Diapositiva 1 - Liceo "REDI" Arezzo

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CIVILTÀ LATINA
CLASSI 1ª L & 2ª L
LICEO SCIENTIFICO E LINGUISTICO
FRANCESCO REDI
ANNO SCOLASTICO 2015/2016
INTRODUZIONE
HO SEMPRE RITENUTO FONDAMENTALE AVVICINARE GLI
ALUNNI DEL BIENNIO ALLA CULTURA LATINA PER
INTERVALLARE LE LEZIONI DI GRAMMATICA NORMATIVA CHE,
TROPPO SPESSO, “ALLONTANANO” LO STUDENTE DALLA
DISCIPLINA, INVECE DI INTRODURLO AD UN MONDO RICCO
DI TUTTI QUEI SENTIMENTI, ARTI, DISCIPLINE, MODELLI DI
VITA, LUOGHI CHE POSSONO ANCORA AFFASCINARCI E
AIUTARCI A COMPRENDERE TUTTO CIÒ CHE È “UOMO E
DELL’UOMO DI SEMPRE”.
DA QUESTO PRESUPPOSTO HA PRESO AVVIO IL LAVORO DEI
RAGAZZI.
PROFESSORESSA MARIA PIA NANNINI
CLASSE 1ª L
KEISI ABDULLA
LUCREZIA ALARI
FILIPPO MARIA AURELI
FLAVIA BASAGNI
FEDERICA CAMPRIANI
RACHELE CETICA
MARTINA DELFINI
FRANCESCA FABBIANELLI
SOFIA GHINI
LUDOVICA GIGLI
ALESSIA GIOMMONI
ELEONORA GNASSI
CAMILLA GROTTI
CARLOTTA MACCIONI
MATILDE MAJOLI
KATRINA MARINAS
SOFIA MARTINI
FRANCESCA MAZZI
FILIPPO MISESTI
RENÉ NEUMANN
MARTA PERUZZI
LUCREZIA RICCIARINI
LINDA ROSSI
PIETRO SABATINI
ELISA SBARRA
MARTINA TAVANTI
CHIARA TENTI
ELISA ZANELLI
CLASSE 2ª L
MARINA ALDEA
MIRUNA BADALITA
FABIO BALLERINI
LETIZIA BEGLIOMINI
CAMILLA BULGARELLI
GRETA BURALI
CATERINA CACIOLI
REBECCA CHIARO
EDOARDO CHIERICONI
OLIVIA COTTER
SOFIA CRULLI
ELENA DETTI
CHIARA DONATI
SERENA FORZONI
YLENIA GALEOTA
LORENZO GIORGI
GIULIA MAGI
AGNESE MENCI
CRISTINA MINOPOLI
SOFIA NANNI
FEDERICA NARDI
LAURA OLIVIERI
LISA OLIVOTTI
ALICE PERNA
ELEONORA REFI
CATERINA ROSSI
SARA ROSSI
LINDA SASSOLI
BENEDETTA TORZONI
GIULIA ZUCCHI
LE TERME
INTRODUZIONE ED ORIGINI
Le terme romane nascono proprio dalle influenze greche legate al culto che si svolgeva nel ginnasio e a
quelle della cura del corpo, erano degli edifici pubblici spesso affiancati dal ginnasio e rappresentavano
uno dei principali luoghi di ritrovo durante l’antica Roma. I primi edifici termali sembra siano stati costruiti
in Campania nel II secolo a.C.. Inizialmente nacquero in luoghi dove era possibile sfruttare le sorgenti
naturali di acque calde o dotate di particolari doti curative. Con il tempo, soprattutto in età imperiale, si
diffusero anche dentro le città, grazie allo sviluppo di tecniche di riscaldamento a legna, basato sul
passaggio dell’aria calda sotto il pavimento. In questo campo Roma arrivò piuttosto tardi. Il primo edificio
termale pubblico della Capitale fu quello costruito da Agrippa presso il Pantheon insieme ad un complesso
di giardini e porticati. In seguito gli imperatori romani fecero a gara per superare quelle dei loro
predecessori con terme sempre più imponenti. Queste erano abbellite con marmi pregiati e mosaici e
arrivavano a poter contenere 6000 persone. Ogni centro termale offriva una caratteristica particolare
come un paesaggio, una grande biblioteca, un centro sportivo di grande livello anche se l’attrazione
principale erano sempre i bagni. I rituali legati a questo “mondo termale” variavano da provincia a
provincia e dal periodo storico in cui si trovava. Le terme erano viste come un luogo in cui poteva avere
accesso chiunque, anche le classi sociali meno abbienti, in quanto in molti stabilimenti l’entrata era
gratuita o quasi. Le numerose terme erano un luogo di socializzazione, di relax e di sviluppo di attività per
uomini e donne che, in spazi separati, facevano il bagno completamente nudi. Il cittadino romano di solito
si recava alle terme nelle prime ore del pomeriggio dopo aver lavorato. Il tipico ciclo all’interno dello
stabilimento iniziava con esercizi fisici o dentro o nel parco circostante, successivamente si recava ai bagni
partendo dall’acqua più tiepida fino a quella più calda: Tiepidarium,stanza più lussuosa e grande dove
rimanevano per un’ora e si intingevano di oli e unguenti.
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Calidarium la stanza più piccola. Loconicum, la stanza ultima con un caldo secco. Dopo la pulizia e i massaggi
facevano una nuotata nella vasca del frigidarium. Successivamente ai bagni pubblici sorsero anche i bagni di
proprietà privata in abitazioni o in parchi di grandi ville fino a concepire terme di uso privato come “club”.
Famose sono le terme del Golfo di Napoli, Pompei e Ischia che videro sorgere complessi maestosi sia per le
bellezze naturali sia per le caratteristiche delle sorgenti curative. La fine dello splendore termale avvenne con il
declino dell’impero romano, con le invasioni barbariche con l’affermarsi della cultura cristiana con i suoi
elementi di demonizzazione della nudità. A Roma il fenomeno termale conobbe un enorme sviluppo che
coinvolse in modo evidente l'edilizia ma che accrebbe soprattutto il significato igienico del bagno con
connotazioni di ordine sociale e culturale.
Agli inizi dell'era repubblicana si effettuavano bagni all'aperto ed in acqua fredda, ma ben presto molte case
romane adibirono una stanza al bagno, dapprima sempre freddo, in seguito riscaldato e sempre più ricco di
locali adibiti ad usi complementari (sauna, massaggio, relax). I primi stabilimenti termali pubblici erano piccoli e
semplici. Durante l'impero sorsero i grandiosi edifici termali di cui ammiriamo ancora le vestigia e che
rappresentarono, per l'epoca, una istituzione sociale a tutti gli effetti. Le terme erano aperte a tutti: i romani le
frequentavano si può dire quotidianamente ed indipendentemente dal ceto sociale.
Ai complessi più grandi, resi maestosi da marmi e decorazioni pregevolissime, erano annesse biblioteche, sale
per riunioni e conferenze, palestre, stadi, solari. Vi si svolgevano scambi sociali, culturali e commerciali; i
porticati ospitavano botteghe di ogni genere, c'erano giardini e passeggiate.
Le terme romane rappresentavano, in conclusione, quanto di più vicino possibile si può immaginare ad un
"luogo di benessere" in senso moderno.
Ai bagni pubblici, nei quali le tariffe erano scrupolosamente contenute per permetterne la frequentazione da
parte dei ceti meno abbienti, si aggiunsero in seguito bagni privati più costosi, più raffinati, a carattere di club,
che tuttavia segnarono poco la storia della civiltà romana delle terme, sopravanzati nel ruolo igienico e sociale
dai grandi complessi statali ed in quello elitario, culturale e politico, dalle terme delle maggiori domus romane.
Le donne vennero ammesse abbastanza presto ai luoghi pubblici; all'incirca nel 31 a.C. in locali a loro riservati
od in orari diversi da quelli degli uomini.
LE ABITUDINI
Una delle abitudini legate all'uso delle terme era quella di gettare nell'acqua profumi e vini
speziati (similmente agli antichi Egizi che mescolavano nell'acqua varie sostanze). Spesso si di
lino o di lana. Per lavarsi, i Romani usavano la pietra pomice e la cenere di faggio (sostanze che
portavano all'inaridimento della pelle), oppure una pasta composta da polvere d'equiseto
leggermente abrasiva e argilla e olio; accompagnati da schiavi e clienti che li assistevano nelle
cure corporee, si servivano con asciugamani asiva), . Dopo il lavaggio, i fruitori delle terme
erano soliti spostarsi nelle sale adibite ai massaggi, che effettuavano con oli profumati e
unguenti speciali (importati per lo più dall'Oriente e dall'Egitto, come la mirra e l'olio di
mandorle).
PATOLOGIE
Oltre alle controindicazioni igieniche, i continui sbalzi di temperatura cui erano sottoposti i
frequentatori delle terme dall'acqua calda all'acqua fredda in rapida successione, potevano
generare nei canali auricolari e nasali dei fruitori, delle neoformazioni ossee globulari (tipiche
ancora oggi nei nuotatori), che potevano portare alla sordità o ad una deviazione del setto
nasale (ne sono state riscontrate diverse durante lo studio di crani appartenuti ad antichi
romani). Spesso anche gli schiavi addetti alle terme si ammalavano per il pesante lavoro.
LE TERME NELL’ANTICA ROMA
Il culto delle terme nell’antica Roma era particolarmente sentito, e in diverse parti della città sorgevano degli
stabilimenti termali di cui oggi si possono ancora ammirare i resti. Molte di queste strutture erano dedicate a tutti, ai
ricchi patrizi come alla gente più povera, con l’intento di unire il benessere del corpo alla socializzazione tra i romani.
Già nell'antica Grecia il bagno assunse un carattere sociale. Il ginnasio greco era composto da una palestra, da un
bagno e da un'esedra dove i filosofi dissertavano con i loro discepoli. Dopo intensi esercizi fisici nella palestra i giovani
facevano un'abluzione di acqua calda, raggiunta una piena distensione dopo la fatica fisica, passavano nella esedra per
ricevere l'educazione dello spirito. Le terme romane trassero la loro origine dalla fusione del ginnasio greco con il
bagno a vapore egizio. L'Egitto in effetti, già dai tempi di Tolomeo, raggiunse il livello di conoscenze tecniche
necessario per realizzare tali opere, come dimostrano dei reperti archeologici nel delta del Nilo formati da due locali
circolari, chiaro precedente del laconium romano. Già 200 anni prima che Agrippa creasse le prime terme pubbliche
nel 25 a.C., il bagni (balneum) erano molto frequentati dai romani; in seguito gli imperatori romani fecero a gara per
superare i loro predecessori con Terme sempre più grandiose: in particolare Nerone nel 65 d.C. , Tito nell'81 d.C. ,
Domiziano nel 95 d.C., Commodo nel 185 d.C., Caracalla nel 217 d.C., Diocleziano nel 302 d.C. e Costantino nel 315
d.C.. Per assicurare la loro popolarità, le tariffe di ingresso alle terme venivano tenute molto basse, se non gratuite.
Terme sorsero ovunque nell'impero, dalle sabbie del deserto alle Alpi; alcune Terme erano tanto grandi da poter
contenere 6000 persone.Se le prime terme erano posizionate laddove sgorgavano direttamente le acque calde, in un
secondo momento vennero aggiunti dei focolai, antesignani degli odierni sistemi di riscaldamento. I rituali potevano
variare da provincia a provincia a secondo dei costumi locali, tuttavia il concetto generale era il medesimo: si trattava
di un centro ricreativo polifunzionale. La maggior parte delle terme includeva centri sportivi, piscine, parchi, librerie,
piccoli teatri per ascoltare poesia e musica e una grande sala per le feste, una città nella città. Si trovavano anche
ristoranti e locande per dormire o …passare alcune ore in "piacevole" compagnia. Ogni centro termale offriva
attrazioni specifiche: un paesaggio particolare, una magnifica libreria, un centro sportivo di alto livello, anche se
l'attrazione principale rimanevano sempre i bagni. Durante l'ultimo periodo cristiano dell'impero fu proibito recarsi
alle terme la domenica o nelle feste, mentre prima raramente venivano chiuse. Talvolta uomini e donne prendevano i
bagni insieme, ma tale usanza variava da periodo a periodo e da zona a zona: a Pompei ad esempio uomini e donne
prendevano i bagni separatamente. Terme importanti del tempo furone le terme di Agrippa, le terme di Caracalla e le
terme di Diocleziano.
LA STRUTTURA
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Esse erano veri e propri monumenti o addirittura piccole città all' interno della città stessa, esistevano due
classi di terme, una più povera destinata alla plebe, e una più fastosa destinata ai patrizi. Lo sviluppo interno
tipico era quello di una successione di stanze:
FRIGIDARIUM, la parte destinata ai bagni in acqua fredda, poteva avere forma rotonda o più spesso
rettangolare, con una o più vasche in acqua fredda. Per mantenere la temperatura ottimale i frigidari erano
esposti generalmente al lato nord delle terme, con piccole aperture verso l’esterno, quel tanto che era
sufficiente per garantire l’illuminazione e a impedire il riscaldamento attraverso il calore solare;
CALIDARIUM, una sala calda orientata a sud-ovest per sfruttare il calore dei raggi solari; si trovava
generalmente al centro di tutte le stanze calde per conservare il calore di queste e sporgeva dalla
costruzione in modo tale che confluisse verso di esso;
TEPIDARIUM, la parte destinata ai bagni in acqua tiepida, solitamente situato tra il figidario e il calidario, in
modo tale da mantenere la temperatura moderata.
NATATIONES, vasche utilizzate per nuotare.
Attorno a questi spazi principali, si sviluppavano gli spaziaccessori:
APODYTERIUM, lo spazio non riscaldato adibito allo spogliatoio;
HELIOCAMINUS, il luogo destinato alle cure solari e privo di pareti nella zona sud-ovest per ricevere i raggi
del sole;
PALESTRA, il luogo adibito agli esercizi ginnici e derivato dal ginnasio greco, era costituito da un cortile
porticato a pianta quadrata.
All’interno delle terme più sontuose (come le terme di Caracalla) si poteva trovare spazio anche per piccoli
teatri, fontane, mosaici,statue e altre opere d’arte, biblioteche, sale di studio e addirittura negozi.
RISCALDAMENTO
Il riscaldamento degli ambienti era ottenuto col sistema della circolazione d’aria
calda sotto i pavimenti e dietro le pareti, attraverso i vespai e gli intercapedini.Le
sale con i bagni caldi erano riscaldate da un sistema detto ad hypocaustum
(ohypokausis). Il nome greco del sistema, che troviamo a partire dal I secolo a.C. in
tutto il mondo ellenistico, significa “riscaldamento da sotto”. Con questo sistema si
riscaldavano il pavimento, le pareti e l’acqua. La combustione di legna e di carbone
avveniva nel praefurnium, una camera di combustione accessibile dall’esterno
dell’edificio. I fumi e l’aria calda passavano sotto il pavimento rialzato,asportati da
canne fumarie (tuboli) inserite nella muratura delle pareti, e uscivano poi sopra il
tetto. I “tubuli” potevano essere disposti anche in serie in modo da formare un
sistema di riscaldamento a parete. Il fattore più importante è che i canali nei quali
passano i fumi abbiano una leggera inclinazione verso la camera di combustione.
La regolazione del sistema di riscaldamento e di ventilazione avveniva non solo dal
praefurnium, ma in massima parte dal tetto. Vicino al praefurnium, si trovava la
grande caldaia di bronzo o di rame chiamata testudo (forse in riferimento alla sua
forma, molto simile ad una testuggine) in cui veniva prodotta l’acqua calda.
Vitruvio descrive un sistema costituito da tre recipienti, uno per l’acqua calda, uno
per l’acquatiepida e uno per quella fredda. I tre elementi erano collegati in serie
affinché la quantità d’acqua calda uscita fosse sostituita con acqua tiepida e quella
tiepida con acqua fredda. Questo sistema di riscaldamento aveva un rendimento
straordinario, spesso superiore al 90%.
RIFORNIMENTO IDRICO
L’approvvigionamento idrico delle grandi terme imperiali era assicurato dagli acquedotti: Agrippa aveva
fatto costruire, per alimentare le sue terme, l’acquedotto dell’ Acqua Vergine (Aqua Virgo).
In seguito si provvide di volta in volta con la realizzazioni di apposite derivazioni di acquedotti già esistenti
per servire anche altri usi. In tutti questi casi, l’acqua non arrivava direttamente all’edificio balneare, ma
veniva prima raccolta in apposite cisterne, costruite in prossimità o all’interno dello stabilimento. Poi dalle
cisterne una complessa rete di tubazioni, di piombo o di terracotta, portava l’acqua nelle vasche per il
bagno freddo e nella piscina natatoria, mentre l’acqua, che doveva essere riscaldata, veniva convogliata
nel settore dei forni.
ACQUEDOTTO ACQUA VERGINE
Unico acquedotto romano ad essere funzionante, ancora dopo venti secoli, anche se solo per
l’alimentazione di quasi tutte le più imponenti e grandiose fontane della zona del centro (Piazza
Navona, Barcaccia, Terrina etc…) e, prima fra tutte, della Fontana di Trevi, l'Acquedotto dell'Acqua
Vergine fu voluto da Agrippa, genero dell'imperatore Augusto, che lo inaugurò il 9 giugno del 19 a.C.
per alimentare la nuova zona di Campo Marzio e soprattutto per rifornire le omonime terme. Il
condotto dell'Acqua Vergine, così come accade per altri acquedotti, non segue la via più breve.
