da garantire agli ambienti caldi una maggiore e più lunga esposizione al calore solare. Vari ingressi permettevano di entrare nel recinto termale su tutti i lati; dall’ingresso monumentale a Nord-Est si accedeva al complesso dei bagni, che iniziava dalla natatio, la grande piscina di acqua fredda, cui faceva seguito, sullo stesso asse, il grande frigidario centrale e poi le stanze per i bagni tiepidi e caldi ( tepidariumed il calidarium); sui lati di questo asse erano gli spogliatoi e le palestre;la concezione romana dell'uso delle terme prevedeva infatti oltre al vero e proprio bagno anche attività sportive, di svago e di cultura. Resti dell’esedra Nord-Est sono visibili sul margine settentrionale del Parco, quasi di fronte alle Sette Sale, nome con cui è conosciuta la grande riserva d’acqua che assicurava il rifornimento delle Terme. TERME DI TRAIANO LE TERME DI COSTANTINO Le Terme di Costantino erano un complesso termale di Roma antica, l'ultimo del suo genere, costruito sul colle Quirinale, da Costantino I intorno al 315, ma forse iniziato sotto Massenzio. Si trovavano nell'area attualmente compresa tra piazza del Quirinale, via Ventiquattro Maggio, via della Consulta e via Nazionale, in corrispondenza del terrapieno sorretto da muraglione di villa Aldobrandini, tagliato poi da via Nazionale. Costruite con ingenti lavori di livellamento e sbancamento del terreno preesistente, che comportarono la demolizione di preesistenti edifici pubblici e privati, le terme furono danneggiate nel 367 da un incendio, saccheggiate nel 410 dai Goti di Alarico e poi restaurate nel 443 dal praefectus urbi Petronio Perpenna Magno Quadraziano e probabilmente ancora sotto Teodorico il Grande. Abbandonate all'inizio del Medioevo, il materiale edilizio e le strutture vennero riutilizzate, come tante altre grandi opere, per edifici privati e di culto. I resti in alzato delle terme, rappresentati da stampe e disegni cinquecenteschi (soprattutto del Palladio) furono definitivamente distrutti all'inizio del Seicento con la costruzione di Palazzo Rospigliosi, un secolo dopo per l'edificazione di quello che oggi è il Palazzo della Consulta, e infine, nel 1877, con l'apertura di via Nazionale. Le terme erano piuttosto piccole ed esclusive, soprattutto se confrontate con le vicine terme di Diocleziano, grandiose ma dalla clientela sicuramente "popolare". Si trattava di un complesso dalle dimensioni piuttosto ridotte, rispetto alle grandi terme precedenti, e quindi probabilmente destinato alla parte di popolazione più agiata o patrizia. Orientate in senso nord-sud, le terme erano praticamente limitate al solo edificio balneare con pochi annessi, e prive dei tradizionali porticati, sostituiti da una semplice area aperta. Da queste terme provengono le statue dei Dioscuri poste attualmente alla base dell'obelisco del Quirinale nella omonima piazza, due statue di Costantino, una di suo figlio Costantino II come cesare, anch'essa nella piazza del Campidoglio poste come sfondo alla fontana ai piedi del Palazzo Senatorio. TERME DI COSTANTINO TERME DI CARACALLA Le Terme di Caracalla (in latino: Thermae Caracallae) o Antoniniane (dal nome della dinastia degli Antonini) costituiscono uno dei più grandiosi esempi di terme imperiali di Roma, essendo ancora conservate per gran parte della loro struttura e libere da edifici moderni. Furono volute dall'imperatore Caracalla sull’Aventino, tra il 212 e il 217 d.C., come dimostrano i bolli laterizi, in un'area nei pressi del Circo Massimo, costruito dal re Tarquinio Prisco. Queste terme erano le più sontuose della capitale dell'Impero romano, benché destinate all'uso di massa del popolino dei vicini quartieri popolari della XII Regio, mentre le classi sociali più altolocate erano solite frequentare le terme di Agrippa, quelle di Nerone o soprattutto le terme di Traiano sull‘Esquilino. Le terme di Caracalla furono superate in grandezza solo da quelle, successive, di Diocleziano; tuttavia le rovine delle terme di Caracalla sono l'esempio più integro di grandi terme imperiali, libero da superfetazioni di epoca successiva. Secondo alcuni studiosi, contestati da altri, la costruzione del complesso fu avviata nel 206 da Settimio Severo, capostipite della dinastia antonina; ma in ogni caso fu completata nel 216 da suo figlio Caracalla, salito al trono nel 211. Anche i loro successori Eliogabaldo (218-222) ed Alessandro Severo(222-235) si interessarono alla costruzione e decorazione del recinto esterno dell'edificio. La pianta del complesso è ispirata al modello delle eleganti terme di Traiano sull'Esquilino, che diventerà il prototipo delle terme imperiali romane: vasto recinto quadrangolare adibito a servizi vari e corpo centrale propriamente balneare. Le Terme di Caracalla potevano accogliere più di 1.500 persone. Nella sua più ampia estensione, recinto compreso, l'edificio misurava 337x328 metri (comprendendo le esedre anche 400 metri), e il solo corpo centrale 220x114 metri, con la sola stanza del calidarium che arrivava a 140 metri: solo le terme di Diocleziano saranno più grandi. L'orientamento non era centrato sugli assi, ma come nelle ter,me di Traiano sfruttava al meglio l'esposizione solare, ponendo il calidarium sul lato sud e sporgente come un avancorpo. Il recinto esterno era costituito da un portico, del quale si conservano scarsissimi resti. Dalla parte est (lato attuale viale delle Terme di Caracalla) una serie di concamerazioni (celle comunicanti tra loro) disposte su due piani sostenevano il terrapieno sul quale sorgeva il complesso. Ai due lati del recinto, verso nord e sud, due grandiose esedre simmetriche contenevano ciascuna una sala absidata, preceduta da colonnato, probabilmente una palestra all'aperto, da cui si accedeva a due ambienti minori di forma diversa: uno verso ovest a forma di basilica absidata riscaldata con ipocausto ed un altro verso est ottagonale, probabilmente un ninfeo per godere il fresco. Il corpo centrale era un blocco di ambienti a pianta diversa, di pianta più o meno rettangolare con l'avancorpo a forma rotonda che sporgeva sul lato sud-ovest. Il bagno terminava nella natatio, la piscina all'aperto, decorato da quattro enormi colonne monolitiche in granito: l'unica colonna superstite si trova, dal 1563, nella piazza di Santa Trinità a Firenze. Le terme erano dotate di un complesso reticolo di ambienti sotterranei, dove si trovavano le stanze di servizio che permettevano una gestione pratica del complesso termale del tutto nascosta agli occhi dei frequentatori. Numerose opere d'arte furono rinvenute nel corso degli scavi avvenuti in varie epoche, ma soprattutto nel XVI secolo: le tre gigantesche sculture Farnese, il Toro, la Flora e l'Ercole, ora al Museo archeologico nazionale di Napoli; il mosaico policromo con ventotto figure di atleti, scoperto nel 1824, ora ai Musei Vaticani. E inoltre busti degli Antonini, statue di Minerva, di Venere, una vestale, una baccante, e altre opere minori. Oltre alle già citate vasche di piazza Farnese, altre vasche recuperate dal complesso si trovano ora nel cortile del Belvedere (Musei Vaticani). a Firenze la colonna della Giustizia proviene dalla natatio delle terme di Caracalla. LA CASA ROMANA DOMUS E INSULA • • La casa romana poteva essere di due tipi: la domus e l'insula. La struttura architettonica della domus, un'abitazione signorile privata urbana che si distingueva dalla villa suburbana, che invece era un'abitazione privata situata al di fuori delle mura della città, e dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di ambienti appositi per i lavori agricoli, prevede che sia costituita da mura senza alcuna finestra verso l'esterno e totalmente aperta invece verso l'interno; al contrario le case popolari hanno aperture verso l'esterno e quando l'insula è costituita da una serie di edifici disposti a quadrilatero, si rivolge verso un cortile centrale: inoltre ha porte, finestre e scale sia verso l'esterno che verso l'interno. La domus si compone di ambienti standard, prestabiliti con stanze che si susseguono in un ordine fisso: fauces, atrium, alae, triclinium, tablinum, peristilio. DOMUS E INSULA • • • L'insula è costituita invece dai cenacula, quelli che oggi chiamiamo appartamenti, composti da ambienti che non hanno una funzione d'uso prestabilita e che sono posti sullo stesso piano lungo una verticale secondo una sovrapposizione rigorosa. La domus che riprende i canoni della architettura ellenistica si dispone in senso orizzontale mentre l'insula, apparsa verso il IV secolo a.C. si sviluppa in verticale per rispondere alle esigenze di una popolazione sempre più numerosa raggiungendo un'altezza che meravigliò gli antichi e noi moderni soprattutto per la sua somiglianza con le nostre abitazioni urbane. L'altezza di queste insulae era già superata in età repubblicana e Cicerone scrive che Roma con le sue case appare come sospesa nell'aria («Romam cenaculis sublatam atque suspensam»). INSULA • • L'insula era una tipologia edilizia che costituiva, in buona sostanza, il condominio dell'antica Roma tardo-repubblicana e, poi, imperiale. Si trattava di edifici quadrangolari, con cortile interno (cavedio), talvolta porticato, sul quale erano posti i corridoi di accesso alle varie unità abitative (diremmo oggi gli "appartamenti"). Questi edifici erano composti da un piano terra, in genere destinato a botteghe di vario genere (tabernae), dotate di un soppalco per deposito di materiali e/o alloggio degli artigiani più poveri, e da piani superiori, destinati agli alloggi, via via meno pregiati verso l'alto. Le unità avevano in genere da tre a dieci vani, tra i quali uno di solito era di dimensioni maggiori rispetto agli altri e in posizione migliore. Il primo piano, solitamente, ospitava le abitazioni di maggior pregio, spesso servite da una balconata lignea o in muratura su mensole, che percorreva l'intero affaccio stradale. Il prospetto a mattoni, in genere, non veniva intonacato, ma l'effetto policromo poteva comunque essere determinato dall'uso di laterizi di colori e tonalità diverse per i vari elementi architettonici. I solai e le coperture erano spesso sostenute da volte, che garantivano maggiore stabilità. Mancavano i servizi igienici, essendo notoriamente usate a tale scopo le latrine pubbliche e le terme. INSULA • • • • A Roma, si trattava di veri e propri palazzi di appartamenti in affitto (cenacula). Ampie parti (solai, sopraelevazioni, ballatoi) erano costruite in legno e a volte le nuove costruzioni si appoggiavano ai muri perimetrali di quelle precedenti, appoggiandosi le une alle altre. A causa dell'affollamento del centro cittadino, gli edifici erano giunti a svilupparsi in altezza anche sino a 10 piani, nonostante il tentativo di limitarne l'altezza per legge. Le insulae di epoca imperiale furono caratterizzate da una notevole uniformità e razionalità nell'impianto, che erano frutto di quella particolare mentalità dei ceti mercantili e urbani ai quali esse erano destinate. La costruzione delle insulae e il loro affitto costituiva, in particolare a Roma, un'importante fonte di reddito, in alcuni casi vennero messe in atto delle vere e proprie speculazioni: si risparmiava sulla quantità e qualità dei materiali da costruzione. Dopo il grande incendio di Roma, l'imperatore Nerone dettò norme molto severe per la costruzione delle insulae, proibendo che avessero muri perimetrali comuni e sviluppo in altezza superiore ai 5 piani. Decretò inoltre che tutti gli edifici fossero costruiti prevalentemente in pietra e dotati di portici sporgenti dalla facciata, con servitù pubblica di passaggio e attrezzature antincendio. INSULA L’INSULA FELICLES • Inutilmente Traiano aveva reso più restrittivo il regolamento di Augusto abbassando il limite dell'altezza delle insulae a 60 piedi (circa 18 metri e mezzo) poiché le necessità abitative costringevano a superare questi limiti. Ma anche la speculazione edilizia aveva la sua parte se nel IV secolo, tra il Pantheon e la Colonna Aurelia era stato innalzato un mostruoso edificio, meta di stupiti visitatori per ammirarne l'altezza raggiunta: si trattava dell'edificio di Felicula, l'insula Felicles costruita duecento anni prima sotto Settimio Severo (193-211). La fama di questo straordinario edificio era giunta sino in Africa dove Tertulliano, predicando contro gli eretici valentiniani diceva che questi nel tentativo di avvicinare la creazione sino a Dio creatore avevano trasformato «l'universo in una specie di grande palazzo mobiliato» con Dio sotto i tetti (ad summas tegulas) con tanti piani quanti ne aveva a Roma l'insula Felicles. L’INSULA FELICLES • Certo l'esempio di questo grattacielo rimane unico nella Roma imperiale ma era molto frequente che venissero costruiti edifici di cinque, sei piani. Giovenale ci racconta di considerarsi fortunato perché per tornare nel proprio alloggio a Via del Pero sul Quirinale, si doveva arrampicare sino al terzo piano ma per altri non era così. Il poeta satirico in occasione di uno dei frequenti incendi che colpivano le zone popolari della città immagina di rivolgersi a un abitante di un'insula che sta andando a fuoco e che abita molto più in alto del terzo piano: «Già il terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno in su c'è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle tegole, dove le colombe in amore vengono a deporre le loro uova». LE INSULAE DI LUSSO • D'altra parte le insulae non erano tutte destinate ai ceti meno facoltosi. Vi erano infatti le insulae che al piano terra aveva un solo appartamento dalle caratteristiche molto simili a una casa signorile, domus infatti veniva chiamato, mentre ai piani superiori c’erano i cenacula destinate a inquilini più poveri; molto più diffuse erano poi le insulae che al pianterreno avevano una serie di botteghe o magazzini, le tabernae di cui sono rimaste le ossature a Ostia. Pochi erano quelli che potevano permettersi una domus al pianterreno: al tempo di Cesare, Celio pagava un affitto annuo di 30000 sesterzi. Ci si può fare un'idea dell'esosità degli affitti del tempo se si pensa che un moggio di grano costava tra i 3 e i 4 sesterzi e che le largitiones prevedevano in 5 moggi la quantità necessaria a una famiglia media per sostenersi per un mese e che il salario di un manovale era, ai tempi di Cicerone, di 5 sesterzi al giorno mentre quello di un professore di retorica di una scuola pubblica, ai tempi di Antonino Pio, ad Atene oscillava dai 24.000 ai 60.000 sesterzi all'anno che era la stessa cifra iniziale, che poteva però arrivare sino a 200000 sesterzi annui, di un membro del consilium d'Augusto. LE TABERNAE • Le tabernae si aprivano lungo la strada occupandone quasi tutta la lunghezza e avevano una porta centinata i cui battenti venivano abbassati e chiusi accuratamente con chiavistelli ogni sera. A chi le osservava dall'esterno apparivano come dei comuni magazzini o come la bottega di un artigiano o di un mercante, ma entrando si poteva notare in fondo una scala in muratura di tre, quattro gradini che si univa a una scala di legno che portava a un soppalco che prendeva luce da una finestra oblunga collocata sopra l'ingresso della taberna: questa era la casa del bottegaio le cui condizioni economiche spesso erano inferiori a quelle degli stessi inquilini delle cenacula degli ultimi piani, dovendo adattarsi a vivere in un unico ambiente dove si cucinava, si dormiva, si lavorava. L'espressione latina giuridica percludere inquilinum, bloccare un locatario, sembra derivasse dal modo con cui il proprietario costringesse gli abitanti delle tabernae, debitori dell'affitto, a pagarlo, togliendo la scala di legno che portava alla loro stanzuccia. I CROLLI • Se le insulae per molti aspetti erano simili ai nostri palazzoni moderni in effetti erano però esteticamente più apprezzabili: le pareti erano ornate con combinazioni di legno e stucco, gli ambienti avevano grandi finestre e porte, le file delle tabernae erano coperte da un portico, e là dove la larghezza della strada lo permetteva, vi erano anche delle logge (pergulae) poggianti su i portici o balconi (maeniana) in legno o in mattoni. Spesso piante rampicanti avvolgevano le balaustre dei balconi su cui si potevano vedere anche vasi di fiori, quasi dei piccoli giardini come racconta Plinio il Vecchio. A questo gradevole aspetto esteriore, non corrispondeva un'altrettanta solidità delle insulae che non avevano una base proporzionale alla loro altezza e che inoltre venivano edificate da costruttori disonesti che economizzavano sullo spessore dei muri e dei pavimenti e sulla qualità dei materiali. GLI INCENDI • • • • Ai frequenti crolli si univano gli incendi che si propagavano celermente sia per la quantità di legno che veniva usata per alleggerire le strutture e di travi per sostenere i pavimenti sia per l'angustia dei vicoli. Il plutocrate Crasso di questi eventi ne aveva fatto oggetto di speculazione edilizia: avuta notizia di questi disastri si presentava sui luoghi e, dopo aver consolato l'afflitto proprietario dell'edificio crollato o andato in fumo, gli offriva di acquistare il suolo su cui sorgeva naturalmente a un prezzo molto più basso del valore reale; con una sua squadra di muratori appositamente addestrati ricostruiva in tempi brevi un'altra insula da cui ricavare enormi profitti. Sebbene fin dai tempi di Augusto, Roma disponesse di un corpo di pompieri e di vigili, così frequenti erano gli incendi che, come dice Ulpiano, nella Roma imperiale non passasse giorno senza parecchi incendi (plurimis uno die incendiis exortis) . Quando si verificavano questi sciagurati eventi, i poveri erano in un certo senso favoriti rispetto ai ricchi delle domus: quelli infatti si mettevano più rapidamente in salvo non avendo oggetti preziosi o mobili, quasi assenti nei loro alloggi, da mettere in salvo. Non che i ricchi avessero una gran quantità di mobilia da preservare dal fuoco, ma piuttosto oggetti d'arte preziosi per la loro manifattura, quelli che noi chiameremo soprammobili. L’INSULA NELL’ETÀ DELL’IMPERO • Come scrive Vitruvio, l'accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un'estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell'altezza degli edifici». Lo stesso Augusto spaventato per l'incolumità dei cittadini e dai crolli ripetuti di tali case emanò un regolamento che vietava ai privati di innalzare costruzioni che superassero i 70 piedi (poco più di 20 metri). L'avidità dei costruttori approfittò dei limiti imposti dalla regolamentazione augustea per sfruttare al massimo lo spazio costruendo in altezza anche là dove non era necessario. DOMUS • • • La domus era una tipologia di abitazione utilizzata nell'antica Roma. Era un domicilio privato urbano e si distingueva dalla villa suburbana, che invece era un'abitazione privata situata al di fuori delle mura della città, e dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di ambienti appositi per i lavori agricoli. La domus era l'abitazione delle ricche famiglie patrizie, mentre le classi povere abitavano in palazzine fatiscenti chiamate insulae. La domus si sviluppava in orizzontale ed era composta da molte stanze con funzioni diverse. Generalmente la domus signorile non era dotata di finestre sull'esterno, o, se vi erano, erano molto piccole per evitare che dall'esterno potessero entrare rumori o, peggio, ladri. L'illuminazione era fornita dalla luce solare che entrava dal compluvium dell'atrio e illuminava di riflesso le stanze ad esso adiacenti. Dal compluvium entrava, oltre che la luce anche l'acqua piovana che veniva raccolta in una vasca o cisterna quadrangolare al centro dell'atrio detta impluvium. DOMUS • Le domus erano le abitazioni delle ricche famiglie patrizie e derivano dalle capanne dei pastori. • Le prime domus erano costruite con argilla per i muri e stoppie per il tetto, solo successivamente i muri saranno costruiti con il tufo, il tetto con le tegole e si introdurranno anche le porte con gli stipiti in tufo. • Il primo modello di domus che si diffuse fu quello ad atrio: in questo tipo di domus la casa si sviluppava intorno all’atrio di forma arcaica, chiamato così perché si incontravano le quattro colonne. • Successivamente l’atrio da arcaico si trasformò in canonico poiché comprendeva il peristilio (giardino delimitato da ogni lato da un portico), in questo periodo si diffuse anche la tecnica costruttiva ad opera cementizia e la pianta rettangolare. • In una domus poteva abitare solo una famiglia, ma non erano mai isolate o singole. DOMUS • • • • • • • • • • L’atrio era la parte più importante della casa poiché da qui si dipartivano tutte le stanze. Spesso l’atrio era preceduto dal vestibulum che era uno spazio in cui i clientes sostavano in attesa di riverire il loro patronus per il saluto mattutino, che a sua volta era preceduto dal fauces, l’ingresso. Nell’atrio inoltre si trovava il lararium che era una piccola cappella per i lari che i membri della famiglia pregavano ogni giorno, affinché li proteggessero dato che i lari erano gli spiriti buoni della famiglia. C’erano cinque tipologie di atrio: 1)Tuscanicum, che era il tipo più diffuso e antico in cui il peso del tetto era sorretto unicamente dalle travi orizzontali. 2)Tetrastylum, con una colonna a ciascuno dei quattro angoli dell’impluvium. 3)Corinthium, con un maggior numero di colonne. 4)Displuviatum, con pendenza del tetto verso le pareti di modo che l’acqua sgrondasse nelle quattro docce agli angoli. 5)Testudinatum, privo dell’impluvium. Accanto all’atrio c’era il tablinum che veniva usato come soggiorno. DOMUS • • • • • • Dopo trovavamo il peristilio dal quale si poteva accedere alle altre stanze della casa: il triclinium era la sala da pranzo nella quale si mangiava semi sdraiati sui letti tricliniari; i cubicula erano le stanze da letto; il balneum era la sala da bagno che di fatto era la copia delle terme in quanto aveva l’apodyterion che era lo spogliatoio; il calidarium che era la stanza dell’acqua calda; il tepidarium che era quella dell’acqua tiepida e il frigidarium che era quella dell’acqua fredda. Alcune avevano addirittura anche la biblioteca, il diaeta che era un padiglione per l’intrattenimento degli ospiti e il solarium che era una terrazza per prendere il sole. Infine c’erano altre tre stanze all’interno della domus: la culina, che era la cucina dove gli schiavi cucinavano per il loro padrone, le cellae servorum che erano le stanze per gli schiavi e l’exedra, che era una sala dove il padrone riceveva le persone di prestigio. Inoltre nel retro potevamo trovare un piccolo orto. Le stanze che si affacciavano direttamente sulla strada, il padrone le affittava a piccoli artigiani o commercianti perché ci aprissero le loro botteghe e venivano chiamate tabernae. Le dumus non erano molto arredate, avevano solo dei mosaici per il pavimento e le pareti venivano dipinte solo fino a dove si riusciva ad arrivare. DOMUS VILLAE DEI PATRIZI • I patrizi avevano inoltre una villa. • Inizialmente la villa era una fattoria dove abitavano il padrone e gli schiavi in modo che il padrone potesse controllare direttamente il lavoro degli schiavi. • Potevamo trovare gli alloggi della familia, le stalle degli animali, i locali dove si lavoravano i prodotti agricoli come ad esempio il formaggio e i magazzini dove si conservava il cibo. VILLAE DEI PATRIZI • Con il passare del tempo il padrone e la sua famiglia preferirono avere una domus in città e la villa divenne di fatto la casa in campagna o al mare della famiglia e ne potevamo trovare tre tipi: • 1)La villa suburbana, si trovava al mare o in campagna e manteneva la stessa pianta rettangolare della domus, ma aveva giardini più sontuosi. • 2)La villa rustica, che di fatto era la fattoria da cui derivano le ville. Aveva due giardini, uno interno ed uno esterno dotati di vasche in cui si abbeveravano gli animali e si lavavano gli abiti. Intorno al cortile c’erano le stanze degli schiavi, una grande cucina e le stalle per i buoi. A nord, perché fossero freschi, trovavamo i magazzini e annessa alla villa c’era l’aia con i capanni per gli attrezzi. • 3)La villa urbana, era la casa di campagna per il riposo o la villeggiatura. Era più sontuosa della domus, potevamo trovare la cubicola diurna, che era la stanza per il riposo diurno e la piscina per il nuoto. Infine aveva un giardino con fiori, piante rare, fontane, giochi d’acqua e statue. VILLAE DEI PATRIZI Villa suburbana Villa rustica Villa urbana IL MOBILIO DELLA CASA • Il mobilio era ridotto all’essenziale e perciò lo splendore della casa derivava dai marmi e dai loro pregi, dagli affreschi alle pareti, dai mosaici policromi, dalle statue e dai giardini. • Per i Romani la maggior parte del mobilio consisteva nei letti. Il povero aveva per letto un giaciglio di mattoni accostato al muro, mentre il ricco disponeva di una serie di letti sui quali non solo si dormiva, ma si mangiava, si scriveva, si riceveva. • I più diffusi erano dei lettini a una piazza (lectuli); vi erano poi quelli a due piazze per gli sposi (lectus genialis), a tre piazze per la sala da pranzo (triclinia) arrivando sino a sei piazze per i ricconi che volevano stupire i loro ospiti. I letti potevano essere in bronzo, più spesso in legno lavorato o in legni pregiati esotici che lucidati emanavano tanti colori come le piume di un pavone (lecti pavonini). IL MOBILIO DELLA CASA • • Il triclinio era il locale in cui veniva servito il pranzo nelle case degli antichi romani dove, specialmente nelle case dei patrizi, era molto comune e veniva usato per intrattenere gli ospiti. Ogni letto era capace di ospitare tre commensali che stavano sdraiati su dei cuscini attorno a un tavolo basso. Un'accurata ricostruzione di un triclinio si può vedere al Museo Archeologico di Arezzo. Il pranzo era un rituale nella vita degli antichi romani e durava dal primo pomeriggio fino a notte fonda. Generalmente da 10 a 20 commensali prendevano posto intorno a un tavolo sistemati in modo tale da enfatizzare la loro importanza a seconda della vicinanza al padrone di casa. Vista l'importanza del locale il triclinio veniva decorato con mosaici o affreschi sulle pareti. Dioniso, Venere e nature morte erano molto comuni nelle decorazioni di questi locali. Le case dei patrizi avevano almeno due triclini e non era difficile trovare case con quattro e più triclini. In queste case il triclinius maius, (grande sala da pranzo) era usato per dare delle feste alle quali erano invitati un gran numero di ospiti. I triclini più piccoli venivano usati per un piccolo gruppo di ospiti di riguardo e per questo motivo spesso erano decorati in maniera splendida tali da rivaleggiare con quelli più grandi. Nei triclini si mangiava e beveva ma durante il pasto venivano anche recitati degli spettacoli per intrattenere gli ospiti e perciò nelle decorazioni dei locali era spesso inserita l'epopea di Enea e dell'Eneide. IL MOBILIO DELLA CASA Riproduzione di un triclinium Triclinium IL MOBILIO DELLA CASA • Molto diversi dai nostri tavoli a quattro gambe erano quelli romani (mensae) spesso costituiti da ripiani di marmo poggianti su un piede sui quali venivano esposti per essere ammirati gli oggetti più preziosi (cartibula), o da tavolini tondi in legno o bronzo con tre o quattro gambe mobili. IL MOBILIO DELLA CASA • Molto più rare erano le sedie di cui i romani non sentivano la necessità poiché usavano prevalentemente i letti. Vi era una particolare sedia, una specie di seggiolone (thronus) ma era destinato agli dei. • La sedia con la spalliera più o meno inclinata (cathedra) era usata dalle grandi dame romane che Giovenale, poeta romano, accusava di mollezza. I resti di questa particolare sedia sono stati ritrovati nella sala di ricevimento del palazzo di Augusto e nello studio di Plinio il Giovane dove egli riceveva i suoi amici. Successivamente divenne la sedia del maestro nella scuola e del prete cristiano. IL MOBILIO DELLA CASA • I romani sedevano di solito su dei banchi (scamna) o preferivano usare degli sgabelli senza spalliera e braccioli (subsellia) che portavano con sé. • Tappeti, coperte, trapunte completavano l'arredamento della casa romana stesi sul letto o sulle sedie dove brillava il vasellame in argento dei ricchi, spesso istoriato d'oro dai maestri cesellatori e incastonato di pietre preziose. Ben diverso quello dei poveri in semplice argilla. GLI IMPIANTI IDRAULICI • • I Romani furono maestri nella meccanica e nell'energia idraulica. Le loro costruzioni degli acquedotti sono ancora oggi considerate come una delle meraviglie più affascinanti del mondo antico. Non bisogna dimenticare infatti che la fornitura dell'acqua, a spese dello stato, era stata concepita fin dall'inizio come un servizio pubblico, ad usum populi, a vantaggio della collettività e non dell'interesse privato. L'acqua era di proprietà statale, ma dietro concessione dell'imperatore o attraverso il pagamento di una tassa, era possibile ottenere l'allaccio. Tuttavia, vi era molto rigore nella concessione di questi attacchi costosissimi all'acquedotto, tanto che, dopo poche ore dalla morte di colui che ne usufruiva, essi venivano immediatamente soppressi dall'amministrazione. GLI IMPIANTI IDRAULICI • • Era consentito allacciarsi per l'acqua nelle coltivazioni agricole, anche se di solito adoperavano canali scavati con bacini e chiuse. I Romani avevano ricavato la tecnica dell’irrigazione dei campi dagli Etruschi, i quali erano maestri in merito. Quattordici acquedotti che portavano all'Urbe un miliardo di litri d'acqua al giorno, 247 vasche di decantazione (castella), le numerose fontane ornamentali e le grosse canalizzazioni delle case private, hanno fatto pensare che nella case romane vi fosse una distribuzione di acqua corrente. In realtà, non era però così: solo con il principato di Traiano, infatti, l'acqua (aqua Traiana) di sorgente fu portata sulla riva destra del Tevere dove la gente sino ad allora si era dovuta servire di quella dei pozzi. Queste derivazioni riguardavano unicamente le case signorili della domus o dei pianterreni: difatti, negli scavi archeologici, non è mai stata ritrovata alcuna colonna portante che possa far pensare che l'acqua fosse portata ai piani superiori. Anche alcuni testi antichi testimoniano e confermano questa situazione: nelle commedie di Plauto il padrone di casa si preoccupa in effetti di avere sempre a sua disposizione una riserva d'acqua. I vigili del fuoco imponevano inoltre ai padroni di casa di far trovare sempre delle riserve d'acqua pronte per spegnere gli eventuali incendi. Tale obbligo non sarebbe di certo stato ritenuto necessario se vi fosse stata la presenza di acqua corrente nelle insulae che, proprio per questa mancanza, difettavano della pulizia necessaria, complicata dalla mancanza di fognature. GLI ACQUEDOTTI • Il primo acquedotto fu realizzato da Appio Claudio nel 312 a.C., cui ne seguirono circa uno ogni 60 anni a causa dell'aumento della popolazione. • Per permettere l'inclinazione delle tubature ci si serviva della coròbate: una specie di livella con fili pendenti di piombo con cui veniva misurato il piano e una vaschetta superiore che non doveva debordare. Gli ingegneri, una volta disegnata la pianta e il percorso dell'acquedotto, analizzavano ogni dieci metri il terreno, annotando la presenza di eventuali salite e discese. Successivamente, procedevano interrando o alzando su archi le tubature che dovevano avere un'inclinazione leggerissima e costante, per fare in modo che l’acqua giungesse senza alcun problema dalla sorgente a Roma. GLI ACQUEDOTTI • Nelle insule povere, però, l'acqua non arrivava e ci si serviva dei portatori d'acqua (aquarii) che la legge della successione stabilì di proprietà assieme all'edificio, affinché non mancassero acqua, controllo e pulizia delle strade. • Un’ alternativa agli aquarii era costituita dalle cisterne. Il “Castellum aquae” è un esempio di cisterna conservato nella città di Pompei; si trattava di un grosso serbatoio d’acqua posto sul punto più alto della città e collegato all’acquedotto. L’ingresso era chiuso con una porta massiccia, mentre il serbatoio all’interno era diviso in tre scomparti: uno per le fontane, uno per gli edifici pubblici ed uno per le abitazioni private. In caso di mancanza d’acqua, si interrompevano automaticamente le forniture alle case e alle terme, mentre venivano lasciate in funzione quelle per le fontane pubbliche. GLI ACQUEDOTTI • • • • La portata d’acqua degli acquedotti poteva superare, nella stagione più favorevole, i 150000 metri cubi al giorno, poco meno di sei metri cubi al secondo. Dobbiamo però osservare che il flusso era continuo, giorno e notte, quindi gran parte dell’acqua ‘passava in città’ senza essere utilizzata, confluendo nei canali di scarico. Questo apparente ma inevitabile consumo assicurava, per contro, una continua pulizia di tubazioni, canali e fognature. Ciò rappresentava, forse, il vero motivo di sicurezza di fronte alle epidemie che una così grande popolazione, raccolta in un’unica città, poteva subire a quei tempi. Il primo acquedotto che, a Roma, sfruttò la tecnica di scavalcare le valli con ponti ad arcate è l’Anius Vetus (272 a.C.), alimentato dalle acque del fiume Aniene. Nel 140 a.C. entra invece in servizio l’Aqua Marcia, condotta di oltre 90 chilometri voluta dal Pretore Quinto Marcio; l’Aqua Iulia nel 33 a.C.; l’Aqua Claudia, dell’omonimo imperatore, nel 52 d.C., per citare i maggiori. GLI ACQUEDOTTI ILLUMINAZIONE • • L’illuminazione della casa romana non era molto efficace perché le finestre non erano provviste del lapis specularis, che veniva invece usato per le serre, le sale da bagno o le portantine e che consisteva in una sottile lastra di vetro o ceramica che lasciava filtrare molta luce, ma erano provviste di tele o pelli che lasciavano passare molto vento, rendendo la casa fresca d’estate o battenti di legno che invece riparavano meglio dal freddo durante l’inverno; però entrambi questi elementi facevano filtrare molta poca luce, rendendo la casa quasi del tutto buia, infatti per spostarsi da una stanza all’altra usavano le lanterne e a volte le stanze erano illuminate da lucerne. La luce poteva entrare anche dal compluvium che consisteva in un cortile scoperto dove si trovava una vasca detta impluvium, che serviva per raccogliere l’acqua piovana che veniva usata poi per lavarsi e cucinare. RISCALDAMENTO • Anche l’impianto per il riscaldamento non era migliore. • I contadini nelle capanne per scaldarsi accendevano dei fuochi poiché il tetto era provvisto di un foro dal quale usciva il fumo, ma questo non era possibile nelle case poiché non erano provviste di questo foro. • Le case venivano quindi riscaldate dagli ipocausi, impianti alimentati a fuoco dalla legna e da un canale attraverso il quale passava il calore, la fuliggine e il fumo, che finiva nell’ipocausto accanto che era formato da piccoli mattoncini, le suspensurae, attraverso il quale circolava il calore del pavimento della stanza, che era sospesa sopra lo stesso ipocausto; questo sistema veniva utilizzato anche per scaldare il calidarium delle terme, ma non era molto efficace dato che non era adatto a riscaldare grandi spazi, poiché le suspensurae non ricoprivano mai un intero ipocausto, ma le case a quell’epoca erano formate da molti piani, in più non esistevano i camini e spesso per riscaldarsi utilizzavano bracieri portatili con il rischio di soffocamento per l’inalazione di gas di monossido di carbonio. RISCALDAMENTO Suspensurae IL SISTEMA FOGNARIO • • • I Romani capirono ben presto che l’igiene era un elemento fondamentale per sostenere una buona qualità della vita in una città tanto popolosa. Lo dimostra la costruzione di un grande sistema fognario fin dai tempi più antichi. Tuttavia la maggioranza delle abitazioni di Roma e soprattutto le grandi insulae popolari rimasero prive di latrine in quanto mancavano dell’acqua corrente necessaria per far defluire gli scarichi. Lo Stato allora andò incontro alle esigenze della popolazione facendo costruire delle latrine pubbliche. Alcune fonti romane registrarono l’esistenza di ben 144 latrine pubbliche. Nelle città fornite di impianto fognario, le canalizzazioni seguivano i tracciati delle strade. Se il rilievo del terreno lo permetteva, si cercava di creare una rete di canalizzazioni secondarie che sboccavano in un collettore principale, che conduceva le acque putride fuori città. CLOACA MASSIMA • • A tutti è noto il sistema fognario romano con la famosa Cloaca Maxima (la fognatura più grande), la più antica delle fogne romane, ancora funzionante, iniziate a costruire nel VI secolo a.C. Il sistema fognario fu merito soprattutto di Agrippa nel quale fece riversare anche l'acqua in eccesso degli acquedotti e che lo rese così spazioso che poteva essere percorso in barca. I romani tuttavia non la utilizzarono al massimo delle sue potenzialità, servendosene solo per eliminare i liquami delle abitazioni al pianterreno e delle latrine pubbliche. Mancano prove certe dagli scavi archeologici che i piani alti delle insulae fossero collegate al sistema fognario e i più poveri dovevano necessariamente, pagando una modesta somma, far uso delle latrine pubbliche gestite da appaltatori del fisco (conductores foricarum). IL SISTEMA FOGNARIO • • Contrariamente a quello che si può pensare le latrine pubbliche erano dei locali arredati con una certa ricercatezza. Vi era un emiciclo o un rettangolo attorno al quale scorreva acqua in continuazione in canali davanti ai quali c’erano una ventina di sedili in marmo forniti di fori su cui si incastrava tra due braccioli raffiguranti dei delfini la tavoletta adatta alla bisogna. L'ambiente era riscaldato e ornato persino con statue. I più poveri o avari si servivano invece degli orci sbeccati per l’uso. Latrine pubbliche IL SISTEMA FOGNARIO • Poteva esserci poi un recipiente apposito, se il proprietario aveva dato il consenso, collocato nel vano della scala, il dolium, dove gli inquilini potevano svuotare i loro vasi. Da Vespasiano in poi i commercianti di concimi acquistarono il diritto di svuotarli periodicamente. IL SISTEMA FOGNARIO • Nella Roma imperiale esistevano anche dei pozzi neri (lacus) che deturpavano la città non solo per gli evidenti motivi ma anche perché spesso le donne di malaffare vi gettavano o esponevano i loro neonati. Non si riuscì a liberarsi di questa sconcezza, fino all’arrivo del grande imperatore Traiano. • Per quelli poi che non volevano affaticarsi ad andare ai luoghi di scarico o fare le ripide scale della loro insula, il metodo più facile per sbarazzarsi delle loro deiezioni era quello di buttarle in strada dalla finestra, con quale soddisfazione dei passanti è facile immaginare, ma si cercò in tutti i modi di cogliere questi sciagurati sul fatto organizzando delle sorveglianze apposite e di punirli duramente con le leggi. LA CUCINA • • • La cucina era un ambiente di scarso rilievo e di modeste dimensioni, dove su un bancone di laterizio si preparavano le pietanze, cucinando in piccoli forni o sopra ai bracieri. Il bancone per cucinare era in laterizio, con aperture sottostanti dove porre il legno, il carbone o la paglia, un po’come si usa ancor oggi in tante campagne. Sul muro erano posizionate diverse mensole porta oggetti in legno, sulle quali venivano poste ad esempio le pentole. Alla parete, invece, un travetto di legno permetteva di appendere le padelle, in bronzo o ferro. I Romani erano soliti accendere il fuoco con un piccolo ferro di cavallo che impugnavano da un lato percuotendo un pezzo di quarzo. Le scintille andavano a cadere sui fomes, i funghi che crescono alla base degli alberi, appositamente essiccati ed approntati in precedenza. Il fuoco veniva poi trasmesso alla paglia e finalmente alle fascine di legna. IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI • • • I Romani, popolo sviluppatosi da un piccolo villaggio di agricoltori, mantennero da principio a tavola abitudini frugali. La grande trasformazione della cucina arrivò con le prime conquiste, a partire dai contatti con la Magna Grecia, quando man mano centinaia di ingredienti e cibi sconosciuti arrivarono dai loro nuovi domini. All’inizio mangiavano soprattutto uova, latte e formaggi. L’uovo era simbolo della rinascita e della fecondità, era mangiato sempre all’inizio dei pasti. Il latte (di capra, vacca, asina o cavalla) considerato un alimento indispensabile, era bevuto sia fresco che aromatizzato. Veniva impiegato per preparare zuppe, finché non venne sostituito dal brodo di carne. Il latte con aggiunta di farina, miele e frutta serviva per preparare dolci. Da esso si ricavava il formaggio, che gli antichi romani consideravano un piatto completo, usato in aggiunta alla polenta o come condimento. Il burro era usato raramente, poiché non si conosceva la tecnica per conservarlo e veniva impiegato piuttosto come medicinale o unguento per il corpo. Lo yogurt esisteva, ma non era paragonabile a quello odierno, visto che era fatto con latte, aceto e cipolla. IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI • • • • La carne venne introdotta con l’urbanizzazione e la più utilizzata era quella di suino, mentre la migliore era considerata quella d’agnello o di capretto. La carne meno pregiata era quella di montoni e capre mentre i più ricchi preferivano il pavone e il ghiro. Si consumavano anche la carne d’asino selvatico e la selvaggina di grande e piccola taglia (cinghiale, lepre, oca e anatra). Non veniva invece mangiata la carne di bue, sia perché questo veniva utilizzato nel lavoro dei campi, sia perché era ritenuto sacro. Per quanto riguarda gli uccelli, oltre a tordi e piccioni, i Romani cucinavano specie importate dalle varie regioni dell’impero, come fenicotteri, cicogne e grù e molto ricercati erano i piatti a base di pavone e di fagiano. Quanto al pollo, era considerato poco pregiato ed era consumato soprattutto dai poveri. Il pesce era di solito accompagnato da verdure bollite, carni o fegati. Tra le varietà più diffuse c’erano l’orata, la triglia, la sogliola e il luccio. I frutti di mare, che da principio venivano mangiati durante il periodo della carestia, ben presto furono considerati un piatto prelibato. Più tardi il pesce, sia di fiume che di mare o allevato in grandi vivai, divenne per i romani un alimento essenziale, tanto che si contavano ben 150 specie conosciute. Molto richiesti erano aragoste, seppie, scampi, astici, polpi, datteri, rane, gamberi e soprattutto le ostriche di cui addirittura i benestanti possedevano allevamenti personali. Tra le verdure andavano per la maggiore radici, rape, barbabietole, carote, ravanelli, bulbi, porri, ma anche asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli. IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI • Sulla tavola dei Romani il pane non mancava quasi mai. Il primo frumento usato per prepararlo fu il farro, che era ai tempi il cereale più coltivato mentre dal grano si ricavava una specie di pappa di frumento. All’inizio il pane veniva fabbricato in casa, poi cuochi e artigiani specializzati aprirono vere e proprie panetterie con tanto di forni e mulini. Vi erano essenzialmente tre tipi di pane: quello nero o dei poveri, il pane bianco (poco migliore del primo) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi. Il pane veniva preparato anche con miele, vino, latte, olio, frutti canditi e pepe. Poiché era molto duro, veniva di solito intinto nel vino, nell’olio, nelle minestre o accompagnato dalle salse. Da principio al posto del pane veniva usata la polenta che era preparata in un contenitore di terracotta dove al farro si aggiungevano acqua, sale e un po’ di latte e, a seconda dei gusti, fave, cavoli, cipolle, formaggio ed anche alcuni pezzi di carne o di pesce. Questo miscuglio conteneva un’infinità di ingredienti era chiamato satura o satira proprio perché saziava (da cui derivano i termini saturazione e satira, nel senso di battute o scherzi pesanti). IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI • Il vino, la bevanda più amata dei romani, concludeva tutte le cene e aveva un carattere sacro. Gli uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni, ovvero la maggiore età, ed era proibito alle donne. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio), che permetteva al marito di baciare la moglie sulla bocca proprio per capire se avesse o meno bevuto. I vini erano pesanti, acidi o amari e venivano serviti in coppe molto larghe e quasi piatte. Spesso veniva miscelato con acqua calda o raffreddata con la neve per abbassarne la gradazione. Quasi mai limpido, per filtrarlo veniva usato un passino. Il vino più famoso era il vinum mulsum, miscelato con il miele, molto popolare perché permetteva a donne e uomini sotto i trent’anni di aggirare il divieto di bere vino puro. Molto apprezzati erano anche i vini pepati e aromatizzati: di solito venivano aggiunte spezie come mirra, canna, giunco, cannella e zafferano. Il vino era conservato fino a 15 anni in anfore con tappi di sughero o argilla e sulle anfore usate per il trasporto era riportata su una targhetta l’origine e la data di produzione per tutelare l’acquirente, anche se già all’epoca esistevano casi di alterazione. I vini invecchiati (quelli cioè che avevano passato l’estate successiva alla data di produzione) considerati di gran pregio, venivano ostentati dai ricchi nei loro banchetti. Il consumo di vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale, soprattutto nelle zone di produzione e nelle grandi città. Il consumo medio in un anno era di 140 – 180 litri a persona e la ragione era forse anche nel grande apporto calorifero che dava alla dieta dei romani costituita in gran parte da cereali e vegetali. Non mancavano i surrogati come la “lora”, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua subito dopo la vendemmia e la “posca”, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Tra i poveri e i barbari era invece diffusa la birra. LE STRADE ROMANE Plinio il Vecchio citava “I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette, cioè nell'aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache" Infatti, l'immenso complesso di strade realizzate dai Romani rappresentano un'opera di straordinaria ingegneria che, con complessivi 100.000 Km di lastricato, hanno contribuito allo sviluppo della civiltà romana in tutto il mondo allora conosciuto. Le strade dei Romani, le “CONSOLARI”, sono considerate tra le realizzazioni più gloriose e durature di Roma Antica. Vi furono circa 100.000 chilometri di strade lastricate e sicure ed altri 150.000 chilometri di strade in terra battuta, ma sufficientemente larghe e adatte per i carri. La larghezza di ogni strada era di circa 5 metri, in modo che potessero affiancarsi, senza danno, due carri. I primi costruttori di strade sul suolo italico furono però gli Etruschi. La VIA CLODIA ricalcò almeno in parte un'importante percorso etrusco che collegava Caere (Cerveteri) a Volsini Novii (Bolsena), con la VIA CASSIA, da Roma a Cortona. Gli Etruschi si limitarono però a usare un tufo compatto, mentre i Romani usarono la selce, molto più dura e resistente, il cosiddetto BASOLATO romano. Esistevano presso i Romani vari tipi di strade, dalle strade di tronchi, alle strade scavate nel tufo come fecero gli Etruschi (ma che i Romani poi ripavimentarono), alle strade pavimentate in acciottolato (GALERATUM), alle strade in basolato romano, le più resistenti in assoluto. Con il nome di vie, VIAE, venivano indicate le strade extraurbane che partivano da Roma, mentre le strade, STRATA, (cioè fatte a strati) quelle all'interno di un centro abitato. Le strade dovevano durare a lungo e la loro costruzione era molto accurata. I Romani distinguevano: - La VIA, dove si poteva transitare con i carri, quindi che permetteva il transito di due carri contemporanei in senso opposto (da qui il termine carreggiata) - L'ACTUS, dove si poteva transitare solo a piedi o a cavallo, largo circa la metà della via, - L’ITER, dove si poteva andare a piedi o in lettiga ma senza usare animali. -La SEMITA era una semi-iter, più piccola. - Il CALLIS una stradina tra i monti. - La TRAMES era la via traversa di un'altra via. - Il DIVERTICULUM una strada che si staccava dalla consolare per arrivare a una località. Si dividevano poi in: -Strade pubbliche, dette PRETORIE e CONSOLARI, a seconda se costruite da un pretore o un console. - Strade private dette AGRARIE. COSTRUZIONE STRADALE Si ritiene che i Romani abbiano ereditato l'arte di costruire le strade dagli Etruschi, migliorando il metodo e i materiali. In effetti diverse strade romane ricalcarono le strade etrusche, ad esempio la Via Flaminia attraverso l'AGER VEIENTANUS e FALISCUS, o alcuni tratti della Claudia scavata nel tufo e ripavimentata poi dai Romani, o la strada di Pietra Pertusa che collegava Veio con il Tevere, o tratti dell'Aurelia o della Cassia. Il sistema costruttivo di una strada romana era piuttosto complesso. Per prima cosa, venivano definiti i margini e scavata profondamente la terra per liberare la zona che successivamente sarebbe stata occupata dalla carreggiata. All'interno dello scavo si sistemavano quindi quattro strati sovrapposti di materiali diversi (VIAM STERNERE): 1- Lo STATUMEN, la massicciata di base, composta di blocchi molto grandi e alta non meno di 30 cm. 2- La RUDERATIO, fatta da pietre tondeggianti legate con calce, il cui spessore non era mai inferiore a quello della massicciata. 3- Il NUCLEUS, uno strato di grossa ghiaia livellato con enormi cilindri 4- Il PAVIMENTUM, ossia il rivestimento, generalmente in grossi massi di SILEX, una pietra basaltica di eccezionale durezza e sostanzialmente indistruttibile. La costruzione iniziava con un sopralluogo dell'architetto, che stabiliva dove doveva passare la strada, poi toccava agli agrimensori, che individuavano i punti precisi dove doveva passare. Per questo usavano dei pali e la GROMA, in modo da tracciare angoli retti. La linea dei pali infissi nel terreno, veniva chiamata RIGOR, perchè andava seguita rigorosamente. L'architetto cercava poi di mantenere il tracciato dritto spostando i pali. Poi con la groma si tracciava la griglia. GROMA A questo punto sopraggiungevano i LIBERATORES che, con aratri e aiutati dai legionari con le spade, scavavano il terreno fino allo strato di roccia, o fino a uno strato solido. La profondità di questa fossa variava da terreno a terreno, che massimo poteva raggiungere 2 m di profondità, ma in genere andava dai 60 cm al metro. Per costruire la strada si riempiva la fossa con strati di materiali diversi. Il riempimento variava a seconda della località, del terreno e dei materiali a disposizione, in genere con strati di terra, sassi, brecciolina, pietra e sabbia fino a raggiungere il livello del terreno. A circa 60 cm - 1 m dalla superficie, la fossa veniva coperta di brecciolina e poi compattata. La superficie piana (PAVIMENTUM), si poteva già utilizzare come strada, oppure ricoprire con altri strati. Alcune volte si metteva una "fondazione" in pietre piatte per supportare meglio gli strati superiori. Le pietre non venivano squadrate per non dare una linea di frattura alla strada, continuamente sollecitata dai carri. I letti di pietre sbriciolate servivano anche a far che le strade rimanessero asciutte, in quanto l'acqua filtrava attraverso le pietre, invece di formare fango. Sopra si mettevano le pietre piatte che siamo abituati a vedere ancora oggi, dette SUMMA CRUSTA . Queste non erano disposte in piano, ma con il centro strada più alto dei bordi, per favorire lo scolo delle acque. Queste notevoli strade erano resistenti alla pioggia, al gelo e alle inondazioni, e non avevano bisogno o quasi di riparazioni. Naturalmente il terreno su cui doveva passare una strada non era sempre privo di ostacoli, i ruscelli si potevano superare con un semplice ASSITO, un ponticello fatto a tavole di legno su due assi, piatto o a schiena d'asino, ma per un fiume era necessario un ponte. Gli architetti romani erano maestri in quest'arte, specie gli ingegneri militari. I ponti in legno poggiavano su piloni infissi nel letto del fiume, oppure su basamenti in pietra. Il ponte interamente in pietra però richiedeva la costruzione ad arcate, una tecnica che i romani avevano appeso dagli Etruschi. I ponti romani erano così ben costruiti che molti di essi vengono usati tuttora. Nei terreni paludosi si costruivano invece strade rialzate. Si segnava il percorso con dei piloni, poi si riempiva lo spazio fra di essi con grandi quantità di pietre, innalzando il livello stradale fino a 2 metri sopra la palude. Questo avveniva principalmente in Italia, mentre nelle province si costruivano i PONTES LONGI, cioè lunghi ponti fatti con tronchi d'albero. Nel caso di grandi massi che ostruivano il cammino, dirupi, terreni montuosi o collinari si ricorreva spesso a possenti sbancature o a gallerie, interamente scavate a braccia. La galleria della gola del Furlo, vicino a Fano, è romana e vi passa una strada statale. Il viadotto di Ariccia, usato a tutt'oggi, è romano del II sec. a.c., lungo 231 m e alto fino a 13 m. Le strade romane procedevano sempre dritte, anche in terreni con forti pendenze. Non è raro trovare inclinazioni del 10%-12% in collina, e fino al 15%-20% in montagna. I PONTI E LA LORO COSTRUZIONE L’esercito percorreva circa 30 km al giorno, mentre un messaggero a cavallo sino a 200 km al giorno. Ne furono costruiti circa 2000, di ogni tipo: in pietra, in legno ad una o più arcate, a uno o più piani, e su ogni fiume; molti di essi esistono ancora e sono usati. Si concepì dunque il ponte in questo modo. Piedritti in legno dello spessore di un piede e mezzo, appuntiti all'estremità inferiore e di altezza adeguata alla profondità del fiume, furono collegati a coppie tenendoli distanziati di due piedi. Questi furono messi in posizione e infissi con battipali, non verticalmente come le comuni palificate, ma inclinati secondo corrente. Queste strutture furono poi collegate con travi longitudinali, sulle quali fu steso un impalcato di tavolame e graticci; inoltre altri pali obliqui furono infissi dal lato di valle, i quali, con la loro funzione di puntello intelaiato con le altre strutture, contribuivano a sostenere la spinta della corrente; altri pali ancora furono infissi poco a monte del ponte, a difesa da eventuali tronchi d'albero o altri natanti gettati dai nemici, per attutirne l'impatto ed evitare danni al ponte. I PIEDRITTI I piedritti dei ponti sono tutte parti di sostegno che trasmettono alle fondazioni le spinte e i carichi generati dalla struttura: per evitare danni i piedritti sono spesso difesi da rostri: avambecchi o retrobecchi. I piedritti che dovevano costruire il ponte non erano in pietra, ma in legno, grossi pali squadrati che dovevano sostenete il camminamento e i parapetti del ponte e furono inflitti profondamente per non essere divelti dalla corrente IL BATTIPALO Un battipalo è una macchina per infiggere nel terreno dei pali, un corpo pesante e rigido che viene fatto battere ripetutamente in cima al palo posto verticalmente sul terreno, sfruttando la forza di gravità. Era una specie di argano che lasciava cadere il peso in pietra o in calcestruzzo che col suo peso e la sua velocità vibrava colpi sui pali come un maglio, tanti colpi quanti erano necessari per conficcare i pali alla giusta profondità. Veniva costruito a riva, poi gli si agganciavano due corde che venivano portate lungo il fiume fino all'altra riva. Poi gli venivano fissate altre due corde e così via, affinchè attraverso il tiro di corde il battipalo potesse farlo spostare lungo il fiume per battere ogni palo necessario. Ma i pali non erano diritti, per cui fu necessario porre nello strumento del battipalo una guida, sempre di legno, fissata in modo che la pietra scivolasse su di essa con la stessa inclinazione dei pali, per colpirli verticalmente nonostante fossero inclinati. La costruzione del ponte doveva essere iniziata formando specie di cavalletti alti e stretti. Questi non vennero conficcati diritti, ma inclinati nel senso della corrente. IL CAEMENTUM ROMANO Il cemento è un legante dell'edilizia prodotto per macinazione fine di calcare e argilla, miscelati e cotti . Gli antichi romani inizialmente impiegavano come legante prevalentemente la CALCE AEREA, con la quale l'indurimento del calcestruzzo avveniva con estrema lentezza. Il termine CAEMENTUM, aveva già assunto in epoca Romana il significato di legante, cioè di materiale in grado di legare altri materiali (sabbia, pietrisco ecc.) altrimenti disgregati, tipo frammenti di pietre e di laterizi. Il cemento reagisce con l’acqua formando un impasto, che indurisce fino a prendere la consistenza della pietra. Quando è con sabbia e ghiaia o pietrisco si chiama calcestruzzo. Il cemento romano è composto di calce ottenuta per cottura e/o pozzolana. Al cemento erano mescolati pezzi di pietra, diversa a seconda dell’uso del cemento: le pietre venivano tenute a mollo per giorni prima di essere inserite a forza nell'impasto. I Romani avevano vari modi di usare il cemento, e tra le più importanti opere cementizie ricorrono: OPUS CAEMENTICIUM L'opera cementizia era realizzata dunque con malta e CAEMENTA. I romani cominciarono ad utilizzarla come calcestruzzo romano, già nel III sec. a.c.; questo materiale rivoluzionò le metodologie costruttive dell’antichità in quanto consentiva la realizzazione di grossi edifici ed opere pubbliche in tempi brevi ed utilizzando un materiale di facile reperibilità, trasporto e messa in opera LA POZZOLANA È un prodotto derivante da eruzioni vulcaniche, costituito da sabbie e pomici. Le cave più note si trovano a Pozzuoli, nel territorio tra Cuma ed il promontorio di Minerva. Ne vennero scoperte le grandi potenzialità a partire dal III sec. a.c. e veniva utilizzata in sostituzione della sabbia. OPUS QUADRATUM Si costruisce una cassaforma che funzioni da diga con pile di assi di quercia tenute insieme da catene e assi trasversali che vengono saldamente ancorate al fondo; quindi si pulisce e si livella il fondale che rimane internamente alla cassaforma e si riempie lo spazio interno fin sopra il livello dell’acqua con la malta, realizzata con due parti di pozzolana ed una parte di calce mescolate con acqua, e con pietrame. OPUS INCERTUM A partire dal 210 a.c. venne usata l’opera incerta, in cui le pietre hanno forma e disposizione irregolari; nel II sec. a.c. si migliorò progressivamente la qualità estetica dell’opus giungendo all’opera quasi reticolata in cui ancora doveva essere affinata la tecnica dei tufelli regolari. OPUS RETICOLATUM L’opus reticulatum venne usato all’inizio del I sec. a.c. ed ebbe la massima diffusione e qualità sotto Augusto; consisteva nel realizzare un’opera cementizia la cui superficie veniva rivestita di tufelli, blocchetti di pietra a forma piramidale tronca e a base quadrata che rimanevano infissi nell’opera cementizia ancora fresca dal lato della cima tronca e tutti in diagonale, ottendo così il motivo "reticolato". Le dimensioni del lato di un CUBILIA (tufello)erano alquanto variabili. OPUS LATERICIUM Utilizzata a partire dal periodo Augusteo e per tutto il periodo Imperiale, consisteva di mattoni di argilla cotti al sole nell’opus LATERICIUM e cotti in fornace nell’opus TESTACEUM e con opera laterizia si fa generalmente riferimento ad entrambe le tipologie. Il cemento romano però celava dei segreti, infatti ancora oggi è possibile osservare opere risalenti ai primi secoli d.C. L’analisi dei campioni ha spiegato che i Romani ottenevano calce viva bruciando pietra calcarea a 900˚ C o meno Una volta “spenta” con l’acqua, la mescolavano con la cenere vulcanica (pozzolana): la malta che ne risultava veniva ancora mescolata col tufo vulcanico e poi posta in forme di legno. LE PIETRE MILIARI Le strade erano larghe dai 4 ai 6 m, così che si potessero incrociare due carri, e talvolta ai lati vi erano dei marciapiedi lastricati. Le strade erano dotate di pietre miliari, che indicavano la distanza in miglia dal miliario aureo posto nel Foro romano. Già prima del 250 a.c. per la via Appia e dopo il 124 a.c. per la maggior parte delle altre, le distanze tra le città si contavano in miglia, che erano numerate con le pietre miliari. La moderna parola "miglio" deriva infatti dal latino MILIA PASSUUM, cioè "mille passi" La pietra miliare, o MILIARUM, era una colonna circolare sopra una base rettangolare, detta CIPPUS, alta 1,50 m, con 50 cm di diametro e del peso di oltre 2 tonnellate. Alla base recava scritto il numero di miglio della strada e più in alto indicava la distanza dal Foro di Roma e informazioni sugli ufficiali che avevano costruito o riparato la strada e le caratteristiche della strada. Fu Augusto che pose il MILIARUM AUREUM (la pietra miliare aurea) nel foro a Roma, una colonna di bronzo dorato, accanto al tempio di Saturno. Tutte le strade iniziavano idealmente da questo monumento in bronzo. Su di esso erano riportata la lista delle maggiori città dell'Impero, e le loro distanze da Roma. Costantino lo chiamò UMBILICUS ROMAE (ombelico di Roma). Tutto venne da allora indicato attraverso le miglia, battaglie comprese, specificando il miglio in cui accadevano. Tutte le distanze erano pertanto calcolate dalla colonna aurea al limite estremo di ogni strada. In prossimità della città le strade diventavano viali alberati, fiancheggiati da sepolcri, statue, ville e templi. Lungo tutte le strade esistevano a distanza di circa venti km l’una dall’altra “la stazione di posta”, STATIUM, dove si poteva cambiare o ristorare cavalli, muli, buoi e dove era possibile riparare i carri; molte anche erano, lungo le strade, le osterie, le locande, quasi tutte però pericolose, malfamate, frequentate da ladri. Esistevano anche specie di “guide”, gli ITINERARIA, in cui erano segnati in ogni strada i dati più importanti, come fiumi, boschi, monti, distanze, centri di ristoro. Esistevano pure Itineraria per le città. Le strade erano percorse da gente a piedi, a cavallo, su carri di ogni tipo e lungo le strade funzionava anche un efficiente sistema postale svolto a cavallo per i messaggi più urgenti. LE MAPPE Gli Itineraria, o mappe, erano dapprima documenti speciali di alcune biblioteche, ma di uso ristretto soprattutto militare. L'itinerarium più comune in origine era solo la lista delle città che si incontravano lungo una strada. Poi comparvero liste più generali, che comprendevano altre liste. Per maggiori dettagli si usavano diagrammi di linee parallele che mostravano le ramificazioni delle strade. Parti di questi diagrammi venivano copiati e venduti ai viaggiatori. I più accurati avevano dei simboli per le città, per le stazioni di sosta, per i corsi d'acqua e così via. Sia Giulio Cesare che Marco Antonio commissionarono la compilazione di un itinerario maestro, che comprendesse tutte le strade dell'impero. Vennero ingaggiati tre geografi greci, Zenodoxus, Teodoto e Policlito, per supervisionare il lavoro e compilare l'itinerario. Il lavoro richiese 25 anni, e produsse un itinerario scolpito nella pietra che venne collocato vicino al Pantheon, da cui i viaggiatori e i venditori di itinerari potevano liberamente copiare le parti che li interessavano. Un altro itinerario maestro fu l'ITINERARIUM PROVINCIARUM ANTONINI (Itinerario Antonino) venne iniziato nel 217 d.c. Un altro famoso itinerario che ci è pervenuto è la TABULA PEUTINGERIANA, che inizia già ad assumere la forma di una carta geografica, benché molto primitiva. DIRITTO DI PASSAGGIO IL PASSAPORTO ROMANO Lo JUS EUNDI, il diritto di andare, stabiliva che si potesse usare un iter, un cammino, attraverso terre private; lo IUS AGENDI, il diritto di guidare, consentiva invece che si usasse un actus, cioè una via carrabile. Una strada poteva avere ambedue i tipi di utilizzo, sempre che fosse della larghezza adeguata, che veniva determinata da un ARBITER (un arbitro, o perito). La larghezza standard era la LATITUDO LEGITIMA di 8 piedi. Le leggi romane furono le prime ad occuparsi della tutela del cittadino, fondamento delle leggi moderne di ogni stato civile. LE STRADE COME DIFESA Costruire una strada era una responsabilità militare, quindi ricadeva sotto la giurisdizione di un console, VIAM MUNIRE, come se la strada fosse una sorta di difesa militare e lo era perchè attraverso queste le legioni potevano spostarsi velocemente. Alcuni collegamenti nella rete viaria erano lunghi fino a 90 km. Naturalmente si cercava di costruire strade dritte, per cui occorsero ponti anche su depressioni del terreno, e gallerie, o tagliate di roccia. Le strade si snodavano generalmente in campagna, in posizione centrale. Tutto ciò che si trovava lontano dalla strada maestra vi era collegato dalle cosiddette VIAE RUSTICAE, o strade secondarie. Sia le une che le altre potevano essere pavimentate o meno, ad esempio con solo uno strato di ghiaia, come accadeva in Nordafrica. Queste strade preparate ma non pavimentate venivano chiamate VIAE GLAREAE o STERNENDAE ("da cospargere"). Dopo le strade secondarie venivano le VIAE TERRENAE, normalmente sterrate. Oltre i confini non esistono strade, ma si può presumere che i semplici sentieri o le strade sterrate permettessero il trasporto di alcune merci. Spesso le strade erano il mezzo per conquistare un popolo. Lo sapeva bene Giulio Cesare, che si portava appresso soldati esperti ed esperti ingegneri. L'esercito si accampava e i costruttori facevano un tratto di strada. Quando era pronto vi transitavano i carri con le scorte di cibo e le armi d'assedio. Così in caso di ritirata questa si eseguiva velocemente, o si poteva inviare un veloce messaggero. GLI OSTELLI Una legione in marcia non aveva bisogno di un punto di sosta, perché portava con sé un intero convoglio di bagagli e costruiva il proprio campo ogni sera accanto a una strada. Ma dignitari e i viaggiatori comuni ne avevano bisogno, perciò il governo manteneva delle stazioni di sosta, le MANSIONES , per usi ufficiali, in cui venivano esibiti documenti ufficiali per identificare l'ospite. Le mansiones si trovavano a 15-18 miglia l'una dall'altra ed erano attrezzate in modo lussuoso, trattandosi di alti gradi militari, o ambasciatori. Spesso attorno alle mansiones sorsero campi militari permanenti o addirittura delle città. I viaggiatori privati invece avevano le CAUPONAE, spesso vicine alle mansiones, ma più umili e mal frequentate. Se però i viaggiatori erano patrizi c'erano le le TABERNAE, più lussuose delle caupones ma meno delle mansiones. Uno degli ostelli migliori era la Tabernae Caediciae a Sinuessa, sulla via Appia, con un grande magazzino fornito di otri di vino, formaggio e prosciutti. Un sistema di "stazioni di servizio" funzionava per veicoli e animali: le MUTATIONES, praticamente stazioni di cambio. si potevano comprare i servizi di carrettieri, maniscalchi e di veterinari specializzati nella cura del cavallo. I VEICOLI La legge e le tradizioni romane proibivano l'uso di veicoli nelle aree urbane, con alcune eccezioni. Le donne sposate e gli ufficiali governativi in viaggio per servizio erano autorizzati all'uso di veicoli. La LEX IULIA MUNICIPALIS limitava l'uso dei carri da trasporto nelle ore notturne entro le mura cittadine e a un miglio di distanza da queste. Nelle aree extraurbane i Romani usavano: cocchi, diligenze e carri. 1- I COCCHI trasportavano una o due persone, il più diffuso era il CURRUS, un modello aperto in alto ma frontalmente chiuso. Un esempio ancora oggi visibile si trova in Vaticano. Quando era trainato da due cavalli era chiamato BIGA, a tre cavalli TRIGA e così via. Le ruote erano in ferro ed erano facilmente smontabili. 2-Il CARPENTUM, una versione più lussuosa trasportava le donne e gli ufficiali. Aveva una copertura ad arco in tessuto, e veniva tirato da muli. 3-Il CISIUM era aperta sul davanti e aveva una panca per sedersi. Era tirato da due muli o cavalli, e serviva come un taxi. 4-le DILIGENZE trasportavano un gruppo di persone, quella più diffusa era la RAEDA ed aveva 4 ruote. Ogni lato era provvisto di uno sportello per entrare. Portava al massimo un peso di 1000 libbre. Veniva tirata da una muta di buoi, muli o cavalli, e poteva essere coperta con della stoffa. I veicoli a noleggio si chiamavano REDAE MERITORIE, mentre le REDAE FISCALIS erano veicoli governativi. 5-I CARRI servivano per le merci. Il carro più diffuso era il PLAUSTRUM. Era una piattaforma di assi pieni montata sugli assi delle ruote. Talvolta aveva una ringhiera anch'essa di assi. A volte sul carro si trovava un grande cesto di vimini per i bagagli. Ne esisteva anche una versione a due ruote. L'esercito usava il CURSUS CLABULARIS, un carro che viaggiava al seguito delle legioni, trasportandone i bagagli. LE STRADE DELL'URBE I NOMI DELLE VIE Le antiche strade dell'Urbe si dice non avessero un nome, ma non è così. I nomi utilizzati anche per i piccoli vicoli corrispondevano ai punti di riferimento: monumenti, statue, colonne, sacrari, templi, edifici pubblici, caserme, portici, o boschetti sacri o giardini, o mestieri o un'edicola sacra dedicata ad una divinità, una fontanella. Per esempio nel quartiere Celio esiste oggi una via Cerquetana che corrisponde all'antica VIA QUERQUETANA, da quercuus, perché lì c'era un bosco di querce sacro dai tempi di Tullio Ostilio. I nomi delle strade a Roma avevano origini molto diverse, ed erano raggruppate per regioni, Regio, che Augusto portò a 14. LE PIAZZE Nella Roma Imperiale le piazze comprendono: le piazze, le spiante o spiazzi, i fori, i crocicchi. Le PIAZZE avevano il nome di "AERAE". Tra queste: l'Area Palatina, nella parte centrale del Palatino, l'Area Capitolina, che costituiva la parte centrale del Campidoglio. Gli SPIAZZI erano indicati col nome di "CAMPUS". I CROCICCHI erano l'incrocio di diverse strade. A secondo del numero di strade il "COMPITIUM" (crocicchio) è un BIVIUM, un TRIVIUM, un QUADRIVIUM. Contrariamente alle città greche ed ellenistiche le vie di Roma erano pavimentate: le piazze con lastre di travertino, le strade con blocchi poligonali di selce. C'erano anche ISOLE PEDONALI nelle città, in cui le strade, come si vede a Pompei, venivano bloccate ai carri con grosse pietre di travertino. I VICUS I Romani distinguevano il VICUS dal PAGUS. Gli abitanti dei dintorni dell’Urbe erano detti vicini (da vicus, villaggio) fino al X miglio delle mura serviane, mentre i pagani (da pagus, borgo, cantone) erano gli abitanti delle borgate prossime alla città. Tacito parlava di vicus come di una piccola via, un borgo, mentre Orazio lo intendeva come un quartiere, un rione. Per Cicerone vicus invece vale come villa. Forse Orazio era il più vicino alla realtà perchè Vicus era il nome per le suddivisioni delle quattro Regioni di Roma. Il vicus era a Roma da un lato uno spazio costruito e dall'altro una via percorribile, su cui si aprivano tante strade minori. A Roma in epoca imperiale si contavano ben 424 Vicus. Il termine via era dato solo a due strade: la Via Sacra e alla Via Nova, le altre strade di una certa entità erano vicus, se piani, e clivus se in salita. SEMITAE e ANGIOPORTUS erano invece le viuzze senza nome. LE STRADE PIU’ IMPORTANTI LA VIA APPIA La via Appia è una strada romana, che collegava l'antica Roma a Brundisium (Brindisi), il più importante porto per la Grecia e l'Oriente, nel mondo dell'antica Roma. L'Appia è probabilmente la più famosa strada romana di cui siano rimasti i resti; la sua importanza viene confermata dal soprannome che i Romani le avevano dato: REGINA VIARUM I lavori per la costruzione iniziarono nel 312 a.C., per volere del censore Appio Claudio Cieco, che fece ristrutturare ed ampliare una strada preesistente che collegava Roma alle colline di Albano. I lavori di costruzione si protrassero fino al 190 a.C., data in cui la via completò il suo percorso fino al porto di Brindisi. Nel 71 a.C., 6 000 schiavi si ribellarono sotto la guida del celebre Spartaco. Dopo la cattura e la morte dello schiavo, tutti i ribelli vennero a loro volta catturati e crocifissi lungo la strada, fino a Pompei. La strada fu restaurata ed ampliata durante il governo degli imperatori Augusto, Vespasiano, Traiano, Adriano. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, la strada cadde in disuso per molto tempo, fino a quando Papa Pio VI ordinò il suo restauro e la riportò in attività. La strada dimenticata per secoli fu riscoperta durante il periodo rinascimentale. Ampie parti della strada originale si sono preservate fino ad oggi ed alcune sono tuttora usate per il traffico automobilistico. Lungo la parte di strada più vicina a Roma si possono ammirare numerose tombe e catacombe romane delle prime comunità cristiane. Negli anni '50 e '60 sul tratto urbano della Via Appia Antica si realizzano ville esclusive, che diventano residenza dell'alta società romana. ARCO DI DRUSO L'arco di Druso è un fornice dell'acquedotto antoniniano, situato proprio all'inizio dell'Appia antica, di fronte alla Porta San Sebastiano, a Roma. In quanto parte dell'acquedotto acqua Antoniniana, l'arco di Druso non è propriamente un arco di trionfo, sebbene per secoli sia stato creduto tale, ed erroneamente identificato con un arco che secondo alcune fonti sarebbe stato eretto sull'Appia antica in onore di Druso maggiore nel 9 a.C. Per la sua collocazione all'ingresso della regina viarum l'arco fu poi successivamente abbellito e decorato; quel che rimane oggi sono due colonne poste su alto plinto che inquadrano la facciata rivolta verso l'esterno della città, e parte del timpano triangolare. Agli inizi del V secolo, sotto l'imperatore Onorio, l'arco fu unito a Porta San Sebastiano, a scopo difensivo, per mezzo di due muraglioni di cui non è rimasto nulla. VIA FLAMINIA La Via Flaminia è una via consolare romana che collega Roma a Rimini. Attorno all'anno 220 a.C. il console Gaio Flaminio Nepote diede inizio alla costruzione di una via consolare che collegasse Roma con l'Italia settentrionale, unificando e risistemando vari tratti preesistenti nei territori di Veio, Capena e Falerii. PORTA DEL POPOLO Il nome originario era Porta Flaminia perché da qui usciva, ed esce tuttora, la via consolare Flaminia che anticamente aveva inizio molto più a sud, dalla Porta Fontinalis, nei pressi dell’Altare della Patria. Data l’importanza rivestita dalla via Flaminia, fin dai primi tempi della sua esistenza ebbe il ruolo prevalente di smistamento del traffico cittadino piuttosto che un utilizzo difensivo. All’epoca di papa Sisto IV la porta si presentava seminterrata e vittima di una secolare incuria, danneggiata dal tempo e dalle violenze di assedi medievali; il superficiale restauro si limitò ad un parziale puntellamento e rafforzamento della struttura. La porta si trova ancora oggi un metro e mezzo circa al di sopra del livello antico. I detriti trasportati dal fiume nelle sue saltuarie inondazioni ed il lento e costante sfaldamento della collina del Pincio avevano rialzato il terreno circostante, rendendo non più procrastinabile la sopraelevazione dell’intera porta, necessità che già era stata avvertita al tempo della ristrutturazione operata all’inizio del V secolo dall’imperatore Onorio. Nei pressi della porta venne rinvenuta una delle “PIETRE DAZIARE ”, sistemate nel 175 e scoperte in tempi differenti nelle vicinanze di alcune porte importanti (ne sono state trovate solo altre due, vicino alla Salaria ed all’Asinaria; erano poste ad individuare una sorta di confine amministrativo, dove si trovavano gli “uffici di dogana”. VIA FLAVIA La Via Flavia, antica strada romana della provincia Venetia et Histria, fu costruita dall'imperatore Vespasiano nel 78-79. La strada partiva da Tergeste e, costeggiando il litorale istriano, passava per Pola e Fiume; giungeva infine in Dalmazia, ma si è supposto che dovesse originariamente prolungarsi sino alla Grecia. Era una delle vie più importanti fra quelle che non partivano direttamente da Roma. VIA SALARIA Il suo nome, a differenza di tutte le altre consolari che sono denominate per l'artefice della loro costruzione, deriva direttamente dall'essenziale utilizzo che se ne faceva: parliamo del trasporto del sale dal Campus salinarum a Fiumicino e Maccarese. Gli antichi Sabini inizialmente si procuravano il sale, anche per l'alimentazione delle abbondanti greggi, dai luoghi di produzione del mare Adriatico. La via Salaria era destinata a trasportare il sale dal guado del Tevere alla Sabina, mentre la via Campana dalla foce raggiungeva, costeggiando la riva destra del fiume, lo strategico guado in città nei pressi dell'isola Tiberina e del Foro Boario. Una Via era di fatto il prolungamento dell'altra, costituendone un sistema di collegamento viario assolutamente strategico ed unitario. Questo sistema viario era presente ancor prima della fondazione di Roma dell'VIII secolo a.C. C'è tuttavia chi sostiene che il nome significa "la strada che congiunge i due mari". PORTA SALARIA La Porta Salaria consentiva alla via Salaria il passaggio attraverso le Mura aureliane. Fu demolita nel 1921 per migliorare la viabilità di Roma, con la creazione di piazza Fiume. VIA AURELIA La via Aurelia è un'antica via consolare iniziata alla metà del III secolo a.C. dal console Gaio Aurelio Cotta per collegare Roma a Cerveteri, poi prolungata fino a collegare le nuove colonie militari di Cosa e Pyrgi fondate proprio nel corso del III secolo a.C. sul litorale tirrenico, in seguito alla definitiva sottomissione dell'Etruria. L'Aurelia collega oggi Roma alla Francia costeggiando il Mar Tirreno ed il Mar Ligure. Questo tracciato, poi detto via Aurelia Vetus (ancora oggi via Aurelia antica) partiva da Porta San Pancrazio, prima del VI secolo nota come Porta Aurelia. PORTA SAN PANCRAZIO La porta San Pancrazio è una delle porte meridionali che si aprivano nelle Mura aureliane di Roma. Si trova nei pressi della sommità del colle del Gianicolo, e la sua prima edificazione potrebbe risalire già verso la fine della Repubblica, quando un modesto nucleo abitativo ‘’trans-tiberino’’ venne racchiuso in una piccola cinta muraria. In seguito costituì il vertice occidentale di quella sorta di triangolo che la cinta, edificata nel 270 dall’imperatore Aureliano, compiva arrampicandosi sul colle. Il suo nome originario era infatti Porta Aurelia, sebbene sia attestata anche la denominazione di “Gianicolense” o “Aureliana”, dal nome del console ideatore e realizzatore dell'arteria. Il nome attuale deriva da Pancrazio, martire cristiano. TUTTE LE STRADE PORTANO A ROMA Tutte le strade portano a Roma è un proverbio della cultura popolare italiana. Il proverbio trae origine dall'efficiente sistema di strade dell'antica Roma, su cui in buona parte si basa l'attuale sistema viario italiano. Molte strade consolari partivano da Roma e quindi, se prese in senso contrario, "portavano a Roma". Le attuali strade statali contrassegnate con i numeri da 1 a 7 sono tutte strade consolari romane, Aurelia, Cassia, Flaminia, Salaria, Tiburtina, Casilina, Appia. Tutte le strade portano a Roma significa che c’è sempre un percorso, anche se lungo e tortuoso, che può portarci a raggiungere ciò che desideriamo. Alcuni credono che questo detto possa essere nato nel Medioevo, quando i pellegrini si recavano a Roma a piedi dai più lontani paesi (per esempio quando veniva indetto l’Anno Santo), oppure in tempi anche più antichi, quando molti, magari per interessi commerciali, si recavano nella capitale dell’Impero. E’ vero invece che il proverbio è nato dal fatto che le strade consolari hanno tutte origini dal centro di Roma. LE STRADE ROMANE ATTORNO A NOI Prendendo in considerazione il nostro territorio, abbiamo scoperto che sono presenti molte vie di origine romana. Le più importanti che attraversano il Casentino e la città di Arezzo sono: 1-La “ Cassia Vetus” che ha origine da Porta San Lorentino, continuando per Via Fiorentina e arrivando nelle vicinanze dell'attuale Borro 2-La “Via di Rimini” che collega la Porta di S. Angelo a Rimini. Si crede sia per esigenze militari nel III secolo a.C. nata 3-La “Via di Porta San Clemente e di Petrognano” che partiva appunto da Porta San Clemente, scendeva verso l'Arno, per finire a Petrognano. 