Spesso questo accorgimento era necessario per mantenere costante la pendenza del canale ed
evitare che l'acqua prendesse una velocità tale da compromettere la tenuta dell'acquedotto stesso.
TEPIDARIO
Il tepidario (dal latino tepidarium, da tepidus =
tiepido) era la parte delle antiche terme romane
destinata ai bagni in acqua tiepida. Le antiche
terme romane erano costituite di norma da una
successione di stanze, con all'interno la sala del
frigidario, solitamente circolare e con copertura a
cupola e acqua a temperatura bassa, seguita
all'esterno dal calidario, generalmente rivolto a
mezzogiorno, con bacini di acqua calda;
probabilmente situato tra il frigidario e il calidario,
una stanza mantenuta a temperatura moderata (il
tepidario, per l'appunto). Riscaldato
moderatamente da una corrente d'aria calda che
passava sotto il pavimento sorretto da
suspensura, il tepidario era un ambiente di
passaggio tra le sale del calidario, destinate ai
bagni caldi e alla sudorazione, e al frigidario, la
sala destinata ai bagni freddi. Dal tepidario delle
grandiose terme di Diocleziano, a Roma è stata
ricavata l'attuale basilica di Santa Maria Degli
Angeli.
FRIGIDARIO
Il frigidario (in latino: frigidarium, da frigídus =
freddo) era la parte delle anticheterme romane
dove potevano essere presi bagni in acqua
fredda. Il frigidario poteva avere forma rotonda
(come le Terme Stabiane a Pompei), o più spesso
rettangolare, con uno o più vasche (piscinae) di
acqua fredda. Nella sala si giungeva attraverso il
calidario e il tepidario Per mantenere la
temperatura ottimale, i frigidari erano esposti
generalmente al lato nord delle terme, con
piccolissime aperture verso l'esterno, quel tanto
che era sufficiente per garantire l'illuminazione e
a impedire il riscaldamento attraverso il calore
solare. A differenza della piscina natatoria, il
frigidario era generalmente coperto. Se
necessario, l'acqua era mantenuta fresca con
l'aggiunta di neve. I più grandi frigidari che ci
sono pervenuti dall'antichità sono entrambi nella
città di Roma: nel complesso delle terme di
Caracalla (il frigidario, subito dopo l'ingresso,
misura 58 x 24m) e in quelle diDiocleziano,
coperto da una volta a crociera, in prossimità del
piccolo chiostro.
CALIDARIO
Le antiche terme romane assomigliano agli impianti odierni e rappresentavano uno dei principali luoghi di
ritrovo durante l'antica Roma, a partire dal II secolo a.C.. Alle terme poteva avere accesso quasi chiunque,
anche i più poveri, in quanto in molti stabilimenti l’entrata era gratuita. Le numerose terme erano un luogo di
socializzazione, di relax e di sviluppo di attività vive per uomini e donne che, in spazi ed orari separati, facevano
il bagno completamente nudi. Il calidario (o caldario; dal latino caldarium o calidarium, da caldus o calidus =
"caldo") era la parte delle antiche terme romane destinata ai bagni in acqua calda e ai bagni di vapore. Le
antiche terme romane erano costituite di norma da una successione di stanze, con all'interno la sala del
frigidario, solitamente circolare e con copertura a cupola e acqua a temperatura bassa, seguita verso l'esterno
dal tepidario, con acqua a temperatura moderata, e infine dal calidario, generalmente rivolto a mezzogiorno
con bacini di acqua calda. Il calidario poteva avere forma rotonda o rettangolare, con una o più vasche
(piscinae) di acqua calda, o bagni individuali. Gli architetti li costruivano generalmente nel lato sud o sudovest delle terme, allo scopo di sfruttare il calore naturale del sole Nelle strutture più antiche il calore era
ottenuto con semplici bracieri. Col tempo venne sempre più utilizzato dai Romani un sistema di riscaldamento
per mezzo di aria calda circolante sotto il pavimento e attraverso le pareti, l’ipocausto la cui ideazione veniva
attribuita a Sergio Orata. Il pavimento del calidario era formato da uno strato di calcestruzzo, che poggiava su
pilastri di mattoni (suspensura) in uno spazio cavo destinato alla circolazione dell'aria calda. Questo sistema
poteva essere completato trasportando l'aria calda anche nelle pareti del calidario per mezzo di condotti in
laterizio (tubuli). Negli scavi archeologici, la presenza delle strutture dell'ipocausto (le suspensure in mattoni e i
tubuli nelle pareti), permettono di identificare i calidari, e quindi le terme. Il calidario poteva comprendere
il laconicum, la sudatio (ambienti surriscaldati per provocare la sudorazione) e l'alveum (vasca per il bagno in
acqua calda)Non è nota con sicurezza la temperatura che veniva ottenuta di solito nei caldari. La temperatura
nei moderni bagni turchi è dell'ordine di 35-40 °C mentre nelle saune finlandesi si possono raggiungere i 90 °C.
È noto che i Romani calzavano sandali con suola di legno; poiché queste calzature dovevano resistere alla
temperatura dei calidari, si ritiene che in essi la temperatura non potesse superare i 50-55 °C.
SAUNA
La parola sauna è un'antica parola finlandese dall'etimologia non del tutto chiara, ma che,
probabilmente, poteva essere originariamente legata al significato di dimora invernale. Per
avere una sensazione di maggiore calore veniva prodotto del
vapore gettando acqua su pietre fatte riscaldare sul fuoco fino a diventare roventi. Tale
accorgimento permetteva di far aumentare la temperatura tanto da consentire alle persone
di levarsi gli abiti. Nelle prime saune le pietre erano riscaldate con un fuoco a legna e il fumo
(in finlandese savu) veniva fatto uscire dopo essersi diffuso nella stanza. Costruzioni utilizzate
sia come sauna sia come casa si trovavano ancora in Finlandia fino al XIX secolo anche se
come eccezioni dovute principalmente alla povertà o all'utilizzo temporaneo di tali
costruzioni, poiché sin dal XII secolo si possono rintracciare documenti che descrivono la
separazione delle saune dalle case. Il primo tipo di sauna fu quindi utilizzata principalmente
come casa invernale e solo secondariamente per una pratica idroterapica. Oggi, sauna può
indicare l'ambiente relativo, la pratica idrotermoterapica che consiste nel suo utilizzo, o
l'esercizio commerciale o il club che offra quanto necessario al pubblico o ai suoi membri,
spesso insieme ad altri trattamenti estetici, idroterapici, o di benessere.
SAUNA
TERME DI TITO
Le terme di Tito sorgevano sul Colle Oppio tra il Colosseo e San Pietro, si tratta di uno dei
più antichi esempi di terme romane di tipologia “imperiale”. Le terme sono state iniziate
da Vespasiano e completate da Tito per l’ inaugurazione del Colosseo nell’80 d.C. Erano
collegate con quest’ultimo da un portico, mentre ad est erano confinanti con la Domus
Aurea. Le loro dimensioni (1,40 ettari) erano modeste in confronto a quelle
mastodontiche che le seguirono nei secoli. La pianta si presentava rettangolare con una
parte occupata dall’edificio termale a nord composto da: frigidario, costituito da tre
stanze, e il calidario costituito da due. Il resto dell’edificio, posto a sud, era occupato da
stanze calde secondarie, dietro le quali si trovavano due cortili porticati che avevano la
funzione di palestre e altre stanze di servizio. La caratteristica che le diversificava dalle
altre terme era la fusione del ginnasio con le terme vere e proprie. Le terme si
presentavano a più piani con una terrazza che si affacciava sul colle a cui si accedeva
tramite una scala. Il terrazzamento era arricchito da pergolati, tettoie, tavoli, siepi e
fontane. Nei sotterranei vi erano alcuni degli appartamenti di Nerone che Tito fece servire
da sostegno alle sue terme, restando però privi di aria e luce. Oggi delle Terme di Tito
rimane ben poco, solo una parete e l’emiciclo, mentre dei sotterranei i resti sono ancora
tutti integri. Le uniche testimonianze delle terme che abbiamo sono i disegni di Palladio.
TERME DI TITO
TERME DI DIOCLEZIANO
Le terme di Diocleziano furono le più grandi e sontuose terme della Roma antica ed erano
poste sul Viminale. Venivano usate per servire i popolosi quartieri del Quirinale, Viminale ed
Esquilino e si trovano tra le attuali piazza della Repubblica, piazza dei Cinquecento, via
Volturno e via XX Settembre dove si possono ammirare tutt’oggi numerosi resti. Vennero
iniziate nel 298 d.C. dall’imperatore dell’Impero Romano d’Occidente Massimiano e aperte
nel 306 d.C. dopo l’abdicazione sua e di Diocleziano. Nel 1560 il tepidario venne trasformato
nell’attuale chiesa di santa Maria degli Angeli. Erano alimentate da un ramo dell’Acqua Marcia
che partiva da porta Tiburtina e dall’Acqua Felice che portavano l’acqua in una cisterna detta
“botte di termini”. Le terme di Diocleziano furono distrutte nel 1876 per costruire la stazione
termini che deve il nome ad esse. Tra via Parigi e via Orlando si vede un buon tratto
conservato della parete del lato nord-occidentale, mentre le facciate delle case moderne e
l’esedra della piazza ridisegnano fedelmente un tratto del recinto. Agli angoli del recinto su
questo lato si sono anche conservate le due aule circolari simmetriche, una trasformata nella
chiesa di San Bernardo alle terme, l'altra visibile dall'esterno all'angolo di via del Viminale con
piazza dei Cinquecento. In mezzo sta la grandiosa esedra circolare, usata forse come teatro, e
intervallata da aule rettangolari con colonne, forse biblioteche. Nelle terme si trovavano
dopotutto, per ordine imperiale, i libri già nella Biblioteca Ulbia del Foro di Traiano, a
quell'epoca semi abbandonato (come dimostrano anche gli elementi scultorei da esso
provenienti riciclati nell‘Arco di Costantino pochi anni dopo).
IL CORPO CENTRALE
Il modello sul quale venne disegnata la pianta era quello delle Terme di Traiano, con le quali ha in comune
l'esedra semicircolare e il calidarium rettangolare con tre nicchie semicircolari. Il complesso era orientato a
sud-ovest affinché l'energia solare riscaldasse il calidarium senza interessare il frigidarium .Al centro si
trovava una grande basilica, dove si incontravano i due assi di simmetria del complesso. Lungo l'asse minore
erano allineati i bagni (calidarium, tepidarium e frigidarium), mentre sull'asse maggiore (nord-ovest/sud-est)
si trovavano le palestre. Sul lato nord-orientale di piazza della Repubblica sono ancora visibili i resti di una
delle absidi che si aprivano nel calidarium, accanto all'ex Facoltà di Magistero. Un'altra di queste absidi ospita
l'ingresso della Balisica di Santa Maria degli Angeli, che è stata ricavata nell'aula centrale delle terme, la
"basilica" appunto. La chiesa ingloba anche il tepidarium subito dopo l'ingresso, composto da una piccola sala
circolare con due nicchie quadrate, e due ambienti laterali alla navata centrale; a parte le aggiunte e
modifiche di Michelangelo e del Vanvitelli (il pavimento sopraelevato e le nuove colonne in mattoni imitanti il
granito) l'aspetto antico dell'interno si è mirabilmente conservato. L'abside sorge dove si trovava la grande
piscina rettangolare della natatio. L'unica colonna superstite della natatio, in granito egiziano, fu donata da
papa Pio VI a Cosimo I de’ Medici, e oggi si trova aFirenze (detta la Colonna della Giustizia). Le tre volte a
crociera superstiti del transetto della basilica, sorrette da otto enormi colonne monolitiche in granito
forniscono ancor oggi uno dei pochi esempi dell'originale splendore degli edifici romani. Un'altra parte del
complesso fa oggi parte del Museo delle Terme: qui si trovano gli ambienti del lato nord-orientale tra la
basilica e la palestra, che anticamente era un cortile colonnato oggi quasi completamente scomparso. Qui si
vede anche una parte superstite della natatio, con gli elementi decorativi delle pareti, come le mensole che
sostenevano colonnine pensili, elemento tipico dell‘architettura dioclezianea presente anche nel suo palazzo
di Spalato. L'angolo dell'edificio conserva una grande sala ovale (probabilmente l‘apodyterium, lo spogliatoio)
e una rettangolare (l'atrio). Questo gruppo di ambienti doveva avere i corrispettivi simmetrici sull'altro lato,
ma oggi sono completamente scomparsi. Dal giardino del museo si può ammirare un tratto della facciata,
mentre dall'altro lato del giardino si vedono le due esedre che appartenevano all'angolo nord-orientale del
recinto, abbastanza ben conservate, dove forse si tenevano le conferenze e letture pubbliche (auditoria): una
mantiene anche l'originario pavimento mosaicato.
IL RECINTO
Tra via Parigi e via Orlando si vede un buon tratto conservato della parete del lato nord-occidentale, mentre
le facciate delle case moderne e l‘esedra della piazza ridisegnano fedelmente un tratto del recinto. Agli
angoli del recinto su questo lato si sono anche conservate le due aule circolari simmetriche, una
trasformata nella chiesa di San Bernardo alle Terme, l'altra visibile dall'esterno all'angolo di via del Viminale
con piazza dei Cinquecento. In mezzo sta la grandiosa esedra circolare, usata forse come teatro, e
intervallata da aule rettangolari con colonne, forse biblioteche. Nelle terme si trovavano dopotutto, per
ordine imperiale, i libri già nella Biblioteca Ulbia del Foro di Traiano, a quell'epoca semiabbandonato (come
dimostrano anche gli elementi scultorei da esso provenienti riciclati nell‘Arco di costantino pochi anni
dopo).
TERME DI NERONE
Le Terme di Nerone o Alessandrine (poiché costruite da Nerone e restaurate da Alessandro Severo) erano
un complesso termale di Roma antica, costruite nel Campo Marzio nel 62 e rifatte nel 227 o 229. Erano
alimentate inizialmente dall'Acquedotto Vergine, che già serviva le vicine Terme di Agrippa, poi, in
occasione del restauro severiano, dall'Acqua Alessandrina. Si trattava molto probabilmente delle prima
terme romane di tipo "imperiale", cioè con gli ambienti organizzati simmetricamente attorno a un asse
centrale, impostate a una notevole scenograficità. Come nel caso delle terme di Agrippa, la pianta del
complesso, di forma quadrata, è conosciuta da disegni rinascimentali ed è probabile, anche se non sicuro,
che fosse la stessa del tempo di Nerone. Al centro si trovava la natatio (piscina) e le sale calde e fredde,
affiancate da ambienti laterali, tra cui due peristili in funzione forse di palestre. Oltre ai marmi pregiati
riutilizzati nel tempo per l'edificazione di palazzi nobiliari e chiese, dall'area di queste terme provengono le
due colonne di granito rosa reimpiegate nel 1666 per il restauro del pronao del Pantheon e un capitello
monumentale conservato attualmente nei Musei Vaticani, dove fa da base al Pignone. Una cornice e due
colonne sono attualmente rialzate presso i resti delle terme a piazza Sant'Eustachio, mentre un'altra
colonna fu rialzata nel 1896 presso Porta Pia. Una monumentale vasca, già nelle raccolte di villa Medici, si
trova oggi nell'anfiteatro del Giardino di Boboli, a Firenze. Dell'edificio restano oggi pochi resti al di sotto di
Palazzo Madama: durante i lavori di risistemazione della centrale termoidraulica del Senato fu scoperta alla
fine degli anni Ottanta del XX secolo una grande vasca di granito bicromica (nero-rossa, del tipo importato
dall'Egitto in epoca imperiale), probabilmente utilizzata per il bagno nel 'calidarium' delle terme. Restaurata
nei suoi tre punti di frattura, fu donata dal presidente del Senato Giovanni Spadolini alla cittadinanza di
Roma e collocata - a mo' di fontana - su di un piedistallo rinascimentale nello slargo immediatamente
esterno all'ingresso fornitori, da allora ribattezzato 'piazza della Costituente', che collega via degli Staderari
con via della Dogana vecchia e piazza Sant'Eustachio.
TERME DI NERONE
TERME DI TRAIANO
Le terme di TRAIANO erano delle terme dell’antica Roma, erette a pochi anni
dall‘incendio della Domus Aurea (104d.C.) e concluse nel 100d.C. da Traiano, con inaugurazione il 22
giugno. Sebbene precedute cronologicamente dalle terme di Agrippa e da quelledi Nerone e di Tito,
furono le prime "grandi terme" di Roma e all'epoca infatti erano il più grande edificio termale
esistente al mondo. Situate sulla sommità del Colle Oppio, nella terza regione augustea, le terme
furono costruite, come ricordano le fonti letterarie antiche, su progetto del più famoso architetto
dell'epoca, Apollodoro di Damasco e dedicate da Traiano nel 109 d.C. Il 22 giugno del 109 d.C.
l'imperatore Traiano inaugurò e aprì al pubblico il grandioso impianto termale da lui fatto costruire
sul versante meridionale del colle Oppio. Il complesso si estendeva su una superficie di circa 60.000
metri quadri sopra altri ambienti, in parte appositamente edificati, con la funzione di sotterranei di
servizio e di collegamento fra le varie parti delle terme. Il progetto dell’impianto termale, dovuto ad
Apollodoro di Damasco, si presentava sicuramente innovativo rispetto a quanto fino allora
conosciuto, con la caratteristica di un’ampia area verde, libera da costruzioni racchiusa in un recinto
porticato, che circondava su tre lati il corpo edilizio centrale con gli ambienti destinati ai bagni e alla
cura del corpo. L’orientamento su un asse Nord-Est/Sud-Ovest, differente da quello Nord-Sud delle
strutture precedenti, è stato probabilmente condizionato dalla volontà di ricercare la posizione
migliore rispetto al sole e ai venti, in modo da garantire agli ambienti caldi una maggiore e più lunga
esposizione al calore solare. Vari ingressi permettevano di entrare nel recinto termale su tutti i lati;
dall’ingresso monumentale a Nord-Est si accedeva al complesso dei bagni, che iniziava dalla natatio,
la grande piscina di acqua fredda, cui faceva seguito, sullo stesso asse, il grande frigidario centrale e
poi le stanze per i bagni tiepidi e caldi ( tepidariumed il calidarium); sui lati di questo asse erano gli
spogliatoi e le palestre;la concezione romana dell'uso delle terme prevedeva infatti oltre al vero e
proprio bagno anche attività sportive, di svago e di cultura. Resti dell’esedra Nord-Est sono visibili sul
margine settentrionale del Parco, quasi di fronte alle Sette Sale, nome con cui è conosciuta la grande
riserva d’acqua che assicurava il rifornimento delle Terme.