4-La “ Via della Catona” usciva dalla porta aquilonare della città, proseguiva per le pianure a settentrione della città, attraversando la pianura di Marcena, procedendo verso il Casentino e raggiungendo Subbiano. LA FAMIGLIA LA FAMIGLIA Il termine italiano “famiglia”, inteso come istituzione sociale include due concetti romani: -la familia, l’insieme di persone rette dal pater familias, cittadino romano sui iuris, ovvero non sottoposto a nessun altro pater -la gens, che era costituita da coloro che avevano lo stesso nome gentilizio (ovvero che concerne la stirpe) appartenente a un capostipite realmente esistito o ad un antenato e trasmessosi di generazione in generazione fino agli ultimi discendenti. La familia era il nucleo originario e l’asse portante della società romana. Essa era l’insieme di beni e delle persone soggette alla patria potestas del pater familias, ovvero il potere genericamente illimitato che egli esercitava sui membri della propria famiglia. All’origine di questa vi era l’unione tra l’uomo e la donna. La famiglia era un ordinamento patriarcale non privato, bensì pubblico poiché sposarsi e generare una discendenza erano un obbligo e una necessità sociale. I RUOLI -pater familias: il marito, possedeva tutti i poteri sui beni e sulle persone della famiglia. Solo lui poteva comprare e vendere e si occupava in prima persona dell’educazione dei figli, che erano sottomessi al padre. Se veniva tradito dalla moglie, egli poteva ucciderla senza dover subire un processo. -mater familias: la donna in grado di dare al marito dei figli legittimi. Diventata madre veniva chiamata domina. Dirigeva il lavoro degli schiavi all’interno della casa, il suo compito principale era quello di tessere la lana e confezionare abiti per i membri della famiglia. -clienti: persone ai margini della società che si mettevano al servizio dei patrizi in maniera gratuita, sostenendoli in battaglie, assemblee e lavorando nelle loro terre. -divinità domestiche: i Lari, erano le anime buone dei defunti che proteggevano la casa e in particolare il focolare domestico; i Mani, le anime dei defunti; i Penati, protettori di ogni famiglia ai quali era riservato un altare in tutte le case. PATRIA POTESTAS Il pater familias era detentore della patria potestas per la quale aveva potere indiscusso sui figli e su ulteriori discendenti maschi, sulle donne nate in famiglia o entratevi per adozione, sugli schiavi e su tutto il patrimonio da lui amministato. Questo potere era previsto dalle antiche leggi sacre e dalla legge delle 12 tavole che in particolare esprimeva i seguenti poteri: - lo ius exponendi, che conferiva al padre la facoltà di abbondonare il figlio neonato il luogo pubblico; - lo ius vendendi, il diritto di vendere i membri della propria famiglia; - lo ius noxae dandi, che concedeva al padre di consegnare il figlio o lo schiavo colpevole di un illecito verso un terzo per liberarsi della responsabilità o come garanzie per il pagamento di un debito. - la vitae necisque potestas, il diritto di vita o di morte. IUS VITAE NECISQUE Lo ius vitae necisque era un potere della patria potestas conferito al pater familias con il quale egli godeva del diritto di vita o di morte su tutti coloro che erano soggetti al suo potere. A questa facoltà furono poste delle restrizioni col tempo sempre più importanti affinché una decisione così nefasta del pater venisse limitata. Così per mandare a morte un suo sottoposto il pater doveva prima consultare il consilium domesticum, composto dagli adgnati più autorevoli, i quali valutavano l’opportunità della decisione estrema di uccidere una persona. Nel diritto romano vi era una stretta connessione tra le leggi e le etiche morali, che riflettevano sul genere umano rapportandosi ai principi di bonitas, iustitia,onesta,clementia,humanitas. Grazie a ciò e al fatto che l’autorità pubblica andò sostituendosi a quella privata, sul finire del periodo classico fu abrogato lo ius vitae necisque. IL MATRIMONIO Fidanzamento: chi desiderava prendere moglie chiedeva a chi aveva la tutela della donna una formale promessa ed a sua volta prometteva. Questa contrattazione si chiamava sponsalia, ovvero fidanzamento. Il termine nuptiae indicava le cerimonie celebrative, mentre il termine matrimonium suggerisce uno status, una causa, uno scopo. LA GENS La gens era l’insieme di più famiglie i cui appartenenti si distinguevano per il comune nome gentilizio. Questa parentela non aveva gradi per il fatto che il capostipite era molto remoto. Nella gens il nome è indicatore esterno di appartenza al gruppo, dove vige l’uguaglianza dei membri e un profondo spirito di solidarietà. Inoltre esisteva lo sfruttamento comune delle terre e la sepoltura comune che sottolineava il senso di appartenenza. LA SCHIAVITÙ La servitù è il tipico sistema produttivo del mondo antico. Questa nasce con lo stabilirsi del patriarcato, cioè la proprietà maschile legata all’allevamento, per l’accudimento del bestiame e per l’innescato meccanismo dell’accumulazione, dove l’individuo contende al gruppo la terra che prima era in comunità. Così si dissolvono gli ordinamenti comunitari e nasce lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la guerra e la schiavitù. Gli schiavi sono sottomessi al pater familias che ha su di loro lo stesso potere che aveva su moglie e figli. Sarà Augusto a mitigare in parte questo potere. DIRITTO DI FAMIGLIA La famiglia romana si basava sulla soggezione al pater familias, che esercitava la sua potestas sui sottoposti, che fossero essi o no parenti di sangue. La parentela civile era chiamata adgnatio e aveva effetti giuridici ai fini della successione e della tutela. L’insieme degli adgnati dopo la morte del comune pater familias costituiva la familia communi iure. Succedeva però che i coeredi, dopo la morte del pater, continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditario, pur risultandone ognuno titolare. Gli eredi avevano la possibilità di rimanere nella classe censitaria del defunto grazie al consortium ercto non cito, una forma di comunione, sorta per motivi di ordine economico e politico che si estinse sul finire della repubblica. La parentela naturale era invece rappresentata dalla cognatio, vincolo di sangue che nel diritto arcaico significava solo come impedimento matrimoniale, o per scopi di culto. I FRATELLI La patria potestas, fra le sue facoltà, riguardava anche il potere del fratello sulla sorella e del fratello maggiore su quello minore. Ad esempio Cicerone, fratello dell’oratore e validissimo legato di Cesare in Gallia, non partecipò alle guerre civili perché suo fratello Pompeiano gli aveva vietato di combattere per Cesare. Orazia invece che piangeva la morte del fidanzato Albano, venne uccisa dal fratello che fu giudicato ma discolpato dal padre. Uccidere una sorella non era dunque di per sé condannabile. ADOZIONE L’adozione era il titolo giuridico con il quale un estraneo entrava a far parte della familia. Secondo la giurisprudenza del 2° e del 3° secolo d.C. l’adoptio comprendeva l’adrogatio e l’adozione in senso stretto. - L’adrogatio, che si compiva solo tra persone sui iuris di fronte ai comizi curiati presieduti dal pontefice massimo, faceva sorgere un rapporto di filiazione legittima ed estingueva il gruppo familiare dell’arrogato. -L’adoptio in senso stretto era legato all’istituto dell’emancipazione in quanto si doveva estinguere la patria potestas del pater che voleva far adottare il figlio. L’adottato perdeva ogni rapporto di agnazione o gentilità con la famiglia di origine per entrare a pieno titolo a far parte della famiglia dell’adottante. L’adoptio creava un vincolo di discendenza fittizzia fra adottato e adottante, metteva alla pari sotto ogni aspetto gli adottati ai discendenti naturali dell’adottante, dal che si deduce che questo istituto servisse a procurare dei discendenti al pater familias per garantire la continuità del nome, della sacra familiarità e del patrimonio. L’adozione però poteva anche essere utilizzata a scopi politici fra le famiglie appartenenti alla nobiltà per perpetuare il loro monopolio politico. Attraverso l’adoptio, durante i primi secoli del principato, il princeps designava il suo successore. Giustiniano modificò l’adozione trasformandola in atto privato, stabilendo che non si estinguessero i legami con la famiglia d’origine per evitare all’adottato il rischio che egli potesse essere respinto dalla successione nell’una e nell’altra famiglia qualora fosse emancipato dal padre adottivo. TUTORE DATIVO Quando si creò la figura del tutore dativo, verso la fine del 3° secolo d.C., muto la concezione della tutela impuberum, cioè riferita all’adottato, non più come potere che spettava al tutore che l’esercitava nel suo interesse o in quello della famiglia agnatizia ma come funzione protettiva nei confronti dell’impubere. Ma l’antico carattere potestativo non scomparve neanche quando la tutela divenne sempre più un ufficio. Con il termine curatio si intendeva il rimedio ad incapacità accidentali o all’assenza della curatela testamentaria. Un elemento che accumunava le diverse curationes era quello di salvaguardare, da un punto di vista patrimoniale, gli interessi di particolari categorie di persone, ritenute incapaci o limitatamente capaci di agire, con i poteri di una vera e propria gestione patrimoniale o limitati ad una funzione di sorveglianza più o meno intensa. DIFFERENZE TRA GENS E FAMILIA Il termine familia, dalle accezioni patrimoniali, solo più tardi indicherà un organismo familiare, poiché in origine esistevano diversi gruppi familiari, qui distinti secondo l’elenco di Ulpiano: -la familia proprio iure; -la familia communi iure, la gens; -il consortium ercto non cito. Differenze fra gens e familia: -la familia ha un capostipite reale, mentre quello dei gentiles è mitico; -la parentela familiare è, a differenza di quella gentilizia, per gradi; -il carattere della familia è potestativo, mentre quello della gens è comunitario e solidaristico; -il culto familiare riguarda gli antenati, mentre quello gentilizio celebra le divinità dell’olimpo; -nel sistema onomastico romano il nomen gentilicium affiancato al prenomen caratterizza la gens, mentre la familia è identificata dal cognomen che è ereditario e rappresenta l’elemento più tardo del nome. Dunque la familia a base patriarcale si afferma all’interno e contro l’ordinamento comunitario della gens. ONOMASTICA ROMANA L'onomastica romana è lo studio dei nomi propri di persona, delle loro origini e dei processi di denominazione nella Roma antica. L'onomastica latina prevedeva che i nomi maschili tipici contenessero tre nomi propri (tria nomina) che erano indicati come praenomen (il nome proprio come intendiamo oggi), nomen (equivalente al nostro cognome che individuava la gens, ovvero era il cosiddetto “gentilizio") e cognomen (che indicava la famiglia in senso nucleare, all'interno della gens).Talvolta si aggiungeva un "secondo cognomen", chiamato agnomen. Un uomo che veniva adottato, mostrava nel nome anche quello di adozione. Per i nomi femminili, c'erano poche differenze, anche se queste non usavano di norma il praenomen proprio, ma quello del marito o del padre. I TRIA NOMINA Praenomen: il primo elemento era il nome personale, quello attribuito ai bambini alla nascita, e con il quale si presuppone che venissero chiamati in famiglia. Negli scritti, peraltro, il prenome era generalmente ridotto all'iniziale, poiché i prenomi romani si erano ben presto ridotti ad un numero alquanto limitato: Marcus, Gaius, Titus, Publius, Lucius. Questa forma di nome "proprio", eccetto che per le relazioni familiari e confidenziali, era abbastanza poco importante, ed era raramente usata da sola. Nomen: il secondo nome era quello della gens, ovvero il clan di appartenenza, la "famiglia allargata". Le gentes romane iniziali erano abbastanza poche, e pochissime quelle dotate di una certa rinomanza, tale da dare loro la possibilità di consegnare ai posteri la fama di alcuni dei loro componenti. Tra di esse sicuramente la gens Iulia, la gens Cornelia, la gens Claudia, la gens Cassia, la gens Sempronia, la gens Domitia, la gens Valeria, la gens Fabia. Cognomen: l'ultimo elemento era in origine un soprannome, che le persone non avevano ovviamente dalla nascita, legato com'è naturale ad una loro caratteristica personale o ad un evento che li aveva visti protagonisti. Il cognomen, comparve all'inizio come soprannome o nome personale che distingueva un individuo all'interno della gens; spesso il cognomen risultava quindi il solo vero elemento personale del nome, tanto da diventare per noi posteri il nome con cui il personaggio è conosciuto. Plutarco ne spiega l'origine quando racconta di come a Gneo Marcio fu attribuito il cognome di Coriolano, in seguito alle sue gesta eroiche che contribuirono grandemente alla presa di Corioli. ARTE ROMANA ARTE ARCAICA L'arte romana arcaica è la produzione artistica nel territorio controllato da Roma che va, grossomodo, dagli insediamenti preistorici alla fine dell'età regia (tradizionalmente il 509 a.C.). Nell'età protostorica e regia non si può ancora parlare di arte "romana" (cioè con caratteristiche proprie), ma solo di produzione artistica "a Roma", dalle caratteristiche italiche, con notevoli influssi etruschi e campani. Roma non sviluppò dall'inizio della sua storia una cultura artistica propria, a differenza di grandi centri culturali dell'antichità come Atene o Corinto. La stessa città-stato di Roma era composta da più clan organizzati in tribù e non aveva inizialmente un'identità che la differenziasse dalle altre città latine. PROTOSTORIA ROMANA • • • • Degli insediamenti primitivi restano le basi di alcune capanne sul Palatino, la cui forma doveva essere simile a quella delle urne cinerarie a capanna trovate a Tarquinia; risalgono all'VIII secolo a.C., compatibilmente con la tradizionale data di fondazione della città. Le tombe preistoriche e protostoriche scavate nell'area del Foro e dell'Esquilino hanno messo in luce reperti nel solco della tradizione italica, riconducibili a quattro fasi: una fase arcaicissima "protolaziale" o "subappenninica", I millennio a.C., con pozzi a incinerazione con vasi globulari, ad esempio tomba 1 dell'Arco di Augusto; una prima fase "laziale", con tombe a dolio e a pozzo con vasi dalle decorazioni geometriche e urne cinerarie a capanna, seconda metà del Xprima metà del IX secolo a.C., ad esempio la tomba Y della necropoli del tempio di Antonino Pio e Faustina; una seconda fase "romana", con tombe a fossa e vasi dalla carena più schiacciata, come nella tomba P della necropoli del tempio di Antonino Pio e Faustina, IX-inizio VIII secolo a.C. una terza fase, con vasi dalle forme più complesse, con manico allungato e decorazioni che raffiguravano la natura, metà dell'VIII e la metà del VII secolo a.C., ad esempio nella tomba 99 della necropoli dell'Esquilino. ARCHITETTURA Presso l'emporio vicino all'attraversamento del fiume, il Foro Boario, è stato scavato un tempio arcaico, nell'area di Sant'Omobono, risalente alla fine del VIImetà del VI secolo a.C., con resti di età appenninica che documentano una continuità di insediamento per tutta l'epoca regia. Sotto Tarquinio Prisco viene edificato sul Campidoglio il tempio dedicato alla triade capitolina, Giove, Giunone e Minerva, nella data tradizionale del 509 a.C., la stessa in cui viene collocata la cacciata del re e l'inizio delle liste dei magistrati. La data di fondazione del tempio poteva anche essere stata verificata dagli storici romani successivi grazie ai clavi: i chiodi annuali infissi nella parete interna del tempio. I resti del podio del tempio sono ancora parzialmente visibili sotto il Palazzo dei Conservatori e nei sotterranei dei Musei Capitolini. Le sculture in terracotta, altra caratteristica dell'arte etrusca, che lo adornavano sono andate perdute, ma non dovevano essere molto diverse dalla scultura etrusca più famosa della stessa epoca, l'Apollo di Veio dello scultore Vulca, anch'essa parte di una decorazione templare (il Santuario di Portonaccio a Veio). Anche la tipologia architettonica del tempio sul Campidoglio è di tipo etrusco: un alto podio con doppio colonnato sul davanti sul quale si aprono tre celle. Tra le opere più imponenti della Roma arcaica ci furono la Cloaca Maxima, che permise l'insediamento nella valle del Foro, e le Mura serviane, delle quali restano vari tratti. ALTRE ARTI FIGURATIVE • Tra l'VIII e il IV secolo a.C., tutta la produzione artistica romana è inequivocabilmente proveniente da officine etrusche o campane, con importazioni dalla Grecia di gran lunga meno consistenti (per qualità e quantità) che nell'Etruria contemporanea, segno di una minore ricchezza. Tra la metà del VII e l'inizio del VI secolo dovevano esistere in ambito laziale officine dove erano prodotto oggetti di forme etrusche da genti di lingua latina, come sembrerebbe provare la famosa fibula prenestina. Le fonti riportano anche contatti con la Grecia, per esempio nel caso della statua lignea della divinità del tempio di Diana sull'Aventino, proveniente dalla colonia di Marsiglia. • Bisogna attendere il periodo tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C. per trovare un'opera prodotta sicuramente a Roma: è la nota Cista Ficoroni, contenitore in bronzo decorato col mito degli Argonauti (dall'iscrizione "Novios Palutios med Romai fecit", "Novio Plautio mi fece a Roma"). Ma la tipologia del contenitore è prenestina, l'artefice di origine Tosco-campana (a giudicare dal nome), la decorazione a bulino di matrice greca classica, con parti a rilievo inquadrabili pienamente nella produzione medio-italica. • Non è più invece considerata opera arcaica il simbolo di Roma, la Lupa Capitolina, già attribuita ad artisti etruschi del V secolo, le cui analisi chimiche hanno svelato una sorprendente datazione altomedievale. ARTE REPUBBLICANA L'arte romana repubblicana è una produzione artistica che si svole sei territori sotto il controllo di Roma durante il periodo della Repubblica ( 509-27 a.C. circa). Nel periodo repubblicano si possono distinguere tre momenti artistici: • -continuazione della cultura arcaica • -conquista della Grecia • -età sillana CONTINUAZIONE DELL’ARTE ARCAICA • ARTE NEL SOLCO ARCAICO • Il 509 a.C. segna la cacciata dei re etruschi e l'inizio delle liste dei magistrati. La produzione artistica restò per lungo tempo influenzata dai modi etruschi e da quelli delle città greche della Campania:fino al 390 a.C. Roma fu una semplice città dell'Italia centrale,avvantaggiata da una posizione che favoriva il transito commerciale.Dal 390 al 265 a.C. l'attività religiosa a Roma era intensa.Ciascuno aveva le sue statue di culto,la maggior parte erano in bronzo e decoravano la città (tutte scomparse).Alcuni riferimenti sulle monete e sui reperti di Tarquinia,Perugia,Volterra e Chiusi permettono di ipotizzare gli aspetti di queste statue,legati all'ellenismo provinciale italico. Ne viene fuori un'arte popolaresca volta solo ai fini pratici di narrazione o decorazione. Un esempio unico di scultura di produzione dell'artigianato è la testa di Giunio Bruto,opera realizzata tra il 300 e il 275 a.C. CONQUISTA DELLA GRECIA Nel 212 in seguito alla presa di Siracusa,Marcello riportò in città tantissime opere d'arte greche,le quali seganrono una svolta nella cultura e nell'arte romana. Dopo Siracusa le occasioni di importare arte greca furono continuee frequenti: vittoria contro Filippo V di Macedonia (194),guerra contro Antioco (198),la presa di Corinto(146) la quale segnò l'arrivo a Roma di archittetti quali Hermodoro di Salamina e scultore della famiglia Polykles. I primi edifici in marmo bianco a Roma furono due piccole costruzioni: il tempio di Giove Statore e il tempio di Giunone Regina,opera di Hermodoro di Salamina.Un artista italico costruì nel 136 a.C. un tempio in Campo Marzio che conteneva una statua di Marte colossale e una di Afrodite,attribuite a Skopas minore. Tra i resti meglio conservati di quella stagione c'è il tempio di Ercole Vincitore a Roma. • • • MERCATO DELLE COPIE In un secondo momento,dopo la formazione di una categoria di collezionisti appassionati, gli original greci non furono più sufficientia esaurire la domanda degli interessati perciò si avviò un commercio di copie in massa,di statue e quadri,alle quali vanno aggiunte le opere ispirate a modelli dell'età classica,uscite soprattutto dalle officine neoattiche di Atene ECLETTISMO L'afflusso di opere d'arte di stili differenti fu alla base del carattere DAdiversi in una stessa opera. Ad esempio,l'ara di Domizio Enobarbo,uno dei più antichi bassorilievi di arte romana. In esso troviamo la raffigurazione di un thiasos di divinità marine in stile ellenistico e quella di una processione sacra in stile realistico. (Eclittica fu anche l'Ara Pacis). PITTURA TRIONFALE Dal III secolo a.C. si ha la documentazione di pitture ''trionfali'',dipinti portati nei cortei dei trionfi con le narrazioni di eventi della campagna militare vittoriosa o l'aspetto delle città conquistate. La pittura trionfale ebbe sicuramente influenza nel rilievo storico romano. ETÀ SILLANA E CESARIANA Dal 130 a.C. alla dittatura di Silla 82 a.C. Roma consolidò le conquiste nel mondo mediterraneo,attraversando un periodo buio di rivoluzione e guerra civile tra plebe e oligarchia che infine fece prevalere i cittadini più ricchi creando uno Stato con un organizzazione burocratica e una propria ideologia politica e militare. In questi anni si vede la nascita di cultura artistica romana che influenzò la storia culturale,economica e sociale dell'Occidente. Dopo l'immane afflusso di arte straniera a Roma fu necessario un erto lasso di tempo per assimilare e iniziare a comprendere queste eredità artistiche. quando il contatto con l'arte diventò una cosa norma e consueta iniziò a svilupparsi una nuova civiltà artistica''romana'' dai caratteri propri. La maggior parte dell'arte ''romana'' venne fabbricata da artisti ellenici,non romani ne italici,i quali non avevano modo di viaggiare all'estero per arricchire le proprie conoscenze. ARCHITETTURA Durante l'ellenismo si era arrivati a sollevare gli elementi architettonici dalla mera funzione statica,permettendo un uso decorativo che dava grande libertà agli architetti. anche a Roma venne ripresa questa libertà,applicando a forme che non esistevano nel mondo ellenistico per funzione,tipo e tecnica muraria. Al tempo di Ermodoro e delle guerre macedoniche erano sorti i primi dìedifici in marmo a Roma,che no si distinguevano per grandiosità.Lucio Licinio Crasso era stato il primo a usare il marmo anche nella decorazione della propria abitazione privata sul Palatino nel 100 a.C. Dopo l'incendio dell'83 a.C. venne ricostruito in pietra il tempio di Giove Capitolino,con colonne marmoree venute da Atene. Risale al 78 a.C. la costruzione del Tabularium,quinta scenografica del Foro Romano che lo metteva in comunicazione con il Campidoglio e fungeva da archivio statale;si usarono semicolonne addossate su pilastri dai quali partono gli archi. I templi romani sillani sopravvissuti sono piuttosto modesti ,mentre più importanti si hanno in quelle città che subirono meno trasformazioni ( Pompei,Terracina, Fondi,Tivoli,Cori e Palestina).Particolarmente significativo èil santuario della Fortuna Primigenia a Palestina,dove le strutture interne sono in opus incertum e le coperture a volta ricavate tramite gittate di pietrisco e malta pozzolana:queste tecniche definivano le strutture portanti della grande massa architettonica,mentre le facciate erano decorate da strutture archiviate in stile ellenistico,che nascondeva il resto. Al tempo di Cesare si ebbe la creazione del sontuoso Foro e tempio di Venere Genitrice,ma fu solo grazie al restauro del tempio di Apollo che Roma ebbe per la prima volta un edificio di culto all'altezza dell'eleganza ellenistica. RITRATTO L'altro importante traguardo raggiunto dall'arte romana a partire dall'epoca di Silla è il cosiddetto ritratto.L'importanza di questa produzione artistica è dovuta alla novità, rispetto ai precedenti ritratti ellenistici, del cosiddetto "verismo", che esprime nella durezza del modellato tutta quella serie di valori tradizionali romani che accomunavano la classe patrizia romana.Il punto di partenza per tale innovazione artistica, che ebbe la migliore fioritura nel decennio 80-70 a.C., fu senza dubbio il ritratto ellenistico fisionomico, non tanto le opere etrusche perché esse furono influenzate da quelle romane e non viceversa . Il diverso contesto dei valori nella società romana portò divergere dai modelli alessandrini con i volti ridotti a dure maschere, con una resa secca e minuziosa della superficie, che non risparmia i segni del tempo e della vita dura. Tra gli esempi piu significativi del ''verismo patrizio'' ci sono, il velato del Vaticano,il ritratto di ignoto di Osimo e il busto dell'Albertinum di Dresda... PITTURA In questo periodo si colloca anche la costituzione di una tradizione pittorica romana. Essa viene detta anche ''pompeiana'',perchè studiata nei ritrovamenti di Pompei e delle altre città vesuviane sommerse dall'eruzione del 79, anche se il centro della produzione artistica fu sicuramente Roma. Mentre Plinio il Vecchio si lamentava della decadenza della pittura (intendendo che la vera pittura di merito era quella su tavola, non quella parietale), era già in vigore il "quarto stile", dall'esuberante ricchezza decorativa.Era tipico per una casa signorile avere ogni angolo di parete dipinta, da cui deriva una straordinaria ricchezza quantitativa di decorazioni pittoriche.Si individuano quattro "stili" per la pittura romana, anche se sarebbe più corretto parlare di schemi decorativi. Il primo stile ebbe una documentata diffusione in tutta l'area ellenistica (incrostazioni architettoniche dipinte) dal III-II secolo a.C. Il secondo stile (finte architetture) non ha invece lasciato tracce fuori da Roma e le città vesuviane, databile dal 120 a.C. per le proposte più antiche, fino agli esempi più tardi del 50 a.C. circa. Questo è forse un'invenzione romana. Il quarto stile, documentato a Pompei dal 60 d.C., è molto ricco, ma non ripropone niente di nuovo che non fosse già stato sperimentato nel passato. In seguito la pittura si inaridì gradualmente, con elementi sempre più triti e con una tecnica sempre più sciatta. MOSAICO Le prime testimonianze di mosaico a tessere a Roma si datano attorno alla fine del III secolo a.C.: anche nel mondo romano questa forma d'arte aveva intenti pratici, per impermeabilizzare il pavimento di terra battuta e renderlo più resistente al calpestìo. Successivamente, con l'espansione in Grecia e in Egitto e quindi con gli scambi non solo commerciali, ma anche culturali, si sviluppò un interesse per la ricerca estetica e la raffinatezza delle composizioni.Il mosaico parietale nacque alla fine della Repubblica, verso il I secolo a.C., nelle cosiddette "grotte delle Muse", costruzioni scavate nella roccia, interrate o artificiali, dove l'elemento principale era una sorgente o una fontana: si rendeva perciò necessario un rivestimento resistente all'umidità anche sulle pareti.Nel Gatto che ghermisce una pernice, dalla Casa del Fauno a Pompei, vennero utilizzati smalti per arricchire la scala cromatica: questo mosaico è uno dei cosiddetti xenia, "doni ospitali", ovvero piccoli quadri rappresentanti frutta, verdura, pollame, cacciagione, che si usavano offrire gli ospiti. Il grande Mosaico nilotico di Palestrina, I secolo a.C., nel santuario della Fortuna Primigenia: è una descrizione accurata del corso del Nilo, con scene di caccia, pesca, rituali e banchetti, dove è la luce, e non più la sola linea di contorno, a definire le figure, con effetti luministici accentuati dal velo d'acqua che ricopriva il mosaico.Già nel I secolo a.C. il mosaico era talmente diffuso che la qualità impoveriva: era ormai presente in tutte le case, con soggetti comuni e poco curati. Mancava l'inventiva dell'artista: sono opere di artigiani che si accontentano di copiare grossolanamente temi conosciuti. ARTE IMPERIALE Dopo un lungo periodo di guerre di espansione e in seguito alla battaglia di Azio nel 31 a.C ha inizio il lungo periodo dell’impero romano. Sotto all’impero di Augusto si ha l’inizio di un periodo di sviluppo economico e culturale, oltre a quello politico e militare. Gli imperatori promuovono una diffusione di tutte le arti ed è il momento delle opere più straordinarie e famose della civiltà romana. Il concetto di decoro inteso come apparenza, potere, ricchezza e sapienza caratterizza questo periodo e alla fine supera lo stile austero, tipico delle fasi iniziali della storia di Roma. L’esigenza di “decoro” e di manifestazione del potere, in età imperiale porterà alla necessità di costruire opere monumentali e celebrative. In generale scultura e pittura vengono affidate a schiavi e artisti appartenenti ai popoli vinti perché considerate attività manuali e quindi indegne di un cittadino romano. L’architettura invece è molto più considerata perché ha funzione di utilità pubblica. Per questo i romani curano molto le architetture, sia nella monumentalità sia nella solidità, infatti molte strutture sono usate tutt’oggi. Uno degli esempi più noti è il Ponte di Augusto e Tiberio a Rimini. L’importanza di Augusto è anche legata all’impulso sociale, culturale ed artistico che questo imperatore darà a Roma, infatti dietro alle opere d’arte si celava sempre un fine politico, sociale e pratico. Anche nei casi del miglior artigianato di lusso la bellezza era connessa al concetto di sfarzo, inteso come autocelebrazione del committente della propria potenza economica e sociale. Le sculture ufficiali, per quanto valide esteticamente, avevano sempre scopi celebrativi, se non addirittura propagandistici, che in un certo senso pesavano più dell’astratto interesse formale. Ciò non toglie che l’arte romana fosse comunque un’arte “bella” e attenta alle qualità: la celebrazione imponeva scelte estetiche curate, che si incanalavano nel solco dell’ellenismo di origini greche. Quasi tutti gli artisti che operano a Roma sono greci, e i romani amanti dell’arte, commissionano opere originali o copie perfette dai maestri greci. Soltanto quando Roma diventa la dominatrice universale, il percorso dell’arte subisce un significativo cambiamento. Gli artisti assumono altri nuovi compiti e le loro tecniche e linguaggi vengono mutati in modo significativo, soprattutto nel campo dell’architettura. Molte opere dell’ingegneria civile romana sono arrivate ai nostri giorni ostentando ancora imponenza e maestosità. ARCHITETTURA • • • • L’architettura dell’età imperiale è caratterizzata da una forte tendenza classicista e tradizionalista che si interseca nel ricorso ai modelli greci e nella ripresa di motivi italici ed etruschi. La continuità delle esperienze non viene a mancare e si possono registrare risultati importanti sia nel campo tecnico che formale. Per quanto riguarda il campo decorativo si ebbero notevoli cambiamenti connessi all’introduzione del marmo. L’uso di questo materiale richiese la presenza di artigiani e causò l’abbandono della decorazione a stucco su pietre sagomate. Tra il 40 e il 15 a.C Vitruvio Pollione scrive il De architectura dove affronta i problemi tecnici e teorici dell’edilizia. Secondo Vitruvio l’architettura deve avere tre qualità: -venustas: la bellezza e l’armonia tra le parti -utilitas: correttezza e funzionalità -firmitas: robustezza, maestosità e solidità Durante questo periodo sorgono molti archi di trionfo realizzati al solo scopo di celebrare le vittorie, avevano dunque uno scopo propagandistico. Durante questo periodo sorgono molti archi di trionfo realizzati al solo scopo di celebrare le vittorie, avevano dunque uno scopo propagandistico. Il più antico dei 17 archi voluti da Augusto si trova a Rimini e risale al 27 a.C. Nel Campo Marzio Augusto fece costruire l’Ara Pacis, altare dedicato alla pax augustea. Ha la forma di un recinto rettangolare in marmo aperto da due ingressi sui lati lunghi. All’interno vi è l’altare. Le pareti esterne presentano due registri decorativi in basso rilievo separati da un meandro. Negli stessi anni Augusto completò il Teatro Marcello, dedicato al nipote. Si tratta del più antico teatro romano in pietra. I teatri romani, grazie all’uso dell’arco disposto in sequenza, riuscivano a realizzare teatri completamente emersi dal terreno. Con l’avvento della dinastia Flavia l’arte romana raggiunse una completa autonomia di linguaggio. Nel 72 d.C Vespasiano dà inizio alla costruzione di un anfiteatro finanziato dalle ingenti ricchezze arrivate dalla repressione degli Ebrei da parte del figlio Tito. Il Colosseo, originariamente conosciuto come Anfiteatro Flavio è il più grande anfiteatro al mondo, è situato nel centro della città di Roma. In grado di contenere un numero di spettatori stimato tra i 50 000 e i 75 000, è il più importante anfiteatro romano, nonché il più imponente monumento della Roma antica che sia giunto fino a noi. L’edificio forma un’ellisse di 527 metri di perimetro. La struttura esprime con chiarezza le concezioni architettoniche e costruttive romane della prima età imperiale, basate sulla linea curva e avvolgente offerta dalla pianta ellittica e sulla complessità dei sistemi costruttivi. Archi e volte sono concatenati tra loro in un serrato rapporto strutturale.All’esterno la facciata è scandita da 80 arcate sovrapposte su tre ordini e chiuse da una parete continua. Dentro all’anfiteatro si svolgevano combattimenti tra gladiatori, venatories (combattimenti con animali feroci) e naumachìe (battaglie navali). L’arco di Tito fu realizzato durante la dinastia flavia sulla via Sacra per celebrare le vittorie di Tito e del padre Vespasiano nella guerra giudaica terminata con la conquista della Palestina e la distruzione del tempio di Salomone. L’arco è sostenuto da due grandi pilastri e chiuso in alto da un attico. Per la prima volta compare il capitello composito, una fusione delle volute ioniche con le foglie corinzie. Il Pantheon fu realizzato sotto Adriano. È un tempio dedicato alle sette divinità planetarie. La grandezza di questo monumento è data soprattutto dallo spazio interno costituito da un vano a pianta circolare coperto da un’immensa cupola che dà l’impressione di essere sospesi. La cupola è realizzata in calcestruzzo. Un oculo zenitale, dal diametro di 9 metri, costituisce l’unica fonte di luce. All’interno della cupola sono presenti 5 anelli concentrici di 28 cassettoni quadrangolari che alleggeriscono la struttura e la rendono più resistente attraverso la griglia di nervature che vanno a formare. I romani per la prima volta capiscono l’importanza della luce che crea lo spazio interno. L'ultima fase dell'impero, a partire da Diocleziano, Costantino fino alla caduta della parte occidentale, è caratterizzata dalla perdita delle certezze e dall'insinuarsi di una sensibilità nuova. In architettura si affermarono costruzioni per scopi difensivi, come le mura aureliane o il Palazzo di Diocleziano (293-305 circa) a Spalato, provvisto di solide fortificazioni. SCULTURA Anche nelle arti figurative si ebbe una grande produzione artistica. Con l’avvento di Augusto la scultura assume un ruolo sempre più politico perché deve dimostrare che l’imperatore governa non per autorità di forza ma per autorità morale e razionale e la scultura è improntata ad un classicismo finalizzato a costruire un’immagine solida e idealizzata dell’impero. Si recuperala scultura greca del V secolo a.C nella rappresentazione delle divinità e dei personaggi illustri romani, tra cui il ritratto di Augusto come pontefice massimo e la statua di Augusto di Prima Porta che è la celebrazione dell’imperatore, divinizzato come Apollo. Augusto è raffigurato nelle vesti di comandante dell’esercito nell’atto di esortare le truppe. Il ritratto è in parte veristico, come da tradizione repubblicana, e dall’altra la superiorità morale del personaggio è amplificata dall’impostazione policletea. La statua è alta 2,04 metri ed è realizzata in marmo bianco. È attualmente conservata nei Musei Vaticani La colonna Traiana è una colonna commemorativa realizzata a Roma nel 113 d.C. Aveva la funzione di celebrare la conquista della Dacia ad opera dell’imperatore Traiano. La colonna è alta 30 metri e ha un diametro di 3,80 metri, fu realizzata attraverso la sovrapposizione di 21 blocchi del marmo di Carrara. Un fregio scolpito a bassorilievo ne percorre tutta la superficie laterale avvolgendosi a spirale lungo tutta la sua altezza. La colonna è stata poggiata su un basamento che doveva ospitare le ceneri dell’imperatore, è percorsa da una lunga scala a chiocciola al suo interno che conduce fino in cima. I 220 metri del fregio rappresentano 154 scene animate di circa 2500 figure che illustrano gli avvenimenti delle campagne di conquista della Dacia. Dopo l’impero di Traiano sale al potere Adriano che mette termine alla politica espansionistica per poter consolidare lo stato. Edificò a Tivoli la più estesa residenza mai costruita (circa di 300 ettari). Fu interpretata come un luogo dove far rivivere i luoghi esotici dell’impero. La struttura appare un ricco complesso di edifici. Sotto Commodo si assistette a una svolta artistica, legata alla scultura. Nelle opere ufficiali, dal punto di vista formale si ottenne una dimensione spaziale pienamente compiuta, con figure ben collocate nello spazio tra le quali sembra "circolare l'atmosfera" (come negli otto rilievi riciclati poi nell'Arco di Costantino). Dal punto di vista del contenuto si assiste alla comparsa di sfumature simbolico-religiosi nella figura del sovrano e alla rappresentazione di fatti irrazionali. Durante la dinastia dei Severi si fa uso più frequente dello scalpello che creando solchi più profondi si creano toni chiaroscuri. Durante il III secolo i ritratti imperiali in quegli anni divennero innaturali, con attenzione al dettaglio minuto piuttosto che all'armonia dell'insieme, idealizzati, con sguardi laconici dai grandi occhi. Non interessava più la rappresentazione della fisionomia, ma ormai il volto imperiale doveva esprimere un concetto, quello della santità del potere, inteso come emanazione divina. PITTURA Il terzo stile pompeiano, detto anche stile ornamentale,è uno dei 4 stili della pittura romana. In esso viene completamente ribaltata la prospettiva e la tridimensionalità caratteristiche dello stile precedente lasciando il posto a strutture piatte con campiture monocrome, prevalentemente scure. Le decorazioni della Casa della Farnesina e della Casa del Criptoportico a Pompei ne sono un esempio. Nel periodo di Augusto anche la toreutica e la glittica ebbero la migliore fioritura, con un notevole livello sia tecnico che artistico. La prima è un'arte analoga all'oreficeria, ma in genere ha per oggetto opere di dimensioni maggiori dei gioielli (vasi, coppe, vassoi, armi, ecc.). I metalli oggetto della toreutica sono l'oro, l'argento, il bronzo, l'ottone, il rame e varie altre leghe.Nell'antica Grecia il termine veniva riferito a lavorazioni che riguardavano la superficie degli oggetti, attraverso diversi strumenti come il martello, il trapano, lo scalpello e il bulino, e che non si limitavano ad oggetti metallici ma si estendevano alle pietre, al legno, all'avorio, quelle che in seguito si è preso a designare come arti minori e che non erano originariamente distinte dalla tecnica scultore. La glittica, invece, è una tecnica molto antica mediante la quale vengono incise pietre dure e gemme od altri materiali adatti. Sfruttando adeguatamente materiali costituiti da strati di differente colore, questa tecnica consente di realizzare sigilli, intagli o anche piccoli oggetti. ARTE PROVINCIALE ROMANA L’arte romana provinciale è la produzione artistica nelle province dell’impero romano. Nelle province orientali, a partire dal I e II secolo d.C., si ha la propaganda politica manifestata con edifici celebrativi e monumentali, come l’arco di Traiano nell’attuale Algeria. In alcune provincie troviamo anche resti di prodotti scultorei legati all’arte