TERME DI TRAIANO
LE TERME DI COSTANTINO
Le Terme di Costantino erano un complesso termale di Roma antica, l'ultimo del suo genere,
costruito sul colle Quirinale, da Costantino I intorno al 315, ma forse iniziato sotto Massenzio. Si
trovavano nell'area attualmente compresa tra piazza del Quirinale, via Ventiquattro Maggio, via
della Consulta e via Nazionale, in corrispondenza del terrapieno sorretto da muraglione di villa
Aldobrandini, tagliato poi da via Nazionale. Costruite con ingenti lavori di livellamento e
sbancamento del terreno preesistente, che comportarono la demolizione di preesistenti edifici
pubblici e privati, le terme furono danneggiate nel 367 da un incendio, saccheggiate nel 410 dai
Goti di Alarico e poi restaurate nel 443 dal praefectus urbi Petronio Perpenna Magno Quadraziano e
probabilmente ancora sotto Teodorico il Grande. Abbandonate all'inizio del Medioevo, il materiale
edilizio e le strutture vennero riutilizzate, come tante altre grandi opere, per edifici privati e di
culto. I resti in alzato delle terme, rappresentati da stampe e disegni cinquecenteschi (soprattutto
del Palladio) furono definitivamente distrutti all'inizio del Seicento con la costruzione di Palazzo
Rospigliosi, un secolo dopo per l'edificazione di quello che oggi è il Palazzo della Consulta, e infine,
nel 1877, con l'apertura di via Nazionale. Le terme erano piuttosto piccole ed esclusive, soprattutto
se confrontate con le vicine terme di Diocleziano, grandiose ma dalla clientela sicuramente
"popolare". Si trattava di un complesso dalle dimensioni piuttosto ridotte, rispetto alle grandi terme
precedenti, e quindi probabilmente destinato alla parte di popolazione più agiata o patrizia.
Orientate in senso nord-sud, le terme erano praticamente limitate al solo edificio balneare con
pochi annessi, e prive dei tradizionali porticati, sostituiti da una semplice area aperta. Da queste
terme provengono le statue dei Dioscuri poste attualmente alla base dell'obelisco del Quirinale
nella omonima piazza, due statue di Costantino, una di suo figlio Costantino II come cesare,
anch'essa nella piazza del Campidoglio poste come sfondo alla fontana ai piedi del Palazzo
Senatorio.
TERME DI COSTANTINO
TERME DI CARACALLA
Le Terme di Caracalla (in latino: Thermae Caracallae) o Antoniniane (dal nome della dinastia degli Antonini)
costituiscono uno dei più grandiosi esempi di terme imperiali di Roma, essendo ancora conservate per gran
parte della loro struttura e libere da edifici moderni. Furono volute dall'imperatore Caracalla sull’Aventino, tra
il 212 e il 217 d.C., come dimostrano i bolli laterizi, in un'area nei pressi del Circo Massimo, costruito dal re
Tarquinio Prisco. Queste terme erano le più sontuose della capitale dell'Impero romano, benché destinate
all'uso di massa del popolino dei vicini quartieri popolari della XII Regio, mentre le classi sociali più altolocate
erano solite frequentare le terme di Agrippa, quelle di Nerone o soprattutto le terme di Traiano sull‘Esquilino.
Le terme di Caracalla furono superate in grandezza solo da quelle, successive, di Diocleziano; tuttavia le
rovine delle terme di Caracalla sono l'esempio più integro di grandi terme imperiali, libero da superfetazioni
di epoca successiva. Secondo alcuni studiosi, contestati da altri, la costruzione del complesso fu avviata nel
206 da Settimio Severo, capostipite della dinastia antonina; ma in ogni caso fu completata nel 216 da suo
figlio Caracalla, salito al trono nel 211. Anche i loro successori Eliogabaldo (218-222) ed Alessandro
Severo(222-235) si interessarono alla costruzione e decorazione del recinto esterno dell'edificio. La pianta del
complesso è ispirata al modello delle eleganti terme di Traiano sull'Esquilino, che diventerà il prototipo delle
terme imperiali romane: vasto recinto quadrangolare adibito a servizi vari e corpo centrale propriamente
balneare. Le Terme di Caracalla potevano accogliere più di 1.500 persone. Nella sua più ampia estensione,
recinto compreso, l'edificio misurava 337x328 metri (comprendendo le esedre anche 400 metri), e il solo
corpo centrale 220x114 metri, con la sola stanza del calidarium che arrivava a 140 metri: solo le terme di
Diocleziano saranno più grandi. L'orientamento non era centrato sugli assi, ma come nelle ter,me di Traiano
sfruttava al meglio l'esposizione solare, ponendo il calidarium sul lato sud e sporgente come un avancorpo. Il
recinto esterno era costituito da un portico, del quale si conservano scarsissimi resti. Dalla parte est (lato
attuale viale delle Terme di Caracalla) una serie di concamerazioni (celle comunicanti tra loro) disposte su due
piani sostenevano il terrapieno sul quale sorgeva il complesso. Ai due lati del recinto, verso nord e sud, due
grandiose esedre simmetriche contenevano ciascuna una sala absidata, preceduta da colonnato,
probabilmente una palestra all'aperto, da cui si accedeva a due ambienti minori di forma diversa: uno verso
ovest a forma di basilica absidata riscaldata con ipocausto ed un altro verso est ottagonale, probabilmente un
ninfeo per godere il fresco. Il corpo centrale era un blocco di ambienti a pianta diversa, di pianta più o meno
rettangolare con l'avancorpo a forma rotonda che sporgeva sul lato sud-ovest.
Il bagno terminava nella natatio, la piscina all'aperto, decorato da quattro enormi colonne
monolitiche in granito: l'unica colonna superstite si trova, dal 1563, nella piazza di Santa
Trinità a Firenze. Le terme erano dotate di un complesso reticolo di ambienti sotterranei,
dove si trovavano le stanze di servizio che permettevano una gestione pratica del complesso
termale del tutto nascosta agli occhi dei frequentatori. Numerose opere d'arte furono
rinvenute nel corso degli scavi avvenuti in varie epoche, ma soprattutto nel XVI secolo: le tre
gigantesche sculture Farnese, il Toro, la Flora e l'Ercole, ora al Museo archeologico nazionale
di Napoli; il mosaico policromo con ventotto figure di atleti, scoperto nel 1824, ora ai Musei
Vaticani. E inoltre busti degli Antonini, statue di Minerva, di Venere, una vestale, una
baccante, e altre opere minori. Oltre alle già citate vasche di piazza Farnese, altre vasche
recuperate dal complesso si trovano ora nel cortile del Belvedere (Musei Vaticani). a Firenze
la colonna della Giustizia proviene dalla natatio delle terme di Caracalla.
LA CASA
ROMANA
DOMUS E INSULA
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La casa romana poteva essere di due tipi: la domus e l'insula. La struttura architettonica
della domus, un'abitazione signorile privata urbana che si distingueva dalla villa
suburbana, che invece era un'abitazione privata situata al di fuori delle mura della città, e
dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di ambienti appositi per i lavori agricoli,
prevede che sia costituita da mura senza alcuna finestra verso l'esterno e totalmente
aperta invece verso l'interno; al contrario le case popolari hanno aperture verso l'esterno
e quando l'insula è costituita da una serie di edifici disposti a quadrilatero, si rivolge verso
un cortile centrale: inoltre ha porte, finestre e scale sia verso l'esterno che verso l'interno.
La domus si compone di ambienti standard, prestabiliti con stanze che si susseguono in
un ordine fisso: fauces, atrium, alae, triclinium, tablinum, peristilio.
DOMUS E INSULA
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L'insula è costituita invece dai cenacula, quelli che oggi chiamiamo appartamenti,
composti da ambienti che non hanno una funzione d'uso prestabilita e che sono posti
sullo stesso piano lungo una verticale secondo una sovrapposizione rigorosa.
La domus che riprende i canoni della architettura ellenistica si dispone in senso
orizzontale mentre l'insula, apparsa verso il IV secolo a.C. si sviluppa in verticale per
rispondere alle esigenze di una popolazione sempre più numerosa raggiungendo
un'altezza che meravigliò gli antichi e noi moderni soprattutto per la sua somiglianza
con le nostre abitazioni urbane.
L'altezza di queste insulae era già superata in età repubblicana e Cicerone scrive che
Roma con le sue case appare come sospesa nell'aria («Romam cenaculis sublatam
atque suspensam»).
INSULA
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L'insula era una tipologia edilizia che costituiva, in buona sostanza, il condominio
dell'antica Roma tardo-repubblicana e, poi, imperiale.
Si trattava di edifici quadrangolari, con cortile interno (cavedio), talvolta porticato, sul
quale erano posti i corridoi di accesso alle varie unità abitative (diremmo oggi gli
"appartamenti"). Questi edifici erano composti da un piano terra, in genere destinato
a botteghe di vario genere (tabernae), dotate di un soppalco per deposito di
materiali e/o alloggio degli artigiani più poveri, e da piani superiori, destinati agli
alloggi, via via meno pregiati verso l'alto. Le unità avevano in genere da tre a dieci
vani, tra i quali uno di solito era di dimensioni maggiori rispetto agli altri e in
posizione migliore. Il primo piano, solitamente, ospitava le abitazioni di maggior
pregio, spesso servite da una balconata lignea o in muratura su mensole, che
percorreva l'intero affaccio stradale. Il prospetto a mattoni, in genere, non veniva
intonacato, ma l'effetto policromo poteva comunque essere determinato dall'uso di
laterizi di colori e tonalità diverse per i vari elementi architettonici. I solai e le
coperture erano spesso sostenute da volte, che garantivano maggiore stabilità.
Mancavano i servizi igienici, essendo notoriamente usate a tale scopo le latrine
pubbliche e le terme.
INSULA
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A Roma, si trattava di veri e propri palazzi di appartamenti in affitto (cenacula). Ampie
parti (solai, sopraelevazioni, ballatoi) erano costruite in legno e a volte le nuove
costruzioni si appoggiavano ai muri perimetrali di quelle precedenti, appoggiandosi le
une alle altre. A causa dell'affollamento del centro cittadino, gli edifici erano giunti a
svilupparsi in altezza anche sino a 10 piani, nonostante il tentativo di limitarne l'altezza
per legge.
Le insulae di epoca imperiale furono caratterizzate da una notevole uniformità e
razionalità nell'impianto, che erano frutto di quella particolare mentalità dei ceti
mercantili e urbani ai quali esse erano destinate.
La costruzione delle insulae e il loro affitto costituiva, in particolare a Roma,
un'importante fonte di reddito, in alcuni casi vennero messe in atto delle vere e proprie
speculazioni: si risparmiava sulla quantità e qualità dei materiali da costruzione.
Dopo il grande incendio di Roma, l'imperatore Nerone dettò norme molto severe per la
costruzione delle insulae, proibendo che avessero muri perimetrali comuni e sviluppo in
altezza superiore ai 5 piani. Decretò inoltre che tutti gli edifici fossero costruiti
prevalentemente in pietra e dotati di portici sporgenti dalla facciata, con servitù
pubblica di passaggio e attrezzature antincendio.
INSULA
L’INSULA FELICLES
•
Inutilmente Traiano aveva reso più restrittivo il regolamento di Augusto abbassando il
limite dell'altezza delle insulae a 60 piedi (circa 18 metri e mezzo) poiché le necessità
abitative costringevano a superare questi limiti. Ma anche la speculazione edilizia
aveva la sua parte se nel IV secolo, tra il Pantheon e la Colonna Aurelia era stato
innalzato un mostruoso edificio, meta di stupiti visitatori per ammirarne l'altezza
raggiunta: si trattava dell'edificio di Felicula, l'insula Felicles costruita duecento anni
prima sotto Settimio Severo (193-211). La fama di questo straordinario edificio era
giunta sino in Africa dove Tertulliano, predicando contro gli eretici valentiniani diceva
che questi nel tentativo di avvicinare la creazione sino a Dio creatore avevano
trasformato «l'universo in una specie di grande palazzo mobiliato» con Dio sotto i tetti
(ad summas tegulas) con tanti piani quanti ne aveva a Roma l'insula Felicles.
L’INSULA FELICLES
•
Certo l'esempio di questo grattacielo rimane unico
nella Roma imperiale ma era molto frequente che
venissero costruiti edifici di cinque, sei piani.
Giovenale ci racconta di considerarsi fortunato
perché per tornare nel proprio alloggio a Via del Pero
sul Quirinale, si doveva arrampicare sino al terzo
piano ma per altri non era così. Il poeta satirico in
occasione di uno dei frequenti incendi che colpivano
le zone popolari della città immagina di rivolgersi a
un abitante di un'insula che sta andando a fuoco e
che abita molto più in alto del terzo piano: «Già il
terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno
in su c'è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è
quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle
tegole, dove le colombe in amore vengono a deporre
le loro uova».
LE INSULAE DI LUSSO
• D'altra parte le insulae non erano tutte destinate ai ceti meno facoltosi. Vi
erano infatti le insulae che al piano terra aveva un solo appartamento dalle
caratteristiche molto simili a una casa signorile, domus infatti veniva
chiamato, mentre ai piani superiori c’erano i cenacula destinate a inquilini più
poveri; molto più diffuse erano poi le insulae che al pianterreno avevano una
serie di botteghe o magazzini, le tabernae di cui sono rimaste le ossature a
Ostia. Pochi erano quelli che potevano permettersi una domus al
pianterreno: al tempo di Cesare, Celio pagava un affitto annuo di 30000
sesterzi. Ci si può fare un'idea dell'esosità degli affitti del tempo se si pensa
che un moggio di grano costava tra i 3 e i 4 sesterzi e che le largitiones
prevedevano in 5 moggi la quantità necessaria a una famiglia media per
sostenersi per un mese e che il salario di un manovale era, ai tempi di
Cicerone, di 5 sesterzi al giorno mentre quello di un professore di retorica di
una scuola pubblica, ai tempi di Antonino Pio, ad Atene oscillava dai 24.000 ai
60.000 sesterzi all'anno che era la stessa cifra iniziale, che poteva però
arrivare sino a 200000 sesterzi annui, di un membro del consilium d'Augusto.
LE TABERNAE
•
Le tabernae si aprivano lungo la strada occupandone quasi tutta la
lunghezza e avevano una porta centinata i cui battenti venivano
abbassati e chiusi accuratamente con chiavistelli ogni sera. A chi le
osservava dall'esterno apparivano come dei comuni magazzini o
come la bottega di un artigiano o di un mercante, ma entrando si
poteva notare in fondo una scala in muratura di tre, quattro gradini
che si univa a una scala di legno che portava a un soppalco che
prendeva luce da una finestra oblunga collocata sopra l'ingresso
della taberna: questa era la casa del bottegaio le cui condizioni
economiche spesso erano inferiori a quelle degli stessi inquilini
delle cenacula degli ultimi piani, dovendo adattarsi a vivere in un
unico ambiente dove si cucinava, si dormiva, si lavorava.
L'espressione latina giuridica percludere inquilinum, bloccare un
locatario, sembra derivasse dal modo con cui il proprietario
costringesse gli abitanti delle tabernae, debitori dell'affitto, a
pagarlo, togliendo la scala di legno che portava alla loro stanzuccia.
I CROLLI
• Se le insulae per molti aspetti erano simili ai nostri palazzoni moderni in
effetti erano però esteticamente più apprezzabili: le pareti erano ornate
con combinazioni di legno e stucco, gli ambienti avevano grandi finestre
e porte, le file delle tabernae erano coperte da un portico, e là dove la
larghezza della strada lo permetteva, vi erano anche delle logge
(pergulae) poggianti su i portici o balconi (maeniana) in legno o in
mattoni. Spesso piante rampicanti avvolgevano le balaustre dei balconi
su cui si potevano vedere anche vasi di fiori, quasi dei piccoli giardini
come racconta Plinio il Vecchio. A questo gradevole aspetto esteriore,
non corrispondeva un'altrettanta solidità delle insulae che non avevano
una base proporzionale alla loro altezza e che inoltre venivano edificate
da costruttori disonesti che economizzavano sullo spessore dei muri e
dei pavimenti e sulla qualità dei materiali.