ufficiale imperiale (ritratti di imperatori). A Efeso, capitale delle province d’Asia, venne costruito il monumento dedicato alle vittorie di Marco e Lucio Nero con schemi derivati dal naturalismo greco su un tema tipicamente romano. Nel tempio di Adriano e Efeso le decorazioni hanno effetti chiaro-scuro particolarmente accentuati. Mentre la biblioteca di Celso mostra una bella articolazione architettonica che ha fatto parlare di “Barocco microasiatico”. Altra prova dell’ esperienza artistica delle province orientali è la produzione dei ritratti del Fayyum, maschere funerarie egizie composte da tavole lignee decorate a mano con tempera a base di uovo, che rappresentavano i volti dei defunti e si svilupparono dal I secolo a.C al III secolo d.C. Grazie alle particolari condizioni atmosferiche sono arrivati fino a noi moltissimi reperti databili a partire dal 100-120 d.C che dimostrano il resistere della ritrattistica ellenistica arrivata fino a quest’epoca. Le province Occidentali romane non avevano conosciuto l’arte e la cultura greca e quindi si basavano sulla tradizione dell’arte plebea, diffusa tra il ceto sociale medio italico. A partire dal I secolo a.C compare l’uso delle proporzioni gerarchiche: cioè il dimensionamento delle figure a seconda della loro importanza nella società. altre caratteristiche tipiche sono la prospettiva o “volo d’uccello” cioè la visione dall’alto e la composizione paratattica (cioè le figure semplicemente affiancate senza interconnessione). Altra tendenza è la semplificazione, creata per ottenere maggiore espressività, soprattutto nei volti, con ritratti più incisivi e rudimentali. In definitiva questa produzione asiatica aveva degli scopi diversi dal naturalismo greco, dove era fondamentale l’aderenza all’aspetto naturale delle cose. . Le province Occidentali romane non avevano conosciuto l’arte e la cultura greca e quindi si basavano sulla tradizione dell’arte plebea, diffusa tra il ceto sociale medio italico. Nell’arte provinciale era fondamentale la chiarezza dell’immagine che si voleva trasmettere. AUGUSTO E DINASTIA GIULIO-CLAUDIA Sotto Augusto e la dinastia Giulio-Claudia si sviluppa l’arte nelle province d’occidente, come nella Gallia Garbenensi. Oltre agli elementi più imitativi dell’arte ufficiale, si riscontrano anche due tendenze originale e principali: 1. La coincidenza delle figure scolpite in blocchi con accentuazione delle mosse in corrispondenza degli spigoli 2. La ricerca di una fresca serietà e gentilezza di espressione del tutto estranea al freddo accademismo ufficiale. TRAIANO E ADRIANO • Traiano fece costruire molte infrastrutture per le campagne militari, come il grandioso ponte di Traiano sul Danubio. Sotto di lui venne anche eretto un grande monumento, il Tropaeum troiani, commemorativo ai caduti in guerra e celebrativo della vittoria finale, presso la cittadina di . Esso è circolare, secondo il modello funerario italico-romano, dove le maestranze locali usarono modelli provenienti da Roma. • Adriano fece costruire qualche edificio in quasi tutte le città da lui visitate nei suoi frequenti viaggi. Le opere più rilevanti si trovano ad Atene dove venne completato Alypeion e venne innalzata la biblioteca monumentale lungo le mura cittadine. Fece, inoltre, costruire un arco, dal disegno misti-lineo ispirato all’ellenismo. ETÀ DEGLI ANTONINI Durante l’età degli Antonini, le province imperiali si dimostrarono porti molto fiorenti dal punto di vista artistico e culturale, diventando anche centri artistici molto importanti grazie all’esportazione delle opere. Alcune novità del successivo miglioramento dell’arte romana nel età di Commodo, come le tecniche compositive e spaziali, arrivarono nelle province dell’impero romano un po’ di anni dopo. SETTIMIO SEVERO Settimio severo (originario di Leptis magna, in Libia) una volta salito al potere, poté abbellire la sua città natale. A Leptis magna erano attivi artisti greco-orientali per dirigere le maestranze locali. Il marmo, utilizzato per costruire i palazzi, veniva preso dalle cave di marmo in Bitinio e venivano decorate a mano. Nei rilievi architettonici si può infine rintracciare, in questo periodo, l’origine di intagliare in profondità i contorni, isolando i singoli elementi, riducendone al tempo stesso il rilievo plastico, come grandi pitture con zone d’ombra create in negativo dai solchi. ETÀ TARDOANTICA Nell’età tardo-antica l’arte mostrata nell’epoca di Settimio Severo diventa predominante; nei ritratti imperiali si assiste a rappresentazioni innaturali, con molta attenzione sui minimi dettagli piuttosto che sull’armonia dell’insieme. Non era più importante la rappresentazione della fisionomia, ma ormai il volto imperiale doveva esprimere un concetto: quello della santità cristiana e del potere, inteso come emozione divina. DIFFERENZE TRA ARTE ROMANA E ARTE ETRUSCA ARTE ROMANA Per arte romana si intende l'arte della civiltà di Roma dalla fondazione alla caduta dell'impero d'Occidente, sia nelle città che nel resto d'Italia. Con il contatto con la civiltà greca Roma avrà un atteggiamento ambivalente nei confronti della superiori arte greca: progressivamente ne apprezzerà le forme, mentre proverà disprezzo per gli autori, artisti greci socialmente inferiori nei confronti dei conquistatori romani. Con il passare dei secoli l'arte greca avrà sempre maggiore apprezzamento. RITRATTO A partire dall'epoca di Silla un importante traguardo nell'arte romana è il cosiddetto ritratto “veristico”. Il diverso contesto dei valori nella società romana portò però divergere dai modelli ellenistici con i volti ridotti a dure maschere, con una resa secca e minuziosa della superficie, che non risparmia i segni del tempo e della vita dura. Nonostante la rilevanza solo in ambito urbano e la breve durata temporale, il ritratto romano repubblicano ebbe un riflesso e seguito notevole nel tempo, soprattutto nei monumenti funerari delle classi inferiori al patriziato. PITTURA La pittura romana viene detta anche “pompeiana” perché studiata nei ritrovamenti di Pompei, anche se il centro della produzione artistica fu sicuramente a Roma. Era tipico per una casa signorile avere ogni angolo di parete dipinta, da cui deriva una straordinaria ricchezza quantitativa di decorazioni pittoriche. Si individuano quattro stili per la pittura romana. Il primo stile, incrostazioni architettoniche dipinte, ebbe una larga diffusione in tutta l'area ellenistica dal III al II secolo a.C. Il secondo, finte architetture, non ha lasciato tracce fuori da Roma e le città vesuviane. Il terzo stile, ornamentale, si sovrappose al secondo stile ed arrivò alla metà del I secolo. Il quarto stile, illusionismo prospettico, documentato a Pompei dal 60 d.C., è molto ricco, ma non ripropone niente di nuovo che non fosse già stato sperimentato nel passato. ARCHITETTURA Con il principato di Augusto ebbe inizio una radicale trasformazione urbanistica a Roma in senso monumentale. Nel periodo da Augusto ai Flavi si nota un irrobustirsi di tutti gli edifici privi dell'influenza del tempio greco: archi trionfali, terme, anfiteatri ecc. Nell'arco partico del Foro Romano (20 a.C. circa) nacque una forma ancora embrionale dell'arco a tre fornici. Risalgono a questo periodo i più spettacolari edifici per spettacoli: il teatro di Marcello, l'anfiteatro di Pola, l'Arena di Verona, il teatro di Orange e poco dopo il Colosseo (inaugurato da Tito nell'80 e poi completato da Domiziano). Sotto Traiano l'impero conobbe il suo apogeo, e anche l'arte riuscì, per la prima volta a staccarsi dall'influenza ellenistica, portando un proprio, nuovo prodotto artistico ai livelli dell'arte antica: i rilievi della Colonna Traiana. Vi sono molte innovazioni stilistiche, ma è straordinario come anche il contenuto, per la prima volta in un rilievo storico, riesca a superare la barriera del freddo distacco delle opere augustee e flavie. Scene dure, come i suicidi di massa o la deportazione di intere famiglie, sono rappresentati con drammatica e pietosa partecipazione e la ricchezza di dettagli e accenti narrativi fu probabilmente dovuta a un'esperienza diretta negli avvenimenti. Inoltre, in quel periodo, la ricchezza ottenuta con le campagne militari vittoriose permise il rafforzarsi di una classe media, che diede origine a una nuova tipologia abitativa, con più abitazioni raggruppate in un unico edificio, sempre più simili alle ricche case patrizie. L'arte romana fu per la prima volta nel mondo europeo e mediterraneo, un'arte universale, capace di unificare in un linguaggio dai tratti comuni una vastissima area geografica, che travalica anche i meri confini dell'impero. Ciò implicò che l'arte romana, grazie alla sua diffusione, fosse nelle generazioni future il diretto tramite con l'arte antica. Per gli artisti europei la produzione romana venne sempre considerata come "una seconda e più perfetta Natura dalla quale trarre insegnamento"; e grazie proprio ai monumenti ed alle opere d'arte romane si possono spiegare le rifiuriture "classiche" di civiltà come quella carolingia, gotica o rinascimentale. ARTE ETRUSCA Per arte etrusca si intende la produzione artistica degli Etruschi, popolo inizialmente stanziato nel territorio chiamato Etruria, triangolo compreso tra l'Arno a Nord, il Tevere a Sud e il Mar Tirreno a Ovest. Essa si distingue tra l'VIII secolo a.C. e la metà del I secolo a.C. circa (l'epoca di Silla e Ottaviano). ARCHITETTURA I primi villaggi etruschi erano costruiti da capanne a pianta rettangolare o ovoidale, la cui struttura e forma si desume dai fori lasciati dai pali di sostegno. Una grande rivoluzione, di matrice greca, dovette verificarli verso la metà del VII secolo a.C. : l'introduzione delle coperture in terracotta. Negli scavi di Acqua-rossa si può chiaramente vedere che sono presentate coperture in tegole di terracotta dipinta con motivi tratti dal repertorio greco e orientalizzante. Sull'evoluzione delle abitazioni comuni non si hanno dati cronologici certi e probabilmente diverse tipologie abitative continuarono a convivere nel tempo; i materiali impiegati per la costruzione delle case potevano differire in base alle possibilità economiche delle famiglie o in base ai fattori ambientali. TEMPLI La tipologia del tempio etrusco nacque all'inizio dell'età arcaica nel secondo quarto del VI secolo a.C. A differenza dei templi greci ed egizi, che si evolvevano assieme alla società, i templi etruschi rimasero sostanzialmente immutati nel tempo. Essi svilupparono la tipologia abitativa a tre vani, trasformando l'atrio inferiore nel pronao. Il tempio, elevato su un alto podio decorato con montature contrapposte, era accessibile attraverso una scalinata frontale. La pianta a cella unica poteva essere priva o avere colonne in facciata, la pianta con tripartizione presentava nel pronao una doppia fila di colonne. PITTURA Gli ambienti sepolcrali non erano gli unici luoghi affrescati in Etruria, ma sono quelli meglio conservati. Dalle prime esperienze del VII secolo a.C. l'uso di dipingere le pareti delle tombe con scene legate agli ideali della vita aristocratica, ai riti funerari e alla vita ultraterrena si diffonde manifestando l'accoglienza della lezione della pittura greca in scene a soggetto sempre più complesso, all'inizio mediate dalla ceramica greca, che fonde temi locali ai modelli greci. La tecnica pittorica maggiormente utilizzata era l'affresco, solo in pochi casi si riscontra l'uso della pittura a secco; uno di questi è la tomba del Barone. Ad una prima fase di grande libertà nella composizione e nella scelta tematica segue un periodo di maggiore contenimento e standardizzazione; i grandi e complessi cicli pittorici si hanno con la metà del IV secolo a.C. SCULTURA Pur essendo fortemente influenzata dalla scultura greca, non seguì un percorso di armonia e perfezione formale. I singoli centri svilupparono gli stimoli che giungevano dall'esterno in modo autonomo dando luogo ad una produzione diseguale ed estranea a coerenti ricerche formali. Influenze ioniche e attiche si evidenziano tra VI e V secolo a.C., mentre la scultura greca di epoca classica è recepita in modo marginale e superficiale. Dalla prima metà del V secolo a.C. le forme si attardano su elementi arcaici, persino più originali che in passato, per un rinvigorirsi delle tradizioni e delle forme locali. Con il IV secolo inizia la produzione dei sarcofagi in pietra che condurrà in età ellenistica alle eccezionali urne rinvenute nell'ipogeo dei Volumni a Perugia. I materiali principali con i quali si esprime la grande scultura etrusca sono il bronzo e la terracotta. OREFICERIA Gli artigiani etruschi furono in grado di praticare le più sofisticate tecniche di lavorazione dei metalli preziosi: incisione, filigrana, granulazione. La conoscenza di queste tecniche giungeva loro insieme agli artigiani e agli oggetti di lusso del Vicino Oriente, ma essi seppero perfezionarle padroneggiandole soprattutto nel VII e VI secolo a.C. I gioielli etruschi entravano a far parte dei corredi funerari e in questo modo sono giunti sino a noi. Un oggetto che doveva in particolar modo distinguere lo status del defunto in questi contesti tombali era il pettorale in lamina d'oro. Allo stesso ambito produttivo occorre riferire il vasellame in materiale prezioso, come anche gli oggetti in avorio. Durante il VI secolo a.C. non si registrano innovazioni tecniche rispetto al periodo precedente, ma gli oggetti mostrano una maggiore attenzione agli aspetti coloristici mediante inserzione di pietre colorate. Tipicamente etruschi tra metà del VI secolo a.C. e la metà del V sono gli orecchini a bauletto; In epoca classica ed ellenistica si diffonde l'uso delle corone con foglie in lamina d'oro e quello delle bulle, decorate a sbalzo. LA DONNA ROMANA LA DONNA ROMANA La donna romana cominciava dalla nascita ad affrontare mille difficoltà per la sua sopravvivenza. La condizione femminile era considerata al di sotto di quella maschile, sia pur sempre migliore di quella greca, dove il suo ruolo era quello di una schiava. La donna era considerata un essere inferiore, con pochissimi diritti e totalmente sottomessa prima al padre e ai fratelli, poi al marito. Quando vennero rapite le Sabine nel famoso ratto, le donne accettarono di andare spose solo a certi patti che i Romani accettarono: • le sabine non avrebbero mai dovuto lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana; • per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo; • nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza; • nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro; • i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea). I Romani promisero, ma presto dimenticarono. ESPOSIZIONE DELLE FEMMINE La sproporzione tra maschi e femmine derivava da un lato dall'ingiustizia sociale che preferiva aiutare i maschi anziché le femmine e poi dall'uccisione delle neonate per l'antichissima usanza della pubblica esposizione. Con l'avvento del patriarcato le donne non potevano combattere pertanto erano di peso e venivano eliminate o tenute quel tanto che serviva per procreare. Nel duro passaggio dalla libertà delle donne sabine alla semischiavitù romana, i Romani ebbero la meglio e le leggi sabine che proteggevano le donne scomparvero. Le donne romane non furono totalmente schiave come le Greche, segregate come in cella nel gineceo senza alcun diritto, anzi rispetto alle donne barbare erano privilegiate. Virgilio nell'Eneide scrive della volsca Camilla, che durante la guerra contro Enea guida il suo popolo combattendo a cavallo, accompagnata da una schiera di vergini guerriere, le amazzoni. Un tempo le donne combattevano ed erano fiere, lo testimonia anche Cesare che dichiara in Senato, a chi lo accusa di essere donna per la sua omosessualità, che le amazzoni erano donne, eppure avevano dominato l'Asia, non lo cita come un mito ma come un accaduto. Nel patriarcale mondo romano il rapporto tra i sessi era cambiato. Si nasceva ufficialmente solo con il rito del riconoscimento. Dopo il parto il neonato veniva deposto in terra. Se il capofamiglia lo sollevava in aria con gesto rituale, veniva accolto come figlio legittimo dalla famiglia e dalla società, altrimenti veniva esposto, cioè abbandonato nella strada. I neonati più a rischio di esposizione erano i deformi, gli illegittimi e le femmine. Questa legge valeva anche per Atene. Romolo per evitare l'eccessivo abbandono delle neonate femmine, impose di allevare almeno le primogenite. Nonostante tutto, durante l‘Impero, le donne verranno in parte riscattate e la dote rimaneva a loro se ripudiate. Inoltre alle donne fu concesso il divorzio però con l'avvento del Cristianesimo, fu proprio grazie alla Chiesa che alle donne fu privata questa libertà. Riconquisteranno tutto ciò 2000 anni dopo. I DIRITTI In una antica moneta romana si vedono un uomo una donna e un bambino che si recano a votare passando su uno stretto ponte. I cittadini, infatti, per votare dovevano percorrere uno stretto viottolo, che finiva in un ponticello in cui al votante era consegnata una tavoletta cerata sulla quale egli segnava la lettera iniziale del nome del candidato preferito. Al termine del ponte, chi aveva votato deponeva la propria scheda in urna alla presenza di alcuni rappresentanti dei candidati. Ma non lasciarsi ingannare dalla moneta, per la famiglia era una passeggiata e basta. Perché soltanto l'uomo godeva dei diritti politici di votare, eleggere e farsi eleggere e la carriera politica. La donna ne era esclusa, e pure per esercitare i diritti civili, come sposarsi, ereditare, fare testamento, aveva bisogno del consenso di un uomo che esercitasse su di lei la tutela: il padre, poi il marito e, all'eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo. Le cose cambieranno solo con Ottaviano. La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla manus del padre passava, anche senza il suo consenso, a quella del marito. Augusto le dette la possibilità di sposarsi senza quella tutela, tuttavia è documentato il matrimonio senza manus, cioè senza potere del marito, in epoca precedente alle Dodici Tavole di Romolo, quando il regime risentiva del precedente matriarcato sabino ed era meno patriarcale. La donna romana aveva molte limitazioni alla sua capacità giuridica, giustificate da pretese qualità negative della donna come l'ignoranza della legge, in quanto non le veniva fatto studiare. Non poteva: • adottare (cosa consentita anche a impotenti ed eunuchi); • rappresentare interessi altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private; • garantire per debiti di terzi; • fare operazioni bancarie; • essere tutrice dei suoi figli minori. In epoca imperiale la donna romana, specie se di classe sociale elevata, cominciò a rifiutare la prole, soprattutto per il rischio della vita. Augusto alla fine del I secolo, dovette incentivare nozze e natalità promettendo alle donne maritate la liberazione dalla tutela alla morte del padre, purché vi fossero almeno tre gravidanze. Al contrario la donna che tra i 18 ed i 50 anni risultasse ancora nubile non poteva ricevere eredità. Per il matrimonio sine manu, senza potere maritale c'erano due condizioni: la convivenza degli sposi e il reciproco consenso a considerarsi marito e moglie. Se veniva a mancare uno di questi elementi il matrimonio si scioglieva. Il ripudio era invece sempre possibile. Bastava recapitare al coniuge un biglietto con su scritto: tuas res tibi habeto(riprenditi quello che è tuo). Dunque la situazione della moglie romana agli inizi dell'impero mutò e il ruolo protettivo del marito cominciò ad apparire inutile e soffocante. La matrona divenne libera di uscire, le schiave la truccavano, la pettinavano e si guarniva di gioielli. Durante l‘Impero la matrona usciva di casa, tenendo in una mano la borsetta e nell'altra il flabellum, ventaglio di piume di pavone, per il caldo e per scacciare le mosche. La schiava le reggeva l'ombrellino da sole, (perché l'abbronzatura non era di moda e faceva male alla pelle) e che non si chiudeva, di solito verde. Scambiava visite, a volte da sola, a volte con il marito o con un'amica. Per spostarsi più lontano usava la carrozza. Faceva spese nei negozi, dalla fullonica (tintoria) ritirava la biancheria, dal calzolaio i sandali e dal sarto le vesti, ma non faceva la spesa quotidiana per il cibo, spettante agli schiavi. La sera accompagnava il marito ai banchetti, rincasava tardi, anche dopo il marito. Le classi superiori potevano limitare le nascite con la continenza. La matrona che viveva in tal modo veniva ammirata ed approvata. C'era netta distinzione tra donne ignobili e donne rispettabili come le matrone. Le prime appartenevano al mondo del teatro, del circo, della prostituzione, oppure le adultere, con divieto di portare la stola, di contrarre matrimonio e di trasmettere diritti civili. La donna di basso ceto poteva convivere in famiglia come concubina. La matrona accettava le relazioni del marito con schiave o donne non rispettabili. Il ruolo della donna crebbe in età imperiale. Se un tempo essa poteva venire ripudiata dal marito, adesso poteva intentargli causa di divorzio e richiedere indietro la dote versata al momento del matrimonio. Certo è che la donna migliore, soprattutto se di famiglia patrizia, era ancora considerata quella che non si faceva notare, che si sottometteva al marito, che rimaneva in silenzio. Tuttavia, in una società mobile ricca come quella della Roma imperiale, non era difficile trovare donne indipendenti, istruite, influenti presso gli uomini più potenti, ben lontane dal modello di sposa remissiva, dedita alla crescita dei figli, che l'ideologia tradizionale continuava a proporre. La donna dunque che ritroviamo in epoca imperiale, è in una condizione diversa rispetto a quella dei secoli precedenti. Essa infatti acquisì maggiore indipendenza e raggiunse la sua emancipazione nel ruolo femminile. Divenne sempre più comune la presenza delle ricche matrone nella gestione delle imprese di famiglia e in politica furono le matrone ad esprimere il loro potere ufficioso attraverso le azioni e le decisioni dei mariti. Con il matrimonio la donna diventava matrona e aumenta la sua importanza politica e la sua capacità di persuadere il marito,il quale fu costretto dalla moglie a sollevare dall'incarico il segretario. Fu proprio durante l'impero che le donne continuarono a seguire i mariti sia nella buona che nella cattiva sorte, possiamo ricordare infatti donne virtuose come Paolina, la giovane moglie di Seneca, che tentò di uccidersi insieme al marito. IL FEMMINISMO Fu nella Roma imperiale che le donne iniziarono a prediligere occupazioni tradizionalmente maschili a scapito del loro ruolo materno. Le donne incominciarono a reclamare la parità dei diritti e a pretendere di vivere vitam, affermando che "Homo Sum"(sono un essere umano). Fu con il femminismo che le donne uscirono dagli schemi tradizionali e poterono accedere ai ruoli e mestieri tipicamente maschili entrando a far parte anche della politica interessandosi alla letteratura. IL CRISTIANESIMO DELLA DONNA La donna subì una drammatica demonizzazione da parte dei cristiani. Il sesso fu visto dalla Chiesa un male necessario solo per avere figli, al di fuori di questo era turpitudine e peccato. Per la Chiesa le donne erano in tutto più deboli e meno intelligenti degli uomini, considerandole schiave dei piaceri della carne e pericoloso oggetto di tentazione. IL MATRIMONIO Esattamente come nel mondo greco la donna si sposava molto presto, all’età di 10, 11, massimo 12 anni. Intorno a questi anni le donne erano infatti chiamate “viripotens” cioè in età da marito. I romani si sposavano così presto principalmente per garantirsi una discendenza. Nella forma più antica l’uomo chiedeva alla donna di essere la sua mater familias, e la donna chiedeva reciprocamente se l’uomo voleva essere il suo pater familias. Al matrimonio precedeva però la sponsalia, cerimonia di fidanzamento, durante la quale la donna riceveva un anello, simbolo di accordo in vista del matrimonio. Esistevano tre tipi di matrimonio: • Confarreatio: prevedeva la consumazione di un dolce da parte degli sposi; • Coemptio: consisteva in un simbolico acquisto di un bene, che equivaleva a comperare la sposa da suo padre. Era quindi una vera e propria cessione di persona dietro pagamento, come la trattazione di uno schiavo; • Usus: si basava sul principio dell'usucapione, secondo cui un bene (la donna) tenuto per almeno un anno da qualcuno, ne divine legittima proprietà. L'uomo aveva il diritto di uccidere la propria moglie per vari comportamenti illeciti: • L'adulterio: l’uomo aveva infatti la facoltà di uccidere la moglie non appena veniva colta in fragrante con un altro uomo; • Bere vino: i Romani temevano infatti che, bevendo vino, le donne avrebbero abortito. Si dice che il marito tornando a casa controllasse l’alito della moglie, e spesso le donne erano uccise impunemente: la scusa del vino era infatti un sistema drastico per divorziare senza dover pagare gli alimenti. IL TRADIMENTO La separazione avveniva in due modi: divortium e repudium: • Repudium: in alcuni casi la donna non assolveva la sua funzione principale, quella di generare figli, a causa nella maggior parte dei casi di una malattia. Veniva quindi cacciata di casa e ritornava dalla propria famiglia. • Divortium: la forma più comune di divorzio, che veniva attuata soltanto dal marito. Nel 18 a.C. Ottaviano dovette trovare una soluzione ai divorzi facili, e impose così la famosa legge Lex Iulia de maritandis ordinibus che sanciva l’obbligo al matrimonio, stabiliva premi per le famiglie numerose e multe a celibi, alle coppie senza figli, e agli scapoli che si erano fidanzati più volte. Inoltre, con questa legge Ottaviano concesse alle donne il divorzio. Nella famiglia le donne venivano lodate in base a quanto avevano amato marito e figli, e quanto avevano accudito la loro casa. La moglie doveva accompagnare il marito a tutti i banchetti e i ricevimenti, ma a differenza dei maschi non aveva la possibilità di sdraiarsi nei triclini, rimaneva infatti seduta. IL PARTO Partorire in età romana era molto pericoloso: il 10% delle donne moriva di parto, spesso per lacerazioni e lesioni irreparabili in un utero troppo infantile per la giovinezza delle spose, o per emorragia. In età imperiale la donna cercò di limitare le nascite, soprattutto se era riuscita a portare a termine le tre gravidanze dovute. Usava pozioni contraccettive ed abortive, con ruta, elleboro e artemisia. Ricorreva anche a rimedi medici come i pessari, tamponi di lana imbevuti in aceto e collocati negli organi genitali. Ciò doveva essere fatto di nascosto, in quanto la decisione dell’aborto spettava al futuro padre che poteva ripudiarla se non era d’accordo. La maggior parte dei medici rifiutava di assistere aborti, che potevano derivare anche da adulterio, diventando così complici e subendo le stesse pene degli amanti. La donna dunque, ricorreva alle levatrici o a donne esperte. Se la donna moriva nella pratica dell’aborto, il medico veniva accusato di omicidio. Inoltre l’aborto non era punito di per sé, solo se procurava la morte della donna. La puerpera alle prime contrazioni si lavava le mani e si copriva il capo. Invocava Giunone Lucina o la Dea Carmenta e veniva spogliata e sistemata sulla sedia da parto, forata sotto per far colare i liquidi e dotata di maniglie per attaccarsi nella spinta. Le schiave portavano ampolle di olio di oliva, cataplasmi, spugne coperte di lana grezza e versavano acqua calda nelle catinelle. Una schiava abbracciava da dietro lo schienale la partoriente e l’ostetrica, seduta su uno sgabello, la ungeva d’olio d’oliva per rendere la pelle più elastica e facilitare il passaggio. Le schiave ponevano sul ventre mani calde e panni bagnati di olio caldo sui genitali. Sui fianchi veniva messa una vescica piena di olio caldo per evitare dolori e smagliature. Per sedare il dolore si usavano cataplasmi caldi; per asciugare il sangue delle ferite vi erano le spugne, mentre l’acqua calda serviva per la pulizia dei genitali. Le coperte coprivano le gambe della donna. Quest’ultima stringeva le maniglie della sedia da parto e iniziava a spingere, l’ostetrica invece non doveva guardare i genitali della donna. Tratto fuori il bimbo gli si tagliava il cordone ombelicale, veniva controllato e poi lavato. Le bende e il cuscino serviva per fasciare e deporvi il neonato. Se questo nasceva con i piedi in avanti veniva chiamato “Agrippa”. Un parto cesareo era raro e veniva praticato con un gancio acuminato. LA GESTAZIONE I Romani ritenevano possibile la gestazione di sette mesi, ma era frequente quella di nove e di dieci. IL NOME Trascorsi i primi otto giorni dalla nascita c'era il rito di purificazione con l'acqua, un po’ come il battesimo. Parenti e amici di famiglia portavano doni e alla bambina veniva dato un nome, il vero praenomen, tenuto assolutamente segreto, ma solo per la femmina, e custodito nell’intimità familiare. Al di fuori dell’ambiente domestico, il nome era sostituito da un cognomen, quello della gens paterna con le aggiunte per distinguerla dalle sorelle, secondo l’ordine di nascita: Maxima, Maior, Minor oppure Prima, Seconda, Tertia, o con un soprannome per le sue caratteristiche fisiche: Rutilia o Fulvia (di capelli rossi), Murrula (bruna), Burra (tenera). Così mentre un uomo aveva tre nomi la donna ne aveva solo uno. Nella cerimonia nuziale, alla domanda del marito “Qual è il tuo nome?” la sposa risponderà di chiamarsi con lo stesso nome di lui e al precedente cognomen gentilizio paterno subentrerà o si aggiungerà quello dello sposo. L’EDUCAZIONE Giovenale nelle Satire commenta la donna romana: "Non si sente interessante se non posa a donna greca. Magari è di Sulmona o è toscana, ma vuole sembrare un'ateniese puro sangue. Parla solo in greco e non sa neppure il latino. Ha paura in greco, s'arrabbia in greco, s'addolora in greco, dice in greco tutti i segreti del cuore, fa addirittura ... l'amore in greco.“ Ma Giovenale è misogino e sulle donne ha sempre da ridire, perché parlare greco era un vezzo di molti romani, compresi imperatori come Adriano, ma se lo facevano le donne non andava bene. Al padre spettava nutrirle, controllare la loro moralità e combinare un buon matrimonio. Il resto era affare della madre. Nelle case patrizie i precettori facevano il resto, indirizzando la fanciulla a essere sposa e madre, educandola nelle attività domestiche, come la tessitura della lana, e verso le virtù di castità, riservatezza e modestia. I genitori, specie se agiati, facevano impartire lo studio a casa per i pericoli nei tragitti tra casa e scuola. La verginità delle fanciulle andava preservata. Nelle scuole pubbliche la fanciulla imparava a leggere, scrivere e fare di conto. Poi veniva spedita a casa prima dei suoi coetanei maschi. Alcune donne, per l'elevato livello culturale della famiglia, divennero colte, ma la donna intellettuale non sempre piaceva. La ragazza che avesse compiuto gli studi di letteratura greca e latina, docta puella, e mostrasse troppo la sua cultura poteva, al contrario dei maschi, infastidire. Da molti scrittori però, come Quintiliano, Tibullo, Ovidio e Plutarco, la donna colta era ammirabile e lo stoico Musonio Rufo in pieno I secolo giunse a dire che alla donna andava impartita la stessa educazione dell’uomo. L’ISTRUZIONE In famiglia il padre si preoccupava di educare i figli maschi, delle femmine se ne curava poco. Il padre aveva il compito di nutrirle, controllare la loro moralità e trovare loro l’uomo giusto. Il resto era dovere della madre. Nelle case patrizie i precettori si occupavano di indirizzare la fanciulla ad essere sposa e madre, educandola nelle faccende domestiche, come la tessitura della lana, e nelle virtù di castità, riservatezza e modestia. I genitori, specie se erano di un ceto sociale alto, facevano studiare la loro figlia in casa con un insegnante privato, per scansarle pericoli durante i tragitti dalla casa alla scuola. Col tempo i romani cercarono di favorire anche la scuola pubblica, pagandola di tasca propria. Da Cesare a Costantino vennero accordati regolarmente compensi e privilegi agli educatori pubblici, poiché si riteneva fosse un dovere sociale imparare a leggere, a scrivere e a far di conto. L’istruzione pubblica venne suddivisa in: • primaria (fatta con il maestro elementare); • secondaria (fatta con il grammatico) e superiore (fatta con il retore). Alla scuola secondaria avevano la precedenza di accesso i ragazzi e le ragazze delle famiglie più agiate. Le materie erano: lingua e letteratura latina e greca, fisica, astronomia, mitologia e storia. Quando arrivavano a dodici anni, l’età giusta per il matrimonio, potevano continuare con lo studio delle lettere, della danza e della musica. Vi erano scuole professionali, come quelle dell’edilizia e dell’agrimensura, ma anche istituti prevalentemente femminili, dove intraprendevano lo studio del canto, della musica e della danza. IL LAVORO Per i romani lavorare non era considerato né un privilegio né un diritto, ma una pesante necessità di cui non essere fieri. Le donne svolgevano prevalentemente lavori domestici. I lavori più svolti, oltre quello della casalinga, erano quello di medico, cameriera, segretaria e sarta. Lo scopo della sua vita era quello di diventare un’esperta amministratrice della casa, circondata, se possibile, da ancelle che ne eseguivano gli ordini (ecco perché l’origine della parola “donna”, dal latino domina che significa padrona). In casa essa si dedicava soprattutto al ricamo. L’ABBIGLIAMENTO I costumi e la moda con la quale le Donne della Antica Roma si vestivano, nel lungo periodo di diffusione della sua civiltà, è attestabile sia dagli affreschi e dalle statue dell’epoca che dai racconti dei molteplici scrittori, poeti e storici romani. Dalla iniziale uniformità dei vestiti tra uomini e donne nella Roma primitiva, realizzati con stoffe di lana e fibre vegetali più o meno grezze, ben presto l’abito femminile si differenziò da quello maschile. La conquista di nuovi territori fece affluire a Roma, tra le altre merci, stoffe e drappeggi di gran qualità; questo accentuò la differenza nei colori più o meno vivaci, e talvolta nei ricami. L’abbigliamento femminile, nel corso dei secoli, rimase sostanzialmente simile. Le donne indossavano come indumenta il perizoma,il seno era coperto da una fascia (strophium, mamillare) o una guaina (capetium) e una o più tuniche subuculae, intessute con lana o lino ed in genere prive di maniche. Sopra la subùcula veniva indossato il sùpparum oppure la stola (dette per questo tuniche superiori). Il sùpparum era una tunica femminile di lunghezza varia, ma non fino ai piedi (per cui la parte inferiore della subùcula rimaneva in vista); somigliava al chitone greco, ma aveva i fianchi sempre cuciti; i margini superiori (non cuciti assieme) venivano chiusi con fibule o cammei, in modo da formare due false maniche lunghe fin quasi al gomito. La stola era invece una tunica ampia e lunga appunto fino ai piedi, fermata alla vita da un cingulum, una cintura di stoffa o di pelle, liscia o decorata di ornamenti in metallo o pietre dure, in genere usata doppia, una sotto il seno, l’altra in vita, e generalmente si faceva uso di un succingulum per formare un secondo kolpos (sbuffo di stoffa) più ricco all'altezza delle anche. La recta, infine, era una tunica bianca sprovvista di maniche, aderente alla vita e lievemente scampanata in basso. Era il vestito delle giovani spose romane, completato dal flammeum, ampio velo di color giallo fiamma (da cui il nome) da appoggiare sul capo e fatto scendere sul retro. La palla invece era il classico mantello femminile usato nei periodi invernali. Di forma rettangolare simile al mantello greco, veniva indossata in modi svariati, talvolta anche poggiandone un lembo sul capo. Era l'equivalente del pallium maschile, diversa da questo per la vivacità dei colori e non tanto per la linea. Mentre gli uomini non portavano copri capi riparandosi dal sole o dalla pioggia con un lembo del mantello o sollevando il cappuccio (cucullus) della loro paenula, la donna romana metteva tra i capelli un nastro di color rosso porpora o un tutulus, una larga benda collocata a forma di cono sulla fronte. La matrona aveva poi di solito annodato al braccio un fazzoletto, la mappa, per pulire il viso dalla polvere e dal sudore. Il muccinium destinato a soffiarsi il naso, non comparve prima della fine del III secolo d. C. La signora aveva poi un ventaglio per rinfrescarsi e cacciare le mosche e un ombrello, non richiudibile, per ripararsi dal sole. Per proteggersi dalle intemperie poteva essere indossato un mantello con cappuccio, il byrrus, un indumento che si è tramandato fino al giorno d'oggi in NordAfrica, con il nome, derivato dal latino, di burnus. Tra le calzature più importanti c’era il solea, ovvero il tipico sandalo romano ed il calceum, uno stivaletto alto fino a mezza gamba e stretto con dei lacci. Gli Etruschi diffusero anche una specie di babbuccia orientale che le donne romane fecero tingere in diversi colori, con applicazioni in seta ed anche in oro. Ma anche gli orpelli erano importanti: le donne romane quasi sempre ponevano nastri sui capelli a diverse altezze, prima solo rossi poi di diversi colori, e pure una fascia piuttosto alta che formava quasi un cono sui capelli. I nastri erano di seta e talvolta di velo ritorto. LE STOFFE La differenza tra vesti maschili e femminili non consisteva tanto nella confezione dell’ abito quanto nei tessuti e nei colori. Le stoffe femminili, e non solo, potevano essere di diversi colori; con lo zafferano si otteneva una bellissima tintura gialla, più aranciata o più pallida a seconda della tinta impiegata, mentre dall’uva bianca si otteneva il verde, mista con l’uva nera il viola, mentre l’uva nera dava tinte dal grigio al bruno; colla bava del mollusco Murex, si otteneva il colore porpora, ma insieme al mollusco essiccato e tritato, donava alla stoffa una sfumatura bluastra (oltremare purpureo). Gli Etruschi avevano insegnato ai Romani ad usare tinture come robbia (rosso), zafferano (giallo) e guado (celeste). Secondo Vitruvio la tintura indaco veniva dall’India, ma sembra che ce ne fosse anche una autoctona ottenuta col fiordaliso. Si usavano pure ocre minerali con ossidi idrati di ferro per ottenere i colori più svariati. Taranto divenne famosa per la tintura con l’ oricello, un tipo di lichene, che mischiato alla porpora serviva ad abbassarne i costo notevole. Nella Roma del II sec. a.C. i tintori erano suddivisi per categorie; i croceari per il giallo, i violari per il viola, le officinae purpurinae per la porpora. Le donne Romane poi non avevano solo stoffe in tinta unita ma anche a strisce, come Dimostrano numerosi busti romani i cui vestiti erano imitati da marmo, e pure ricamate o intessute a telaio a disegni vari. Se prima i tessuti erano di lana, canapa e lino, in età imperiale diventarono misti: lana e cotone, cotone e lino, cotone e seta. I più preziosi erano i veli, le stoffe leggere e la seta, e le stoffe ricamate. I GIOIELLI I gioielli più indossati dalle donne nell’antica erano gli orecchini, inaures, che furono anche i primi mai usati nell’antica Roma. Il cerchio semplice in oro era chiamato buccola ed era spesso impreziosito da una pietra. I crotalia erano orecchini doppi che terminavano con una perla e quando si toccavano producevano un tintinnio. Ogni bambina portava al mignolo un anello dorato e alle orecchie due cerchi anch’essi d’oro. Chiaramente non tutti potevano permettersi bigiotteria d’oro, infatti le bambine più povere portavano collane, anelli e orecchini bianchi spesso realizzati con materiali più umili come le conchiglie. Un altro gioiello molto famoso era la bulla aurea usata come amuleto portafortuna. I gioielli utilizzati invece dalle donne adulte erano molto simili a quelli utilizzati dalle donne etrusche. Il gioiello più comune era quello a forma di serpente, che veniva usato come bracciale o come anello ed era un antico simbolo portafortuna della Dea Terra. Le romane indossavano gioielli di ogni tipo: gli anelli, ad esempio, erano usati sia sulle mani che sui piedi. Venivano usate pietre preziose fra i capelli, nastri ornati da gemme, collane e cavigliere. Spesso nei capelli le donne romane usavano l’Ago Crinale, uno spillone sormontato da una pietra o decorato in vari modi. L’ago poteva essere d’oro, d’argento o d’avorio. Si racconta che nel caso la decorazione in pietra alla punta dello spillone fosse concava, contenesse veleno, infatti questo tipo di gioiello fu proibito in molte zone dell’impero perche quando le donne si sentivano aggredite dai mariti, utilizzavo l’ago crinale per difendersi. LO SPECCHIO Le donne romane si dedicavano al proprio corpo, facevano attenzione al loro aspetto ed erano abbastanza vanitose da non farsi mancare l’oggetto che più terrorizza ma allo stesso tempo serve loro: lo specchio. Esso poteva essere quadrato, tondo o di forma ovale; i primi erano costruiti in metallo levigato, poi s’iniziò ad aggiungere il vetro. Dove si riponeva lo specchio si potevano trovare anche i contenitori per le creme e tutti quelli “attrezzi” del mestiere che possono essere paragonati a quelli utilizzati oggi. LE PETTINATURE Anche le acconciature erano considerate un abbellimento. Le donne romane portavano i capelli raccolti in un nodo dietro la testa, trattenuti da nastri color rosso porpora chiamati vittae, da un titulus, una larga benda collocata a forma di cono sulla fronte o da uno spillone, l’acus. Potevano essere anche rialzati sulla fronte con un rigonfio o divisi in trecce con un nodo sulla nuca. Nel I secolo d. C. la divisa nel mezzo e i riccioli simmetrici formavano una pettinatura armoniosa e il volume dei capelli aumentò gradatamente. Se le fanciulle potevano anche solo raccogliere i capelli con una crocchia sul retro o con un nodo a spirale nella parte superiore della testa, le donne dedicavano alle acconciature molto tempo e sforzo. Per le imperatrici romane infatti, l’acconciatura divenne una specie di costruzione architettonica. Esse erano assistite da schiave, chiamate ornatrices, specializzate nella difficile arte della pettinatura. Abbellivano le pettinature con reticelle d’oro, pietre preziose, diademi, fiori e corone. Venivano applicati anche capelli finti per rendere maggiormente voluminoso l’effetto, producendo vere e proprie sculture di ricci e trecce disposti sulla sommità della testa, raggiungendo anche i quaranta centimetri di altezza. Le serve pettinatrici correvano il rischio molto frequente di essere duramente punite se l’acconciatura non soddisfaceva la signora. Mentre erano più fortunate quelle parrucchiere che rimediavano alla calvizie della padrona con posticci e parrucche, bionde o nere, come quelli di capelli veri fatti venire dall’India. Le matrone preferivano avere i capelli di colore biondo, ricavato da grasso di capra e cenere di faggio oppure rosso acceso, ottenuto con l’henné. I colori particolari come il turchino o il rosso carota erano appannaggio delle meretrici. Per coprire la canizie, si usava il malo delle noci e minerali derivanti dall’antimonio nero, unito a grassi animali. Inoltre venivano stirati ed arricciati tramite ferri roventi, scolpiti con un esercito di forcine, retine e ausili meccanici di vario tipo. Fino al II secolo la pettinatura era pesante e complicata, ma nel III secolo mantenne una certa nobiltà di linee con onde profonde che incorniciavano il viso e una treccia arrotolata e piatta raccoglieva i capelli sulla nuca. I capelli venivano anche profumati attraverso prodotti appositi. Il giorno delle nozze le fanciulle cambiavano pettinatura: i capelli venivano divisi in sei parti mediante l'hasta caelibaris e, legati con nastri, s'arrotolavano alla sommità del capo e attorno alla testa formando i seni crines. Ogni donna nobile dell’Impero faceva a gara per avere l’acconciatura alla “Ottavia” (dalla sorella dell’imperatore Augusto) o alla “Plotina” (la moglie di Traiano). PETTINATURA ALL’OTTAVIA PETTINATURA ALLA PLOTINA PETTINATURA A MELONE IL TRUCCO Le donne romane, sia quelle di alto ceto che le prostitute, si truccavano normalmente. Era l’ornatrix ad occuparsi del trucco e della depilazione della signora. Per avere una candida carnagione occorreva un fondotinta luminoso, della biacca mista a miele ed altre sostanze grasse, detta cerussa, oppure veniva steso il lomentum, farina di fave, o il gesso cretese. A volte per ottenere un incarnato dorato, passavano sul collo e sulle braccia una polvere di zafferano profumato. Per il fard si mescolava un po’ di terra rossa di Selina, proveniente dalla Sicilia, la feccia del vino, il focus (estratto di alga) o l’ocra rossa. Si creavano anche effetti speciali, come un fondotinta iridescente stendendo sul viso polvere di vetro. Con lo stibium, antimonio polverizzato, o fumidus, nero di fuliggine di carbone, misto a grasso d’oca o grasso vegetale, venivano marcati i sopraccigli e si sottolineava il contorno degli occhi, l’eyeliner. Venivano disegnati sulla guancia e sul mento piccoli nei neri, gli splenia. Le palpebre venivano colorate con l’ombretto, preferibilmente verde o azzurro, ricavato dalla triturazione di malachite e azzurrite, talvolta misti a polvere d’oro. Vi erano anche rossetti, ricavati dal gelso, dal fuco, da estratti animali e vegetali e da sostanze minerali, in particolare cinabro, gesso rosso e minio. Gli unguentarii, riempivano il fornitissimo cofano di belletti, profumi, balsami e unguenti. Esistevano anche le maschere di bellezza, alcune vegetale e altre con miscugli di corna di cervo, escrementi di alcione nonché la placenta, lo sterco e l’urina dei vitelli. Mentre la maschera faceva effetto si procedeva alla depilazione, in quanto una donna affascinante doveva avere un corpo in cui non fossero presenti “ispidi peli pungenti” come lo stesso Plinio il Vecchio ricorda. Si ricorreva all’uso di cerette depilatorie e creme, come il psilothrum e il dropax, composti a basa di pece greca, resina, cere e sostanze caustiche disciolte nell’olio. Inoltre si ricorreva alle pinzette dette valsellae, di solito in metallo, ma anche in oro e argento. Poppea, era solita fare il bagno nel latte d’asina, infatti il latte era fra gli unguenti più usati per la pelle, spesso mescolato con il miele. I PROFUMI Il profumo era un tocco di classe. Veniva messo in particolari contenitori a forma di colomba, riempiti e sigillati a fiamma. Per aprirli si usava spezzarne la coda o il becco e, dopo l’apertura, il profumo veniva travasato in bottigliette. Le sostanze aromatiche venivano spremute con il tornio; gli oli essenziali venivano macerati nell’onfacio, base oleosa di olio d’oliva, o nell’agresto, spremitura di uva acerba, e successivamente filtrati. Il profumo più pregiato era il REGALE UNGUENTUM, così chiamato perché preparato per il re dei Parti. Inoltre vi erano anche il RHODINIUM, profumo alle rose dell’isola di Rodi; la VIOLA, usato per profumare le sale dei banchetti e i commensali e formato da viole e acque profumate per lo più con petali di rosa; il LASMINUM, gelsomino importato dall’Oriente; il MELINUM, ottenuto dalle mele cotogne e la MIRRA, apprezzata come ingrediente per profumi e incensi e utilizzata come unguento e tonico stimolante. Le essenze, già dal I secolo d. C. raggiungevano prezzi esorbitanti. L’IGIENE Per la matrona romana il momento della toeletta era un vero e proprio rito, un’arte da mantenere segreta. Aveva a disposizione catini, specchi di rame, d’argento o di vetro ricoperto di piombo e poteva disporre di una personale vasca da bagno, il lavatio, facendo così a meno dei bagni pubblici. Per i denti si usava un dentifricium a base di soda e bicarbonato di sodio. Anche l’urina era utilizzata per sbiancare i denti. Oltre al dentifricio di uso quotidiano, si usavano attrezzi come il dentiscalpium, una sorta di stuzzicadenti per eliminare i residui di cibo, in osso, legno, piuma o metallo. Era anche un filo interdentale che poteva essere persino d’argento o d’oro. La matrona romana era solita, dall’età imperiale, usare per lavarsi i denti anche la polvere di corno. L’auriscalpium invece, era utilizzato per la pulizia delle orecchie. Nel set da toletta non poteva mancare lo scalptorium, arnese per grattarsi la testa, il culter, coltellino per pulire le unghie e la volsella, pinzetta per la depilazione. Presso le terme vi era un servo addetto appositamente alla depilazione ed era chiamato alipilus. AGRIPPINA Giulia Agrippina (in latino: Iulia Agrippina; Ara Ubiorum, 6 novembre 15- Miseno, 23 marzo 59), fu augusta dell’Impero romano dal 49 al 54 e madre dell'imperatore Nerone. È conosciuta come Agrippina Minore, così detta per distinguerla dalla Madre Agrippina Maggiore. Agrippina ebbe il ruolo di reggente durante l'assenza del marito e zio Claudio, e fu la prima donna a governare di fatto l‘Impero durante i primi anni di regno del figlio. LA VITA Nacque ad Ara Ubiorum l'attuale città tedesca di Colonia, nell'accampamento militare dove si trovavano il padre Germanico e la madre Agrippina Maggiore, figlia del console Agrippa e nipote di Augusto. Fortissimamente convinta dell'importanza della propria stirpe, ambiziosa, dominatrice, ma anche accorta, lungimirante, pregna di senso dello Stato, Agrippina fu una delle più significative figure femminili dell'Impero romano, e l'unica che riuscì a conseguire uno status effettivo comparabile a quello di un principe-donna, ovvero di un'autentica imperatrice. Fu isolata, umiliata e perseguitata ed infine giustiziata dal figlio, Nerone, con la morte del quale si estinse la dinastia Giulio- Claudia. Sulla storia e le gravi vicende della sua dinastia, Agrippina scrisse dei Commentari, utilizzati da Tacito e Plinio il Vecchio come fonte storica. Fu la fondatrice della moderna Colonia sul Reno (Colonia Agrippinense). Gli abitanti di questa nuova città si chiamarono Agrippinensi. Nel 1993, la Città di Colonia ha eretto una statua ad Agrippina sulla facciata del proprio Municipio. Il suo favore verso il mondo celtico fu confermato allorchè concesse la grazia al re britannico Carataco, giunto a Roma in catene. Ebbe dal Senato di Roma il titolo di Augusta, che non corrispondeva a quello di imperatrice nel senso moderno del termine, ma che era comunque un riconoscimento di grande prestigio e pressoché unico, concesso a personalità di particolare spicco. GLI ANNI SOTTO IL PRINCIPATO DI TIBERIO Fin da ragazza Agrippina covò un odio profondo verso Tiberio, suo parente in quanto fratello di suo nonno Druso. Tiberio, infatti, le sterminò la famiglia. Allo sterminio compiuto da Tiberio sopravvissero solo Agrippina, le sorelle Giulia Livilla e Giulia Drusilla, e Gaio Cesare, meglio noto alla storia come Caligola. Nel 29 Tiberio obbligò la quattordicenne Agrippina a contrarre matrimonio con Gneo Domizio Enobarbo, che ella odiava. Dal matrimonio nacque un unico figlio, nel dicembre del 37, Lucio Nerone, e nel 40 Enobarbo morì di malattia. SOTTO IL PRINCIPATO DI CALIGOLA Alla morte di Tiberio, avvenuta nel 37, gli successe al trono il fratello di Agrippina, Gaio Cesare, detto Caligola (per via dei sandali militari che era solito portare, chiamati appunto "caligae"), e l'Impero sembrò aver trovato finalmente un sovrano che avrebbe portato pace e tranquillità dopo il regno del crudele e dispotico Tiberio; ed, effettivamente, così fu per i primi mesi di regno di Caligola. Nel 38 l'amata sorella Drusilla morì ventenne; i maltrattamenti da parte di Caligola si accentuarono a tal punto, che Agrippina e la sorella Livilla decisero di organizzare una congiura, anche se non è storicamente accertato che le due sorelle abbiano tentato di assassinare il fratello. Scoperte, il marito di Livilla, Marco Vinicio, fu giustiziato e nel 40 le due sorelle dovettero partire in esilio per Ponza; Agrippina fu costretta a lasciare il figlio alle cure della zia paterna. Nel 41 Caligola fu assassinato in seguito ad una congiura capeggiata da Cassio Cherea: il nuovo imperatore fu Claudio. CLAUDIO Agrippina e Livilla furono richiamate dall'esilio e diedero una degna sepoltura al fratello Caligola. Ma ben presto l'imperatrice Messalina, gelosa dell'avvenenza di Livilla, l'accusò di adulterio con Lucio Anneo Seneca e la mandò nuovamente in esilio. Pochi giorni dopo, la testa di Livilla fu portata a Roma: Agrippina era ora l'unica sopravvissuta della famiglia di Germanico. Nel 42 sposò il facoltoso Gaio Passieno Crispo, alla morte del quale ereditò il suo patrimonio. Nel 48 Messalina fu travolta dallo scandalo della bigamia e l'influente liberto Narciso ne approfittò per eliminarla e sponsorizzare la propria favorita, Elia Petina. Facendo credere di aver ricevuto un preciso ordine dal Principe, inviò alcuni soldati contro la moglie di Claudio e la fece crudelmente assassinare. Invece egli aveva udito l'Imperatore voler concedere udienza alla moglie, prima di eventualmente condannarla. Successivamente Agrippina fece giustiziare Narcisso. Nel 49 Claudio fu convinto a cercare una nuova moglie; Agrippina, appoggiata dal potente liberto Pallante, fu una delle candidate, ed alla fine, con la sua ipnotica bellezza, il prestigio dei natali, il carisma della personalità, riuscì a farsi preferire dal Principe, nonostante lo scandalo costituito dall'esserne la nipote (a cui si pose prontamente rimedio con una legge che regolarizzava questo genere di nozze). Agrippina divenne sempre più potente e popolare e riuscì a far sposare il figlio Nerone con Claudia Ottavia, figlia di Claudio e Messalina, nonché a convincere Claudio a designare erede al trono non il figlio Britannico, avuto da Messalina, ma Nerone stesso. Passarono alcuni anni e l'anziano Claudio si ammalò senza rimedio. Avvicinandosi alla morte, egli si pentì di aver posposto il figlio naturale, Britannico, a quello adottivo, Nerone. Questo suo ripensamento ingenerò dissidi con Agrippina. Poiché la morte intervenne in un tale contesto, molte voci si levarono contro di lei. Nerone divenne il nuovo imperatore. VITTIMA DI NERONE Il rapporto tra madre e figlio, però, non era destinato a mantenersi solido e collaborativo: Agrippina non tollerava ombre al proprio potere e, quando il figlio prese a preferirle come consiglieri Sesto Afranio Burro e Lucio Anneo Seneca e a mostrare scarsa disponibilità al sacrificio, nonché a tradire Ottavia con la liberta Atte, ella cominciò ad esercitare pressione sul figlio, avvicinandosi al giovane Britannico, suo figliastro. Nerone, insofferente dell'autorità materna, tolse di mezzo Britannico, avvelenandolo durante un banchetto. Da allora, madre e figlio si dichiararono guerra aperta. Nerone tolse ogni protezione alla madre e la fece allontanare dalla corte. Prese quindi come amante la bella Poppea Sabina, la quale istigò l'imperatore a sbarazzarsi di sua moglie Ottavia e della stessa madre Agrippina. Nerone si risolse dunque al matricidio, senza temerne le conseguenze, che lo porteranno invece ad un inesorabile declino. LUCILLA Nata il 7 marzo di un anno che oscilla fra 148 e 150, fu la seconda figlia femmina e terza tra i figli dell'imperatore romano Marco Aurelio e di sua moglie Faustina Minore, e una delle sorelle maggiori del futuro imperatore Commodo. Nacque e crebbe a Roma Lucilla aveva un fratello gemello che morì intorno al 150 d.C. Lucilla nel 161, fu promessa in sposa a Lucio Vero, che suo padre aveva associato al trono come co-imperatore, e lo sposò in Efeso nel 164. In quel periodo Marco Aurelio e Lucio Vero stavano combattendo una guerra contro i Parti in Siria. Ricevette in occasione del matrimonio il titolo di Augusta. Lucilla diede a Lucio Vero tre figli: due femmine ed un maschio. La figlia maggiore nacque nel 165 ma morì in età giovane insieme al maschio. Lucilla fu una donna rispettabile ed influente che teneva a dar lustro del suo status. Trascorreva molto tempo a Roma mentre suo marito Lucio era nelle province per adempiere ai suoi doveri di co-regnante. Lucio morì nel 169. IL SECONDO MATRIMONIO Poco tempo dopo, Marco Aurelio la obbligò a sposare Tiberio Claudio Pompeiano Quintiniano, un cittadino romano nato in Siria, che fu due volte console e politicamente alleato di suo padre. Lucilla e sua madre erano contrarie a questo matrimonio, in quanto Quintiniano era un uomo anziano e Lucilla preferiva un uomo più giovane. Lucilla, intorno al 170 diede a Quintiniano un figlio chiamato Pompeiano. Lucilla e Quintiniano accompagnarono, nel 172, Marco Aurelio a Vienna in supporto della campagna militare del Danubio. Furono con lui fino al 17 marzo del 180, quando Marco Aurelio morì e Commodo divenne il nuovo imperatore. Ritornarono a Roma e ogni speranza di Lucilla di diventare nuovamente imperatrice era ormai persa. L’IMPERO DI COMMODO E LA CONGIURA Lucilla non era felice di vivere una vita tranquilla da privata cittadina in Roma e diventò gelosa di suo fratello e sua cognata per via del potere esercitato e degli onori a loro tributati. Era inoltre molto preoccupata del comportamento instabile di suo fratello. Nel 182, un gruppo di membri della famiglia imperiale riuniti intorno a Lucilla pianificò l'assassinio di Commodo immaginando di vedere Lucilla e suo marito come nuovi governanti di Roma. Il nipote di Quintiniano irruppe dal suo nascondiglio con un pugnale cercando di colpire Commodo. Gli disse "Qui c'è il pugnale che ti spedisce il Senato" svelando la sua intenzione prima ancora di agire. Le guardie furono più veloci di lui, fu sopraffatto e disarmato senza riuscire nemmeno a ferire l'imperatore. Commodo ordinò la sua condanna a morte. MESSALINA Figlia di Domizia Lepida e di Marco Valerio Messalla Barbato nasce in una famiglia patrizia imparentata con la casa Giulio-Claudia. Quando Caligola salì al trono, era già una delle donne più desiderate di Roma per la sua bellezza. Costretta dall'imperatore a sposare Claudio, un uomo più grande di lei di trent'anni, balbuziente, zoppo e al terzo matrimonio, ebbe da lui due figli, Claudia Ottavia e Cesare, detto poi Britannico. Dopo che il 24 gennaio del 41 i pretoriani uccisero Caligola, lei e suo marito Claudio furono eletti imperatori di Roma. Insieme al marito fece uccidere gli assassini di Caligola, esiliò Seneca in Corsica, esiliò Giulia Livilla (sorella minore di Caligola e supposta amante di Seneca) a Ventotene dove fu uccisa, e richiamò dall'esilio Agrippina Minore, sua zia. Giovane ed inquieta, Messalina non amava molto la vita di corte; conduceva invece un'esistenza trasgressiva e sregolata. Dopo le accertate relazioni adulterine con il governatore Appio Silano Valeria Messalina si innamorò di Gaio Silio. Gaio Silio ripudiò la moglie e divenne l'amante di Messalina e, mentre l'imperatore Claudio si trovava ad Ostia, durante una festa dionisiaca a palazzo i due amanti "si sposarono" nel 48 d.C. Informato dal liberto Narciso, Claudio (forse timoroso che il rivale volesse succedergli sul trono) decretò la morte dei due amanti. Mentre Gaio Silio non oppose resistenza e chiese una morte rapida, Messalina si rifugiò negli "Horti Lucullani" (giardini di Lucullo) e fu uccisa da un tribuno militare. NELLA STORIOGRAFIA Messalina è stata descritta dagli storici dell'epoca come una donna dissoluta e senza scrupoli, pronta a sbarazzarsi dei suoi avversari. Le fonti storiche a cui si fa riferimento sono tutte a suo sfavore. Alcune leggi vigilavano del resto sulla morigeratezza dei costumi femminili, prima fra tutte la legge contro l'adulterio emanata da Augusto per proteggere i valori della famiglia. Tale legge prevedeva come punizione per le donne adultere (escluse le prostitute o meretrici) la deportazione a vita su un'isola, pena che fu inflitta anche a Giulia, unica figlia di Augusto. In realtà il caso Messalina non era, nella Roma imperiale, un caso eccezionale. Tradimenti e adulteri a corte erano consueti e spesso avevano motivazioni politiche. Secondo questa interpretazione l'accanimento contro Messalina (anche da parte degli storici) trova giustificazione in due elementi: era la moglie dell'Imperatore Claudio ed era membro della "gens Iulia". In quanto moglie di Claudio il suo modo di vivere le causò l'ostilità e l'odio dei fedeli di Claudio, che dopo il "matrimonio" con Gaio Silio le impedirono addirittura di vedere il marito. In quanto appartenente alla famiglia giulio-claudia, fu vittima delle rivalità e della lotta interna alla sua stessa famiglia in cui altri membri, oltre a suo figlio Britannico, potevano essere proposti come successori dell'Imperatore Claudio. E proprio per far sì che il figlio potesse un giorno divenire Imperatore, Messalina eliminò fisicamente i potenziali rivali e chiunque potesse anche solo apparentemente ostacolare i suoi piani. Pagò non solo con la vita tutti gli intrighi e gli omicidi commessi; infatti su di lei fu applicata la "damnatio memoriae", cioè l'eliminazione del suo nome dai documenti e dai monumenti di Roma e la distruzione delle sue statue. Inoltre il figlio Britannico non fu mai Imperatore. LA SCUOLA INTRODUZIONE Nell'antichità la scuola fu lasciata a lungo all'iniziativa privata. A Roma, ai tempi della repubblica, le scuole non esistevano ed erano i padri ad insegnare ai propri figli le cose più essenziali come leggere, scrivere e far di conto. Quando la vita pubblica divenne più pesante ed impegnativa l'insegnamento fu lasciato agli schiavi, soprattutto greci. Solo nel 235 a.C., sotto l'influsso greco, a Roma sorge la prima scuola pubblica. Le prime scuole statali furono istituite nel periodo imperiale con le cattedre di retorica e filosofia (sec. I-IV d.C.), ma già all'inizio del IV secolo tutto l'insegnamento è finanziato dallo Stato. La scuola romana comprendeva tre gradi affidati al ludi magister (maestro elementare), al grammaticus (commentatore di testi grecolatini) e al rhetor (maestro di eloquenza). Nella scuola primaria (ludus litterarius) i bambini dai sei agli undici anni imparavano a scrivere, leggere e contare. Dagli undici ai sedici anni gli studi proseguivano alla scuola del grammaticus (o litterator), con la lettura dei maggiori scrittori greci e latini e con nozioni di storia, geografia, astronomia e fisica. Il terzo ciclo di istruzione si compiva alla scuola del rhetor, il maestro di eloquenza: qui si studiava diritto e si approfondiva la conoscenza dei classici latini e greci per sviluppare e perfezionare “l’arte del dire“, ovvero la retorica: saper parlare in pubblico e convincere l’uditorio era infatti fondamentale per l’attività forense e la vita politica. . Il poeta Orazio conservò sempre un odio accanito per il suo maestro, autentico terrore della sua infanzia, da lui soprannominato plagosus, “il battitore”. Altre discipline erano la filosofia, la matematica e la medicina. Al secondo e soprattutto al terzo ciclo di studi accedevano quasi esclusivamente i figli degli aristocratici, che venivano poi avviati alla vita pubblica. Chi aveva concluso questo percorso spesso lo coronava con una sorta di “master” all’estero: le mete più rinomate erano le scuole filosofiche e scientifiche di Atene, Alessandria d’Egitto, Rodi o Pergamo. L’apprendimento si basava soprattutto sulla ripetizione e i maestri non lesinavano bacchettate sulle mani o sulla schiena per costringere gli allievi a imparare a memoria i testi degli autori o a rispettare la disciplina. IL CALENDARIO SCOLASTICO E I MATERIALI Le lezioni a scuola iniziavano al mattino presto e duravano circa sei ore. L’anno scolastico durava otto mesi,a partire dalla fine di marzo, con un interruzione durante i mesi estivi. Quando c’era il mercato(nondinae), ogni nove gg,gli alunni non andavano a scuola come anche nei giorni dedicati a festività religiose e civili. L’orario scolastico era di sei ore al giorno, con l’intervallo per il pranzo (prandium) che veniva consumato a casa propria. Le aule erano stanze d’affitto, tabernae, o portici, pergulae. Il maestro sedeva su una sedia con spalliera e braccioli, chiamata cathedra, mentre gli studenti stavano davanti a lui, seduti su sedie, sgabelli o panche, e tenevano sulle ginocchia pugillares, tavolette, o cerae, tavolette cerate, dove appoggiavano tutto il necessario per scrivere e leggere: il papyrus, foglie di papiro e la pergamene, pelle di pecora conciata e usata come materiale scrittoreo. Per scrivere usavano la penna, con il calamaio, l’inchiostro, e lo stilus, ovvero un bastoncino con una parte appuntita per scrivere e una piatta con una spatola per cancellare. Il maestro aveva a disposizione una rozza lavagna (tabula) e un abaco (abacus), per i calcoli. Spesso, per mantenere l’ordine e la disciplina il maestro percuoteva con la ferula, la frusta, o con il flagellum, la sferza, gli alunni svogliati e distratti. Per scrivere usavano la penna, con il calamaio, l’inchiostro, e lo stilus, ovvero un bastoncino con una parte appuntita per scrivere e una piatta con una spatola per cancellare. Il maestro aveva a disposizione una rozza lavagna (tabula) e un abaco (abacus), per i calcoli. Spesso, per mantenere l’ordine e la disciplina il maestro percuoteva con la ferula, la frusta, o con il flagellum, la sferza, gli alunni svogliati e distratti. Le classi erano composte da ragazzi e ragazze senza distinzione di età e di sesso. La disciplina era dura e brutale anche perché gli insegnanti ricorrevano a punizioni corporali. Le scuole chiudevano solo nei giorni di mercato, durante le feste per Minerva e per le vacanze estive. L’ISTRUZIONE DELLA DONNA La donna veniva considerata inferiore rispetto all’uomo fin dalla nascita, e ciò si rifletteva anche nella scuola. Solitamente i primi anni di studio li svolgeva a casa con un insegnante privato o con la madre perchè il tragitto da casa a scuola veniva considerato troppo pericoloso. Giunta l’adolescenza potevano andare a scuola, ma dovevano uscire prima dei maschi e venivano portate a casa dal padre. L’unico dovere del padre, era quello di indirizzare la figlia nelle giuste scelte per il futuro dal punto di vista scolastico e coniugale. Esistevano anche delle scuole unicamente femminili dove si studiavano danza e canto e altre dove veniva insegnata la letteratura. Quando diventavano madri, la donna ricca affidava i propri figli al pedagogo di fama che aveva pagato a peso d'oro mentre le donne povere "si liberavano" dei loro figli mandandoli in una di quelle scuole private che i professionisti avevano aperto nell'Urbe alla fine del II secolo e che abbondavano in Roma. I figli pativano di questa specie di abbandono materno. Se l'allievo apparteneva ad una famiglia ricca aveva tutto l'agio di respingere il sedicente maestro al suo ruolo di subalterno, che era poi quello di domestico, anche se precettore. I fanciulli di origine modesta non avevano alcuna considerazione del maestro di cui frequentavano la scuola. LA FIGURA DEL MAESTRO L'ambizione del maestro si limitava meccanicamente ad insegnare agli allievi a leggere, a scrivere e a fare i calcoli, e poiché questo disponeva di parecchi anni, non si preoccupava affatto di perfezionare i suoi metodi approssimativi o piuttosto di rinnovare i suoi triti programmi. Le figure di retore e grammatico si rivolgevano ad un pubblico ristretto. I primi professori di grammatica e di retorica provenivano dall'Egitto e dall'Asia. Il più famoso dei maestri fu Quintiliano. Le lezioni si impartivano in latino e in greco presso il grammaticus. Sembra che i grammatici romani non abbiano mai smesso di basare l'insegnamento della letteratura latina su quello della letteratura greca. Il grammatico disponeva di una doppia biblioteca a differenza del ludus litterarius il cui sapere si limitava a un libro solo. Il grammatico aveva limitato da sempre la sua scelta di autori latini ai poeti delle prime generazioni e aveva la civetteria di spiegare questi scrittori in greco, le cui opere erano più o meno riduzioni dal greco. Negli ultimi venticinque anni del primo secolo a.C. un liberto attico, Quinto Cecilio Epirota, decise di attuare nella scuola di grammatica che lui dirigeva due modifiche in un colpo solo: osò parlare latino e ammettere all'onore delle sue lezioni autori latini viventi o scomparsi da poco. Le sue opere cominciavano gradualmente ad arricchire i programmi. Questi tentativi intermittenti di rinnovamento non bastarono a modificare il carattere fondamentale di un insegnamento che si può definire tanto più come "classico" quanto più era legato alle tradizioni di successi già consacrati. La scuola di grammatica di Roma guardò sempre al passato, se pure con maggior o minore intensità secondo il momento, e il latino che vi si insegnava non fu mai, per essere esatti, una lingua viva, ma la lingua di cui si erano serviti i "classici". I grammatici imponevano prima di tutto esercizi ad alta voce e recitazioni a memoria. Lavorando su un testo si svolgevano tre funzioni fondamentali: • l'emendatio ovvero l'attuale critica orale che esigeva riflessione da parte degli studenti; • l'enarratio propriamente detto commentario i cui difetti guasteranno più tardi l'opera di un Servio; • l'explanatio ovvero la spiegazione frase per frase o verso per verso, definendo tutte le figure retoriche e ricavando il senso di ogni parola. Le discipline che i Romani chiamarono arti liberali entravano nell'insegnamento solo di seconda. Il grammatico romano si occupava di tutto, senza nulla approfondire e i suoi allievi a loro volta non facevano altro che sfiorare di sfuggita le conoscenze implicite della letteratura ch'egli veniva citando. La mitologia indispensabile a intendere le leggende poetiche, la musica quando da essa dipendevano i metri delle odi o dei cori, la storia senza della quale parecchi passaggi dell'Eneide sarebbero rimasti inintellegibili, la geografia quando bisognava seguire Ulisse nelle tribolazioni del ritorno, l'astronomia quando una stella si levava o tramontava nel ritmo di un verso e le matematiche nella misura richiesta dalla musica e dall'astronomia. Il rhetor, ovvero il retore, insegna a parlare eloquentemente. L'eloquenza dominava le assemblee. Poco dopo il regime imperiale sotto i Flavi l'eloquenza, soprattutto quella a cui approdavano gli insegnamenti di grammatica e di retorica, si svuotò di ogni contenuto. Quando irruppero i pretoriani nella politica anche l'arte dell'eloquenza fu abbandonata. Gli studi filosofici non furono mai pienamente accolti a Roma e il senato cacciò dall'Urbe l'accademico Carneade, lo stoico Diogene e il peripatetico ("passeggiatore", ovvero "che insegnava mentre passeggiava") Critolao; Traiano e Adriano la permisero solamente nei paesi d'origine come ad Alessandria e ad Atene. La filosofia aveva continuato a destare prevenzioni sospettose e ironiche e il cittadino che avesse voluto dedicarsi ad essa non aveva che tra due vie: o disporre di un grande patrimonio per mantenere a sue spese un maestro a casa sua, o espatriare in una di quelle lontane città in cui i filosofi potevano esporre liberamente le loro speculazioni. IL LATINO LINGUA DELLA CIVILTA’ EUROPEA La lingua latina fa parte del grande gruppo delle lingue indoeuropee. Con questo termine si indica un insieme di lingue appartenenti all'area geografica che va dall'Europa occidentale all'India e accomunate da vari elementi (detti isoglosse). Confrontando infatti le varie lingue non rimangono dubbi sull'esistenza di antichissimi dialetti molto simili fra loro. Tuttavia non si può pensare ad una comune lingua indoeuropea, soprattutto perché le varie popolazioni che parlavano questi dialetti si sono disperse nel corso dei secoli e le loro lingue si sono differenziate. Esaminando le isoglosse si possono stabilire rapporti insospettati fra lingue parlate da popoli lontanissimi fra loro. Fra il 1400 e il 1000 a.C. varie popolazioni di lingua indoeuropea si diffusero in Italia. Una di esse, che si era insediata su un colle alla sinistra del Tevere fondando il villaggio fortificato di Roma, riuscì ad imporre la sua egemonia a poco a poco in tutto il bacino del Mediterraneo. La lingua dei vincitori era il latino, ovvero la lingua del Lazio, che rapidamente soppiantò tutte le altre. Si impose più facilmente sulle popolazioni barbariche occidentali, mentre la penetrazione fu quasi nulla nei territori orientali, come la Grecia, che aveva già una sua cultura molto evoluta. L'unica nazione orientale che conserva una profonda traccia della conquista romana è la Dacia, l'odierna Romania: dalla fusione del latino con la lingua indigena nacque il rumeno. Dell'antica lingua di Roma non sappiamo molto: gli unici documenti a nostra disposizione sono testi scritti, mentre non sappiamo niente della lingua parlata quotidianamente dalla gente. Per di più, il patrimonio letterario dei latini ci è giunto in maniera molto esigua e frammentata. Non abbiamo nemmeno precise informazioni sulla pronuncia, visto che non siamo in grado di riprodurre l'accento latino. Quindi dell'antica lingua di Roma conosciamo solo il latino letterario. A differenza di quello popolare, il latino letterario era uguale dovunque, poiché veniva insegnato nelle scuole di tutta Europa. Accanto al latino letterario c'era quello parlato dal popolo. Era una lingua molto frammentata che assumeva caratteristiche diverse a seconda delle vicende storiche di ogni regione. Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (476 d.C.) le frammentazioni regionali si fecero sempre più forti, al punto che nell'813, in Francia, il Concilio di Tours esortò i preti a predicare in volgare, e non in latino, affinché la gente potesse capire. Fra i numerosi volgari che stavano nascendo ne prevalsero alcuni, che diedero vita alle lingue neolatine o romanze. Si formarono quindi il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il provenzale, l'italiano, il sardo, il rumeno, il ladino e la lingua d'oil da cui derivò il francese. Verso il XII sec. le nuove lingue volgari iniziarono ad essere usate al posto del latino nella letteratura. Esemplare fu il caso di Dante Alighieri, che scrisse opere sia in volgare sia in latino, a seconda del pubblico a cui intendeva rivolgersi. Con il trionfo delle lingue neolatine, tuttavia, il latino non scomparve ma rimase lingua della Chiesa e della cultura per tutto il Medioevo. Era diverso dal latino classico, ma era in compenso una lingua viva e concreta. Oggi il latino non è più la lingua internazionale della cultura: per complesse ragioni storiche, oggi ha preso il suo posto l'inglese. Tentare di sostituirlo con altre lingue, come l'esperanto, è inutile. Il latino tuttavia rappresenta un elemento unificante della storia dei vari Paesi europei. DIFFERENZE TRA SCUOLA GRECA E ROMANA Anche a Roma il fanciullo entra nella scuola primaria a sette anni e vi rimase fino agli undici o ai dodici. Il maestro elementare è designato dai romani con la parola litterator o con le espressioni primus magister, magister ludi, magister ludi litterari. Anche a Roma il mestiere di maestro è poco considerato ed è per lo più esercitato da gente di umile condizione. Il maestro è stipendiato dagli alunni, una trentina dei quali è necessaria per mettere insieme una paga equivalente a quella di un operaio qualificato. La scuola è sistemata in un locale a pianterreno aprentesi sui portici di una strada preferibilmente centrale. Anche le fanciulle possono frequentare la scuola, per quanto, in genere, sia preferita, per loro, l'istruzione privata. Attrezzatura e metodi corrispondono a quelli della scuola primaria greca. Anche nella scuola romana predominano la passività, il mnemonismo, la coercizione; solo verso il I secolo d.C. si penserà di sostituire alla coercizione la spinta dell'emulazione o l'attrazione di qualche dono. L'insegnamento secondario, che appare, come s'è detto, nel corso del III secolo, si basa, come in Grecia, sulla letteratura e sul commento dei classici, rappresentati, qui, da Livio Andronico, da Ennio e, probabilmente, dai commediografi. Ai tempi di Augusto, Quinto Cecilio Epirota introdurrà nel canone Virgilio ed una serie di nuovi autori, fissando così quel programma che resterà immutato fino alle invasioni barbariche. Da tale programma sono esclusi Cesare e Tacito; lo stesso Livio ha una posizione secondaria: lo storico giù studiato è Sallustio; fra gli oratori eccelle, ovviamente, Cicerone; fra i comici Terenzio. Il professore di scuola media (grammaticus) è più considerato e meglio pagato (circa quattro volte di più) del maestro elementare. Il metodo didattico riproduce esattamente quello della scuola greca. La scuola superiore è, anche in Roma, essenzialmente scuola di retorica. Anche l'insegnamento del rethor latinus ha per soggetto l'arte oratoria, col suo bagaglio di regole, di tecniche, di abiti da apprendersi ed acquisirsi progressivamente. La prima scuola latina di retorica viene aperta nel 94 a.C. da Lucio Plozio Gallo, un democratico, cliente di Mario; e viene chiusa l'anno successivo per ordine dei censori aristocratici. Il provvedimento ha una evidente duplice causa politico-sociale: da un lato la tendenza dei nuovi maestri a lasciar da parte le astratte argomentazioni attorno ad assurdi quesiti per avvicinarsi invece alla realtà contemporanea, specialmente politica; dall'altro, il fatto che lo studio della retorica impartito in latino riesce più facile e quindi più rapido e meno costoso, e conseguentemente più accessibile ai ceti poco abbienti, laddove la scuola superiore greca è privilegio esclusivo dei ricchi. Una scuola latina di filosofia non esiste; quei pochi intellettuali che affrontano gli studi filosofici non bastano a giustificare lo sforzo necessario per tradurre i testi classici nella lingua di Roma. Neppure esiste una scuola latina di matematica o di alta specializzazione tecnica, per quanto la letteratura romana sia ricca di una schiera di teorici dell'agronomia e dell'architettura. Anche l'insegnamento della medicina, che finirà più tardi coll'essere latinizzato, viene impartito, nell'età repubblicana e in quella del primo impero, in lingua greca. Unica importante eccezione è quella del diritto. Lo sviluppo della tecnica giuridica (prerogativa del genio latino) è ormai giunto a un grado così avanzato da richiedere una seria specializzazione. D'altra parte le carriere che una buona conoscenza del diritto apre dinanzi ai giovani abbienti ed ambiziosi sono numerose e brillanti. Così a partire dall'età augustea verranno sorgendo le stationes jus publicae docentium aut respondentium, ad un tempo scuole pubbliche di diritto e uffici di consultazione legale. Cicerone considerava motivo di vanto per la repubblica non aver creato alcun sistema di educazione uniforme e controllato direttamente dallo stato. Intorno al 350 d.C. Costanzo II afferma, al contrario, che ii primo merito di un governo e di un principe è quello che egli si acquista verso la pubblica istruzione. Simmaco, nel IV secolo, dichiara esplicitamente che « la prova della floridezza di uno stato si desume dallo stanziamento di cospicue retribuzioni ai pubblici docenti ». Nel corso dell'età imperiale la tendenza « dirigista » e « interventista » dello stato si estende non solo ad un numero sempre maggiore di imprese economiche, ma anche a tutta una serie di altre attività, fino a coprire quasi completamente l'estensione della vita sociale. A poco a poco, anche la scuola debba rientrare nell'ambito del controllo e delle direttive statali. Il movente principale che spinge lo stato ad interessarsi della scuola è la necessità di assicurare in continuità l'esistenza di una massa ormai enorme di funzionari. Si tratta di una vera e propria nuova classe che va dagli « scribi » di grado elevato, fino ai « notarii » (stenografi) di grado più modesto, preparati in scuole speciali. Lo stato interviene nella vita scolastica per tre vie: la creazione di scuole pubbliche atte a rilasciare titoli ufficiali; la regolamentazione delle scuole municipali ; la vigilanza sull'istruzione privata. La creazione di scuole pubbliche statali, a sua volta, può attuarsi o mediante l'istituzione di nuove cattedre o mediante il riconoscimento ufficiale di cattedre e sedi già esistenti. Lo stato finanzia la scuola, le fornisce i locali, ne fissa