GLI INCENDI
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Ai frequenti crolli si univano gli incendi che si propagavano celermente sia per la
quantità di legno che veniva usata per alleggerire le strutture e di travi per sostenere i
pavimenti sia per l'angustia dei vicoli.
Il plutocrate Crasso di questi eventi ne aveva fatto oggetto di speculazione edilizia:
avuta notizia di questi disastri si presentava sui luoghi e, dopo aver consolato l'afflitto
proprietario dell'edificio crollato o andato in fumo, gli offriva di acquistare il suolo su
cui sorgeva naturalmente a un prezzo molto più basso del valore reale; con una sua
squadra di muratori appositamente addestrati ricostruiva in tempi brevi un'altra insula
da cui ricavare enormi profitti.
Sebbene fin dai tempi di Augusto, Roma disponesse di un corpo di pompieri e di vigili,
così frequenti erano gli incendi che, come dice Ulpiano, nella Roma imperiale non
passasse giorno senza parecchi incendi (plurimis uno die incendiis exortis) .
Quando si verificavano questi sciagurati eventi, i poveri erano in un certo senso favoriti
rispetto ai ricchi delle domus: quelli infatti si mettevano più rapidamente in salvo non
avendo oggetti preziosi o mobili, quasi assenti nei loro alloggi, da mettere in salvo. Non
che i ricchi avessero una gran quantità di mobilia da preservare dal fuoco, ma piuttosto
oggetti d'arte preziosi per la loro manifattura, quelli che noi chiameremo
soprammobili.
L’INSULA NELL’ETÀ DELL’IMPERO
• Come scrive Vitruvio, l'accrescimento considerevole della sua
popolazione portarono di necessità un'estensione straordinaria
delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un
rimedio nell'altezza degli edifici». Lo stesso Augusto spaventato
per l'incolumità dei cittadini e dai crolli ripetuti di tali case emanò
un regolamento che vietava ai privati di innalzare costruzioni che
superassero i 70 piedi (poco più di 20 metri). L'avidità dei
costruttori approfittò dei limiti imposti dalla regolamentazione
augustea per sfruttare al massimo lo spazio costruendo in altezza
anche là dove non era necessario.
DOMUS
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La domus era una tipologia di abitazione utilizzata
nell'antica Roma. Era un domicilio privato urbano e si
distingueva dalla villa suburbana, che invece era
un'abitazione privata situata al di fuori delle mura della
città, e dalla villa rustica, situata in campagna e dotata di
ambienti appositi per i lavori agricoli. La domus era
l'abitazione delle ricche famiglie patrizie, mentre le classi
povere abitavano in palazzine fatiscenti chiamate insulae.
La domus si sviluppava in orizzontale ed era composta da
molte stanze con funzioni diverse.
Generalmente la domus signorile non era dotata di finestre
sull'esterno, o, se vi erano, erano molto piccole per evitare
che dall'esterno potessero entrare rumori o, peggio, ladri.
L'illuminazione era fornita dalla luce solare che entrava dal
compluvium dell'atrio e illuminava di riflesso le stanze ad
esso adiacenti. Dal compluvium entrava, oltre che la luce
anche l'acqua piovana che veniva raccolta in una vasca o
cisterna quadrangolare al centro dell'atrio detta
impluvium.
DOMUS
• Le domus erano le abitazioni delle ricche famiglie patrizie e derivano
dalle capanne dei pastori.
• Le prime domus erano costruite con argilla per i muri e stoppie per il
tetto, solo successivamente i muri saranno costruiti con il tufo, il tetto
con le tegole e si introdurranno anche le porte con gli stipiti in tufo.
• Il primo modello di domus che si diffuse fu quello ad atrio: in questo
tipo di domus la casa si sviluppava intorno all’atrio di forma arcaica,
chiamato così perché si incontravano le quattro colonne.
• Successivamente l’atrio da arcaico si trasformò in canonico poiché
comprendeva il peristilio (giardino delimitato da ogni lato da un
portico), in questo periodo si diffuse anche la tecnica costruttiva ad
opera cementizia e la pianta rettangolare.
• In una domus poteva abitare solo una famiglia, ma non erano mai
isolate o singole.
DOMUS
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L’atrio era la parte più importante della casa poiché da qui si dipartivano tutte le
stanze.
Spesso l’atrio era preceduto dal vestibulum che era uno spazio in cui i clientes
sostavano in attesa di riverire il loro patronus per il saluto mattutino, che a sua
volta era preceduto dal fauces, l’ingresso.
Nell’atrio inoltre si trovava il lararium che era una piccola cappella per i lari che i
membri della famiglia pregavano ogni giorno, affinché li proteggessero dato che i
lari erano gli spiriti buoni della famiglia.
C’erano cinque tipologie di atrio:
1)Tuscanicum, che era il tipo più diffuso e antico in cui il peso del tetto era sorretto
unicamente dalle travi orizzontali.
2)Tetrastylum, con una colonna a ciascuno dei quattro angoli dell’impluvium.
3)Corinthium, con un maggior numero di colonne.
4)Displuviatum, con pendenza del tetto verso le pareti di modo che l’acqua
sgrondasse nelle quattro docce agli angoli.
5)Testudinatum, privo dell’impluvium.
Accanto all’atrio c’era il tablinum che veniva usato come soggiorno.
DOMUS
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Dopo trovavamo il peristilio dal quale si poteva accedere alle altre stanze della casa: il
triclinium era la sala da pranzo nella quale si mangiava semi sdraiati sui letti tricliniari; i
cubicula erano le stanze da letto; il balneum era la sala da bagno che di fatto era la
copia delle terme in quanto aveva l’apodyterion che era lo spogliatoio; il calidarium che
era la stanza dell’acqua calda; il tepidarium che era quella dell’acqua tiepida e il
frigidarium che era quella dell’acqua fredda.
Alcune avevano addirittura anche la biblioteca, il diaeta che era un padiglione per
l’intrattenimento degli ospiti e il solarium che era una terrazza per prendere il sole.
Infine c’erano altre tre stanze all’interno della domus: la culina, che era la cucina dove
gli schiavi cucinavano per il loro padrone, le cellae servorum che erano le stanze per gli
schiavi e l’exedra, che era una sala dove il padrone riceveva le persone di prestigio.
Inoltre nel retro potevamo trovare un piccolo orto.
Le stanze che si affacciavano direttamente sulla strada, il padrone le affittava a piccoli
artigiani o commercianti perché ci aprissero le loro botteghe e venivano chiamate
tabernae.
Le dumus non erano molto arredate, avevano solo dei mosaici per il pavimento e le
pareti venivano dipinte solo fino a dove si riusciva ad arrivare.
DOMUS
VILLAE DEI PATRIZI
• I patrizi avevano inoltre una villa.
• Inizialmente la villa era una fattoria dove abitavano il
padrone e gli schiavi in modo che il padrone potesse
controllare direttamente il lavoro degli schiavi.
• Potevamo trovare gli alloggi della familia, le stalle
degli animali, i locali dove si lavoravano i prodotti
agricoli come ad esempio il formaggio e i magazzini
dove si conservava il cibo.
VILLAE DEI PATRIZI
• Con il passare del tempo il padrone e la sua famiglia preferirono avere una
domus in città e la villa divenne di fatto la casa in campagna o al mare della
famiglia e ne potevamo trovare tre tipi:
• 1)La villa suburbana, si trovava al mare o in campagna e manteneva la
stessa pianta rettangolare della domus, ma aveva giardini più sontuosi.
• 2)La villa rustica, che di fatto era la fattoria da cui derivano le ville. Aveva
due giardini, uno interno ed uno esterno dotati di vasche in cui si
abbeveravano gli animali e si lavavano gli abiti. Intorno al cortile c’erano le
stanze degli schiavi, una grande cucina e le stalle per i buoi. A nord, perché
fossero freschi, trovavamo i magazzini e annessa alla villa c’era l’aia con i
capanni per gli attrezzi.
• 3)La villa urbana, era la casa di campagna per il riposo o la villeggiatura. Era
più sontuosa della domus, potevamo trovare la cubicola diurna, che era la
stanza per il riposo diurno e la piscina per il nuoto. Infine aveva un giardino
con fiori, piante rare, fontane, giochi d’acqua e statue.
VILLAE DEI PATRIZI
Villa suburbana
Villa rustica
Villa urbana
IL MOBILIO DELLA CASA
• Il mobilio era ridotto all’essenziale e perciò lo splendore della casa
derivava dai marmi e dai loro pregi, dagli affreschi alle pareti, dai
mosaici policromi, dalle statue e dai giardini.
• Per i Romani la maggior parte del mobilio consisteva nei letti. Il povero
aveva per letto un giaciglio di mattoni accostato al muro, mentre il
ricco disponeva di una serie di letti sui quali non solo si dormiva, ma si
mangiava, si scriveva, si riceveva.
• I più diffusi erano dei lettini a una piazza (lectuli); vi erano poi quelli a
due piazze per gli sposi (lectus genialis), a tre piazze per la sala da
pranzo (triclinia) arrivando sino a sei piazze per i ricconi che volevano
stupire i loro ospiti. I letti potevano essere in bronzo, più spesso in
legno lavorato o in legni pregiati esotici che lucidati emanavano tanti
colori come le piume di un pavone (lecti pavonini).
IL MOBILIO DELLA CASA
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Il triclinio era il locale in cui veniva servito il pranzo nelle case degli antichi romani dove,
specialmente nelle case dei patrizi, era molto comune e veniva usato per intrattenere gli
ospiti. Ogni letto era capace di ospitare tre commensali che stavano sdraiati su dei
cuscini attorno a un tavolo basso. Un'accurata ricostruzione di un triclinio si può vedere
al Museo Archeologico di Arezzo.
Il pranzo era un rituale nella vita degli antichi romani e durava dal primo pomeriggio fino
a notte fonda. Generalmente da 10 a 20 commensali prendevano posto intorno a un
tavolo sistemati in modo tale da enfatizzare la loro importanza a seconda della vicinanza
al padrone di casa. Vista l'importanza del locale il triclinio veniva decorato con mosaici o
affreschi sulle pareti. Dioniso, Venere e nature morte erano molto comuni nelle
decorazioni di questi locali. Le case dei patrizi avevano almeno due triclini e non era
difficile trovare case con quattro e più triclini. In queste case il triclinius maius, (grande
sala da pranzo) era usato per dare delle feste alle quali erano invitati un gran numero di
ospiti. I triclini più piccoli venivano usati per un piccolo gruppo di ospiti di riguardo e per
questo motivo spesso erano decorati in maniera splendida tali da rivaleggiare con quelli
più grandi. Nei triclini si mangiava e beveva ma durante il pasto venivano anche recitati
degli spettacoli per intrattenere gli ospiti e perciò nelle decorazioni dei locali era spesso
inserita l'epopea di Enea e dell'Eneide.
IL MOBILIO DELLA CASA
Riproduzione di un triclinium
Triclinium
IL MOBILIO DELLA CASA
• Molto diversi dai nostri tavoli a
quattro gambe erano quelli
romani
(mensae)
spesso
costituiti da ripiani di marmo
poggianti su un piede sui quali
venivano esposti per essere
ammirati gli oggetti più
preziosi (cartibula), o da
tavolini tondi in legno o bronzo
con tre o quattro gambe
mobili.
IL MOBILIO DELLA CASA
• Molto più rare erano le sedie di cui i
romani non sentivano la necessità poiché
usavano prevalentemente i letti. Vi era una
particolare sedia, una specie di seggiolone
(thronus) ma era destinato agli dei.
• La sedia con la spalliera più o meno
inclinata (cathedra) era usata dalle grandi
dame romane che Giovenale, poeta
romano, accusava di mollezza. I resti di
questa particolare sedia sono stati ritrovati
nella sala di ricevimento del palazzo di
Augusto e nello studio di Plinio il Giovane
dove egli riceveva i suoi amici.
Successivamente divenne la sedia del
maestro nella scuola e del prete cristiano.
IL MOBILIO DELLA CASA
• I romani sedevano di solito su dei banchi (scamna)
o preferivano usare degli sgabelli senza spalliera e
braccioli (subsellia) che portavano con sé.
• Tappeti,
coperte,
trapunte
completavano
l'arredamento della casa romana stesi sul letto o
sulle sedie dove brillava il vasellame in argento dei
ricchi, spesso istoriato d'oro dai maestri cesellatori
e incastonato di pietre preziose. Ben diverso quello
dei poveri in semplice argilla.
GLI IMPIANTI IDRAULICI
•
•
I Romani furono maestri nella meccanica e
nell'energia idraulica. Le loro costruzioni degli
acquedotti sono ancora oggi considerate come
una delle meraviglie più affascinanti del mondo
antico. Non bisogna dimenticare infatti che la
fornitura dell'acqua, a spese dello stato, era stata
concepita fin dall'inizio come un servizio pubblico,
ad usum populi, a vantaggio della collettività e
non dell'interesse privato.
L'acqua era di proprietà statale, ma dietro
concessione dell'imperatore o attraverso il
pagamento di una tassa, era possibile ottenere
l'allaccio. Tuttavia, vi era molto rigore nella
concessione di questi attacchi costosissimi
all'acquedotto, tanto che, dopo poche ore dalla
morte di colui che ne usufruiva, essi venivano
immediatamente soppressi dall'amministrazione.
GLI IMPIANTI IDRAULICI
•
•
Era consentito allacciarsi per l'acqua nelle coltivazioni agricole, anche se di solito
adoperavano canali scavati con bacini e chiuse. I Romani avevano ricavato la tecnica
dell’irrigazione dei campi dagli Etruschi, i quali erano maestri in merito.
Quattordici acquedotti che portavano all'Urbe un miliardo di litri d'acqua al giorno, 247
vasche di decantazione (castella), le numerose fontane ornamentali e le grosse
canalizzazioni delle case private, hanno fatto pensare che nella case romane vi fosse una
distribuzione di acqua corrente. In realtà, non era però così: solo con il principato di
Traiano, infatti, l'acqua (aqua Traiana) di sorgente fu portata sulla riva destra del Tevere
dove la gente sino ad allora si era dovuta servire di quella dei pozzi. Queste derivazioni
riguardavano unicamente le case signorili della domus o dei pianterreni: difatti, negli
scavi archeologici, non è mai stata ritrovata alcuna colonna portante che possa far
pensare che l'acqua fosse portata ai piani superiori. Anche alcuni testi antichi
testimoniano e confermano questa situazione: nelle commedie di Plauto il padrone di
casa si preoccupa in effetti di avere sempre a sua disposizione una riserva d'acqua. I
vigili del fuoco imponevano inoltre ai padroni di casa di far trovare sempre delle riserve
d'acqua pronte per spegnere gli eventuali incendi. Tale obbligo non sarebbe di certo
stato ritenuto necessario se vi fosse stata la presenza di acqua corrente nelle insulae
che, proprio per questa mancanza, difettavano della pulizia necessaria, complicata dalla
mancanza di fognature.
GLI ACQUEDOTTI
• Il primo acquedotto fu realizzato da Appio Claudio nel 312 a.C., cui ne
seguirono circa uno ogni 60 anni a causa dell'aumento della
popolazione.
• Per permettere l'inclinazione delle tubature ci si serviva della
coròbate: una specie di livella con fili pendenti di piombo con cui
veniva misurato il piano e una vaschetta superiore che non doveva
debordare. Gli ingegneri, una volta disegnata la pianta e il percorso
dell'acquedotto, analizzavano ogni dieci metri il terreno, annotando la
presenza di eventuali salite e discese. Successivamente, procedevano
interrando o alzando su archi le tubature che dovevano avere
un'inclinazione leggerissima e costante, per fare in modo che l’acqua
giungesse senza alcun problema dalla sorgente a Roma.
GLI ACQUEDOTTI
• Nelle insule povere, però, l'acqua non arrivava e ci si serviva dei
portatori d'acqua (aquarii) che la legge della successione stabilì di
proprietà assieme all'edificio, affinché non mancassero acqua,
controllo e pulizia delle strade.
• Un’ alternativa agli aquarii era costituita dalle cisterne. Il “Castellum
aquae” è un esempio di cisterna conservato nella città di Pompei; si
trattava di un grosso serbatoio d’acqua posto sul punto più alto della
città e collegato all’acquedotto. L’ingresso era chiuso con una porta
massiccia, mentre il serbatoio all’interno era diviso in tre scomparti:
uno per le fontane, uno per gli edifici pubblici ed uno per le
abitazioni private. In caso di mancanza d’acqua, si interrompevano
automaticamente le forniture alle case e alle terme, mentre
venivano lasciate in funzione quelle per le fontane pubbliche.
GLI ACQUEDOTTI
•
•
•
•
La portata d’acqua degli acquedotti poteva superare, nella stagione più
favorevole, i 150000 metri cubi al giorno, poco meno di sei metri cubi al
secondo.
Dobbiamo però osservare che il flusso era continuo, giorno e notte, quindi
gran parte dell’acqua ‘passava in città’ senza essere utilizzata, confluendo nei
canali di scarico. Questo apparente ma inevitabile consumo assicurava, per
contro, una continua pulizia di tubazioni, canali e fognature. Ciò
rappresentava, forse, il vero motivo di sicurezza di fronte alle epidemie che
una così grande popolazione, raccolta in un’unica città, poteva subire a quei
tempi.
Il primo acquedotto che, a Roma, sfruttò la tecnica di scavalcare le valli con
ponti ad arcate è l’Anius Vetus (272 a.C.), alimentato dalle acque del fiume
Aniene.