i rapporti di dipendenza dall'autorità politica. Tutto ciò si riferisce solo alla scuola superiore; la media e la primaria rimangono libere. Famose saranno le scuole di diritto create, oltre che a Roma, a Beirut, a Costantinopoli; ad Atene Marco Aurelio fonda cattedre di retorica e filosofia; a Costantinopoli Teodosio apre nel 425 una vera università di stato. La scuola di stato è concepita, almeno fino a Giustiniano, come scuola modello; la scuola ordinaria, che somministra il sapere a grandi masse di alunni, è la scuola municipale. Solo ai tempi di Giuliano, per ovvie ragioni di ordine politico-ideologico, si imporrà un controllo statale circa i meriti scientifici ed il valore morale degli insegnanti. L'insegnamento privato a domicilio è totalmente libero, quello privato impartito pubblicamente è in parte controllato. Non sono sottoposte ad alcun controllo le scuole professionali, né quelle cristiano-catechistiche. Lo stato, comunque, si interessa solo dell'aspetto amministrativo ed interviene con esenzioni fiscali, miglioramenti delle remunerazioni, borse di studio (istituzioni alimentari). Orari, metodi, programmi, sono di esclusiva spettanza del maestro. Durante l'età imperiale lo stato affronta il problema educativo anche mediante la creazione di accademie, musei, biblioteche. Dal punto di vista burocratico, la scuola dipende direttamente dall'autorità politica; non esiste una vera amministrazione scolastica. L’EDUCAZIONE L’educazione, un argomento di forte dibattito quotidiano non è di certo nata con la psicologia e la pedagogia nel corso del ‘900; come ogni minimo spetto della nostra cultura, ha origini molto antiche. Già nell’antica ROMA erano ben delineati gli iter dell’educazione e della formazione per accompagnare i fanciulli nella crescita e per prepararli ad entrare nel mondo come uomini liberi, perché istruiti. Ritengo quindi molto interessante conoscere come i nostri antenati avevano pensato alla formazione delle persone e quindi, di fatto, a come inserire nella civiltà nuovi individui. LA SCUOLA PRIMARIA (LUDUS LETTERARIUS) La scuola primaria, che avrebbe dovuto porre le basi per il migliore sviluppo dei fanciulli, si svolgeva in condizioni precarie. Il maestro si limitava all'insegnamento della lettura, della scrittura e a far di conto. Il metodo seguito era quanto di più meccanico e laborioso per gli alunni che per imparare a leggere dovevano prima mandare a memoria l'ordine e il nome delle lettere, successivamente riconoscere quale era la loro forma e infine mettere assieme sillabe e parole. Altrettanto faticosamente avveniva per la scrittura: gli alunni dovevano copiare un modello aiutati dal maestro che, tenendo nella sua la mano dell'allievo, gli faceva eseguire i movimenti necessari per riprodurlo. Era un sistema inutilmente macchinoso e irrazionale, che sembrava fatto apposta per prolungare il tempo necessario per l'apprendimento elementare che in effetti durava diversi anni. Anche per imparare a eseguire calcoli elementari gli alunni trascorrevano molto tempo a fare conti con le dita delle mani: per calcolare le decine, le centinaia e le migliaia imparavano a spostare i sassolini (calculi) degli abachi. Gli imperatori del II secolo d.C., come Adriano, favorirono la diffusione dell'insegnamento elementare fin nelle lontane regioni dell'impero convincendo i maestri ad esercitare il loro insegnamento esentandoli dal pagamento delle tasse. Il metodo d'insegnamento, limitato e meccanico, continuò nel tempo ad essere quello tradizionale, cosicché un analfabetismo di ritorno era usuale tra classi più povere della popolazione e tra i soldati, che per esempio erano incapaci di tenere una minima contabilità della legione. LA SCUOLA PRIMARIA DI RIPOLI L’INSEGNAMENTO SECONDARIO Durante il II secolo a.C., quando Roma iniziò a dominare sulla Grecia, ci si rese conto della inferiore educazione dei governanti romani nei confronti dei loro sudditi. Si favorì allora in Roma la fondazione di scuole che permettessero una formazione culturale simile a quella dei greci che, poiché permetteva l'ascesa al potere politico tramite l'eloquenza, che dominava le assemblee, si volle limitare alla classe più elevata. I primi professori di grammatica e retorica provenivano dall'Oriente e insegnavano usando la lingua greca; quando furono sostituiti da italici, si continuò ad usare il greco per l'insegnamento superiore della retorica, mentre per quello propedeutico della grammatica si adoperava sia il latino che il greco. Durante il periodo riformatore del console del partito "popolare" della repubblica romana Caio Mario si cercò di estendere l'uso del latino come fece il retore Plozio Gallo, cliente di Mario, il cui esempio fu seguito dalla pubblicazione dell'opera Rhetorica ad Herennium. Con questa si tentava una volgarizzazione della cultura superiore. L'oligarchia romana intervenne a smorzare ogni tentativo di innovazione e lo stesso Plozio Gallo per intervento nel 93 a.C. dei censori dovette rinunciare al suo insegnamento poiché «bisognava ritornare alla regola degli antichi» considerando «che era cosa colpevole adottare una novità contraria alle loro abitudini.» Le scuole per l'insegnamento dell'eloquenza riapriranno soltanto durante il periodo in cui Cicerone scrive i suoi trattati sulla retorica, nell'età di Cesare, e successivamente nel periodo imperiale dei Flavi, generosi mecenati di Quintiliano. L'insegnamento della retorica continuò ad essere riservato a pochi anche se era impartito oltre che in greco anche in latino. Col decadimento del libero dibattito politico nell'età imperiale, anche la retorica perse ogni reale contenuto divenendo esercizio di astratta eloquenza. Dall'insegnamento della retorica vennero allontanate quelle dottrine che erano sempre state accomunate ad essa come la filosofia e le scienze matematiche e naturali che pure gli imperatori Traiano e Adriano continuavano a sostenere nel Museo di Alessandria e ad Atene. In vero nel centro del potere, a Roma, già da tempo il dibattito filosofico pubblico era stato proibito dal senato nel 161 a.C. e considerato politicamente pericoloso ancora nel 153 a.C. quando, senza tener conto della loro immunità diplomatica, furono cacciati i filosofi Carneade, Critolao e Diogene. Una politica intellettuale antifilosofica questa che era stata ribadita da Vespasiano, che pure concedeva privilegi ai retori e ai grammatici. Nonostante, quindi, che le scuole preparatorie di grammatica e retorica fossero frequentate da numerosi giovani provenienti da famiglie agiate e che gli stessi imperatori ne fossero patrocinatori, l'insegnamento dell'eloquenza fu caratterizzato da uno sterile formalismo. Il grammaticus iniziava la sua lezione con la spiegazione (explanatio) dell'opera classica in esame enumerando meccanicamente le figure retoriche comprese nel testo: a questo seguiva l'emendatio una critica formale del testo e alla fine l'enarrato un giudizio complessivo dell'opera in esame. Da tutto questo le arti liberali non entravano che di straforo senza nessun approfondimento. Mitologia, musica, geografia, storia, astronomia, matematica erano richiamate solo per una comprensione del testo in esame. I romani non concepivano per il loro senso pratico che si potessero studiare disinteressatamente quelle discipline che potevano conoscere belle e fatte nei libri senza sentire la necessità di svilupparle o controllarle. Quando si giudicava che l'allievo avesse raggiunto un'adeguata preparazione, questi poteva dare prova in pubblico delle sue qualità di orator nelle causae dove esaminava particolari casi di coscienza (suasoriae) o nelle arringhe (controversiae), espressioni di un'eloquenza del tutto artificiosa e lontana dalla realtà, ridotta a pure declamationes. Questo insegnamento, lontano dalla vita reale e chiuso in un gretto classicismo, distaccò sempre più i giovani disgustati dall'astrattezza di una scuola di cui si prendevano gioco pensando solo a soddisfare i loro immediati bisogni reali. LA SCUOLA DEL RHETOR Il terzo ciclo di istruzione si compiva alla scuola del rhetor, il maestro di eloquenza: qui si studiava diritto e si approfondiva la conoscenza dei classici latini e greci per sviluppare e perfezionare “l’arte del dire“, ovvero la retorica: saper parlare in pubblico e convincere l’uditorio era infatti fondamentale per l’attività forense e la vita politica. Altre discipline erano la filosofia, la matematica e la medicina. Al secondo e soprattutto al terzo ciclo di studi accedevano quasi esclusivamente i figli degli aristocratici, che venivano poi avviati alla vita pubblica. Chi aveva concluso questo percorso spesso lo coronava con una sorta di “master” all’estero: le mete più rinomate erano le scuole filosofiche e scientifiche di Atene, Alessandria d’Egitto, Rodi o Pergamo. I primi professori di grammatica retorica provenivano dall’oriente e insegnavano usando la lingua greca; quando furono sostituiti dagli italici, si continuò a usare il greco per l’insegnamento superiore della retorica, mentre per quello propedeutico della grammatica si adoperava sia il latino che il greco. LE MATERIE • • • • • • • Le discipline principali studiate nell’ antica Roma erano: Mitologia Musica Geografia Storia Astronomia Matematica Fisica I GIOCHI E GLI SPETTACOLI I GIOCHI E GLI SPETTACOLI Le feste nel calendario romano e il significato religioso degli spettacoli Con il termine feriae i romani indicavano i giorni in cui venivano celebrate le festività religiose,le più importanti erano i ludi che erano degli omaggi a un particolare Dio. C’erano tre tipi di ludi:ludi scaenici ovvero spettacoli di danzatori,mimi e giocolieri accompagnati dalla musica a dal canto,si svolgevano a teatro;ludi circenses ovvero i giochi del circo e i ludi gladiatorii ovvero i combattimenti tra gladiatori che avvenivano negli anfiteatri. Alle feste religiose si aggiungevano quelle offerte dai Cesari,quelle celebrate in campagna dai contadini,quelle di quartiere in onore dei santuari locali,quelle dei nuovi culti,quelle delle corporazioni,quelle militari e quelle che offriva a sorpresa l’imperatore,in questo modo i romani contavano più di 175 giorni di festa all’anno. Augusto fece molte riforme sui giochi e sugli spettacoli:la prima fila di panche spettava ai senatori e vietò agli ambasciatori degli alleati di assistere ai giochi e agli spettacoli,separò i soldati dal popolo,assegnò ai plebei sposati,a chi indossava la pretesta e ai loro precettori delle gradinate specifiche,vietò a chi era mal vestito di posizionarsi nelle gradinate di mezzo,le donne potevano sedersi solo nella parte superiore e dovevano essere da sole,inoltre non potevano andare a teatro prima della quinta ora. Anche le feste non religiose avevano in realtà un origine religiosa,ad esempio la gara di pesca che si svolgeva l’8 giugno e che si concludeva con una mangiata di pesce fritto,in origine era un tributo a Vulcano,che cedeva i suoi pesci in cambio di anime umane. Un origine religiosa ce l’avevano in realtà anche le corse dei cavalli perché a fine gara il cavallo vincitore veniva immolato e il suo sangue veniva utilizzato per le lustrazioni (cerimonie di purificazione). Proprio per l’origine religiosa di questi giochi,Augusto impose delle regole per i combattimenti tra gladiatori:gli spettatori dovevano indossare la toga di gala,dovevano mantenere un atteggiamento educato,non potevano ne mangiare ne bere e si potevano alzare solo durante la processione inaugurale in onore dell’imperatore che offriva loro degli spettacoli così grandi. Infine si aveva un’impronta religiosa nella simbologia astrologica rappresentata nell’arena:l’arena rappresentava la Terra,il fossato che circondava la pista era il mare,l’obelisco simboleggiava il sole,i sette giri di pista dei carri inaugurali riproducevano l’orbita dei sette pianeti e il susseguirsi dei sette giorni della settimana,infine le dodici porte delle rimesse dei carri rappresentavano lo zodiaco. GIOCHI ALL’INTERNO DELL’ANFITEATRO All’interno dell’anfiteatro si svolgevano le battaglie tra gladiatori,che potevano essere di due tipi. Il primo tipo era tra due gladiatori,il secondo tipo era tra una belva e un gladiatore,chiamate venatiores. A loro volta le venatiores potevano essere di due tipi,tra un gladiatore e una belva o tra due belve. Le venatiores si tenevano la mattina,mentre i combattimenti tra gladiatori il pomeriggio. Gli anfiteatri non offrivano mai una protezione alla folla da queste belve,se venivano alzate delle barriere o scavati dei fossati erano solo per non far scappare le belve. Raramente le belve sopravvivevano,gli animali più utilizzati in queste battaglie erano i leoni,le tigri,gli elefanti,i cammelli,le capre e i cervi. Spesso le venatiores venivano anche utilizzate per uccidere criminali di basso rango;una condanna molto comune era la damnatio ad bestias,che consisteva nell’essere sbranato vivo dalla bestia. Le damnatio ad bestias erano delle vere e proprie tragedie in quanto,all’inizio,il criminale doveva giocare con la bestia per far divertire gli spettatori,ma alla fine veniva sbranato dalla bestia stessa. Si dice che “lo spettacolo” era così cruento che le persone di alto rango preferivano andare a pranzo anziché assistervi. Inoltre questi criminali dovevano combattere contro le bestie senza armi ed armatura. Augusto era affascinato dalla diverse belve che ogni volta vedeva e quindi decise che,quando quest’ultime erano particolarmente belle,le avrebbe fatte apparire in posti in usuali per farle vedere al popolo. Infine negli anfiteatri si potevano svolgere anche le naumachiae. Le naumachiae erano le battaglie navali. Le naumachiae venivano considerate degli spettacoli più grandi dei combattimenti tra gladiatori perché la prime terminavano sempre con la morte di una delle due flotte;per fare ancora più scena spesso l’acqua veniva fatta straripare dai bordi dell’arena. Inoltre venivano fatte di rado perché richiedevano grandi spazi per essere svolte e ingenti somme di denaro per procurarsi le navi. A scontrarsi erano sempre due flotte composte da condannati a morte,anche in questo caso venivano utilizzate come pretesto per uccidere i criminali. Ogni flotta doveva rappresentare un popolo che era famoso per la sua potenza marittima nelle Grecia classica o l’Oriente ellenistico. La prima naumachia di Roma fu svolta sotto Cesare nel 46 a.C. Cesare ingaggiò 2000 combattenti e 4000 rematori. Le naumachiae più importanti,oltre a quella di Cesare furono quella di Augusto;quella di Claudio,che fu l’unico a riprodurre una vera e propria battaglia navale;quella di Domiziano;quella di Traiano;quella di Tito e quella di Nerone. L’arena si riempiva d’acqua grazie ad un bacino che si trovava sotto di essa. Questo bacino era collegato tramite delle condutture all’acquedotto più vicino. Grazie a questo stesso sistema era anche possibile svuotare l’arena dell’acqua. L’introduzione di nuove tecnologie fecero perdere fascino alle naimachiae e l’ultima si ebbe sotto i Flavi. L’anfiteatro più importante di Roma è il Colosseo. TEATRO LATINO Il teatro era fortemente legato all’intrattenimento in quanto piaceva molto alla popolazione,tutti andavano a teatro l’ingresso era gratuito. Spesso i testi erano di origine greca rielaborati con elementi etruschi (contaminatio). La prima opera teatrale latina è attribuita a Livio Andronico (liberta greco) nel 240 a.C. La prima forma di opera latina fu la satura,letteralmente la nostra satira,che nasceva dai fescennini etruschi. Questi fescennini nascono in campagna,erano le tipiche battute botta e risposta che si scambiavano i contadini per passare il tempo (osterie). Si dice anche che la satura si chiamasse così dal tipico piatto dove c’era un po’ di tutto. La satira personale fu però proibita e la pena era la carcerazione. Questo genere consisteva in un’opera teatrale mista di musica,danze e recitazione. Successivamente nacquero due tipi di spettacoli:le commedie,che avevano un inizio triste e una fine divertente e le tragedie,che avevo un inizio tranquilla e una fine tragica. I più grandi commediografi furono Tito Maccio Plauto e Publio Terenzio Afro. La commedia greca si chiamava palliata dalla tipica veste che portavano gli attori,mentre quella romana veniva chiamata togata dalla veste che portavano gli attori romani. I più grandi tragediografi furono Lucio Anneo Seneca e Lucio Accio. La tragedia greca si chiamava coturnata dalle tipiche calzature degli attori greci,mentre quella romana si chiamava praetexta dalla veste dei senatori romani. Sia che le commedie che le tragedie derivano dalle atellane. Le atellane,chiamate così perché sviluppatesi nella città di Atella,erano scena di vita quotidiana in cui gli uomini (le donne non potevano recitare) con delle maschere interpretavano un tipo (l’avaro,il soldato,il messaggero…). Questi tipi avevano dei costumi tipici (l’avaro indossava la pelliccia,il soldato portava la spada,il messaggero portava il cappello…) Il declino di commedie e tragedie portò alla diffusione del mimo. Il mimo apportò alcune modifiche alla recitazione classica:attori senza maschera,presenza di donne sul palco e assenza di calzature per permettere di ballare. I mimi indossavano o vestiti candidi (mimus albus) o vestiti multicolori (mimus centuculus). Inizialmente era supportato da una drammaturgia,ma poi si arricchì di musica,canto e gestualità;era uno spettacolo in cui la parola non serviva. Una compagnia di attori era detta grex ed era formata da schiavi,mentre per le atellane gli attori erano uomini liberi;a sua volta gli attori si dividevano in due categorie principali:histriones e mimi. L’attore romano poteva definirsi un interprete completo in quanto era addestrato a fare di tutto:ballo,canto e recitazione,gli attori non godevano però di buona fama. Infine c’erano le catervae che erano le compagnie condotte da un capocomico,un conductor e un choragus (un attrezzista tuttofare che preparava i costumi egli latri attrezzi necessari per la messa in scena). Le maschere erano di legno o tela e avevo dei capelli finti. I tratti somatici del personaggio erano fortemente caratterizzati così da permettere ad uno stesso attore di fare più personaggi inoltre le maschere fungevano anche da amplificatore così da far sentire meglio la voce dell’attore. Nelle commedie venivano utilizzate ben 44 maschere:11 per il ruolo del giovane,9 per quello del vecchio,7 per gli schiavi e le cortigiane,5 per le donne giovani,3 tre per quelle vecchie e 2 per le fantesche. Le maschere erano tipiche delle commedie e delle tragedie infatti i mimi non le utilizzavano. Gli spettatori potevano capire ancora prima dell’inizio dello spettacolo di cosa si sarebbe trattato grazie alla musica in quanto ogni tipologia aveva un suono diverso. Il prologo veniva recitato prima dell’inizio dello spettacolo e serviva per esporre i fatti. LA CUCINA LA CUCINA NELL’ANTICA ROMA:COSA E DOVE MANGIAVANO I ROMANI Gli antichi romani a tavola Durante l’intera giornata, gli antichi romani facevano tre pasti principali: ientaculum (da ieiunus, <<digiuno>>, e iento, <<faccio colazione>>), ovvero la prima colazione, tra le otto e le nove del mattino; il prandium, il pranzo, consumato intorno a mezzogiorno e la cena. Il primo pasto era a base di cibi leggeri come pane, formaggio, latte, miele e frutta secca e si consumava molto velocemente. Il prandium era un po’ più abbondante e si mangiavano cibi preparati la sera prima, come legumi o carne, o si finivano gli avanzi del pasto precedente. Il prandium era spesso consumato fuori casa, nel thermopolium, un locale che vendeva cibi e bevande, anche caldi. Per lo più i Romani vi mangiavano focacce, salsicce, pesce fritto, cavoli, cipolle, olive e frutta. La copa, <<ostessa>>, era colei adibita a servire da bere in vasi, coppe e bicchieri, posti sulle mensole a parete dietro al bancone. Nel bancone, inoltre, c’erano incavi utilizzati per contenere i recipienti dei cibi e delle bevande; in un angolo, marmitte di bronzo o di terracotta, bollitori o tegami, che venivano posti su piccoli focolari in mattone o in metallo. THERMOPOLIUM La cena, invece, era il pasto più importante della giornata ed anche il più abbondante. Di solito cominciava al tramonto del sole, ma se si trattava di una cena importante, ovvero di un convivium, <<banchetto>>, i commensali si mettevano a tavola tra le quindici e le sedici e vi rimanevano anche fino all’alba del giorno successivo. La cena si svolgeva in tre tempi: la gustatio o gustus, la cena propriamente detta e le secundae mensae. La gustatio corrispondeva al nostro antipasto: si servivano uova (da cui è derivata l’espressione ob ovo incipere, <<cominciare dall’uovo>>), olive, funghi, crostacei, ostriche e porri, tutti alimenti che servivano per stuzzicare l’appetito. Di solito durante la gustatio si beveva il mulsum, un vinello leggero con aggiunta di miele. Seguiva quindi la cena vera e propria caratterizzata anch’essa da più portate, chiamate cenae: c’era la prima cena, l’altera cena, la tertia cena e così via. Qui venivano servite carni di vario genere accompagnate da salse. Le secundae mensae comprendevano dolci di vario tipo, soprattutto a base di miele come le placentae (focacce al miele), mele, pere, noci, ciliegie, albicocche, datteri. Era molto apprezzato il vino, diluito con acqua calda e addolcito con miele o con resine profumate. Era posto nel cracter, un grosso vaso e versato in coppe, pocula, da uno schiavo addetto a tale compito, il puer ad cyathum. La cena veniva inizialmente consumata nell’atrio ma quando le case divennero più ampie e articolate e soprattutto dove la ricchezza della classe dirigente lo rendeva possibile, si svolgeva nel triclinio (sala da pranzo) dove il padrone di casa faceva disporre i letti tricliniares (letti/divani) sui quali potevano sdraiarsi i convitati. Essi erano composti da una base di legno o murata dove venivano disposti i cuscini, materassi e coperte; erano inoltre leggermente inclinati verso la mensa. Il letto di destra era chiamato summus, quello centrale medius e quello di sinistra imus. Su ognuno dei tre letti c’erano tre posti, anch’essi distinti con il nome di summus, medius e imus. Ci si sdraiava sul letto senza le scarpe e lavati e il posto d’onore era riservato al padrone di casa che si sdraiava sul letto detto medius, accanto all‘ospite più ragguardevole. Le donne stavano sedute ai piedi del marito. E questo si fece fino all’età imperiale. Poi anche loro poterono sdraiarsi. I ragazzi invece, sedevano su sgabelli di fronte ai genitori: era un segno di distinzione sociale difatti soltanto i forestieri e i clienti delle osterie e degli alberghi mangiavano seduti. Gli schiavi potevano stare sul triclinium solo nei giorni di festa e se autorizzati dal padrone. Appena il nomenclator, lo schiavo che accompagnava gli invitati, aveva sistemato gli ospiti alla mensa, i servitori, ministratores iniziavano a portare le vivande, i piatti e gli utensili. Sulla tavola veniva sistemata una tovaglia ma solo dall’età dell’imperatore Domiziano, prima se ne puliva di volta in volta la superficie che era di legno o marmo. I piatti erano o piani (i patina o patella) o fondi (catinus) e i bicchieri senza manico (poculum) o le tazze. Le posate non venivano usate, si mangiava con le mani e dunque fra una portata e l’altra ci si lavava frequentemente con acqua profumata che gli schiavi versavano da delle anfore. Venivano anche forniti tovaglioli per asciugarsi; i commensali comunque ne portavano da casa altri che venivano utilizzati durante la cena e poi riportati indietro spesso pieni delle pietanze avanzate di cui il padrone faceva dono (apophoreta). Per i cibi liquidi o cremosi si usavano i cucchiai e la forchetta non esisteva. Venivano portati quindi coltelli e cucchiai di vario tipo, la ligula, il cucchiaio tradizionale e la trulla che è il nostro mestolo e vari tipi di stuzzicadenti, dentiscalpia. Era inoltre consuetudine buttare per terra i resti del cibo o quello che non piaceva: uno schiavo aveva il compito di spazzare il pavimento quando era sporco. Di solito si curava particolarmente l’allestimento del banchetto attraverso effetti scenografici ad esempio con fiori e giochi d’acqua che esaltassero la magnificenza dei cibi offerti agli invitati. Per una cena offerta da Nerone, si racconta, vennero spesi per la sola decorazione floreale oltre quattro milioni di sesterzi (moneta romana). Gli antichi romani, mangiavano distesi appoggiandosi lateralmente sul fianco sinistro e con la mano sinistra tenevano il piatto che, non appoggiavano sulla tavola, poiché essa era occupata dal repositorium, un vassoio di cibi a cui tutti attingevano liberamente. BANCHETTO DI NERONE L’ospite d’onore aveva diritto ad un posto d’onore, detto “consolare” e si trovava alla destra del “triclinare” centrale, posto frontalmente alla porta in modo che un messaggero potesse comunicargli, con facilità, un messaggio urgente. Il padrone di casa doveva accomodarsi alla sinistra dell’ospite d’onore. Le dimore più ricche, potevano godere di più camere da pranzo: il “triclinio” estivo, orientato a nord e quello invernale orientato a ovest che sfruttava fino all’ultimo raggio di sole. La cucina più antica era molto semplice, a base di cereali, legumi, formaggi e frutta. Con la conquista dell’Oriente acquistò dei sapori e dei profumi particolari che a noi, oggi, possono sembrare un mix tra la cucina orientale e quella medievale. Le nuove conquiste arrivavano, chiaramente, solo sulle tavole dei ricchi. Quello che sappiamo oggi ci arriva principalmente dal ricettario di Apicio, un noto gastronomo contemporaneo dell'imperatore Tiberio (imperatore dal 37 a.C. al 14 a.C.), i manoscritti attribuiscono un corpus di ricette, il DE RE COQUINARIA, diviso in 10 libri. Questa opera in realtà si è allargata nel corso dei secoli perchè partendo da due libri scritti da Apicio, sono state aggiunte da altre persone ricette di diversa provenienza fino a raggiungere il numero di 468. La redazione che oggi leggiamo è quella del V secolo d.C. Il manuale DE RE COQUINARIA ha un importante valore documentario poiché ci fornisce un vasto numero di informazioni sugli usi alimentari dei romani, sui loro gusti, sulle tecniche di preparazione dei cibi e sugli alimenti utilizzati per le ricette. Questo manuale esprime anche i gusti raffinati dei ricchi romani che facevano a gara nell'imbandire banchetti sontuosi con piatti sofisticati con ingredienti esotici e pregiati. La finalità di questa grande opera è solamente pratica infatti non gode di pregi letterari. Lo stile è semplice e Apicio spesso si limita a elencare solo gli ingredienti delle ricette. Il lessico è invece assai ricco di parole tecniche e popolari che indicano alimenti o utensili. Esempi di ricette: -Antipasto di zucchine ripiene:vuota la zucca attraverso un piccolo taglio verticale lungo un fianco e lessala in acqua fredda. A parte prepara un ripieno tritando pepe,levisco,maggiorana,salsa di Apicio,cervella già cotte e delle uova crude,amalgama bene e se necessario ammorbidisci il tutto con della salsa. Infarcisci la zucca cotta con il composto,richiudila e friggi. Nel frattempo avrai preparato della salsa acida qui di seguito:pepe tritato,levisco,vino e salsa di Apicio,diluisci con del passito e fai bollire con un po' di olio. Aggiungi dell'amìdo per rendere la salsa più densa,versa sopra le zucche fritte con un pizzico di pepe e servi. -Secondo di pesce ''(Pesce) salato senza (Pesce) salato'':cuoci fegato,pesta e metti pepe,liquame o sale. Aggiungi olio. Fegato di capretto o di agnello o di lepre o di pollo;e se vorrai formerai un pesce nello stampino. Aggiungi olio verde sopra. (E' stata interpretata con ''pesce di fegato'') -Dessert ''Dolci casalinghi'': farcisci con una noce o pinoli o pepe tritato(frutti di ) palma o datteri snocciolati. Tocca fuori con il sale,friggi in miele cotto e servi. (E' stata interpretata con ''Datteri caramellati'') In ogni ricetta si mescolano gusti assai diversi. Nei piatti di Apicio c'è un abbondante uso di spezie, vino e salse tra le quali privilegia il GARUM, una saporita salsa a base di pesce usata per insaporire ogni tipo di pietanza ,qui tradotta con ''salsa di Apicio''; questa usanza di usare molte spezie e salse ci fa capire la necessità che i romani avevano di coprire con sapori forti le degenerazioni del gusto di alimenti conservati in pessime condizioni igieniche. Gli aromi più usati erano: il cumino,il ligustico, lo zafferano,lo zenzero,la menta,aglio,cipolla e il pepe. L'abbondante uso di carni e verdure fresche dà l'idea di una società amante della cucina; in realtà questi piatti raffinati erano riservati alle fasce sociali più ricche dato che la dieta della gente comune era ben diversa. Una caratteristica della cucina dell’antica Roma era l’accostamento di sapori contrastanti tipo il dolce con il piccante o il dolce con lo speziato. Sicuramente ai nostri giorni le ricette del famoso cuoco Apicio non avrebbero molto successo mentre per i Romani del tempo erano estremamente raffinate e appetitose. APICIO La maggior parte della popolazione, che non era ricca, faceva consumo di pasti molto più semplici, principalmente a base di cereali, legumi e frutta, sicuramente poca carne e non poteva permettersi di svolgere la cena nei “triclinia” e tantomeno sdraiata sui comodi letti/divani. Lo svantaggio era quello di mangiare meno, il vantaggio era di mangiare, probabilmente, in modo più sano senza l’uso di condimenti come il “garum” e senza il consumo eccessivo di carne che spesso, nei ricchi provocava la malattia della gotta. Vivevano in strette stanzette per lo più in affitto, prive di cucina, nelle scomode e pericolose insulae, case alte fino a 8 piani. Essendo presente un’unica e affollatissima cucina (culina) nel palazzo, sistemata nell’atrio comune (una sorta di cortile), molti erano ridotti a cucinare alla meglio con uno scaldino al centro della stanza per evitare incendi, e altri ancora acquistavano addirittura l’acqua bollente nel sottostante thermopolium. Molto diffuse erano le taverne (caupona) e i venditori ambulanti, i quali vendevano un po’ di tutto e per lo più olive, pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo, polpi in umido, frutta, dolci e formaggio. La cucina degli antichi romani aveva pasti molto frugali. Il nutrimento essenziale era rappresentato dalla polenta di frumento (puls o pulmentus), da legumi (fave, ceci, lenticchie), da farro e da ortaggi. Nella preparazione della polenta, veniva utilizzato principalmente il farro (far) che era in linea di massima il cereale più coltivato in quel periodo; più tardi vennero utilizzati anche miglio, panico, orzo, la farina di fave o di ceci. In ogni caso il prodotto più utilizzato restava il farro che poteva essere cotto sia in grani interi, sia macinato o frantumato nel mortaio e ridotto in polvere assumendo l'aspetto di ciò che noi chiamiamo farina. La polenta era preparata in un contenitore di terracotta detto pultarium dove al farro trattato si aggiungeva acqua, sale e un po’ di latte e a seconda dei gusti veniva arricchito con fave (puls fabata), cavoli, cipolle, formaggio (puls caseata) ed anche con alcuni pezzi di carne o di pesce; tutto ciò per darle un sapore più ricco, fino ad arrivare ad un vero e proprio miscuglio che conteneva un'infinità di ingredienti chiamato satura o satira ( da cui l'utilizzo moderno di queste due parole: saturazione e satira nel senso di battute o scherzi pesanti), che portava in breve tempo alla sazietà di chi lo mangiava. Con l'arrivo del pane sulle tavole, la polenta, che era stata l'alimento base per molto tempo, vide diminuire la sua importanza. Vi erano tre tipi di pane: il pane nero o pane dei poveri (panis plebeius o rusticus), il pane bianco anche se poco migliore del primo (panis secundarius) e il pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi (panis candidus o mundus); il grano con cui era fatto arrivò ad avere un'importanza primaria, e i Romani arrivarono perfino alla promulgazione di leggi che regolavano la corretta distribuzione di questo prodotti. Furono organizzati speciali servizi di approvvigionamento, facendo arrivare il grano via mare da zone lontane, depositandolo in magazzini speciali per la successiva distribuzione alla popolazione sotto forma di grano in chicchi oppure come avvenne in un secondo momento, direttamente in pani già cotti. I pistores erano i panettieri dell’epoca. I PISTORES Dall'analisi dei pollini rinvenuti durante gli scavi archeologici si è potuto ricostruire l'ambiente vegetale caratteristico dell'epoca etrusca, a cui va aggiunta la testimonianza pittorica delle tombe e quella dei vasi che riproducono scene di vita quotidiana. Anche i Romani utilizzavano il farro,descritto da Plinio "primus antiqui Latio cibus" e coltivato nella pianura Padana e in quella Campana,granaio dell'Etruria. Roma,talvolta,importava cereali dall'Etruria ed in particolare durante le guerre che videro protagonista Scipione l'Africano le città etrusche erano tra le prime importatrici di cereali per le campagnie d'Africa. Nelle numerosissime tombe rupestri di cui la Tuscia è ricca sono state trovate anche residui di cereali e di farro lasciate insieme ad utensili personali per la vita nell'oltre tomba del defunto. IL PESCE Ai tempi della Roma imperiale, mangiare pesce e molluschi freschi non era certo possibile per tutti. Sulle bancarelle dei mercati della Roma di duemila anni fa non era semplice trovare pesce particolarmente fresco, difficilmente il popolo poteva trovarsi nel piatto un alimento così pieno di proprietà nutritive e povero di grassi. Tradizionalmente la Roma del III- IV millennio a.C. non era una città con grandi consuetudini marinare, si poteva ricorrere al pesce d'acqua dolce del Tevere o a quello maleodorante delle bancarelle venduto da pescatori che tentavano di mantenere umido il loro pescato ricoprendolo con alghe bagnate. Poche e piccole erano le imbarcazioni da pesca, lunghi i tempi di trasporto fino ai mercati cittadini, spesso si finiva per importare pesce essiccato dalle aree attorno a Gibilterra, quantità insufficienti per coprire il fabbisogno della popolazione. Con l'espandersi dell'egemonia romana in tutto il mondo allora conosciuto, le abitudini e le esigenze dei cittadini cambiano, dopo la conquista di Cartagine Roma diviene potenza marittima, superando perfino Greci e Fenici . Con l'allargarsi dei confini geografici i gusti alimentari si raffinano: i ricchi iniziano ad apprezzare e distinguere le qualità del pesce di mare lasciando al popolo quello di acqua dolce. Nascono così nella Roma imperiale del I secolo le prime forme di piscicoltura, già in uso presso Egizi e Fenici. In Cina era invece già praticato l'allevamento della carpa a livello indutriale. Tra i pesci più ambiti troviamo orate, sogliole, triglie, murene, anguille, cefali, scampi, seppie, polpi, molluschi tra cui le ostriche. Allevare pesci e molluschi presso le ville sulle coste diventa una moda sfrenata a cui i patrizi non possono rinunciare, non solo passatempi ma anche fonti di guadagno. Si arriva ad imprigionare braccia di mare per creare stagni e piscine (vivarium) in cui si pratica la piscicoltura. Manie di grandezza ed esagerazioni avevano dato vita a costruzioni di dighe sotterranee e canali comunicanti col mare affinchè le maree favorissero un ricambio giornaliero dell'acqua. I vivaria erano studiati accuratamente, vasche e corridoi in piombo con grate manovrate dall'alto assicuravano un continuo ricambio dell'acqua ed impedivano la fuga dei pesci, come in un grande acquario venivano collocati piccoli scogli e alghe, creati anfratti e inserite anfore ad uso di tane per i pesci affinché l'ambiente fosse il più naturale possibile. Nel tempo le strutture adibite alla piscicoltura situate sulla costa laziale e campana diventano di alto livello ingegneristico con percorsi obbligati per i pesci che vengono allevati intensivamente. I vivaria erano costituiti da numerose vasche distinte tutte collegate ad una vasca centrale adibita alla pesca del pesce, nelle vasche periferiche si collocava il pesce da allevare, suddiviso per categoria. I fondali venivano mantenuti il più possibile allo stato naturale, dove erano carenti si creavano anfratti, le profondità scarse venivano aumentate mediante scavi. l personale che gestiva i vivaria si muoveva tra una vasca e l'altra mendiante ponteggi o piccole imbarcazioni. Le interiora e i pesci meno pregiati non si gettavano: servivano per la preparazione dl famoso garum, la maleodorante salsa di cui i romani andavano pazzi! Molto comune era l'allevamento delle murene.Per esse esistevano apposite piscine in cui si ricreavano gli ambienti naturali idonei,si allevavano appositamente pesci per sfamarle. Pare che la bellezza, la pericolosità e la voracità delle murene attraesse notevolmente gli antichi Romani, che ne amavano molto le prelibate carni. Storie tutte da dimostrare raccontano di allevatori che utilizzavano schiavi ribelli per nutrire le fameliche murene, altri ancora le amavano come animali da compagnia fino ad ornarle con orecchini posti sulle branchie. PESCE L’AGRICOLTURA L'agricoltura nell'antica Roma non era solamente una necessità, ma era anche idealizzata nella società d'élite come uno stile di vita. La coltivazione di base era il grano e il pane era il pilastro di ogni tavola romana. La proprietà della terra era un fattore determinante nella distinzione fra l'aristocrazia e la plebe, e più terra possedeva un romano, più sarebbe stato importante nella città. I soldati erano spesso ricompensati con terreni dai comandanti sotto i quali servivano. Nonostante le aziende agricole dipendessero dal lavoro servile, uomini liberi e cittadini venivano assunti per supervisionare gli schiavi e assicurare che l'azienda funzionasse agevolmente. Pratiche nell'agricoltura Nel V secolo a.C., le terre a Roma erano divise in piccoli appezzamenti a conduzione familiare. I contatti romani con Cartagine, la Grecia e l'est ellenistico, migliorarono i metodi dell'agricoltura romana, che raggiunse il suo apice in produzione ed efficienza fra l'eta tarda della repubblica e l'inizio dell'impero Romano. La dimensione delle aziende agricole a Roma poteva essere divisa in tre categorie. Le piccole proprietà terriere potevano avere da 18 a 108 iugeri, dove uno iugero equivaleva a circa 0.65 acri o ad un quarto di ettaro. Le medie proprietà avevano dagli 80 ai 500 iugeri. Le grandi proprietà terriere (chiamate latifondi) avevano oltre 500 iugeri. Nell'epoca della tarda repubblica, il numero di latifondi aumentò. I romani benestanti compravano la terra ai contadini della plebe che non riuscivano più a guadagnarsi da vivere; infatti, dal 200 a.C., le Guerre Puniche chiamarono alle armi i contadini plebei per lunghi periodi di tempo. La produzione di zucchero si concentrò sull'apicoltura, mentre alcuni Romani allevarono lumache come vivanda di lusso. I Romani utilizzavano quattro metodi di conduzione dei terreni agricoli: lavoro diretto eseguito dal proprietario e dalla sua famiglia; terreno affittato a terzi o mezzadria, che consisteva nella divisione dei prodotti fra il proprietario e il mezzadro; lavoro eseguito da schiavi posseduti da aristocratici e sottoposti ad un continuo supervisionamento; e altri arrangiamenti in cui la terra era ceduta in affitto ad un contadino. LA CARNE Anche se nella mensa romana erano più frequenti piatti a base di pesce, anche la carne aveva una sua importanza. Le carni più utilizzate erano quelle di bue e di maiale, ma non era raro trovare anche carne di cervo, di asino selvatico (onager), di cinghiale e di ghiro; di quest'ultimo, molto ricercato nelle tavole dei ricchi, esistevano anche alcuni allevamenti (gliraria) e veniva servito di solito disossato e farcito. Molto utilizzata anche la carne di uccelli. Oltre alle specie classiche ancora da noi utilizzate (tordi, piccioni ecc.), venivano cucinati anche alcuni trampolieri in gran parte importati dalle varie regioni dell'impero, come i fenicotteri (se ne gustava in modo particolare la lingua), le cicogne e le gru. Piatto molto ricercato era quello a base di carne di pavone e di fagiano. In quanto al pollo, di cui oggi facciamo molto uso, al tempo era considerato carne poco pregiata e la si trovava principalmente nell'alimentazione dei poveri. La carne veniva cucinata in moltissimi modi: arrosto, in umido e ripiena, con salse di vario genere. Nelle opulente mense dei ricchi, in occasione di grandi banchetti i piatti di carne o di pesce, venivano preparati nei modi più fantasiosi; era in queste occasioni che i cuochi sfoderavano la loro arte culinaria, servendo in tavola piatti a base di carne camuffati in modo che avessero l'aspetto di uno stupendo pesce alla griglia o sotto forma di vere e proprie sculture a tema mitologico. Dal latte si ricavavano formaggi freschi e secchi e dolci con aggiunta di miele, farina e frutta; il burro era poco utilizzato in cucina in quanto era usato come medicinale o come unguento per il corpo. La fase conclusiva della cena era caratterizzata dal rito tradizionale della commissatio che prevedeva che, anche se i commensali avevano bevuto già abbastanza, si brindi passandosi le coppe che dovevano essere tante quante erano le lettere che componevano i tre nomi di un invitato che veniva scelto, verso il quale tutti tendevano le coppe. I commensali erano inoltre allietati da canti, danze, musiche e da esibizioni varie di buffoni e giocolieri. Le donne dovevano ritirarsi quando il banchetto entrava nella fase dell’intrattenimento. IL COMMERCIO Il commercio fra le province dell'impero era florido, e tutte le regioni dell'impero erano perlopiù economicamente indipendenti. Alcune province si specializzarono nella produzione del grano, altre in quella del vino e altre nella produzione di olio di oliva, a seconda del tipo di terreno. ACQUISIZIONE DI UN TERRENO Aristocratici e plebei insieme potevano acquisire terreni da coltivare in tre metodi. Il più comune era comprare il terreno. Nonostante alcuni plebei possedessero piccole proprietà terriere, queste erano spesso troppo costose e difficili da mantenere. Per questo motivo, questi terreni venivano venduti a qualcuno nell'aristocrazia che possedeva le risorse finanziarie necessarie per mantenerli. Anche se esistevano delle terre pubbliche destinate alla gente comune, gli aristocratici tendevano a comprare anche quei terreni, causando gravi tensioni tra le due classi. Un altro metodo era l'acquisizione di terre come ricompensa per essere andato in guerra. Ai soldati di grado elevato che ritornavano dalla guerra venivano spesso concessi piccoli terreni di terreno pubblico o di lande nelle province come metodo di pagamento per i loro servizi. L'ultimo metodo per ottenere terreni era attraverso l'eredità. Un padre poteva lasciare i suoi terreni alla sua famiglia, solitamente al proprio figlio, in caso della sua morte. I testamenti specificavano chi dovesse riceve i terreni come metodo per assicurarsi che altri cittadini non tentassero di sottrarre la terra alla famiglia del deceduto. L'ARISTOCRAZIA E LA TERRA Nonostante alcune piccole parti dei terreni fossero di proprietà della bassa classe sociale e dei soldati, la maggior parte della terra era controllata dalla classe nobiliare di Roma. La proprietà della terra era solo uno delle molte distinzioni che separava l'aristocrazia dalla classe plebea. L'aristocrazia voleva riorganizzare le piccole proprietà in terreni molto più grandi e redditizi per competere con gli altri nobili.Era considerato un punto d'onore non solo possedere il più grande pezzo di terra, ma anche terra che crescesse prodotti di alta qualità. Privati che cercavano di comprare un terreno dovevano anche tenere in considerazione il clima della regione, la condizione del terreno e quando vicino si trovava da una città o da un porto. Una prudente pianificazione veniva usata in ogni aspetto del possesso e del mantenimento di un terreno nella cultura romana. PROBLEMI CON GLI AGRICOLTORI Gli agricoltori romani affrontarono molti di quei problemi che afflissero gli agricoltori fino ai tempi moderni, compresi: l'imprevedibilità del tempo, alluvioni, e parassiti. Gli agricoltori dovevano inoltre essere diffidenti nell'acquisto di terre troppo distanti da una città o un porto, per via delle guerre e dei conflitti per le terre. Dato che Roma era un vasto impero che conquistò molte terre, ebbe molti nemici, formati anche da individui le quali terre erano state sottratte. Questi spesso perdevano i loro territori a vantaggio di invasori che gli avrebbero poi sostituiti e cercato di gestire le fattorie loro stessi.Anche se i soldati romani vennero frequentemente in aiuto degli agricoltori e tentavano di recuperare la terra, queste battaglie spesso risultavano nel danneggiamento o la distruzione delle proprietà. I proprietari terrieri dovettero a volte anche affrontare le ribellioni degli schiavi. 