Nel 140 a.C. entra invece in servizio l’Aqua Marcia, condotta di oltre 90
chilometri voluta dal Pretore Quinto Marcio; l’Aqua Iulia nel 33 a.C.; l’Aqua
Claudia, dell’omonimo imperatore, nel 52 d.C., per citare i maggiori.
GLI ACQUEDOTTI
ILLUMINAZIONE
•
•
L’illuminazione della casa romana non era molto efficace
perché le finestre non erano provviste del lapis specularis,
che veniva invece usato per le serre, le sale da bagno o le
portantine e che consisteva in una sottile lastra di vetro o
ceramica che lasciava filtrare molta luce, ma erano provviste
di tele o pelli che lasciavano passare molto vento, rendendo
la casa fresca d’estate o battenti di legno che invece
riparavano meglio dal freddo durante l’inverno; però
entrambi questi elementi facevano filtrare molta poca luce,
rendendo la casa quasi del tutto buia, infatti per spostarsi da
una stanza all’altra usavano le lanterne e a volte le stanze
erano illuminate da lucerne.
La luce poteva entrare anche dal compluvium che consisteva
in un cortile scoperto dove si trovava una vasca detta
impluvium, che serviva per raccogliere l’acqua piovana che
veniva usata poi per lavarsi e cucinare.
RISCALDAMENTO
• Anche l’impianto per il riscaldamento non era migliore.
• I contadini nelle capanne per scaldarsi accendevano dei fuochi poiché il
tetto era provvisto di un foro dal quale usciva il fumo, ma questo non
era possibile nelle case poiché non erano provviste di questo foro.
• Le case venivano quindi riscaldate dagli ipocausi, impianti alimentati a
fuoco dalla legna e da un canale attraverso il quale passava il calore, la
fuliggine e il fumo, che finiva nell’ipocausto accanto che era formato da
piccoli mattoncini, le suspensurae, attraverso il quale circolava il calore
del pavimento della stanza, che era sospesa sopra lo stesso ipocausto;
questo sistema veniva utilizzato anche per scaldare il calidarium delle
terme, ma non era molto efficace dato che non era adatto a riscaldare
grandi spazi, poiché le suspensurae non ricoprivano mai un intero
ipocausto, ma le case a quell’epoca erano formate da molti piani, in più
non esistevano i camini e spesso per riscaldarsi utilizzavano bracieri
portatili con il rischio di soffocamento per l’inalazione di gas di
monossido di carbonio.
RISCALDAMENTO
Suspensurae
IL SISTEMA FOGNARIO
•
•
•
I Romani capirono ben presto che l’igiene era un elemento fondamentale per
sostenere una buona qualità della vita in una città tanto popolosa. Lo dimostra
la costruzione di un grande sistema fognario fin dai tempi più antichi. Tuttavia
la maggioranza delle abitazioni di Roma e soprattutto le grandi insulae
popolari rimasero prive di latrine in quanto mancavano dell’acqua corrente
necessaria per far defluire gli scarichi.
Lo Stato allora andò incontro alle esigenze della popolazione facendo costruire
delle latrine pubbliche. Alcune fonti romane registrarono l’esistenza di ben 144
latrine pubbliche.
Nelle città fornite di impianto fognario, le canalizzazioni seguivano i tracciati
delle strade. Se il rilievo del terreno lo permetteva, si cercava di creare una
rete di canalizzazioni secondarie che sboccavano in un collettore principale,
che conduceva le acque putride fuori città.
CLOACA MASSIMA
•
•
A tutti è noto il sistema fognario romano con la famosa
Cloaca Maxima (la fognatura più grande), la più antica
delle fogne romane, ancora funzionante, iniziate a
costruire nel VI secolo a.C. Il sistema fognario fu merito
soprattutto di Agrippa nel quale fece riversare anche
l'acqua in eccesso degli acquedotti e che lo rese così
spazioso che poteva essere percorso in barca.
I romani tuttavia non la utilizzarono al massimo delle sue
potenzialità, servendosene solo per eliminare i liquami
delle abitazioni al pianterreno e delle latrine pubbliche.
Mancano prove certe dagli scavi archeologici che i piani
alti delle insulae fossero collegate al sistema fognario e i
più poveri dovevano necessariamente, pagando una
modesta somma, far uso delle latrine pubbliche gestite
da appaltatori del fisco (conductores foricarum).
IL SISTEMA FOGNARIO
•
•
Contrariamente a quello che si
può pensare le latrine pubbliche
erano dei locali arredati con una
certa ricercatezza. Vi era un
emiciclo o un rettangolo attorno
al quale scorreva acqua in
continuazione in canali davanti
ai quali c’erano una ventina di
sedili in marmo forniti di fori su
cui si incastrava tra due braccioli
raffiguranti dei delfini la
tavoletta adatta alla bisogna.
L'ambiente era riscaldato e
ornato persino con statue.
I più poveri o avari si servivano
invece degli orci sbeccati per
l’uso.
Latrine pubbliche
IL SISTEMA FOGNARIO
• Poteva
esserci
poi
un
recipiente apposito, se il
proprietario aveva dato il
consenso, collocato nel vano
della scala, il dolium, dove gli
inquilini potevano svuotare i
loro vasi. Da Vespasiano in poi
i commercianti di concimi
acquistarono il diritto di
svuotarli periodicamente.
IL SISTEMA FOGNARIO
• Nella Roma imperiale esistevano anche dei pozzi neri (lacus)
che deturpavano la città non solo per gli evidenti motivi ma
anche perché spesso le donne di malaffare vi gettavano o
esponevano i loro neonati. Non si riuscì a liberarsi di questa
sconcezza, fino all’arrivo del grande imperatore Traiano.
• Per quelli poi che non volevano affaticarsi ad andare ai luoghi di
scarico o fare le ripide scale della loro insula, il metodo più
facile per sbarazzarsi delle loro deiezioni era quello di buttarle
in strada dalla finestra, con quale soddisfazione dei passanti è
facile immaginare, ma si cercò in tutti i modi di cogliere questi
sciagurati sul fatto organizzando delle sorveglianze apposite e
di punirli duramente con le leggi.
LA CUCINA
•
•
•
La cucina era un ambiente di scarso rilievo e di
modeste dimensioni, dove su un bancone di laterizio
si preparavano le pietanze, cucinando in piccoli forni
o sopra ai bracieri.
Il bancone per cucinare era in laterizio, con aperture
sottostanti dove porre il legno, il carbone o la paglia,
un po’come si usa ancor oggi in tante campagne.
Sul muro erano posizionate diverse mensole porta
oggetti in legno, sulle quali venivano poste ad
esempio le pentole. Alla parete, invece, un travetto di
legno permetteva di appendere le padelle, in bronzo
o ferro. I Romani erano soliti accendere il fuoco con
un piccolo ferro di cavallo che impugnavano da un
lato percuotendo un pezzo di quarzo. Le scintille
andavano a cadere sui fomes, i funghi che crescono
alla base degli alberi, appositamente essiccati ed
approntati in precedenza. Il fuoco veniva poi
trasmesso alla paglia e finalmente alle fascine di
legna.
IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI
•
•
•
I Romani, popolo sviluppatosi da un piccolo villaggio di agricoltori,
mantennero da principio a tavola abitudini frugali. La grande
trasformazione della cucina arrivò con le prime conquiste, a partire dai
contatti con la Magna Grecia, quando man mano centinaia di ingredienti e
cibi sconosciuti arrivarono dai loro nuovi domini. All’inizio mangiavano
soprattutto uova, latte e formaggi.
L’uovo era simbolo della rinascita e della fecondità, era mangiato sempre
all’inizio dei pasti.
Il latte (di capra, vacca, asina o cavalla) considerato un alimento
indispensabile, era bevuto sia fresco che aromatizzato. Veniva impiegato
per preparare zuppe, finché non venne sostituito dal brodo di carne. Il latte
con aggiunta di farina, miele e frutta serviva per preparare dolci. Da esso si
ricavava il formaggio, che gli antichi romani consideravano un piatto
completo, usato in aggiunta alla polenta o come condimento. Il burro era
usato raramente, poiché non si conosceva la tecnica per conservarlo e
veniva impiegato piuttosto come medicinale o unguento per il corpo. Lo
yogurt esisteva, ma non era paragonabile a quello odierno, visto che era
fatto con latte, aceto e cipolla.
IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI
•
•
•
•
La carne venne introdotta con l’urbanizzazione e la più utilizzata era quella di suino, mentre la migliore era
considerata quella d’agnello o di capretto. La carne meno pregiata era quella di montoni e capre mentre i più
ricchi preferivano il pavone e il ghiro. Si consumavano anche la carne d’asino selvatico e la selvaggina di
grande e piccola taglia (cinghiale, lepre, oca e anatra).
Non veniva invece mangiata la carne di bue, sia perché questo veniva utilizzato nel lavoro dei campi, sia
perché era ritenuto sacro. Per quanto riguarda gli uccelli, oltre a tordi e piccioni, i Romani cucinavano specie
importate dalle varie regioni dell’impero, come fenicotteri, cicogne e grù e molto ricercati erano i piatti a
base di pavone e di fagiano. Quanto al pollo, era considerato poco pregiato ed era consumato soprattutto
dai poveri.
Il pesce era di solito accompagnato da verdure bollite, carni o fegati. Tra le varietà più diffuse c’erano l’orata,
la triglia, la sogliola e il luccio. I frutti di mare, che da principio venivano mangiati durante il periodo della
carestia, ben presto furono considerati un piatto prelibato. Più tardi il pesce, sia di fiume che di mare o
allevato in grandi vivai, divenne per i romani un alimento essenziale, tanto che si contavano ben 150 specie
conosciute. Molto richiesti erano aragoste, seppie, scampi, astici, polpi, datteri, rane, gamberi e soprattutto
le ostriche di cui addirittura i benestanti possedevano allevamenti personali.
Tra le verdure andavano per la maggiore radici, rape, barbabietole, carote, ravanelli, bulbi, porri, ma anche
asparagi, funghi, cavoli, lattuga, cicoria o indivia, carciofi, cetrioli, fave, lenticchie e piselli.
IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI
•
Sulla tavola dei Romani il pane non mancava quasi mai. Il primo
frumento usato per prepararlo fu il farro, che era ai tempi il cereale
più coltivato mentre dal grano si ricavava una specie di pappa di
frumento. All’inizio il pane veniva fabbricato in casa, poi cuochi e
artigiani specializzati aprirono vere e proprie panetterie con tanto di
forni e mulini. Vi erano essenzialmente tre tipi di pane: quello nero
o dei poveri, il pane bianco (poco migliore del primo) e il pane
bianco di farina finissima o pane dei ricchi. Il pane veniva preparato
anche con miele, vino, latte, olio, frutti canditi e pepe. Poiché era
molto duro, veniva di solito intinto nel vino, nell’olio, nelle minestre
o accompagnato dalle salse. Da principio al posto del pane veniva
usata la polenta che era preparata in un contenitore di terracotta
dove al farro si aggiungevano acqua, sale e un po’ di latte e, a
seconda dei gusti, fave, cavoli, cipolle, formaggio ed anche alcuni
pezzi di carne o di pesce. Questo miscuglio conteneva un’infinità di
ingredienti era chiamato satura o satira proprio perché saziava (da
cui derivano i termini saturazione e satira, nel senso di battute o
scherzi pesanti).
IL CIBO DEGLI ANTICHI ROMANI
•
Il vino, la bevanda più amata dei romani, concludeva tutte le cene e aveva un carattere sacro. Gli
uomini non potevano berlo prima di aver compiuto trent’anni, ovvero la maggiore età, ed era
proibito alle donne. Esisteva una prova, chiamata ius osculi (diritto del bacio), che permetteva al
marito di baciare la moglie sulla bocca proprio per capire se avesse o meno bevuto. I vini erano
pesanti, acidi o amari e venivano serviti in coppe molto larghe e quasi piatte. Spesso veniva
miscelato con acqua calda o raffreddata con la neve per abbassarne la gradazione. Quasi mai
limpido, per filtrarlo veniva usato un passino. Il vino più famoso era il vinum mulsum, miscelato con
il miele, molto popolare perché permetteva a donne e uomini sotto i trent’anni di aggirare il divieto
di bere vino puro. Molto apprezzati erano anche i vini pepati e aromatizzati: di solito venivano
aggiunte spezie come mirra, canna, giunco, cannella e zafferano. Il vino era conservato fino a 15 anni
in anfore con tappi di sughero o argilla e sulle anfore usate per il trasporto era riportata su una
targhetta l’origine e la data di produzione per tutelare l’acquirente, anche se già all’epoca esistevano
casi di alterazione. I vini invecchiati (quelli cioè che avevano passato l’estate successiva alla data di
produzione) considerati di gran pregio, venivano ostentati dai ricchi nei loro banchetti. Il consumo di
vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale, soprattutto nelle zone di produzione e nelle grandi
città. Il consumo medio in un anno era di 140 – 180 litri a persona e la ragione era forse anche nel
grande apporto calorifero che dava alla dieta dei romani costituita in gran parte da cereali e vegetali.
Non mancavano i surrogati come la “lora”, ricavata dalla fermentazione delle vinacce con acqua
subito dopo la vendemmia e la “posca”, formata da acqua e vino inacidito (acetum). Tra i poveri e i
barbari era invece diffusa la birra.
LE STRADE
ROMANE
Plinio il Vecchio citava “I Romani posero ogni cura in tre cose soprattutto, che furono dai Greci neglette,
cioè nell'aprire le strade, nel costruire acquedotti e nel disporre nel sottosuolo le cloache"
Infatti, l'immenso complesso di strade realizzate dai Romani rappresentano un'opera di straordinaria
ingegneria che, con complessivi 100.000 Km di lastricato, hanno contribuito allo sviluppo della civiltà
romana in tutto il mondo allora conosciuto.
Le strade dei Romani, le “CONSOLARI”, sono considerate tra le realizzazioni più gloriose e durature di
Roma Antica. Vi furono circa 100.000 chilometri di strade lastricate e sicure ed altri 150.000 chilometri
di strade in terra battuta, ma sufficientemente larghe e adatte per i carri. La larghezza di ogni strada era
di circa 5 metri, in modo che potessero affiancarsi, senza danno, due carri.
I primi costruttori di strade sul suolo italico furono però gli Etruschi. La VIA CLODIA ricalcò almeno in
parte un'importante percorso etrusco che collegava Caere (Cerveteri) a Volsini Novii (Bolsena), con la
VIA CASSIA, da Roma a Cortona. Gli Etruschi si limitarono però a usare un tufo compatto, mentre i
Romani usarono la selce, molto più dura e resistente, il cosiddetto BASOLATO romano.
Esistevano presso i Romani vari tipi di strade, dalle strade di tronchi, alle strade scavate nel tufo come
fecero gli Etruschi (ma che i Romani poi ripavimentarono), alle strade pavimentate in acciottolato
(GALERATUM), alle strade in basolato romano, le più resistenti in assoluto.
Con il nome di vie, VIAE, venivano indicate le strade extraurbane che partivano da Roma, mentre le
strade, STRATA, (cioè fatte a strati) quelle all'interno di un centro abitato.
Le strade dovevano durare a lungo e la loro costruzione era molto accurata.
I Romani distinguevano:
- La VIA, dove si poteva transitare con i carri, quindi che permetteva il transito di
due carri contemporanei in senso opposto (da qui il termine carreggiata)
- L'ACTUS, dove si poteva transitare solo a piedi o a cavallo, largo circa la metà
della via,
- L’ITER, dove si poteva andare a piedi o in lettiga ma senza usare animali.
-La SEMITA era una semi-iter, più piccola.
- Il CALLIS una stradina tra i monti.
- La TRAMES era la via traversa di un'altra via.
- Il DIVERTICULUM una strada che si staccava dalla consolare per arrivare a una
località.
Si dividevano poi in:
-Strade pubbliche, dette PRETORIE e CONSOLARI, a seconda se
costruite da un pretore o un console.
- Strade private dette AGRARIE.
COSTRUZIONE STRADALE
Si ritiene che i Romani abbiano ereditato
l'arte di costruire le strade dagli Etruschi,
migliorando il metodo e i materiali. In
effetti diverse strade romane ricalcarono le
strade etrusche, ad esempio la Via
Flaminia attraverso l'AGER VEIENTANUS e
FALISCUS, o alcuni tratti della Claudia
scavata nel tufo e ripavimentata poi dai
Romani, o la strada di Pietra Pertusa che
collegava Veio con il Tevere, o tratti
dell'Aurelia o della Cassia.
Il sistema costruttivo di una strada romana era piuttosto
complesso. Per prima cosa, venivano definiti i margini e
scavata profondamente la terra per liberare la zona che
successivamente sarebbe stata occupata dalla carreggiata.
All'interno dello scavo si sistemavano quindi quattro strati
sovrapposti di materiali diversi (VIAM STERNERE):
1- Lo STATUMEN, la massicciata di base, composta di blocchi
molto grandi e alta non meno di 30 cm.
2- La RUDERATIO, fatta da pietre tondeggianti legate con
calce, il cui spessore non era mai inferiore a quello della
massicciata.
3- Il NUCLEUS, uno strato di grossa ghiaia livellato con enormi
cilindri
4- Il PAVIMENTUM, ossia il rivestimento, generalmente in
grossi massi di SILEX, una pietra basaltica di eccezionale
durezza e sostanzialmente indistruttibile.
La costruzione iniziava con un sopralluogo dell'architetto, che stabiliva dove
doveva passare la strada, poi toccava agli agrimensori, che individuavano i
punti precisi dove doveva passare. Per questo usavano dei pali e la GROMA,
in modo da tracciare angoli retti. La linea dei pali infissi nel terreno, veniva
chiamata RIGOR, perchè andava seguita rigorosamente. L'architetto cercava
poi di mantenere il tracciato dritto spostando i pali. Poi con la groma si tracciava
la griglia.
GROMA
A questo punto sopraggiungevano i LIBERATORES che, con aratri e aiutati dai
legionari con le spade, scavavano il terreno fino allo strato di roccia, o fino a uno
strato solido. La profondità di questa fossa variava da terreno a terreno, che
massimo poteva raggiungere 2 m di profondità, ma in genere andava dai 60 cm al
metro.
Per costruire la strada si riempiva la fossa con strati di materiali diversi. Il
riempimento variava a seconda della località, del terreno e dei materiali a
disposizione, in genere con strati di terra, sassi, brecciolina, pietra e sabbia fino a
raggiungere il livello del terreno. A circa 60 cm - 1 m dalla superficie, la fossa veniva
coperta di brecciolina e poi compattata. La superficie piana (PAVIMENTUM), si
poteva già utilizzare come strada, oppure ricoprire con altri strati. Alcune volte si
metteva una "fondazione" in pietre piatte per supportare meglio gli strati superiori.
Le pietre non venivano squadrate per non dare una linea di frattura alla strada,
continuamente sollecitata dai carri. I letti di pietre sbriciolate servivano anche a far
che le strade rimanessero asciutte, in quanto l'acqua filtrava attraverso le pietre,
invece di formare fango.
Sopra si mettevano le pietre piatte che siamo abituati a vedere ancora oggi, dette
SUMMA CRUSTA . Queste non erano disposte in piano, ma con il centro strada più
alto dei bordi, per favorire lo scolo delle acque.
Queste notevoli strade erano resistenti alla pioggia, al gelo e alle inondazioni, e non
avevano bisogno o quasi di riparazioni.
Naturalmente il terreno su cui doveva passare una strada non era sempre privo di
ostacoli, i ruscelli si potevano superare con un semplice ASSITO, un ponticello fatto a
tavole di legno su due assi, piatto o a schiena d'asino, ma per un fiume era necessario un
ponte. Gli architetti romani erano maestri in quest'arte, specie gli ingegneri militari.
I ponti in legno poggiavano su piloni infissi nel letto del fiume, oppure su basamenti in
pietra. Il ponte interamente in pietra però richiedeva la costruzione ad arcate, una tecnica
che i romani avevano appeso dagli Etruschi. I ponti romani erano così ben costruiti che
molti di essi vengono usati tuttora.
Nei terreni paludosi si costruivano invece strade rialzate. Si segnava il percorso con dei
piloni, poi si riempiva lo spazio fra di essi con grandi quantità di pietre, innalzando il livello
stradale fino a 2 metri sopra la palude. Questo avveniva principalmente in Italia, mentre
nelle province si costruivano i PONTES LONGI, cioè lunghi ponti fatti con tronchi d'albero.
Nel caso di grandi massi che ostruivano il cammino,
dirupi, terreni montuosi o collinari si ricorreva spesso a
possenti sbancature o a gallerie, interamente scavate a
braccia. La galleria della gola del Furlo, vicino a Fano, è
romana e vi passa una strada statale. Il viadotto di
Ariccia, usato a tutt'oggi, è romano del II sec. a.c., lungo
231 m e alto fino a 13 m.
Le strade romane procedevano sempre dritte, anche in
terreni con forti pendenze. Non è raro trovare
inclinazioni del 10%-12% in collina, e fino al 15%-20%
in montagna.
I PONTI E LA LORO COSTRUZIONE
L’esercito percorreva circa 30 km al giorno, mentre un messaggero a
cavallo sino a 200 km al giorno. Ne furono costruiti circa 2000, di ogni tipo:
in pietra, in legno ad una o più arcate, a uno o più piani, e su ogni fiume;
molti di essi esistono ancora e sono usati.
Si concepì dunque il ponte in questo modo. Piedritti in legno dello spessore
di un piede e mezzo, appuntiti all'estremità inferiore e di altezza adeguata
alla profondità del fiume, furono collegati a coppie tenendoli distanziati di
due piedi. Questi furono messi in posizione e infissi con battipali, non
verticalmente come le comuni palificate, ma inclinati secondo corrente.
Queste strutture furono poi collegate con travi longitudinali, sulle quali fu
steso un impalcato di tavolame e graticci; inoltre altri pali obliqui furono
infissi dal lato di valle, i quali, con la loro funzione di puntello intelaiato con
le altre strutture, contribuivano a sostenere la spinta della corrente; altri pali
ancora furono infissi poco a monte del ponte, a difesa da eventuali tronchi
d'albero o altri natanti gettati dai nemici, per attutirne l'impatto ed evitare
danni al ponte.
I PIEDRITTI
I piedritti dei ponti sono tutte parti di sostegno che
trasmettono alle fondazioni le spinte e i carichi generati
dalla struttura: per evitare danni i piedritti sono spesso
difesi da rostri: avambecchi o retrobecchi.
I piedritti che dovevano costruire il ponte non erano in
pietra, ma in legno, grossi pali squadrati che dovevano
sostenete il camminamento e i parapetti del ponte e
furono inflitti profondamente per non essere divelti dalla
corrente
IL BATTIPALO
Un battipalo è una macchina per infiggere nel terreno dei pali, un corpo
pesante e rigido che viene fatto battere ripetutamente in cima al palo posto
verticalmente sul terreno, sfruttando la forza di gravità.
Era una specie di argano che lasciava cadere il peso in pietra o in
calcestruzzo che col suo peso e la sua velocità vibrava colpi sui pali come
un maglio, tanti colpi quanti erano necessari per conficcare i pali alla giusta
profondità.
Veniva costruito a riva, poi gli si agganciavano due corde che venivano
portate lungo il fiume fino all'altra riva. Poi gli venivano fissate altre due
corde e così via, affinchè attraverso il tiro di corde il battipalo potesse farlo
spostare lungo il fiume per battere ogni palo necessario. Ma i pali non
erano diritti, per cui fu necessario porre nello strumento del battipalo una
guida, sempre di legno, fissata in modo che la pietra scivolasse su di essa
con la stessa inclinazione dei pali, per colpirli verticalmente nonostante
fossero inclinati.
La costruzione del ponte doveva essere iniziata formando specie di
cavalletti alti e stretti. Questi non vennero conficcati diritti, ma inclinati nel
senso della corrente.
IL CAEMENTUM ROMANO
Il cemento è un legante dell'edilizia prodotto per macinazione fine
di calcare e argilla, miscelati e cotti . Gli antichi romani inizialmente
impiegavano come legante prevalentemente la CALCE AEREA,
con la quale l'indurimento del calcestruzzo avveniva con estrema
lentezza. Il termine CAEMENTUM, aveva già assunto in epoca
Romana il significato di legante, cioè di materiale in grado di legare
altri materiali (sabbia, pietrisco ecc.) altrimenti disgregati, tipo
frammenti di pietre e di laterizi.
Il cemento reagisce con l’acqua formando un impasto, che
indurisce fino a prendere la consistenza della pietra. Quando è con
sabbia e ghiaia o pietrisco si chiama calcestruzzo. Il cemento
romano è composto di calce ottenuta per cottura e/o pozzolana. Al
cemento erano mescolati pezzi di pietra, diversa a seconda dell’uso
del cemento: le pietre venivano tenute a mollo per giorni prima di
essere inserite a forza nell'impasto.
I Romani avevano vari modi di usare il cemento, e tra le più importanti opere
cementizie ricorrono:
OPUS CAEMENTICIUM  L'opera cementizia era realizzata dunque con malta e
CAEMENTA. I romani cominciarono ad utilizzarla come calcestruzzo romano, già nel
III sec. a.c.; questo materiale rivoluzionò le metodologie costruttive dell’antichità in
quanto consentiva la realizzazione di grossi edifici ed opere pubbliche in tempi brevi
ed utilizzando un materiale di facile reperibilità, trasporto e messa in opera
LA POZZOLANA  È un prodotto derivante da eruzioni vulcaniche, costituito da sabbie
e pomici. Le cave più note si trovano a Pozzuoli, nel territorio tra Cuma ed il
promontorio di Minerva. Ne vennero scoperte le grandi potenzialità a partire dal III
sec. a.c. e veniva utilizzata in sostituzione della sabbia.
OPUS QUADRATUM  Si costruisce una cassaforma che funzioni da diga con pile di
assi di quercia tenute insieme da catene e assi trasversali che vengono saldamente
ancorate al fondo; quindi si pulisce e si livella il fondale che rimane internamente alla
cassaforma e si riempie lo spazio interno fin sopra il livello dell’acqua con la malta,
realizzata con due parti di pozzolana ed una parte di calce mescolate con acqua, e
con pietrame.
OPUS INCERTUM  A partire dal 210 a.c. venne usata l’opera incerta, in cui le pietre
hanno forma e disposizione irregolari; nel II sec. a.c. si migliorò progressivamente la
qualità estetica dell’opus giungendo all’opera quasi reticolata in cui ancora doveva
essere affinata la tecnica dei tufelli regolari.
OPUS RETICOLATUM  L’opus reticulatum venne usato all’inizio del I sec. a.c. ed
ebbe la massima diffusione e qualità sotto Augusto; consisteva nel realizzare
un’opera cementizia la cui superficie veniva rivestita di tufelli, blocchetti di pietra a
forma piramidale tronca e a base quadrata che rimanevano infissi nell’opera
cementizia ancora fresca dal lato della cima tronca e tutti in diagonale, ottendo così
il motivo "reticolato". Le dimensioni del lato di un CUBILIA (tufello)erano alquanto
variabili.
OPUS LATERICIUM  Utilizzata a partire dal periodo Augusteo e per tutto il periodo
Imperiale, consisteva di mattoni di argilla cotti al sole nell’opus LATERICIUM e cotti
in fornace nell’opus TESTACEUM e con opera laterizia si fa generalmente
riferimento ad entrambe le tipologie.
Il cemento romano però celava dei segreti, infatti ancora oggi è possibile osservare
opere risalenti ai primi secoli d.C.
L’analisi dei campioni ha spiegato che i Romani ottenevano calce viva bruciando pietra
calcarea a 900˚ C o meno
Una volta “spenta” con l’acqua, la mescolavano con la cenere vulcanica (pozzolana): la
malta che ne risultava veniva ancora mescolata col tufo vulcanico e poi posta in forme
di legno.
LE PIETRE MILIARI
Le strade erano larghe dai 4 ai 6 m, così che si potessero incrociare due carri, e
talvolta ai lati vi erano dei marciapiedi lastricati. Le strade erano dotate di pietre
miliari, che indicavano la distanza in miglia dal miliario aureo posto nel Foro
romano.
Già prima del 250 a.c. per la via Appia e dopo il 124 a.c. per la maggior parte delle
altre, le distanze tra le città si contavano in miglia, che erano numerate con le pietre
miliari. La moderna parola "miglio" deriva infatti dal latino MILIA PASSUUM, cioè
"mille passi"
La pietra miliare, o MILIARUM, era una colonna circolare sopra una base
rettangolare, detta CIPPUS, alta 1,50 m, con 50 cm di diametro e del peso di oltre 2
tonnellate. Alla base recava scritto il numero di miglio della strada e più in alto
indicava la distanza dal Foro di Roma e informazioni sugli ufficiali che avevano
costruito o riparato la strada e le caratteristiche della strada.
Fu Augusto che pose il MILIARUM AUREUM (la pietra miliare aurea) nel foro a
Roma, una colonna di bronzo dorato, accanto al tempio di Saturno. Tutte le strade
iniziavano idealmente da questo monumento in bronzo. Su di esso erano riportata la
lista delle maggiori città dell'Impero, e le loro distanze da Roma. Costantino lo
chiamò UMBILICUS ROMAE (ombelico di Roma). Tutto venne da allora indicato
attraverso le miglia, battaglie comprese, specificando il miglio in cui accadevano.
Tutte le distanze erano pertanto calcolate dalla colonna aurea al limite estremo di
ogni strada.
In prossimità della città le strade diventavano viali alberati, fiancheggiati da sepolcri, statue, ville e
templi. Lungo tutte le strade esistevano a distanza di circa venti km l’una dall’altra “la stazione di
posta”, STATIUM, dove si poteva cambiare o ristorare cavalli, muli, buoi e dove era possibile
riparare i carri; molte anche erano, lungo le strade, le osterie, le locande, quasi tutte però
pericolose, malfamate, frequentate da ladri.
Esistevano anche specie di “guide”, gli ITINERARIA, in cui erano segnati in ogni strada i dati più
importanti, come fiumi, boschi, monti, distanze, centri di ristoro. Esistevano pure Itineraria per le
città. Le strade erano percorse da gente a piedi, a cavallo, su carri di ogni tipo e lungo le strade
funzionava anche un efficiente sistema postale svolto a cavallo per i messaggi più urgenti.
LE MAPPE
Gli Itineraria, o mappe, erano dapprima documenti speciali di alcune
biblioteche, ma di uso ristretto soprattutto militare. L'itinerarium più comune
in origine era solo la lista delle città che si incontravano lungo una strada.
Poi comparvero liste più generali, che comprendevano altre liste.
Per maggiori dettagli si usavano diagrammi di linee parallele che
mostravano le ramificazioni delle strade. Parti di questi diagrammi
venivano copiati e venduti ai viaggiatori. I più accurati avevano dei simboli
per le città, per le stazioni di sosta, per i corsi d'acqua e così via.
Sia Giulio Cesare che Marco Antonio commissionarono la compilazione di
un itinerario maestro, che comprendesse tutte le strade dell'impero.
Vennero ingaggiati tre geografi greci, Zenodoxus, Teodoto e Policlito, per
supervisionare il lavoro e compilare l'itinerario. Il lavoro richiese 25 anni, e
produsse un itinerario scolpito nella pietra che venne collocato vicino al
Pantheon, da cui i viaggiatori e i venditori di itinerari potevano liberamente
copiare le parti che li interessavano.
Un altro itinerario maestro fu l'ITINERARIUM PROVINCIARUM
ANTONINI (Itinerario Antonino) venne iniziato nel 217 d.c.
Un altro famoso itinerario che ci è pervenuto è la TABULA
PEUTINGERIANA, che inizia già ad assumere la forma di una carta
geografica, benché molto primitiva.
DIRITTO DI PASSAGGIO
IL PASSAPORTO ROMANO
Lo JUS EUNDI, il diritto di andare, stabiliva che si potesse usare un iter, un
cammino, attraverso terre private; lo IUS AGENDI, il diritto di guidare,
consentiva invece che si usasse un actus, cioè una via carrabile. Una
strada poteva avere ambedue i tipi di utilizzo, sempre che fosse della
larghezza adeguata, che veniva determinata da un ARBITER (un arbitro, o
perito). La larghezza standard era la LATITUDO LEGITIMA di 8 piedi. Le
leggi romane furono le prime ad occuparsi della tutela del cittadino,
fondamento delle leggi moderne di ogni stato civile.
LE STRADE COME DIFESA
Costruire una strada era una responsabilità militare, quindi ricadeva sotto la giurisdizione
di un console, VIAM MUNIRE, come se la strada fosse una sorta di difesa militare e lo era
perchè attraverso queste le legioni potevano spostarsi velocemente.
Alcuni collegamenti nella rete viaria erano lunghi fino a 90 km. Naturalmente si cercava di
costruire strade dritte, per cui occorsero ponti anche su depressioni del terreno, e gallerie,
o tagliate di roccia.
Le strade si snodavano generalmente in campagna, in posizione centrale. Tutto ciò che si
trovava lontano dalla strada maestra vi era collegato dalle cosiddette VIAE RUSTICAE, o
strade secondarie. Sia le une che le altre potevano essere pavimentate o meno, ad
esempio con solo uno strato di ghiaia, come accadeva in Nordafrica. Queste strade
preparate ma non pavimentate venivano chiamate VIAE GLAREAE o STERNENDAE ("da
cospargere").
Dopo le strade secondarie venivano le VIAE TERRENAE, normalmente sterrate. Oltre i
confini non esistono strade, ma si può presumere che i semplici sentieri o le strade
sterrate permettessero il trasporto di alcune merci.
Spesso le strade erano il mezzo per conquistare un popolo. Lo sapeva bene Giulio
Cesare, che si portava appresso soldati esperti ed esperti ingegneri. L'esercito si
accampava e i costruttori facevano un tratto di strada. Quando era pronto vi transitavano i
carri con le scorte di cibo e le armi d'assedio. Così in caso di ritirata questa si eseguiva
velocemente, o si poteva inviare un veloce messaggero.
GLI OSTELLI
Una legione in marcia non aveva bisogno di un punto di sosta, perché portava con
sé un intero convoglio di bagagli e costruiva il proprio campo ogni sera accanto a
una strada. Ma dignitari e i viaggiatori comuni ne avevano bisogno, perciò il governo
manteneva delle stazioni di sosta, le MANSIONES , per usi ufficiali, in cui venivano
esibiti documenti ufficiali per identificare l'ospite. Le mansiones si trovavano a 15-18
miglia l'una dall'altra ed erano attrezzate in modo lussuoso, trattandosi di alti gradi
militari, o ambasciatori. Spesso attorno alle mansiones sorsero campi militari
permanenti o addirittura delle città.
I viaggiatori privati invece avevano le CAUPONAE, spesso vicine alle mansiones,
ma più umili e mal frequentate.