'In aggiunta all'invasione dei Cartaginesi e delle tribù celtiche, ribellioni di schiavi e guerre civili che vennero ripetutamente combattute su suolo italico, tutte contribuirono alla distruzione delle tradizionali proprietà agricole.Inoltre, mentre l'agricoltura romana declinava, le persone adesso giudicavano gli altri dalla loro ricchezza invece che dal loro carattere. IL MOS MAIORUM IL MOS MAIORUM Con l'espressione mos maiorum (letteralmente "il costume degli antenati) i Romani indicavano quel complesso di valori e di tradizioni che costituivano il fondamento della loro cultura e della loro civiltà. Essere fedeli al mos maiorum significava riconoscersi membri di uno stesso popolo, avvertire i vincoli di continuità col proprio passato e col proprio futuro, sentirsi parte di un tutto, in marcia verso la realizzazione di un grande progetto comune. Il mos maiorum era, in altri termini, l'insieme dei valori collettivi e dei modelli di comportamento cui doveva conformarsi qualsiasi innovazione; rispettare il mos maiorum significava quindi incanalare le energie e le spinte innovative entro l'alveo rassicurante della tradizione, così da renderle funzionali al bene comune. Cardine fondamentale del mos maiorum era l'assoluta preminenza dello Stato sul singolo cittadino: questa è l'ottica da cui va esaminato qualunque valore e qualunque comportamento; così ad esempio, non era tanto il coraggio in sé ad essere apprezzato, ma il coraggio che veniva dimostrato nell'interesse e per la salvezza dello Stato; allo stesso modo, poco interessava la ricerca teorica o l'abilità poetica, se tali qualità non erano finalizzate ad obiettivi socialmente utili. In tale prospettiva, quali sono i valori fondamentali che costituiscono il mos maiorum? Anzitutto viene la virtus, cioè la qualità propria dell'uomo grande, del vir appunto; essa si esprime come fortitudo (coraggio e sprezzo del pericolo), come patientia, cioè come capacità di sopportare il dolore e i rovesci della sorte (il verbo patior significa appunto "soffrire, sopportare") e come constantia, cioè fermezza e coerenza nell'azione. Molto importanti sono poi la fides, cioè la lealtà, la fedeltà alla parola data; la pietas, cioè il rispetto per gli obblighi e i doveri che ci legano agli altri (agli dei, agli amici, alla patria, alla famiglia...); la gravitas e cioè la dignità propria del magistrato, ma anche del semplice civis ("cittadino"), che imponeva un contegno severo, poco incline al sorriso. Questi valori venivano trasmessi, oltre che con l'esempio, anche attraverso alcuni racconti di cui erano protagonisti personaggi vissuti nell'epoca più antica di Roma, la cui esistenza è spesso sospesa tra mito e storia. Il vocabolario dei valori della tradizione. Le doti morali che facevano parte del mos maiorum e di cui il civis Romanus doveva dar prova sia nell'attività politica sia in campo militare, erano: la virtus, la qualità più importante per il cittadino perché da essa dipendeva l'onore personale e la dignità sociale. Il termine deriva infatti da vir, che designa non solo l'uomo di cui si celebrava enfaticamente il carattere fermo, il coraggio, la forza, l'energia, il valore, ma anche il soldato; la fides, il rispetto della parola data, la condotta leale in guerra e nei rapporti con gli altri popoli, sia alleati che nemici; la libertas, l'amore e la difesa della libertà, che sono valori insopprimibili per i Romani e si realizzano nel prevalere degli interessi dello Stato su quelli dell'individuo; la concordia, cioè l'armoniosa collaborazione tra tutti gli ordini sociali che ha come fine la salus rei publicae, cioè il benessere e la salvezza dello Stato; essa riguarda sia i magistrati in pace, sia i generali in guerra, sia la classe dei patrizi sia quella dei plebei; la iustitia, esercitata sia nei rapporti con i popoli alleati sia con quelli stranieri, che non dovevano mai essere aggrediti senza giuste motivazioni né oppressi o trattati dispoticamente. In questo senso i Romani introdussero il concetto di iustum bellum in base al quale le guerre dovevano essere combattute solo a scopo difensivo o per vendicare torti subiti; di fatto, questo fu un principio puramente teorico, perché gran parte delle guerre intraprese da Roma furono dettate dalla sua politica aggressiva e imperialistica; la clementia, che i Romani dovevano dimostrare nei confronti degli avversari vinti; la disciplina, che gli eserciti e i loro comandanti dovevano mantenere durante le imprese militari; per i soldati significava la totale obbedienza al comandante che, a sua volta, doveva dimostrare di essere all'altezza della situazione; la prudentia, che in campo militare significava per i generali non lasciare mai nulla al caso, valutare in modo attento e accorto tutte le circostanze, anteporre alle proprie ambizioni personali il bene dell'esercito e il buon esito dell'impresa La traduzione più corretta di Mos Maiorum sarebbe costume degli antichi, inteso come usi e costumi in senso etico. Chiarendo meglio il concetto, i Mores erano dei precetti, delle norme accettate prima dalle comunità, poi da cittadini, che venivano definite Maiorum perché rispettate dai padri cioè, nella società patriarcale romana, dagli uomini più anziani e autorevoli. Agli inizi della storia romana i mores erano una sorta di modelli di comportamento, vagamente simili a delle “leggi orali”, che venivano tramandate e che, solo verso l’inizio dell’età regia, vennero (forse) raccolti in forma scritta dai sacerdoti. Tuttavia queste raccolte restarono nella mani di questi e continuarono ad essere tramandate e interpretate. Si ipotizza che le famose Leges Regiae fossero, in realtà la trascrizione di alcune generali regole dei mores. L’apertura al mondo ellenistico, sostenuta dal potente circolo degli Scipioni che introdusse a Roma la filosofia ellenistica (scetticismo,epicureismo, stoicismo) mise in crisi gli antichi e sobri costumi tradizionali romani (il mos maiorum). Il più grande sostenitore della battaglia tradizionalista fu Catone il Censore(234-149 a.C.). I tradizionalisti fecero emanare, con scarsi effetti pratici, dei provvedimenti contro il lusso, le leggi suntuarie (da sumptus, “spesa”): nel 215 (legge Oppia), nel 182, nel 161 a.C. e altre ancora. Questi provvedimenti vietavano alle donne di indossare vestiti e gioielli troppo costosi e ponevano un limite alle spese per feste e banchetti. Catone e i tradizionalisti, tuttavia, non combattevano la ricchezza in quanto tale, ma la trasformazione culturale e politica di cui essa era sintomo. Gli ultimi decenni del periodo repubblicano videro la crisi più acuta del sistema dei valori del mos maiorum. Nel De Catilinae coniuratione (“La congiura di Catilina”, il colpo di stato tentato nel 63 a.C.), lo storico Sallustio (86-35 a.C.) racconta che ambizione, avidità, brama di potere e di ricchezza, corruzione causavano una generale decadenza dei costumi e minavano dalle fondamenta la vita stessa della res publica. I mores sono dei precetti normativi accettati da tutta la comunità, poiché investiti di un'auctoritas. Questi mores non solo sono un'usanza investita di sacralità, bensì rappresentano un abbozzo di 'costituzione' per l'intera comunità romana obbligata a seguirli. Si riteneva infatti, soprattutto in epoca regia, che il rispetto di tali precetti proteggesse dalle forze dell'occulto, in quanto espressione del soprannaturale e della volontà divina. I mores, come sistema di credenze e di valori universalmente riconosciuti e unanimemente condivisi all'interno della civiltà romana, informavano a sé, l'agire pubblico e privato dell'individuo. Non si è certi, ma è possibile che i mores, una volta emanati, avessero la funzione di creare un precedente normativo. Secondo le opere storico-giuridiche di Gaio e Sesto Pomponio i mores, sono usi e costumi delle tribù che si unirono fondando la città di Roma. In quella prima fase erano solo i mores a identificarsi con il diritto romano, costituendo il modello al quale gli appartenenti alla comunità adeguavano il loro comportamento: tali modelli derivavano da secoli di usanze precedenti, risalenti ai pagi. Gli studiosi ritengono che antecedentemente all'età regia, quindi nel corso della fase pre-civica, i mores si basassero sul comportamento delle familiae, e, successivamente, a partire dalla metà dell'VIII secolo a.C., anche delle gentes, nel rispetto delle forze naturali, secondo l'interpretazione dei sacerdoti, che, a mano a mano li raccoglievano tramandandoli oralmente, e custodendoli in archivi sacerdotali segreti. In un primo momento i mores non costituirono leggi effettive ma, soprattutto nella Roma precivica, erano precetti unanimemente condivisi ed attuati dalla comunità. Intorno al X secolo a.C. i sacerdoti raccoglievano tramite forma orale, e probabilmente anche per iscritto, tali usi, mantenendoli segreti. In questo periodo erano gli unici detentori di conoscenze giuridiche, e uno dei loro compiti consisteva nel rivelare, sempre segretamente, questi usi, al soggetto che li richiedesse o piuttosto ad interpretarli nel modo che ritenessero più adatto. Quindi consigliavano al richiedente una condotta da seguire per conseguire un proprio legittimo interesse o per difendersi correttamente da un diritto altrui. Ciò perché nel diritto dell'epoca era insito una forte componente morale, che occorreva dunque rispettare, seguendo determinate ritualità nelle dichiarazioni, nei comportamenti e in generale nell'agire sociale, tanto pubblico quanto privato. Tali modalità continuarono a vigere sia nel periodo regio che in buona parte del repubblicano. Nell'età regia l'interpretazione fu affidata al rex e al Pontifex Maximus, talvolta congiuntamente. Nessuna fonte tramanda nulla di preciso sui mores nell'età primitiva di Roma, e di come si evolsero nel tempo. Solo Sesto Pomponio confidava che, con i primi re, fu necessario definire norme scritte, tanto da generare l'atto normativo delle leges regiae. Grazie anche ad altre fonti, tra cui Plutarco, Cicerone e Sesto Pomponio, conosciamo queste norme emanate dai re, anche attraverso l'intervento del Pontefice massimo. Gli storici hanno ipotizzato che ci potesse essere un profondo collegamento tra "leges regiae" e mores, dal momento che anche il pontefice possedeva l'autorità per emanarle. Si ritiene dunque che alcuni di tali atti, con qualche modifica, altro non siano che costumi diventati leggi. Secondo la tradizione, è in quest'epoca che si emanarono in forma scritta le leggi, benché il primo non fu Romolo, che le emanò sempre in forma orale, anzi la prima compilazione, che si perde nella leggenda, sarebbe il fantomatico Liber Numae di Numa Pompilio, che tuttavia non ci è pervenuto: in questo libro, infatti, si sarebbero raccolte le norme sia stabilite da Romolo che da Numa Pompilio, segnatamente i riti sacerdotali sicuramente derivanti dai mores. Trassero ispirazione da tali scritti anche i re successivi, creando nuove leges, e, probabilmente anche nuovi mores, in parte ripresi o sviluppati dai mores attribuiti a Numa. La tradizione successivamente ci parla anche di altre opere, come ilCommentarius di Servio Tullio e i Libri sibillini, che Tarquinio il Superbo ricevette dalla ninfa Sibilla, nei quali sarebbero raccolti alcuni riti religiosi. Tutti gli atti normativi dell'età regia sono comunque scomparsi, a causa dell'incendio che colpì Roma nel 390 a.C. ad opera dei Galli di Brenno. Comunque, sia le pratiche tradizionali, sia i rituali arcaici, affondano le proprie radici nelle consuetudini collettive. Nell'età regia anche il rex era a conoscenza dei mores interpretati, e poteva rivelarli. D'altra parte anche il Pontifex Maximus contribuiva all'emanazione delle leges regiae, per cui, alcuni studiosi ritengono che talune di tali leggi siano in realtà mores attuati con, o almeno in parte, un atto normativo regio. Di conseguenza tale agire diventa un ulteriore modalità di emanazione di mores (seppur indiretto), di mores e legislazioni del periodo precedente. Età repubblicana (509-27 a.C.) Con la cacciata dei Tarquini si concluse l'età regia, e l'unico diritto ritorna a essere le rivelazioni e l'interpretazione dei soli Pontefici dei mores. Però in questo periodo, che durerà circa 50 anni, la plebe inizia a sospettare che i Pontefici interpretino solo a vantaggio della classe sociale alla quale appartengono, i patrizi, a discapito degli stessi plebei. Nella prima metà del V° Secolo a.C. si giunse ad un punto di rottura. Alcune fonti, tra cui Livio e Dionigi d'Alicarnasso, raccontano che a partire dal 462 a.C. si creò un movimento plebeo il cui fine era una legislazione scritta, legislazione che ottennero nel 450 a.C. grazie a un decemvirato legislativo durato due anni, commissione che aveva il compito di elaborare in massime il diritto esistente fino ad allora, dunque per lo più dei mores. Successivamente, dal momento che queste massime non erano di facile lettura, la loro interpretatio era comunque lasciata ai Pontefici e pertanto tenuta ancora segreta, perciò da ritenere sempre rientrante come interpretatio di mores, almeno sino a quando Tiberio Coruncanio non la renderà pubblica attraverso un'interpretazione laica e creando vero e proprio diritto ovvero la creazione dello Ius Civile. D'altra parte però, le XII Tavole erano un'opera che non poteva riguardare e non riguardava tutti i rami del diritto perciò dove non arrivavano le XII Tavole venivano utilizzati e rivelati i mores. Sempre secondo Sesto Pomponio la prima opera riguardante i mores dell'età repubblicana secondo la tradizione era rappresentata dallo ius papirianum di Sesto Papirio, una raccolta di tutte le "leges regiae" appartenute all'età regia: anche quest'opera si perde nei meandri della tradizione e non sappiamo se sia esistita per davvero. Il primo cinquantennio del V° Secolo a.C. venne caratterizzato dal regolamento dei mores in forma di massime, ma da Livio e da Dionigi d'Alicarnasso ci viene raccontato che, a partire dal 462 a.C., i plebei, resosi conto che i Pontefici emanavano i mores solo in favore loro o dei patrizi, iniziarono a richiedere un'opera scritta che riassumesse l'essenza dei mores in modo tale da interrompere il monopolio dei Pontefici su questi regolamenti orali, tramandati e conosciuti solo dai sacerdoti. Così con un decemvirato legislativo durato un paio d'anni nel 450 a.C. venne emanata la legge delle XII Tavole. Si trattava di una raccolta deimores fino ad allora esistenti. Poiché l'opera risultò di difficile interpretazione, venne affidata ai pontefici, che mantennero così il monopolio interpretativo, dove le XII Tavole non contemplavano determinate norme. Tutto ciò mutò con Tiberio Coruncanio, primo pontefice plebeo: egli rivelò i rituali e come venivano emanate le XII Tavole e da qui si osserva la presenza dei primi giuristi laici. Fonti utili potevano essere anche lo ius usucapionise lo ius Flavianum. Il primo giurista può essere considerato Sesto Elio, diventato poi anche console, il quale nel 198 a.C. stila un'opera di analisi delle XII Tavole e dell'interpretazione pontificale, oltre alle legis actiones, chiamata tripartita (lat. tripertita). Anche quest'opera non ci è pervenuta, ma sicuramente poteva essere di grande aiuto per capire i collegamenti mores-XII Tavole e mores-legis actiones. I mores dovevano comunque essere ancora molto seguiti nel I° Secolo a.C. Il giurista Gaio Svetonio Tranquillo ci racconta di un editto di censura emesso nel 92 a.C. che pone i mores quali regolamenti ai quali si devono adeguare tutte le consuetudini si devono adeguare, in caso contrario verranno ritenute inique. Età imperiale (27 a.C.-395 d.C.)[ Con l'avvento degli imperatori romani, è possibile che i mores siano stati decisi sempre da questi ultimi tramite le varie costituzioni che ne delineavano i limiti. Le ultime informazioni che abbiamo sui mores come regolamenti risalgono al II° Secolo, grazie al giurista Giuliano, dal quale sappiamo che i mores dovevano essere seguiti solo se non vi erano leggi contrarie. Per i periodi successivi non ci sono informazioni, ma è da ritenere che almeno in ambito religioso pagano qualcosa sopravvisse : un esempio sarebbero i sacrifici fatti dal senato sull'altare della vittoria per buon auspicio nelle guerre, poi eliminato nel 382 per volere imperiale, vicino al 380, quando invece l'editto di Tessalonica dichiarava la religione cristiana religione di Stato. Oppure ancora i riti officiati dal rex sacrorum eliminato come figura istituzionale solo nel 390. Le rivelazioni dei pontefici per quanto riguarda i mores assumono con il tempo sempre minor rilevanza, in quanto molti ambiti vengono sostituiti nell'osservanza di leges, e contemporaneamente sempre più importanza assume la tradizione , gia applicata all'interno del sistema giudiziario, si pensi alla "pignoris capio" della quale Gaio ci informa che rappresenta una "legis actio" strutturata in alcuni punti secondo i mores. Se poi il iudex (giudice) e indeciso su una causa controversa, essendo quel negozio e regolato da mores o regole conosciute solo dai pontefici può chiedere che intervenga il Pontefice come arbitro della controversia. Dall'altra parte con l'avvento del periodo imperiale sono gli stessi imperatori a restringere gli ambiti di utilizzo di questi con le loro costituzioni e ne abbiamo informazione dai giuristi. Prima con Gaio Svetonio Tranquillo che racconta di un editto di censura del 92 a.C., che dichiarava: « Tutte le novità fatte contrariamente alle usanze e alle tradizioni dei nostri antenati, non devono essere considerate giuste. » Infine con Giuliano (II° Secolo) secondo il quale i mores si utilizzano solo se non vengono previste leggi in quegli ambiti. Dopo il II° Secolo d.C. non si trovano più informazioni, ma sembrerebbe che hanno perso quasi del tutto la loro rilevanza come atto giuridico, validi ancora per qualche rito pagano addirittura la festività del Lupercalia sopravvisse sino al 495, o forse poco oltre. I VALORI MORALI NELLA VITA PUBBLICA II mos maiorum. L'espressione mos maiorum, «le tradizioni degli antenati», sintetizza tutte le qualità attribuite ai Romani sin dai tempi dell'antica repubblica e costituisce perciò la chiave di interpretazione per capire a fondo la società romana. I maiores erano i capostipiti delle gentes, cioè delle casate familiari che traevano origine da un antenato comune: l'appartenenza ad una gens era l'elemento che distingueva gli aristocratici dai plebei che, al contrario, non potevano vantare antenati illustri. Presso i componenti di ciascuna gens gli avi erano oggetto di venerazione come divinità protettrici della famiglia: di loro si celebravano le virtù e si praticava il culto delle imagines, cioè dei loro ritratti, esposti nelle dimore aristocratiche come glorie familiari. I maiores costituivano, quindi, i modelli di comportamento da imitare sia nella vita pubblica che in quella privata; e proprio a questo spirito tradizionalista, legato alle glorie del passato e quindi fortemente conservatore, si riconduce l'esaltazione del mos maiorum, considerato dalla società come l'ideale supremo a cui fare riferimento. Quindi il mos maiorum era per i Romani quel complesso di valori e di tradizioni che costituiva il fondamento della loro cultura e della loro civiltà. Essere fedeli al mos maiorum significava riconoscersi membri di uno stesso popolo, avvertire i vincoli di continuità col proprio passato e col proprio futuro, sentirsi parte di un tutto. Il mos maiorum era, in altri termini, l’insieme dei valori collettivi e dei modelli di comportamento a cui doveva conformarsi qualsiasi innovazione; rispettare il mos maiorum significava quindi incanalare le energie e le spinte innovative entro l’alveo della tradizione, così da renderle funzionali al bene comune. Cardine fondamentale di questo sistema di valori è infatti l’assoluta preminenza dello Stato, della collettività, sul singolo cittadino: questa è l’ottica da cui va esaminato qualunque valore e comportamento; così ad esempio non era tanto il coraggio in sé ad essere apprezzato, ma il coraggio che veniva dimostrato nell’interesse e per la salvezza dello Stato. Ma nei secoli, con l’espansione territoriale, la struttura delle relazioni sociali e della cultura romana subirono profondi sconvolgimenti: il contatto con la civiltà greca generò nel popolo romano un cambiamento. Da una parte si desiderava rinnovare i costumi rurali romani (mos maiorum) introducendo usanze e conoscenze provenienti dall’Oriente (si pensi alla filosofia, alla scienza), ma questo generò anche una decadenza dei valori morali, testimoniata dalla diffusione di costumi moralmente discutibili persino oggi. Questo provocò una forte resistenza da parte degli ambienti più conservatori, che si scagliarono contro le culture extra-romane, accusate di corruzione dei costumi, di indecenza, di immoralità e di sacrilegio. Catone il Censore lottò accanitamente contro l’ellenizzazione del modo di vivere romano , a favore del ripristino del più antico mos maiorum, che aveva permesso al popolo romano di rimanere unito di fronte alle avversità, di sconfiggere ogni sorta di nemico. Aveva paura che la cultura greca divenisse portatrice di valori che minassero le basi sociali e l’assetto raggiunto dalla repubblica. La morale tradizionale era necessaria per mantenere immutata la repubblica. Con il passare dei secoli e con l’influenza delle usanze di nuove popolazioni, le tradizioni del mos maiorum si dispersero a favore della nuova cultura cristiana e delle esotiche usanze ellenistico-orientali. Il vocabolario dei valori della tradizione. Le doti morali che facevano parte del mos maiorum e di cui il civis Romanus doveva dar prova sia nell'attività politica sia in campo militare, erano: la virtus, la qualità più importante per il cittadino perché da essa dipendeva l'onore personale e la dignità sociale. Il termine deriva infatti da vir, che designa non solo l'uomo di cui si celebrava enfaticamente il carattere fermo, il coraggio, la forza, l'energia, il valore, ma anche il soldato; la fides, il rispetto della parola data, la condotta leale in guerra e nei rapporti con gli altri popoli, sia alleati che nemici; la libertas, l'amore e la difesa della libertà, che sono valori insopprimibili per i Romani e si realizzano nel prevalere degli interessi dello Stato su quelli dell'individuo; la concordia, cioè l'armoniosa collaborazione tra tutti gli ordini sociali che ha come fine la salus rei publicae, cioè il benessere e la salvezza dello Stato; essa riguarda sia i magistrati in pace, sia i generali in guerra, sia la classe dei patrizi sia quella dei plebei; la iustitia, esercitata sia nei rapporti con i popoli alleati sia con quelli stranieri, che non dovevano mai essere aggrediti senza giuste motivazioni né oppressi o trattati dispoticamente. In questo senso i Romani introdussero il concetto di iustum bellum in base al quale le guerre dovevano essere combattute solo a scopo difensivo o per vendicare torti subiti; di fatto, questo fu un principio puramente teorico, perché gran parte delle guerre intraprese da Roma furono dettate dalla sua politica aggressiva e imperialistica; la clementia, che i Romani dovevano dimostrare nei confronti degli avversari vinti; la disciplina, che gli eserciti e i loro comandanti dovevano mantenere durante le imprese militari; per i soldati significava la totale obbedienza al comandante che, a sua volta, doveva dimostrare di essere all'altezza della situazione; la prudentia, che in campo militare significava per i generali non lasciare mai nulla al caso, valutare in modo attento e accorto tutte le circostanze, anteporre alle proprie ambizioni personali il bene dell'esercito e il buon esito dell'impresa. SOCIETÀ ROMANA ABBIGLIAMENTO NELL’ANTICA ROMA Per le donne Romane era molto importante abbigliarsi e acconciarsi bene, questo poteva far intendere alla gente del popolo quanto esse fossero ricche e rilevanti nella scala sociale. Le matrone quasi facevano a gara a essere le più belle e le più notate dagli uomini Romani. Nell’abbigliamento dell’antica Roma venivano distinti due generi di indumenti: gli indumenta, che si portavano di giorno e di notte, e gli amictus, che venivano indossati solo di giorno. Come indumenta, le donne, indossavano il perizoma, il seno era coperto da una fascia (strophium, mamillare) o una guaina (capetium) e una o più tuniche (subuculae), intessute con lana o lino ed in genere prive di maniche. Sopra la tunica veniva portato il supparum, o la stola. Il supparum era una tunica femminile di lunghezza varia, ma non fino ai piedi, aveva sempre i fianchi cuciti mentre i margini superiori dell’abito erano fermati da fibule o cammei. La stola, a differenza del supparum era una tunica larga, lunga fino ai piedi, fermata alla vita da una cintura (il cingulum), a volte si faceva uso anche del succingulum, un’ulteriore cintura all’altezza della anche, che formava un secondo sbuffo di stoffa. La recta, infine, era una tunica bianca senza maniche, aderente alla vita e lievemente scampanata in basso. Questo era il vestito delle giovani spose romane, completato da un ampio velo color giallo fiamma, ossia il flammeum, da appoggiare sul capo, tutt’ora sostituito col normale velo bianco che si porta sino all’altare. ABBIGLIAMENTO La palla era il classico mantello femminile. Di forma rettangolare, simile a quello greco, veniva indossata in modi svariati, spesso appoggiandone un lembo sul capo. Un cenno al pallium viene fatto anche da Ovidio ,il quale, nell’Ars amandi, spiega che, se il mantello è troppo lungo e tocca il terreno, è consigliabile prenderlo e sollevarlo delicatamente dalla strada, sarà una buona scusa per mostrare le gambe. Mentre l’uomo romano non indossava copricapi la donna romana metteva tra i capelli un nastro color rosso porpora o un titulus, una larga benda collocata a forma di cono sulla fronte. La matrona aveva poi di solito annodato al braccio un fazzoletto, la mappa, per pulire il viso da polvere e sudore. Il muccinium, destinato a soffiarvicisi il naso, spesso teneva anche sottomano un ventaglio per rinfrescarsi e scacciare le mosche o un ombrello, per ripararsi da sole. Per proteggersi dalla pioggia si poteva invece indossare il byrrus, un mantello con cappuccio. Le donne dell’antica Roma si adornavano con pettini ed era frequente indossare gioielli, collane, catenelle intorno al collo, al braccio e alle caviglie e molti anelli alle dita. COSMESI La cosmesi, la cura della bellezza del corpo e del viso, è una prassi antica e non ha mai riguardato solo le donne. Gli archeologi hanno ritrovato tantissimi oggetti per la cosmesi delle donne romane: specchi (di rame o di argento levigato), pettini, spilloni per i capelli, cassettine, vasetti per il trucco e i profumi. Per colorare le gote si utilizzava una sorta di fondotinta (pigmentum), mentre il gesso o la biacca (cerussa) servivano a rendere più bianchi il viso e le braccia; molto diffusa era l’abitudine di disegnarsi nèi finti. Gli occhi erano evidenziati con una sostanza nera, tipo il kohl egiziano, ottenuto dalla fuliggine, dall’inchiostro di seppia oppure da formiche abbrustolite. Le ciglia venivano scurite e infoltite, mentre le sopracciglia venivano definite e allungate con un bastoncino di carbone dolce; talvolta le palpebre venivano colorate (generalmente in verde o azzurro) con mine di piombo o con cenere. Come rossetto si utilizzava la feccia di vino o l’ocra, un tipo di argilla rosso-bruna. Per la cosmesi, essenze odorose mescolate a oli o ad altre sostanze grasse fungevano da profumi. Le ragazze giovani in genere erano acconciate con tagli semplici e corti, mentre le matrone sfoggiavano pettinature stravaganti e complicate, realizzate da schiave specializzate. Il tutulus era un’acconciatura di origine etrusca, molto in voga, in cui i capelli erano raccolti con un nastro in modo da formare una sorta di cono sulla sommità del capo. Ottavia, sorella dell’imperatore Augusto e moglie di Antonio, inaugurò un’acconciatura detta appunto “all’Ottavia”, imitata da tutte le donne del palazzo: sulla fronte si lasciava solo un ricciolo, mentre gli altri capelli si raccoglievano in trecce sulla nuca. Nella seconda metà del I secolo d.C. andavano invece di moda le pettinature “a più livelli”, appariscenti e di difficile realizzazione. Esistevano le tinture: per diventare bionde, per esempio, si impiegava il sapo (un misto di cenere e di grasso animale o vegetale), altrimenti si poteva ricorrere a parrucche fatte con capelli dei popoli nordici. Parlando di cosmesi, non potevano mancare le creme di bellezza. Gli ingredienti più usati erano i bulbi di narciso per rendere la pelle luminosa; lupini, fave e incenso come detergenti; papaveri come decongestionanti. COSMESI OVIDIO MEDICAMINA FACIEI FEMINAE Ovidio, famoso poeta Romano del 43 a.C., che fin da giovane si mosse con disinvoltura negli ambienti mondani e intellettuali di Roma, si interessò molto a questo argomento. Le sue opere più famose infatti, riguardano l’amore e la donna. Nell’Ars Amandi, appunto, Ovidio pone egli stesso come maestro d’amore e insegna ai componenti della società del tempo a rendersi più affascinanti, dando, anche, molti consigli per conquistare i rappresentanti del sesso opposto. Con lo scopo di scrivere il manuale dell’amante perfetto, riscuote molto successo, facendo però emergere scalpore nella società, poiché ogni forma d’amore al di fuori del matrimonio, a quel tempo, era considerata scandalosa. Nel terzo libro di quest’opera Ovidio rimanda le sue lettrici alla consultazione di un’altra opera da lui composta: il medicamina faciei feminae, di cui però adesso abbiamo solo un frammento di cento versi. In questo poemetto Ovidio consacra la sua sapienza sull’argomento della bellezza, l’esaltazione e la cura di essa. Riporta pure alcuni raffinati espedienti e i trucchi che permettono di “tener desto l’amore”. Il termine medicamina si riferisce appunto ai prodotti di bellezza, ai trucchi e ai preparati cosmetici che donne e fanciulle devono imparare a confezionare. Il poeta si fa portavoce di una civiltà raffinata e colta dedita alla cura dell’eleganza, soprattutto da parte delle ricche matrone ma anche delle fanciulle spensierate. L’arte cosmetica antica non si limita solo al trucco ma anche all’ars ornatix, l’uso di creme e maschere di bellezza per la cura del viso e del corpo, ottenute da prodotti naturali con olii. Questi cosmetici erano utilizzati per ridurre le rughe, per dare candore alla pelle o per cancellare le macchie. Tra le righe del medicamina faciei feminae abbiamo anche le istruzioni tecniche di un medico GRECO, Galeno per la preparazione di due lozioni detergenti e tonificanti, per il viso. Entrambe le ricette vengono preparate con prodotti naturali: albume d’uovo, frumento, miele, incenso e terra rossa. Tra le tinture di capelli, la più importante è il biondo, colorazione ottenuta con un impacco di cenere di faggio e lascivia. Per il nero invece si utilizza il grasso animale. Molto in voga è anche il rosso intenso, tintura ricavata dal seme di henna, una pianta esportata dall’Egitto, in latino, detta cypros. Vanno molto di moda i ricci e infatti Ovido spiega un trucco per crearli: le ciocche dei capelli dovevano essere avvolte su dei ferri roventi, che lasciavano la perfetta forma delle onde. Adesso si è trasformata nell’attuale piastra. In questo trattato di bellezza si viene a sapere anche che le donne amavano indossare parrucche, provenienti dalle provincie o per minor spesa, dalle schiave. Alla fine del poema viene però collocata una frase di Ovidio, con la quale fa capire che prima o poi la bellezza svanirà, ovviamente con il passare del tempo. L’unica bellezza che rimarrà in vigore sarà quindi quella interiore, ed è per questo che dobbiamo coltivare essa, non quella dell’ estetica. “E’ durevole solo l’amore per il buon carattere, gli anni devasteranno la vostra bellezza e il volto un tempo ammirato sarà solcato di rughe. Verrà il giorno in cui vi spiacerà guardarvi allo specchio e il raccapriccio sarà ulteriore causa di rughe. La bontà d’animo invece resiste e dura a lungo e a questa è fedele l’amore nel corso degli anni.” I GLADIATORI CHI ERANO I GLADIATORI? - SCHIAVI: Spesso erano nemici di Roma divenuti prigionieri di guerra e quindi, in base al diritto romano, schiavi. In quanto schiavi, non sceglievano di combattere, ma vi erano costretti. chi di loro avesse superato un gran numero di combattimenti conquistando il favore del pubblico e dimostrandosi meritevole, avrebbe ottenuto ciò che uno schiavo sogna fin dalla nascita: la libertà. - EX GLADIATORI E UOMINI LIBERI: Nonostante ciò, molti gladiatori “Rudiarii”, ossia liberi in seguito alla consegna del Rudis, continuavano la loro carriera gladiatoria, - GLADIATRICI: contrariamente all’opinione comune, sono esistite gladiatrici donne, come testimoniano cronache dell’epoca, fonti legislative e reperti archeologici - NOBILI: è facile immaginarsi quindi lo scandalo che esplose quando, in preda alla passione per gli spettacoli gladiatori, che avevano raggiunto il loro apice, in arena scesero addirittura i nobili, come ad esempio Gracco, cavalieri romani, nobili matrone, senatori, e addirittura imperatori!!! ORGANIZZAZIONE E SVOLGIMENTO DEGLI SPETTACOLI NEGLI ANFITEATRI L’organizzatore dei giochi, rendeva noto alla cittadinanza, mediante iscrizioni sui muri delle case, il motivo per cui offriva i munera, i nomi dei gladiatori che sarebbero scesi nell’arena e la loro specializzazione; inoltre precisava se avessero avuto luogo aspersioni profumate distribuzione di cibo (missilia) o denaro, se nel circo era previsto il velarium a protezione della calura o della pioggia e se lo spettacolo includeva anche le venationes. L’organizzatore dei combattimenti gladiatori era chiamato munerarius. La sera prima veniva offerto un banchetto (coena libera) dove i cittadini potevano vedere da vicino i gladiatori. I giochi cominciavano di mattina e seguivano un cerimoniale prestabilito: un corteo rituale (pompa) rendeva gli onori alle autorità o all’Imperatore (se presente). MATTINA: aprivano lo spettacolo le venationes (se in programma), che si protraevano fino all’ora di pranzo. Queste cacce potevano prevedere lotte tra uomini e animali o tra animali, anche legati tra loro. Complesse scenografie riproducevano ambienti esotici o mitologici. DA MEZZOGIORNO: nell’intervallo avevano luogo le esecuzioni dei condannati a morte, molto gradite dal pubblico, dove persone inermi venivano trucidate in ogni modo, fatte sbranare dalle fiere (damnatio ad bestiam) o immolate nei modi più barbari, crocifisse, arse vive. Sempre durante l’intervallo, scendevano in arena i gladiatori Meridiani (che r prendevano il nome proprio dall’ora in cui venivano fatti esibire). Questi Rsecondo alcune fonti storiche combattevano con armi inoffensive, per intrattenere il pubblico durante l’intervallo. POMERIGGIO: alla ripresa pomeridiana avevano luogo i ludi gladiatorii veri e propri. L’editor dava quindi inizio ai combattimenti tra le urla della folla entusiasta e il baccano dei musici che accompagnavano lo svolgersi dei giochi. I primi gladiatori a scendere nell’arena erano gli equites. Si