Se però i viaggiatori erano patrizi c'erano le le TABERNAE, più lussuose delle caupones
ma meno delle mansiones. Uno degli ostelli migliori era la Tabernae Caediciae a Sinuessa,
sulla via Appia, con un grande magazzino fornito di otri di vino, formaggio e prosciutti.
Un sistema di "stazioni di servizio" funzionava per veicoli e animali: le MUTATIONES,
praticamente stazioni di cambio. si potevano comprare i servizi di carrettieri,
maniscalchi e di veterinari specializzati nella cura del cavallo.
I VEICOLI
La legge e le tradizioni romane proibivano l'uso di veicoli nelle aree urbane, con alcune
eccezioni. Le donne sposate e gli ufficiali governativi in viaggio per servizio erano
autorizzati all'uso di veicoli.
La LEX IULIA MUNICIPALIS limitava l'uso dei carri da trasporto nelle ore notturne entro
le mura cittadine e a un miglio di distanza da queste.
Nelle aree extraurbane i Romani usavano: cocchi, diligenze e carri.
1- I COCCHI trasportavano una o due persone, il più diffuso era il CURRUS, un modello
aperto in alto ma frontalmente chiuso. Un esempio ancora oggi visibile si trova in
Vaticano. Quando era trainato da due cavalli era chiamato BIGA, a tre cavalli TRIGA
e così via. Le ruote erano in ferro ed erano facilmente smontabili.
2-Il CARPENTUM, una versione più lussuosa trasportava le donne e gli ufficiali. Aveva una
copertura ad arco in tessuto, e veniva tirato da muli.
3-Il CISIUM era aperta sul davanti e aveva una panca per sedersi. Era tirato da due muli o cavalli, e
serviva come un taxi.
4-le DILIGENZE trasportavano un gruppo di persone, quella più diffusa era la RAEDA ed aveva 4
ruote. Ogni lato era provvisto di uno sportello per entrare. Portava al massimo un peso di 1000
libbre. Veniva tirata da una muta di buoi, muli o cavalli, e poteva essere coperta con della stoffa.
I veicoli a noleggio si chiamavano REDAE MERITORIE, mentre le REDAE FISCALIS erano
veicoli governativi.
5-I CARRI servivano per le merci. Il carro più diffuso era il PLAUSTRUM. Era una
piattaforma di assi pieni montata sugli assi delle ruote. Talvolta aveva una ringhiera
anch'essa di assi. A volte sul carro si trovava un grande cesto di vimini per i bagagli. Ne
esisteva anche una versione a due ruote. L'esercito usava il CURSUS CLABULARIS, un
carro che viaggiava al seguito delle legioni, trasportandone i bagagli.
LE STRADE DELL'URBE
I NOMI DELLE VIE
Le antiche strade dell'Urbe si dice non avessero un nome, ma non è così. I nomi utilizzati
anche per i piccoli vicoli corrispondevano ai punti di riferimento: monumenti, statue, colonne,
sacrari, templi, edifici pubblici, caserme, portici, o boschetti sacri o giardini, o mestieri o
un'edicola sacra dedicata ad una divinità, una fontanella. Per esempio nel quartiere Celio
esiste oggi una via Cerquetana che corrisponde all'antica VIA QUERQUETANA, da
quercuus, perché lì c'era un bosco di querce sacro dai tempi di Tullio Ostilio.
I nomi delle strade a Roma avevano origini molto diverse, ed erano raggruppate per regioni,
Regio, che Augusto portò a 14.
LE PIAZZE
Nella Roma Imperiale le piazze comprendono: le piazze, le spiante o spiazzi, i fori, i crocicchi.
Le PIAZZE avevano il nome di "AERAE". Tra queste: l'Area Palatina, nella parte centrale del
Palatino, l'Area Capitolina, che costituiva la parte centrale del Campidoglio.
Gli SPIAZZI erano indicati col nome di "CAMPUS".
I CROCICCHI erano l'incrocio di diverse strade. A secondo del numero di strade il
"COMPITIUM" (crocicchio) è un BIVIUM, un TRIVIUM, un QUADRIVIUM.
Contrariamente alle città greche ed ellenistiche le vie di Roma erano pavimentate: le
piazze con lastre di travertino, le strade con blocchi poligonali di selce.
C'erano anche ISOLE PEDONALI nelle città, in cui le strade, come si vede a Pompei,
venivano bloccate ai carri con grosse pietre di travertino.
I VICUS
I Romani distinguevano il VICUS dal PAGUS. Gli abitanti dei dintorni dell’Urbe erano
detti vicini (da vicus, villaggio) fino al X miglio delle mura serviane, mentre i pagani (da
pagus, borgo, cantone) erano gli abitanti delle borgate prossime alla città. Tacito parlava
di vicus come di una piccola via, un borgo, mentre Orazio lo intendeva come un
quartiere, un rione. Per Cicerone vicus invece vale come villa. Forse Orazio era il più
vicino alla realtà perchè Vicus era il nome per le suddivisioni delle quattro Regioni di
Roma.
Il vicus era a Roma da un lato uno spazio costruito e dall'altro una via percorribile, su
cui si aprivano tante strade minori. A Roma in epoca imperiale si contavano ben 424
Vicus. Il termine via era dato solo a due strade: la Via Sacra e alla Via Nova, le altre
strade di una certa entità erano vicus, se piani, e clivus se in salita.
SEMITAE e ANGIOPORTUS erano invece le viuzze senza nome.
LE STRADE PIU’ IMPORTANTI
LA VIA APPIA
La via Appia è una strada romana, che collegava l'antica Roma a Brundisium (Brindisi), il
più importante porto per la Grecia e l'Oriente, nel mondo dell'antica Roma. L'Appia è
probabilmente la più famosa strada romana di cui siano rimasti i resti; la sua importanza
viene confermata dal soprannome che i Romani le avevano dato: REGINA VIARUM
I lavori per la costruzione iniziarono nel 312 a.C., per volere del censore Appio Claudio
Cieco, che fece ristrutturare ed ampliare una strada preesistente che collegava Roma alle
colline di Albano. I lavori di costruzione si protrassero fino al 190 a.C., data in cui la via
completò il suo percorso fino al porto di Brindisi.
Nel 71 a.C., 6 000 schiavi si ribellarono sotto la guida del celebre Spartaco. Dopo la cattura
e la morte dello schiavo, tutti i ribelli vennero a loro volta catturati e crocifissi lungo la strada,
fino a Pompei.
La strada fu restaurata ed ampliata durante il governo degli imperatori Augusto, Vespasiano,
Traiano, Adriano.
Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, la strada cadde in disuso per molto tempo,
fino a quando Papa Pio VI ordinò il suo restauro e la riportò in attività.
La strada dimenticata per secoli fu riscoperta durante il periodo rinascimentale.
Ampie parti della strada originale si sono preservate fino ad oggi ed alcune sono tuttora
usate per il traffico automobilistico. Lungo la parte di strada più vicina a Roma si possono
ammirare numerose tombe e catacombe romane delle prime comunità cristiane.
Negli anni '50 e '60 sul tratto urbano della Via Appia Antica si realizzano ville esclusive,
che diventano residenza dell'alta società romana.
ARCO DI DRUSO
L'arco di Druso è un fornice dell'acquedotto antoniniano, situato
proprio all'inizio dell'Appia antica, di fronte alla Porta San Sebastiano,
a Roma. In quanto parte dell'acquedotto acqua Antoniniana, l'arco di
Druso non è propriamente un arco di trionfo, sebbene per secoli sia
stato creduto tale, ed erroneamente identificato con un arco che
secondo alcune fonti sarebbe stato eretto sull'Appia antica in onore di
Druso maggiore nel 9 a.C.
Per la sua collocazione all'ingresso della regina viarum l'arco fu poi
successivamente abbellito e decorato; quel che rimane oggi sono due
colonne poste su alto plinto che inquadrano la facciata rivolta verso
l'esterno della città, e parte del timpano triangolare. Agli inizi del V
secolo, sotto l'imperatore Onorio, l'arco fu unito a Porta San
Sebastiano, a scopo difensivo, per mezzo di due muraglioni di cui non
è rimasto nulla.
VIA FLAMINIA
La Via Flaminia è una via consolare romana che collega Roma a Rimini.
Attorno all'anno 220 a.C. il console Gaio Flaminio Nepote diede inizio alla costruzione di una
via consolare che collegasse Roma con l'Italia settentrionale, unificando e risistemando vari
tratti preesistenti nei territori di Veio, Capena e Falerii.
PORTA DEL POPOLO
Il nome originario era Porta Flaminia perché da qui usciva, ed esce tuttora, la via
consolare Flaminia che anticamente aveva inizio molto più a sud, dalla Porta
Fontinalis, nei pressi dell’Altare della Patria.
Data l’importanza rivestita dalla via Flaminia, fin dai primi tempi della sua esistenza
ebbe il ruolo prevalente di smistamento del traffico cittadino piuttosto che un utilizzo
difensivo. All’epoca di papa Sisto IV la porta si presentava seminterrata e vittima di
una secolare incuria, danneggiata dal tempo e dalle violenze di assedi medievali; il
superficiale restauro si limitò ad un parziale puntellamento e rafforzamento della
struttura.
La porta si trova ancora oggi un metro e mezzo circa al di sopra del livello antico. I
detriti trasportati dal fiume nelle sue saltuarie inondazioni ed il lento e costante
sfaldamento della collina del Pincio avevano rialzato il terreno circostante, rendendo
non più procrastinabile la sopraelevazione dell’intera porta, necessità che già era
stata avvertita al tempo della ristrutturazione operata all’inizio del V secolo
dall’imperatore Onorio.
Nei pressi della porta venne rinvenuta una delle “PIETRE DAZIARE ”, sistemate nel
175 e scoperte in tempi differenti nelle vicinanze di alcune porte importanti (ne sono
state trovate solo altre due, vicino alla Salaria ed all’Asinaria; erano poste ad
individuare una sorta di confine amministrativo, dove si trovavano gli “uffici di
dogana”.
VIA FLAVIA
La Via Flavia, antica
strada romana della
provincia Venetia et
Histria, fu costruita
dall'imperatore
Vespasiano nel 78-79.
La strada partiva da
Tergeste e,
costeggiando il litorale
istriano, passava per
Pola e Fiume; giungeva
infine in Dalmazia, ma
si è supposto che
dovesse
originariamente
prolungarsi sino alla
Grecia.
Era una delle vie più
importanti fra quelle che
non partivano
direttamente da Roma.
VIA SALARIA
Il suo nome, a differenza di tutte le altre
consolari che sono denominate per l'artefice
della loro costruzione, deriva direttamente
dall'essenziale utilizzo che se ne faceva:
parliamo del trasporto del sale dal Campus
salinarum a Fiumicino e Maccarese. Gli antichi
Sabini inizialmente si procuravano il sale,
anche per l'alimentazione delle abbondanti
greggi, dai luoghi di produzione del mare
Adriatico. La via Salaria era destinata a
trasportare il sale dal guado del Tevere alla
Sabina, mentre la via Campana dalla foce
raggiungeva, costeggiando la riva destra del
fiume, lo strategico guado in città nei pressi
dell'isola Tiberina e del Foro Boario. Una Via
era di fatto il prolungamento dell'altra,
costituendone un sistema di collegamento
viario assolutamente strategico ed unitario.
Questo sistema viario era presente ancor prima
della fondazione di Roma dell'VIII secolo a.C.
C'è tuttavia chi sostiene che il nome significa "la
strada che congiunge i due mari".
PORTA SALARIA
La Porta Salaria consentiva alla via Salaria il passaggio attraverso le Mura
aureliane. Fu demolita nel 1921 per migliorare la viabilità di Roma, con la creazione
di piazza Fiume.
VIA AURELIA
La via Aurelia è un'antica via
consolare iniziata alla metà
del III secolo a.C. dal
console Gaio Aurelio Cotta
per collegare Roma a
Cerveteri, poi prolungata fino
a collegare le nuove colonie
militari di Cosa e Pyrgi
fondate proprio nel corso del
III secolo a.C. sul litorale
tirrenico, in seguito alla
definitiva sottomissione
dell'Etruria.
L'Aurelia collega oggi Roma
alla Francia costeggiando il
Mar Tirreno ed il Mar Ligure.
Questo tracciato, poi detto
via Aurelia Vetus (ancora
oggi via Aurelia antica)
partiva da Porta San
Pancrazio, prima del VI
secolo nota come Porta
Aurelia.
PORTA SAN PANCRAZIO
La porta San Pancrazio è una delle
porte meridionali che si aprivano nelle
Mura aureliane di Roma. Si trova nei
pressi della sommità del colle del
Gianicolo, e la sua prima edificazione
potrebbe risalire già verso la fine della
Repubblica, quando un modesto
nucleo abitativo ‘’trans-tiberino’’ venne
racchiuso in una piccola cinta muraria.
In seguito costituì il vertice occidentale
di quella sorta di triangolo che la cinta,
edificata nel 270 dall’imperatore
Aureliano, compiva arrampicandosi sul
colle. Il suo nome originario era infatti
Porta Aurelia, sebbene sia attestata
anche la denominazione di
“Gianicolense” o “Aureliana”, dal nome
del console ideatore e realizzatore
dell'arteria. Il nome attuale deriva da
Pancrazio, martire cristiano.
TUTTE LE STRADE PORTANO A ROMA
Tutte le strade portano a Roma è un proverbio della cultura popolare italiana.
Il proverbio trae origine dall'efficiente sistema di strade dell'antica Roma, su cui in
buona parte si basa l'attuale sistema viario italiano. Molte strade consolari partivano
da Roma e quindi, se prese in senso contrario, "portavano a Roma". Le attuali
strade statali contrassegnate con i numeri da 1 a 7 sono tutte strade consolari
romane, Aurelia, Cassia, Flaminia, Salaria, Tiburtina, Casilina, Appia.
Tutte le strade portano a Roma significa che c’è sempre un percorso, anche se lungo
e tortuoso, che può portarci a raggiungere ciò che desideriamo. Alcuni credono che
questo detto possa essere nato nel Medioevo, quando i pellegrini si recavano a
Roma a piedi dai più lontani paesi (per esempio quando veniva indetto l’Anno
Santo), oppure in tempi anche più antichi, quando molti, magari per interessi
commerciali, si recavano nella capitale dell’Impero. E’ vero invece che il proverbio è
nato dal fatto che le strade consolari hanno tutte origini dal centro di Roma.
LE STRADE ROMANE ATTORNO A NOI
Prendendo in considerazione il nostro territorio, abbiamo scoperto che sono
presenti molte vie di origine romana. Le più importanti che attraversano il Casentino
e la città di Arezzo sono:
1-La “ Cassia Vetus” che ha origine da Porta San Lorentino, continuando per Via
Fiorentina e arrivando nelle vicinanze dell'attuale Borro
2-La “Via di Rimini” che collega la Porta di S. Angelo a Rimini. Si crede sia
per esigenze militari nel III secolo a.C.
nata
3-La “Via di Porta San Clemente e di Petrognano” che partiva appunto da Porta San
Clemente, scendeva verso l'Arno, per finire a Petrognano.
4-La “ Via della Catona” usciva dalla porta aquilonare della città, proseguiva per le
pianure a settentrione della città, attraversando la pianura di Marcena, procedendo
verso il Casentino e raggiungendo Subbiano.
LA FAMIGLIA
LA FAMIGLIA
Il termine italiano “famiglia”, inteso come istituzione
sociale include due concetti romani:
-la familia, l’insieme di persone rette dal pater
familias, cittadino romano sui iuris, ovvero non
sottoposto a nessun altro pater
-la gens, che era costituita da coloro che avevano lo
stesso nome gentilizio (ovvero che concerne la stirpe)
appartenente a un capostipite realmente esistito o ad
un antenato e trasmessosi di generazione in
generazione fino agli ultimi discendenti.
La familia era il nucleo originario e l’asse
portante della società romana. Essa era
l’insieme di beni e delle persone soggette alla
patria potestas del pater familias, ovvero il
potere genericamente illimitato che egli
esercitava sui membri della propria famiglia.
All’origine di questa vi era l’unione tra l’uomo
e la donna.
La famiglia era un ordinamento patriarcale
non privato, bensì pubblico poiché sposarsi e
generare una discendenza erano un obbligo e
una necessità sociale.
I RUOLI
-pater familias: il marito, possedeva tutti i poteri sui beni e sulle persone della
famiglia. Solo lui poteva comprare e vendere e si occupava in prima
persona dell’educazione dei figli, che erano sottomessi al padre. Se veniva
tradito dalla moglie, egli poteva ucciderla senza dover subire un processo.
-mater familias: la donna in grado di dare al marito dei figli legittimi.
Diventata madre veniva chiamata domina. Dirigeva il lavoro degli schiavi
all’interno della casa, il suo compito principale era quello di tessere la lana
e confezionare abiti per i membri della famiglia.
-clienti: persone ai margini della società che si mettevano al servizio dei
patrizi in maniera gratuita, sostenendoli in battaglie, assemblee e
lavorando nelle loro terre.
-divinità domestiche: i Lari, erano le anime buone dei defunti che
proteggevano la casa e in particolare il focolare domestico; i Mani, le
anime dei defunti; i Penati, protettori di ogni famiglia ai quali era riservato
un altare in tutte le case.