susseguivano poi i gladiatori delle altre categorie. Più coppie si affrontavano contemporaneamente (gladiatorum paria). Se qualche gladiatore non si batteva con sufficiente impegno, veniva sollecitato a colpi di frusta (lora) dai loraii presenti nell’arena. La vita del gladiatore sconfitto dipendeva dall’editor, il quale prendeva la sua decisione valutando da un lato l’impegno profuso nel combattimento ascoltando gli umori del pubblico presente, e dall’altro tenendo conto delle spese sostenute per l’affitto dei gladiatori. Quest’ultima argomentazione spesso era determinante, pertanto, contrariamente all’immaginario collettivo, era raro che i gladiatori venissero puniti con la morte per essere stati sconfitti. In ginocchio davanti al vincitore, lo sconfitto attendeva il verdetto offrendo la gola e la propria spada. Se si era battuto male la folla gridava: “iugula” (sgozzalo) e, l’editor o se era presente l’Imperatore, decideva se seguire l’umore del pubblico, decretando la morte del gladiatore; se si era battuto alla pari riceveva la grazia (missio). I morti venivano portati in una sala denominata spoliarum attraverso la porta libitinaria da inservienti mascherati da Caronte. Al termine il vincitore riceveva la palma della vittoria oltre a doni preziosi; il premio più ambito però era la spada di legno, rudis, che significava per i gladiatori schiavi l’affrancamento dall’obbligo di combattere in arena. I GIOCHI L'edificio è legato ai giochi gladiatori e alle venationes, ovvero spettacoli che comprendono animali, sia in forma di caccia più o meno ritualizzata, sia in forma di combattimento in cui uomini o animali vengono variamente penalizzati. L'origine di questi giochi risale forse a giochi che si tenevano in occasione dei funerali, ampiamente documentati nell'antichità. La grande espansione degli anfiteatri in tutto l'Impero si ha tra il I e il II secolo d.C. Questi giochi godevano di una grande popolarità, e affluivano spettatori sia dalle città vicine, sia dalla campagna. Il numero di posti disponibili ci pare oggi modesto rispetto agli stadi moderni: l'anfiteatro più grande, il Colosseo, conteneva verosimilmente 40.000 o 50.000 spettatori. Per facilitare gli spostamenti degli spettatori locali e dei forestieri, di solito gli anfiteatri erano collocati in periferia o fuori le mura lungo direttrici importanti. Già dal IV secolo alcuni anfiteatri iniziarono ad essere demoliti. MASCHERA E MAZZA DEL CARONTE Il “Caronte” era lo schiavo incaricato di accertarsi della morte del gladiatore sconfitto, non graziato, dandogli il colpo finale, nel caso fosse ancora in vita. Per questo utilizzava una mazza ed aveva il volto coperto da una maschera, rappresentante appunto Caronte (il nocchiero mitologico che traghettava le anime dei morti dall’ una all’ altra riva del fiume Acheronte, nel regno degli Inferi). Dopo aver assolto a questo compito, portava via dall’ arena il cadavere, trascinandolo o su di un carro o su una barella, attraverso la porta libitinensis e lo deponeva nello spoliarium, l’ obitorio dell’ anfiteatro, dove venivano tolti gli abiti e le armature al gladiatore morto. RUDIS Il “Rudis” è un gladio in legno che veniva utilizzato in allenamento per evitare ferimenti gravi nell’apprendimento dell’ ars dimicandi (arte del combattere). Probabilmente i Novicii inizialmente combattevano solo con il rudis, data la loro inesperienza. Il lanista infatti non poteva permettersi, dato il costo che sosteneva per l’acquisto ed il mantenimento dei gladiatori, che questi si ferissero gravemente. Anche dopo il passaggio all’uso delle armi pesanti, verosimilmente il Rudis continuava ad essere utilizzato nella fase di riscaldamento e per meglio apprendere le varie tecniche di combattimento. FLOTTA ROMANA Un esempio dell'efficienza della marina da guerra romana accadde nel 56 a.C., quando Cesare organizzò una spedizione punitiva contro i Veneti. A questo scopo requisì alcune navi da carico ai popoli alleati e fece costruire delle galee che equipaggiò con rematori e marinai della Gallia Narbonense. Non sono pervenute descrizione di queste galee, ma è presumibile che si trattasse di triremi, quinqueremi e liburne. Le triremi erano lunghe circa 40 metri e larghe 5; disponevano di 170 remi, su tre ordini, manovrati ciascuno da un solo uomo. Imbarcavano anche 30 marinai e 120 legionari. Le quinqueremi avevano le stesse dimensioni e, sembra, 160 remi su tre ordini; i rematori erano 270: probabilmente c'erano più uomini per ogni remo. Imbarcavano 30 marinai e 200 legionari. Le liburne erano navi più piccole, leggere e veloci, armate con 82 remi disposti su due ordini. I Veneti disponevano invece di imbarcazioni a vele quadre, lunghe da 30 a 40 metri e larghe da 10 a 12, senza remi. Erano molto alte sul livello dell'acqua, per cui gli equipaggi erano protetti dai proietti romani. Durante la battaglia navale svoltasi presso Lorient, che vide la flotta di Cesare combattere contro 220 navi venete, i Romani riuscirono a rimontare lo svantaggio iniziale tagliando le drizze dei loro avversari: le vele di cuoio caddero, immobilizzando così i Veneti e permettendo ai Romani l'abbordaggio. LEGIONI ROMANE La legione romana era l'unità militare di base dell'esercito romano. Nacque dalla trasformazione dell'esercito alto-repubblicano dal modello falangitico a quello manipolare nel IV secolo a.C. Grazie al grande successo militare della Repubblica e, in seguito, dell'Impero, la legione viene considerata come il massimo modello antico di efficienza militare, sia sotto il profilo dell'addestramento, sia dal punto di vista tattico e organizzativo. Altra chiave del successo della legione era il morale dei soldati, consolidato dalla consapevolezza che ciascun uomo doveva contare sull'appoggio del compagno, prevedendo la legione l'integrazione dei soldati in un meccanismo complessivo di lavoro di squadra. Era assimilabile ad una grande unità complessa odierna, di rango variabile tra una brigata ed una divisione, ma soprattutto riuniva attorno a sé, oltre ai reparti dell'arma base, fanteria e cavalleria. Nella storia di Roma, l'esercito poté contare su oltre 60 legioni al termine della guerra civile, e su un minimo di 28 agli inizi del principato. LA IV LEGIONE La legio IV era un'unità militare romana di epoca tardo repubblicana, che sembra sia stata formata da Gaio Giulio Cesare nell'anno di consolato del 48 a.C. Arruolata per combattere contro Gneo Pompeo Magno, prese parte alla successiva battaglia di Farsalo. Cesare formò la IIII legione con legionari italici in occasione della guerra civile contro Pompeo: dopo aver attraversato il Rubicone, il futuro dittatore a vita creò la IV legione prima di attraversare l'Adriatico e inseguire i suoi nemici in Grecia. La Legio IV entrò in azione nella battaglia di Dyrrhachium (48 a.C.) e in quella di Farsalo, nella quale Cesare sconfisse Pompeo, in seguito alla quale sembra sia stata rinominata IV Macedonica. Dopo l'assassinio di Cesare nel 44 a.C., giurò fedeltà ad Ottaviano e dallo stesso fu utilizzata prima nella battaglia di Filippi (42 a.C.) e forse anche ad Azio nel 31 a.C. contro Marco Antonio. EQUIPAGGIAMENTO L’equipaggiamento dei Gladiatori non necessariamente era uguale per tutti, anzi per distinguerli tra loro e soprattutto per la necessità di spettacolarizzare i combattimenti, erano armati diversamente. L’imperatore Ottaviano Augusto, tra le varie riforme attuate nella sua carica, regolarizzò i combattimenti gladiatori distinguendoli per classi e tipologie. Esistevano, infatti, diverse categorie che venivano associate alla provenienza del guerriero che combatteva utilizzando armi e tecniche del proprio popolo; in seguito le categorie furono assimilate e quindi proposte ai vari gladiatori che si specializzavano nell’uso di una particolare arma o tecnica. Inizialmente si pensava che l’utilizzo del gladio, ovvero spada corta, nei munera, fosse un collegamento col popolo Sannita, in quanto, nelle famose guerre sannite, nel III sec. a.C., furono i primi ad utilizzare questa particolare arma in battaglia, poiché risultava più efficace nel corpo a corpo. In seguito il gladio fu associato sempre di più all’arma da combattimento principale di un gladiatore, ed infatti dal termine “gladio” deriva il nome “gladiatore” (combattente col gladio). L’associazione di un combattente ad una tipologia di gladiatore era deducibile anche al tipo di fisico che possedeva. Combattere con un equipaggiamento pesante era più indicato ad un gladiatore avente caratteristiche fisiche possenti. Chi invece era veloce nei movimenti era più predisposto all’uso della sica, sfruttando quindi i veloci affondi laterali. Chi era agile e resistente nella corsa si specializzava nel combattere contro il gladiatore che utilizzava rete e tridente, penalizzato in questo caso dal possedere l’arma lunga; il suo scopo era avvicinarsi il più possibile all’avversario per compensare il divario di lunghezza delle armi contrapposte e quindi rendergli difficile la maneggevolezza del tridente. Al contrario il reziario doveva essere molto abile nell’utilizzo della rete, per trovare un appiglio nell’armatura dell’avversario, ed anche esperto nei movimenti e robusto nel braccio, per portare colpi mortali mantenendo in equilibrio il tridente. C’è da premettere che non tutte le classi gladiatorie sono esistite contemporaneamente: alcune scomparvero già in età repubblicana come i Samnites, altre si modificarono come i Galli che divennero Mirmilloni, altre ancora come i Traci giunsero immutate sino all’età imperiale. Il vestiario era diverso a seconda della classe di appartenenza. Attraverso fonti storiche a disposizione, si possono identificare all’incirca una dozzina di categorie, non condivise però da tutti gli studiosi; non era facile, infatti, collegare i nomi alle iconografie a disposizione. Il perizoma (subligalicum), la cintura (balteus), l’elmo (galea), la protezione metallica per il braccio (manica), gli schinieri per proteggere le gambe (ocreae e cnemides) facevano parte del vestiario di uso comune a tutte le categorie. ARMI D’OFFESA Le armi che utilizziamo sono ricostruzioni quanto più fedeli, in peso e dimensioni, a quelle utilizzate dai gladiatori in allenamento e nei combattimenti. Durante gli allenamenti venivano usate anche armi di peso superiore a quelle con cui si combatteva; ciò per abituare il braccio ad un peso maggiore e quindi rinforzarlo. Il gladio era l’ arma tipica dei gladiatori, dalla quale gli stessi presero il nome. La sica, invece, è stata introdotta dal “Trace”, tipico guerriero della Tracia, che la adoperava in combattimento. L’ abilità nell’ uso di quest’arma ha fatto si che al Trace fosse attribuita una categoria di gladiatori. Il pugio (pugnale) era usato dal Reziario come seconda arma (la prima era la rete) e dal Dimachero, che combatteva con due pugi o con due gladi, o anche con un pugio e un gladio. Il gladio, la sica ed il pugio sono stati ricostruiti, come armi lusorie, ovvero non affilati e non appuntiti, essendo impiegati dai nostri gladiatori in allenamento ed in combattimento. ELMI L’elmo nella guerra “moderna”, come per gli antichi eserciti, è considerato un prezioso alleato, in quanto protegge il punto vitale della testa. Per il gladiatori invece combattere con un elmo non era necessariamente un vantaggio, nonostante la spessa consistenza di ferro attutisse adeguatamente i colpi ricevuti alla testa. I Gladiatori che indossavano un elmo avevano, infatti, lo svantaggio di sostenere un grosso peso e quindi di esercitare uno sforzo maggiore con i muscoli del collo; inoltre, la visibilità era limitata in quanto spesso gli elmi offrivano esclusivamente una visione frontale e limitata ai lati. Alcuni elmi avevano un'unica grata all’altezza degli occhi, altri addirittura dei piccoli fori. Ma l’inconveniente maggiore era un altro: gli elmi aderivano perfettamente alla testa del gladiatore altrimenti si sarebbero mossi durante il combattimento e quindi avrebbero creato un problema di visuale maggiore; l’aderenza al volto, però, limitava la capacità respiratoria e quindi era interesse del gladiatore cercare di finire l’incontro prima che la respirazione degenerasse (ecco perché il Secutor che solitamente era contrapposto al Reziario, che non utilizzava l’ elmo, doveva essere scattante e veloce nella corsa, per cercare di colpirlo mortalmente nel minor tempo possibile, onde evitare l’immancabile insufficienza respiratoria; al contrario, l’interesse del reziario era quello di prolungare il combattimento ed essere inseguito, quindi indebolire l’avversario e finirlo). Si pensa che l’utilizzo di questi tipi di elmi, a causa dei colpi ricevuti frontalmente, provocasse la rottura del setto nasale. PROTEZIONI ALTE: MANICHE E GALERI La manica era formata da piastre articolate o scaglie metalliche o, talvolta, da una stretta fasciatura di stoffa e cuoio. Serviva a proteggere il braccio dai colpi dell’ avversario e solitamente veniva indossata sul braccio in cui il gladiatore impugnava l’ arma d’ offesa, più esposta ai colpi, in quanto l’altro braccio era ben protetto dallo scudo. I movimenti del braccio protetto da una manica risultano leggermente limitati rispetto all’utilizzo di un gladio con il braccio libero da protezione. Ciò sta a significare che nella preparazione di ogni sorta di incontro, bisogna aver cura prima di una buona difesa e di ottime protezioni, per studiare successivamente un attacco efficace. Quindi, per quanto sia limitato il movimento del braccio, averlo adeguatamente protetto ne fa guadagnare una buona protezione ed attutire la forza dei colpi portati su di esso è fondamentale. Per il Reziario il discorso della manica è diverso rispetto agli altri gladiatori. Molte testimonianze, tra cui i famosi mosaici di Gladiatori esposti nella Galleria Borghese di Roma, riportano diversi Reziari che indossano la manica al braccio sinistro. Ciò farebbe presupporre che fossero mancini, e che quindi l’arma d’attacco fosse il tridente; invece il presupposto viene rovesciato se si considera che l’arma d’attacco del reziario non è il tridente, bensì la rete. Infatti si potrebbe elaborare un parallelismo tra la funzione difensiva dello scudo, che è quella di parare i colpi, e quella del tridente, che è quella di tenere lontano l’avversario. Pertanto questi gladiatori portavano la manica di protezione sul braccio sinistro, ovvero su quello con cui impugnavano il tridente, che non incontrava alcuna limitazione nei movimenti di affondo. La mano destra, invece, che utilizzavano per far volteggiare la rete, doveva avere piena libertà di movimento per attaccare ed afferrare il rivale o portargli via le armi, cosa che non sarebbe avvenuta se fosse stata presente in quel braccio la manica. La manica di protezione del Reziario era completata da un galero (galerus), ovvero una placca metallica di forma rettangolare fissata alla spalla del lato in cui il gladiatore utilizzava il tridente, parte più esposta ai colpi dell’ avversario. Il galerus si alzava al di sopra della spalla per circa 13 centimetri e serviva a proteggere la gola e la testa, in quanto il Reziario combatteva privo di elmo. GUANTI DI PROTEZIONE La protezione della mano del gladiatore che impugnava l’ arma d’ offesa (gladio, sica o altro) era costituita da un guanto, che poteva essere: di cuoio, di fasce sovrapposte di cuoio o di cuoio con piastre metalliche sopra applicate. Queste protezioni sono state riscontrate in diversi bassorilievi, ed in particolar modo nel Museo della Civitella di Chieti. Da uno studio attento risulta che diversi gladiatori ricorrevano a delle protezioni che avvolgevano completamente la mano che impugnava il gladio. PROTEZIONI DELLE COSCE Fasce protettive, costituite da strisce di cuoio avvolte intorno alle cosce, erano utilizzate talvolta dal Trace e dall’ Oplomaco. TIRONES La classe minore era indubbiamente rappresentata dai novizi ovvero principianti che entravano per la prima volta nel Ludus, la palestra dove veniva svolta la formazione di un gladiatore. In seguito, divenivano TIRONES: si sarebbero dovuti specializzare nel combattimento di una classe gladiatoria per poi esordire di fronte al pubblico. Quest’esordio li avrebbe resi gladiatori a tutti gli effetti. All'inizio della sua carriera il gladiatore utilizzava durante l'addestramento un bastone di legno, chiamato Rudis. Questo per evitare che l'atleta si ferisse in allenamento. Teniamo presente infatti che l'acquisto, il mantenimento o l'ingaggio di un gladiatore erano molto costosi. MIRMILLONE (MYRMILLO) Una delle classiche categorie gladiatorie era quella del Mirmillone, pesantemente armato, che quindi basava la sua tecnica su forza e potenza. Il suo armamento consisteva in un elmo a tesa larga, un grande scudo rettangolare, simile a quello utilizzato dai legionari, ed una manica sul braccio armato. L’arma d’offesa, il gladio, spada corta con una lama di circa 40 centimetri, ricorda l’armamento della fanteria pesante delle legioni. Essendo l’armatura del mirmillone molto pesante, il suo combattimento non era incentrato sull’agilità, bensì sulla difesa, in quanto disponeva di un enorme scudo. Tuttavia l’armatura pesante, oltre a renderlo meno vulnerabile, ne limitava le capacità respiratorie e di resistenza. Gli avversari tipici del Mirmillone erano il trace, l'oplomaco o un altro mirmillone. OPLOMACO (HOPLOMACUS) Un’altra tipica categoria gladiatoria, era quella dell'Oplomaco, molto simile al Mirmillone, quindi appartenente alla categoria degli scutati. Il suo nome trae origine dal greco “oplon”, che significa grande scudo. A differenza dello scudo da mirmillone però, quello dell’oplomaco era mistilineo. Come il mirmillone, ha un’arma di offesa rappresentata da un gladio della lunghezza di circa 40 cm, quindi con lama più corta rispetto al gladio in dotazione ai legionari, per favorire il combattimento ravvicinato. I suoi avversari tipici erano il trace ed il mirmillone. PROVOCATOR Il Provocator solitamente combatteva contro un altro provocator, tuttavia è probabile che abbia combattuto anche contro altre categorie. L'arma d'attacco era una lama di media o corta lunghezza (come l'odierno pugnale o daga), tuttavia spesso utilizzava il pugio. Lo scudo, utilizzato anche come arma d'offesa, era di forma rettangolare o mistilineo, cioè con parti dritte e parti curve, di medio-grandi dimensioni. Indossava inoltre un elmo, una manica (protezione per il braccio che impugnava il pugio), uno schiniere alto sulla gamba sinistra ed un cardiophilax (o spongia oectoris) per proteggere il torace. Portava gli attacchi molto rapidamente: il combattimento tra due provocatores ricorda sotto molti aspetti un moderno combattimento pugilistico, in quanto i colpi privilegiati erano quelli di affondo e l'utilizzo dello scudo a ghigliottina. TRACE (THRAEX) Un'altra categoria gladiatoria era quella del Trace. A differenza dei gladiatori scutati, questa categoria si dice “parmulata”, in quanto lo scudo aveva dimensioni molto più ridotte rispetto a quello dell'oplomaco e pertanto il combattimento del Trace era incentrato sull'agilità. Questa figura gladiatoria deve la sua origine ai guerrieri della Tracia (attuale Bulgaria). Il gladiatore Trace portava un elmo a tesa larga con in cima un ornamento rappresentante la testa del grifone; ai lati della calotta erano presenti due forellini per inserire piume ornamentali. Oltre all’elmo il Trace affidava la sua protezione ad una manica, ad un piccolo scudo rettangolare e ad alti schinieri (cnemides). L’ arma d’offesa era, invece, la sica, una corta spada con la lama ricurva, che consentiva di colpire più facilmente l’avversario nelle parti posteriori del corpo. Il Trace costituiva l’antagonista tipico del Mirmillone e dell'Oplomaco. La sua tattica si basava fondamentalmente sugli affondi, che gli consentivano di raggiungere l’avversario oltre il grande scudo. In molti dipinti e bassorilievi il trace viene invece rappresentato in modo diverso: rimangono l'elmo pesante e gli alti schinieri, ma cambiano le armi di offesa e di difesa. Infatti pur restando un “parmulato”, ovvero gladiatore armato di scudo piccolo, stavolta l'arma di difesa è un piccolo scudo tondo che viene impugnato, nella prima parte del combattimento, insieme ad un gladio. Nell'altra mano il trace impugna invece una lancia. Dopo aver scagliato la lancia, il combattimento di questa tipologia di trace continua con il gladio ed il piccolo scudo tondo. Gli avversari di questa categoria di trace sono il mirmillone e l'oplomaco, nonché un altro trace. GLADIATORI EZIARIO (RETIARIUS) ARMI Le armi che erano diverse in base alla categoria del lottatore. Il reziario (letteralmente "l'uomo con la rete" o "il combattente con la rete"), era una delle classi gladiatorie dell'antica Roma. Sebbene la rete fosse l'arma più classica di questo tipo di gladiatore, non esistono molte rappresentazioni di questo tipo di arma. È possibile che il combattimento con l'impiego della rete si sia sviluppato in qualche momento dell'antichità, però esperimenti recenti ed i paragoni con le reti odierne, progettate per pescare, possono suggerirci solamente alcuni spunti su come si fabbricasse una rete per questi gladiatori. I dati risultanti ci fanno supporre che questa rete si intessesse in forma circolare, con una maglia di tre metri di diametro e con dei pesi di piombo disposti lungo tutto il bordo. La seconda e più potente arma utilizzata dal reziario era un tridente di ferro o di bronzo chiamato fuscina, fascina o anche, in alcuni casi, tridens e la cui altezza era equivalente a quella di un uomo. L'ultima risorsa del reziario, nel caso che oltre alla rete gli fosse venuto a mancare anche il tridente, era un pugnale, il Pugio, dalla lama larga e piatta. ARMATURE Il reziario portava un'armatura minima e, al contrario di altri tipi di gladiatori, non portava né l'elmo, né lo scudo e neppure gli schinieri. Indossava una manica sul braccio sinistro anziché sul destro, e questo gli consentiva un movimento più fluido quando doveva lanciare la rete con la mano destra. Unita all'estremità superiore della manica indossava una protezione di bronzo o di cuoio che gli copriva la spalla e che veniva detta galerus. Questa protezione si estendeva parzialmente al di sotto della spalla mentre in alto era ricurva verso l'esterno, lasciando così libertà di movimento alla testa del gladiatore. Il galerus proteggeva la testa, la faccia e la parte superiore del braccio, sempre che il reziario avesse l'accortezza di mantenere il lato sinistro di fronte al proprio avversario. La sua conformazione permetteva al lottatore di tenervi riparata dietro la testa, e la sua curvatura facilitava la deviazione verso il basso dei colpi che l'avversario portava dall'alto. SECUTOR Il gladiatore Secutor (Insecutore) rappresenta un‘evoluzione del Mirmillone in funzione del loro avversario tipico, il Reziario. Infatti i Secutores erano armati di scudo grande rettangolare (scutum) e gladio, come i Mirmilloni, ma si distinguevano da questi per l’ elmo arrotondato ovoidale , con due fori per la visibilità e privo di cimiero, concepito per non offrire alcun appiglio alla rete dell’avversario. Portava una manica al braccio armato (a volte squamata) e uno schiniere (ocrea) sulla gamba dalla parte in cui teneva lo scudo, come il Mirmillone. Scopo principale del Secutor , dopo aver cercato di evitare la rete dell’ avversario, era quello di avvicinarsi al Reziario, facendo affidamento sul proprio armamento più pesante, che lo proteggeva quasi interamente dai colpi del tridente, per poter meglio sfruttare la sua arma d’attacco, il gladio, che è un’arma da combattimento ravvicinato. AMAZZONI Non pochi documenti storici ci parlano anche di donne combattenti, quindi Gladiatrici. Tra questi, Marco Valerio Marziale, elogia il coraggio di alcune gladiatrici che affrontavano i leoni. Cassio Dione ci parla di spettacoli notturni in cui combattevano le gladiatrici. Il fatto che il loro combattimento notturno coincidesse con gli eventi principali dei giochi è indice della possibile importanza o rarità delle gladiatrici. Ma esistono molte altre fonti a conferma della realtà storica della figura delle amazzoni. Addirittura nel 19 d.C. Sotto l'Imperatore Tiberio venne emanato un senatoconsulto con il quale si proibiva a donne di età inferiore ai 20 anni o appartenenti o imparentate con classi sociali elevate di scendere in arena. Potremmo quindi pensare che fare le gladiatrici fosse diventata una moda, ancorchè tale attività fosse considerata inopportuna per le più importanti classi sociali. In base alla Stele di Alicarnasso, il bassorilievo del II secolo rinvenuto in Turchia e giunto fino a noi, oggi esposto al British Museum di Londra, pare che le gladiatrici combattessero a torso nudo e che non indossassero l'elmo, a prescindere dalla figura gladiatoria rappresentata. COMIZI CENTURIATI I comizi centuriati furono una delle assemblee popolari della Repubblica romana, senza dubbio la più importante dal punto di vista delle competenze riservatele; vi si raccoglievano tutti i cittadini romani, patrizi o plebei che fossero, per esercitare i loro diritti politici e contribuire a determinare la vita dello stato. Delle tre assemblee con compiti deliberativi in cui il popolo romano saltuariamente si raccoglieva per guidare la politica dello Stato, questa era l'unica basata su un criterio censitario timocratico, ovvero in cui i cittadini erano raccolti in gruppi sulla base del reddito. Non a caso a quest'assemblea furono demandati i maggiori compiti di governo, il cui esercizio era riservato al popolo, che consistevano principalmente nell'elezione delle magistrature maggiori, nella legislazione e nella dichiarazione di guerre. I comizi centuriati avevano anche il ruolo di tribunale nel caso di condanna a pena capitale, nel giudizio del reato di alto tradimento e, almeno nel periodo repubblicano, fino alla fine del II secolo a.C., nel giudizio d'appello sui condannati a morte. COMIZI CURIATI I comizi curiati erano la più antica assemblea romana. Ancora oggi si discute se vi prendessero parte i soli patrizi, o anche i plebei, comunque in posizione subordinata. E poiché i Romani usavano una forma di democrazia diretta, i cittadini-elettori non avevano alcun potere, se non quello di esprimere un voto in assemblea. Ciascuna assemblea era presieduta da un magistrato che, come tale, prendeva tutte le decisioni relative a questioni procedurali e legali. In ultima analisi, il potere del magistrato che presiedeva l'assemblea era quasi assoluto. L'unica forma per controllare questo potere era porre il proprio veto da parte di altri magistrati: si trattava dei tribuni della plebe o dei magistrati di rango superiore. SPARTACO In origine Spartaco fu un pastore della Tracia, una regione balcanica tra il Mar Nero e il Mar Egeo. Forse perché costretto dalla miseria, aveva accettato di arruolarsi in un corpo ausiliario della milizia romana, dal quale però fuggì ben presto. Dichiarato disertore, venne cercato e trovato da "squadre speciali", che lo ridussero in schiavitù (la quale veniva sempre imposta ai disertori, ai prigionieri di guerra, e più in generale ai cosiddetti "barbari"). Dopodiché fu trasformato in gladiatore e venduto a Lentulo, un organizzatore di spettacoli di Capua. Ma Spartaco nel 73 a.C. riuscì a fuggire anche da qui, trascinando con sé circa 200 gladiatori di cui solo una settantina riuscirono a rifugiarsi presso il Vesuvio, da dove ebbero la meglio contro i primi inviati romani, guidati dai pretori Caio Clodio e P. Vatinio. Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio Varinio e i suoi luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei cavalli e dei simboli littori dell'esercito. Da questa posizione saccheggiavano la ricca regione campana. Altri schiavi, braccianti, contadini poveri, pastori dei territori circostanti cominciarono ad aderire alla rivolta. Sicché la linea di blocco posta intorno al Vesuvio fu spezzata e più divisioni romane furono sconfitte in Campania. Spartaco condusse gli schiavi nella parte sud della penisola, dove si aggregarono altre bande. Nell'inverno 73-72 a.C. l'esercito dei ribelli fu armato regolarmente. I consoli del 72, Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo, scesero in campo con due legioni ciascuno. Una divisione di 20.000 schiavi celti e germani, comandata dal celta Crisso, fu vinta in Puglia, sul Gargano, dal propretore di Gellio, Quinto Avio, che uccise lo stesso Crisso. Ma il grosso dell'esercito, che ormai era arrivato alle 100-120.000 unità, guidato da Spartaco, vinse l'armata romana e si aprì a forza il passaggio verso il nord d'Italia, fino a Modena. Era praticamente aperta la via per le Alpi e quindi per il rimpatrio nei paesi celtici, germanici e nel territorio balcanico. Tuttavia una parte degli schiavi vittoriosi (soprattutto i contadini meridionali) volle restare in Italia o tutt'al più marciare contro Roma, approfittando del momento di debolezza dell'esercito romano. Spartaco avrebbe preferito continuare le battaglie in Gallia, con l'appoggio sicuro della popolazione locale, ben sapendo che i romani si sarebbero presto ripresi. Però si piegò al volere della maggioranza, ottenendo soltanto che non si muovesse subito contro Roma ma si cercassero al sud altri alleati. E così condusse il suo esercito fino in Lucania. Roma cominciava a impensierirsi e alla fine del 72 chiese di sostituire i consoli al comando supremo col pretore Marco Licinio Crasso, in quel momento il miglior stratega militare della capitale. Gli fu affidato un esercito di otto legioni, le stesse che bastarono a Cesare per conquistare la Gallia! Crasso intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente, Mummio, incaricato di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli ordini e attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta sconfitte e Spartaco poté dirigersi nel Bruzio (Calabria), presso Turi. Qui, molti mercanti si erano radunati per commerciare il bottino dei beni raccolti dagli schiavi, ma Spartaco proibì che ricevessero in cambio oro e argento: i suoi uomini dovevano accettare solo ferro e rame, necessari per forgiare nuove armi. Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia attraverso lo stretto, in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai completamente sopita. Non vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che si misero probabilmente d'accordo con Verre, governatore della Sicilia, rifiutando a Spartaco le navi dopo aver ricevuto il compenso pattuito, mentre già le coste della Sicilia erano presidiate. Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di sfruttare la conformazione del Bruzio per confinare nella regione i nemici: egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella Tirrenica, lungo 300 stadi (55 km), per impedire qualunque forma di rifornimento. Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, Spartaco riuscì a passare il vallo presso Petilia e le selve silane, in una notte di tempesta. A questo punto Crasso chiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo. Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, il quale decise di dirigersi verso Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico. A questo punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati da Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito. I due capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse. Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Nei pressi del fiume Sele, in Lucania, si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco, morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri, che Crasso fece crocifiggere lungo la via Appia (che porta da Capua a Roma). Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così la rivolta di Spartaco. SPARTACO LA RELIGIONE LA RELIGIONE NELL’ANTICA ROMA La religione ebbe una notevole importanza nell’ Antica Roma e fu il fondamento stesso della stabilità dello Stato. Basti pensare che le cerimonie religiose accompagnavano ogni atto della vita pubblica e privata dei cittadini romani: la dichiarazione di una guerra, l’inizio di una spedizione,la costruzione di un edificio, la celebrazione di un matrimonio e cosi via. Nel corso dei secoli la religione romana subì un’ evoluzione: il popolo romano si mostrò, infatti, sempre aperto alle influenze esterne e spesso fece propri gli Dèi dei popoli con cui venne a contatto, prima gli Etruschi, poi i Greci, infine i popoli orientali. I primi Romani credevano che in ogni realtà fossero presenti dei numina “potenze, forze divine”, dapprima immaginate come personificazioni astratte successivamente concepite come antropomorfe: essi infatti divinizzavano elementi e processi della natura ( il bosco, la semina, il raccolto ecc…) e cercavano di avere il favore degli dei attraverso indigitamenta, “ formulario rituale” e offerte votive, come focacce, miele, avena, maiali che rispecchiano il carattere contadino della società delle origini. Le prime divinità furono pertanto legate all’ agricoltura e al focolare domestico, come Fauno dio delle selve e delle greggi, Flora dea dei fiori, Cerere dea delle messi; Vesta protettrice del focolare e dell’ ingresso della casa. Vanno inoltre ricordati i Lari, le anime buone degli antenati che proteggevano la casa. I Penati dèi protettori della prosperità della famiglia e dello stato; i Mani le anime dei morti che rendevano sacro il luogo dove il defunto era sepolto. I Lari erano raffigurati con statuette di legno terracotta o cera, che venivano collocate nella nicchia di un’ apposita edicola chiamata larario e, in particolari occasioni o ricorrenze onorate con l’ accensione di una fiammella. I simulacri dei Penati, due giovani seduti con in mano una lancia venivano conservati presso il focolare, nella parte più interna della casa dove si teneva il cibo. Quando nel III secolo A.c. i Romani vennero in contatto con la civiltà Greca ne assimilarono la religione e identificarono i propri dèi con le maggiori divinità greche con caratteristiche analoghe. I principali dèi della religione romana furono: GIOVE, la divinità suprema, padre degli dèi e degli uomini, dio dei tuoni e dei fulmini; GIUNONE, sorella e moglie di Giove, a cui erano sacri il cuculo, il pavone e il melograno; MARTE dio della guerra, amante di Venere, protettore dei soldati per questo raffigurato con spada, scudo ed elmo; MINERVA nata dalla testa di Giove e dea delle arti e delle scienze; NETTUNO fratello di Giove e dio del mare rappresentato con il tridente; MERCURIO messaggero degli dei, dio dei commercianti, degli avvocati e dei ladri; APOLLO dio della poesia e della musica, identificato anche con il sole; VENERE nata dal mare, dea della bellezza e dell’ amore; PLUTONE, fratello di Giove e dio dell’oltre tomba; VESTA dea del focolare, protettrice della famiglia e della città; VULCANO dio del fuoco,protettore degli artigiani; LIBERO o BACCO dio della vendemmia e del vino. Verso la fine della repubblica (fine I sec. A.c.) la religione di Stato cominciò a mostrare segni di crisi, favorendo la diffusione di culti orientali che offrivano, o almeno sembravano offrire risposte alla sempre più diffusa spiritualità. Questi culti erano chiamati Misterici con riferimento alla segretezza che caratterizzava i riti e le cerimonie di iniziazione. Le cerimonie si svolgevano di notte e includevano danze sfrenate di tipo orgiastico e numerose prove, alle quali dovevano sottoporsi tutti coloro che desiderassero essere ammessi nelle file degli adepti. I Romani più tradizionalisti e conservatori si schierarono contro tali culti: era forte la paura che potessero diffondersi senza il controllo dello stato. Nel 186 A.c. il Senato promulgò un decreto contro i riti di bacco e attuò misure repressive nei confronti di questi culti. Lo storico Tito Livio racconta che 7000 fedeli del dio, sia uomini che donne, furono arrestati. Tuttavia, nonostante episodi come questo, i culti misterici acquisirono sempre più peso e diffusione soprattutto durante l’età imperiale : il culto della dea ISIDE e il suo marito OSIRIDE per esempio, fu importante e nel mese di marzo, per festeggiare il ritorno della primavera e delle stagioni della navigazione, si svolgeva una grande processione nella quale veniva consacrata una barca, navigium Isidis. A Roma furono inoltre venerati la GRANDE MADRE CIBELE, dea figlia della fertilità e il suo amante e sacerdote, il pastore ATTIS; infine è bene ricordare il culto persiano di MIREA identificato con il sole e particolarmente venerato dai soldati. Le cerimonie pubbliche erano celebrate da sacerdoti riuniti in collegi. Su tutti vigilava il Pontifix Maximus (pontefice Massimo) inteso come il “capo” della religione romana. Altri autorevoli sacerdoti erano i Flamini addetti al culto di una particolare divinità. I più importanti erano quelli preposti al culto di Giove, Marte e Quirino. Altri due collegi importanti erano quello degli Auguri, che dovevano interpretare la volontà divina attraverso gli “auspici” osservando il volo degli uccelli e il pasto dei polli sacri (infatti il termine auspicia deriva da aves aspicere, osservare gli uccelli) e quello degli Aruspices, gli aruspici i quali interpretavano gli avvenimenti attraverso l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati. Le cerimonie pubbliche cominciavano sempre con la preghiera, fatta in piedi, con la testa velata da un lembo della toga e con le mani aperte e sollevate. Seguivano quindi un sacrificio: esso consisteva nell’ offrire agli dèi primizie o animali scelti, “ vittime” chiamate hostiae, nel caso di bestiame minuto, victimae, per animali grossi. L’ animale scelto veniva cosparso di farro e sale, (da cui deriva il verbo immolare “sacrificare”) quindi ucciso.Il suo sangue era raccolto e versato sull’altare, mentre le sue viscere erano bruciate in onore del dio. Le carni erano mangiate in solenne banchetto dai sacerdoti e dai partecipanti al rito. La divinità era, insomma, presente in ogni aspetto della vita umana e la sua volontà poteva essere interpretata e scoperta attraverso la divinazione,predizione: gli dèi, infatti, manifestavano il loro volere attraverso i già citati auspicia, oppure mediante omina “presagi”, come il volo degli uccelli, fulmini e tuoni. Nello stesso periodo della nascita dei culti misterici, si diffusero alcune correnti filosofiche, tra cui l’epicureismo e lo stoicismo. Nel I secolo a.C. l’Epicureismo si diffuse a Roma, dove il filosofo Fedro, amico e maestro di Cicerone, tiene lezioni di filosofia e alla cui scuola si recano esponenti della nobiltà romana. Negli anni immediatamente successivi fiorì a Napoli un vero e proprio circolo epicureo, i cui esponenti di maggior spicco furono Sirone e Filodemo di Gadara. L’Epicureismo indica nel tetraphármakon (“quattro rimedi”) la via per conseguire l’ atarassia (imperturbabilità): 1) gli dèi non sono da temere; 2) la morte neppure; 3) il bene si raggiunge facilmente;4) il male è sempre tollerabile. In particolare, è abolita la religio,cioè la paura degli dèi e vi è l ’invito a rinchiudersi in una dimensione privata, e ricercare la verità con pochi amici costituenti una piccola comunità di eletti. Mentre lo stoicismo fu una corrente filosofica e spirituale fondata intorno al 300 a.C. ad Atene da Zenone di Cizio, con un forte orientamento etico. Tale filosofia prende il suo nome dalla Stoà Pecìle o «portico dipinto» dove Zenone impartiva le sue lezioni. Gli stoici sostennero le virtù dell’autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all’estremo nell’ideale dell’atarassia (imperturbabilità), come mezzi per raggiungere l’integrità morale e intellettuale. Nell’ideale stoico è il dominio sulle passioni o apatìa che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza. Riuscire è un compito individuale, e scaturisce dalla capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri uomini e l’aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata. CONFRONTO TRA LE DIVINITA’ ETRUSCHE,GRECHE E ROMANE. PRINCIPALI DIVINITA’ ROMANE