PATRIA POTESTAS
Il pater familias era detentore della patria potestas per la quale
aveva potere indiscusso sui figli e su ulteriori discendenti maschi,
sulle donne nate in famiglia o entratevi per adozione, sugli schiavi e
su tutto il patrimonio da lui amministato. Questo potere era
previsto dalle antiche leggi sacre e dalla legge delle 12 tavole che in
particolare esprimeva i seguenti poteri:
- lo ius exponendi, che conferiva al padre la facoltà di abbondonare il
figlio neonato il luogo pubblico;
- lo ius vendendi, il diritto di vendere i membri della propria famiglia;
- lo ius noxae dandi, che concedeva al padre di consegnare il figlio o
lo schiavo colpevole di un illecito verso un terzo per liberarsi della
responsabilità o come garanzie per il pagamento di un debito.
- la vitae necisque potestas, il diritto di vita o di morte.
IUS VITAE NECISQUE
Lo ius vitae necisque era un potere della patria potestas
conferito al pater familias con il quale egli godeva del diritto di
vita o di morte su tutti coloro che erano soggetti al suo
potere. A questa facoltà furono poste delle restrizioni col
tempo sempre più importanti affinché una decisione così
nefasta del pater venisse limitata. Così per mandare a morte
un suo sottoposto il pater doveva prima consultare il
consilium domesticum, composto dagli adgnati più autorevoli,
i quali valutavano l’opportunità della decisione estrema di
uccidere una persona. Nel diritto romano vi era una stretta
connessione tra le leggi e le etiche morali, che riflettevano sul
genere umano rapportandosi ai principi di bonitas,
iustitia,onesta,clementia,humanitas. Grazie a ciò e al fatto che
l’autorità pubblica andò sostituendosi a quella privata, sul
finire del periodo classico fu abrogato lo ius vitae necisque.
IL MATRIMONIO
Fidanzamento: chi desiderava prendere
moglie chiedeva a chi aveva la tutela della
donna una formale promessa ed a sua volta
prometteva. Questa contrattazione si
chiamava sponsalia, ovvero fidanzamento.
Il termine nuptiae indicava le cerimonie
celebrative, mentre il termine matrimonium
suggerisce uno status, una causa, uno scopo.
LA GENS
La gens era l’insieme di più famiglie i cui
appartenenti si distinguevano per il comune
nome gentilizio. Questa parentela non aveva
gradi per il fatto che il capostipite era molto
remoto. Nella gens il nome è indicatore
esterno di appartenza al gruppo, dove vige
l’uguaglianza dei membri e un profondo
spirito di solidarietà. Inoltre esisteva lo
sfruttamento comune delle terre e la
sepoltura comune che sottolineava il senso di
appartenenza.
LA SCHIAVITÙ
La servitù è il tipico sistema produttivo del
mondo antico. Questa nasce con lo stabilirsi del
patriarcato, cioè la proprietà maschile legata
all’allevamento, per l’accudimento del bestiame e
per l’innescato meccanismo dell’accumulazione,
dove l’individuo contende al gruppo la terra che
prima era in comunità. Così si dissolvono gli
ordinamenti comunitari e nasce lo sfruttamento
dell’uomo sull’uomo, la guerra e la schiavitù. Gli
schiavi sono sottomessi al pater familias che ha
su di loro lo stesso potere che aveva su moglie e
figli. Sarà Augusto a mitigare in parte questo
potere.
DIRITTO DI FAMIGLIA
La famiglia romana si basava sulla soggezione al pater familias, che
esercitava la sua potestas sui sottoposti, che fossero essi o no
parenti di sangue.
La parentela civile era chiamata adgnatio e aveva effetti giuridici ai
fini della successione e della tutela. L’insieme degli adgnati dopo la
morte del comune pater familias costituiva la familia communi iure.
Succedeva però che i coeredi, dopo la morte del pater,
continuassero a conservare indiviso il patrimonio ereditario, pur
risultandone ognuno titolare. Gli eredi avevano la possibilità di
rimanere nella classe censitaria del defunto grazie al consortium
ercto non cito, una forma di comunione, sorta per motivi di ordine
economico e politico che si estinse sul finire della repubblica.
La parentela naturale era invece rappresentata dalla cognatio,
vincolo di sangue che nel diritto arcaico significava solo come
impedimento matrimoniale, o per scopi di culto.
I FRATELLI
La patria potestas, fra le sue facoltà, riguardava anche il
potere del fratello sulla sorella e del fratello maggiore su
quello minore. Ad esempio Cicerone, fratello dell’oratore
e validissimo legato di Cesare in Gallia, non partecipò alle
guerre civili perché suo fratello Pompeiano gli aveva
vietato di combattere per Cesare.
Orazia invece che piangeva la morte del fidanzato Albano,
venne uccisa dal fratello che fu giudicato ma discolpato
dal padre. Uccidere una sorella non era dunque di per sé
condannabile.
ADOZIONE
L’adozione era il titolo giuridico con il quale un estraneo
entrava a far parte della familia. Secondo la giurisprudenza del
2° e del 3° secolo d.C. l’adoptio comprendeva l’adrogatio e
l’adozione in senso stretto.
- L’adrogatio, che si compiva solo tra persone sui iuris di fronte
ai comizi curiati presieduti dal pontefice massimo, faceva
sorgere un rapporto di filiazione legittima ed estingueva il
gruppo familiare dell’arrogato.
-L’adoptio in senso stretto era legato all’istituto
dell’emancipazione in quanto si doveva estinguere la
patria potestas del pater che voleva far adottare il figlio.
L’adottato perdeva ogni rapporto di agnazione o gentilità
con la famiglia di origine per entrare a pieno titolo a far
parte della famiglia dell’adottante.
L’adoptio creava un vincolo di discendenza fittizzia fra
adottato e adottante, metteva alla pari sotto ogni aspetto gli
adottati ai discendenti naturali dell’adottante, dal che si
deduce che questo istituto servisse a procurare dei
discendenti al pater familias per garantire la continuità del
nome, della sacra familiarità e del patrimonio.
L’adozione però poteva anche essere utilizzata a scopi politici
fra le famiglie appartenenti alla nobiltà per perpetuare il loro
monopolio politico. Attraverso l’adoptio, durante i primi secoli
del principato, il princeps designava il suo successore.
Giustiniano modificò l’adozione trasformandola in atto
privato, stabilendo che non si estinguessero i legami con la
famiglia d’origine per evitare all’adottato il rischio che egli
potesse essere respinto dalla successione nell’una e nell’altra
famiglia qualora fosse emancipato dal padre adottivo.
TUTORE DATIVO
Quando si creò la figura del tutore dativo, verso la fine del
3° secolo d.C., muto la concezione della tutela impuberum,
cioè riferita all’adottato, non più come potere che spettava
al tutore che l’esercitava nel suo interesse o in quello della
famiglia agnatizia ma come funzione protettiva nei
confronti dell’impubere. Ma l’antico carattere potestativo
non scomparve neanche quando la tutela divenne sempre
più un ufficio.
Con il termine curatio si intendeva il rimedio ad incapacità
accidentali o all’assenza della curatela testamentaria. Un
elemento che accumunava le diverse curationes era quello
di salvaguardare, da un punto di vista patrimoniale, gli
interessi di particolari categorie di persone, ritenute
incapaci o limitatamente capaci di agire, con i poteri di una
vera e propria gestione patrimoniale o limitati ad una
funzione di sorveglianza più o meno intensa.
DIFFERENZE TRA GENS E FAMILIA
Il termine familia, dalle accezioni patrimoniali, solo più tardi indicherà un
organismo familiare, poiché in origine esistevano diversi gruppi familiari,
qui distinti secondo l’elenco di Ulpiano:
-la familia proprio iure;
-la familia communi iure, la gens;
-il consortium ercto non cito.
Differenze fra gens e familia:
-la familia ha un capostipite reale, mentre quello dei gentiles è mitico;
-la parentela familiare è, a differenza di quella gentilizia, per gradi;
-il carattere della familia è potestativo, mentre quello della gens è
comunitario e solidaristico;
-il culto familiare riguarda gli antenati, mentre quello gentilizio celebra le
divinità dell’olimpo;
-nel sistema onomastico romano il nomen gentilicium affiancato al
prenomen caratterizza la gens, mentre la familia è identificata dal
cognomen che è ereditario e rappresenta l’elemento più tardo del nome.
Dunque la familia a base patriarcale si afferma all’interno e contro
l’ordinamento comunitario della gens.
ONOMASTICA ROMANA
L'onomastica romana è lo studio dei nomi propri di persona,
delle loro origini e dei processi di denominazione nella Roma
antica. L'onomastica latina prevedeva che i nomi maschili
tipici contenessero tre nomi propri (tria nomina) che erano
indicati come praenomen (il nome proprio come intendiamo
oggi), nomen (equivalente al nostro cognome che individuava
la gens, ovvero era il cosiddetto “gentilizio") e cognomen (che
indicava la famiglia in senso nucleare, all'interno
della gens).Talvolta si aggiungeva un "secondo cognomen",
chiamato agnomen. Un uomo che veniva adottato, mostrava
nel nome anche quello di adozione. Per i nomi femminili,
c'erano poche differenze, anche se queste non usavano di
norma il praenomen proprio, ma quello del marito o del
padre.
I TRIA NOMINA
Praenomen: il primo elemento era il nome personale, quello attribuito ai bambini alla nascita,
e con il quale si presuppone che venissero chiamati in famiglia. Negli scritti, peraltro, il
prenome era generalmente ridotto all'iniziale, poiché i prenomi romani si erano ben presto
ridotti ad un numero alquanto limitato: Marcus, Gaius, Titus, Publius, Lucius. Questa forma di
nome "proprio", eccetto che per le relazioni familiari e confidenziali, era abbastanza poco
importante, ed era raramente usata da sola.
Nomen: il secondo nome era quello della gens, ovvero il clan di appartenenza, la "famiglia
allargata". Le gentes romane iniziali erano abbastanza poche, e pochissime quelle dotate di
una certa rinomanza, tale da dare loro la possibilità di consegnare ai posteri la fama di alcuni
dei loro componenti. Tra di esse sicuramente la gens Iulia, la gens Cornelia, la gens Claudia,
la gens Cassia, la gens Sempronia, la gens Domitia, la gens Valeria, la gens Fabia.
Cognomen: l'ultimo elemento era in origine un soprannome, che le persone non avevano
ovviamente dalla nascita, legato com'è naturale ad una loro caratteristica personale o ad un
evento che li aveva visti protagonisti. Il cognomen, comparve all'inizio come soprannome o
nome personale che distingueva un individuo all'interno della gens; spesso
il cognomen risultava quindi il solo vero elemento personale del nome, tanto da diventare
per noi posteri il nome con cui il personaggio è conosciuto. Plutarco ne spiega l'origine
quando racconta di come a Gneo Marcio fu attribuito il cognome di Coriolano, in seguito alle
sue gesta eroiche che contribuirono grandemente alla presa di Corioli.
ARTE ROMANA
ARTE ARCAICA
L'arte romana arcaica è la produzione artistica nel territorio controllato da
Roma che va, grossomodo, dagli insediamenti preistorici alla fine dell'età
regia (tradizionalmente il 509 a.C.). Nell'età protostorica e regia non si può
ancora parlare di arte "romana" (cioè con caratteristiche proprie), ma solo
di produzione artistica "a Roma", dalle caratteristiche italiche, con notevoli
influssi etruschi e campani. Roma non sviluppò dall'inizio della sua storia
una cultura artistica propria, a differenza di grandi centri culturali
dell'antichità come Atene o Corinto. La stessa città-stato di Roma era
composta da più clan organizzati in tribù e non aveva inizialmente
un'identità che la differenziasse dalle altre città latine.
PROTOSTORIA ROMANA
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Degli insediamenti primitivi restano le basi di alcune capanne sul Palatino, la
cui forma doveva essere simile a quella delle urne cinerarie a capanna trovate
a Tarquinia; risalgono all'VIII secolo a.C., compatibilmente con la tradizionale
data di fondazione della città. Le tombe preistoriche e protostoriche scavate
nell'area del Foro e dell'Esquilino hanno messo in luce reperti nel solco della
tradizione italica, riconducibili a quattro fasi:
una fase arcaicissima "protolaziale" o "subappenninica", I millennio a.C., con
pozzi a incinerazione con vasi globulari, ad esempio tomba 1 dell'Arco di
Augusto;
una prima fase "laziale", con tombe a dolio e a pozzo con vasi dalle
decorazioni geometriche e urne cinerarie a capanna, seconda metà del Xprima metà del IX secolo a.C., ad esempio la tomba Y della necropoli del
tempio di Antonino Pio e Faustina;
una seconda fase "romana", con tombe a fossa e vasi dalla carena più
schiacciata, come nella tomba P della necropoli del tempio di Antonino Pio e
Faustina, IX-inizio VIII secolo a.C.
una terza fase, con vasi dalle forme più complesse, con manico allungato e
decorazioni che raffiguravano la natura, metà dell'VIII e la metà del VII secolo
a.C., ad esempio nella tomba 99 della necropoli dell'Esquilino.
ARCHITETTURA
Presso l'emporio vicino all'attraversamento del fiume, il Foro Boario, è stato
scavato un tempio arcaico, nell'area di Sant'Omobono, risalente alla fine del VIImetà del VI secolo a.C., con resti di età appenninica che documentano una
continuità di insediamento per tutta l'epoca regia.
Sotto Tarquinio Prisco viene edificato sul Campidoglio il tempio dedicato alla triade
capitolina, Giove, Giunone e Minerva, nella data tradizionale del 509 a.C., la stessa
in cui viene collocata la cacciata del re e l'inizio delle liste dei magistrati. La data di
fondazione del tempio poteva anche essere stata verificata dagli storici romani
successivi grazie ai clavi: i chiodi annuali infissi nella parete interna del tempio. I
resti del podio del tempio sono ancora parzialmente visibili sotto il Palazzo dei
Conservatori e nei sotterranei dei Musei Capitolini. Le sculture in terracotta, altra
caratteristica dell'arte etrusca, che lo adornavano sono andate perdute, ma non
dovevano essere molto diverse dalla scultura etrusca più famosa della stessa
epoca, l'Apollo di Veio dello scultore Vulca, anch'essa parte di una decorazione
templare (il Santuario di Portonaccio a Veio). Anche la tipologia architettonica del
tempio sul Campidoglio è di tipo etrusco: un alto podio con doppio colonnato sul
davanti sul quale si aprono tre celle.
Tra le opere più imponenti della Roma arcaica ci furono la Cloaca Maxima, che
permise l'insediamento nella valle del Foro, e le Mura serviane, delle quali restano
vari tratti.
ALTRE ARTI FIGURATIVE
• Tra l'VIII e il IV secolo a.C., tutta la produzione artistica romana è
inequivocabilmente proveniente da officine etrusche o campane, con
importazioni dalla Grecia di gran lunga meno consistenti (per qualità e
quantità) che nell'Etruria contemporanea, segno di una minore ricchezza.
Tra la metà del VII e l'inizio del VI secolo dovevano esistere in ambito
laziale officine dove erano prodotto oggetti di forme etrusche da genti di
lingua latina, come sembrerebbe provare la famosa fibula prenestina. Le
fonti riportano anche contatti con la Grecia, per esempio nel caso della
statua lignea della divinità del tempio di Diana sull'Aventino, proveniente
dalla colonia di Marsiglia.
• Bisogna attendere il periodo tra la fine del IV e l'inizio del III secolo a.C. per
trovare un'opera prodotta sicuramente a Roma: è la nota Cista Ficoroni,
contenitore in bronzo decorato col mito degli Argonauti (dall'iscrizione
"Novios Palutios med Romai fecit", "Novio Plautio mi fece a Roma"). Ma la
tipologia del contenitore è prenestina, l'artefice di origine Tosco-campana
(a giudicare dal nome), la decorazione a bulino di matrice greca classica,
con parti a rilievo inquadrabili pienamente nella produzione medio-italica.
• Non è più invece considerata opera arcaica il simbolo di Roma, la Lupa
Capitolina, già attribuita ad artisti etruschi del V secolo, le cui analisi
chimiche hanno svelato una sorprendente datazione altomedievale.
ARTE REPUBBLICANA
L'arte romana repubblicana è una produzione
artistica che si svole sei territori sotto il controllo
di Roma durante il periodo della Repubblica (
509-27 a.C. circa).
Nel periodo repubblicano si possono distinguere
tre momenti artistici:
• -continuazione della cultura arcaica
• -conquista della Grecia
• -età sillana
CONTINUAZIONE DELL’ARTE ARCAICA
• ARTE NEL SOLCO ARCAICO
• Il 509 a.C. segna la cacciata dei re etruschi e l'inizio delle liste dei
magistrati. La produzione artistica restò per lungo tempo
influenzata dai modi etruschi e da quelli delle città greche della
Campania:fino al 390 a.C. Roma fu una semplice città dell'Italia
centrale,avvantaggiata da una posizione che favoriva il transito
commerciale.Dal 390 al 265 a.C. l'attività religiosa a Roma era
intensa.Ciascuno aveva le sue statue di culto,la maggior parte erano
in bronzo e decoravano la città (tutte scomparse).Alcuni riferimenti
sulle monete e sui reperti di Tarquinia,Perugia,Volterra e Chiusi
permettono di ipotizzare gli aspetti di queste statue,legati
all'ellenismo provinciale italico. Ne viene fuori un'arte popolaresca
volta solo ai fini pratici di narrazione o decorazione. Un esempio
unico di scultura di produzione dell'artigianato è la testa di Giunio
Bruto,opera realizzata tra il 300 e il 275 a.C.
CONQUISTA DELLA GRECIA
Nel 212 in seguito alla presa di Siracusa,Marcello riportò in città
tantissime opere d'arte greche,le quali seganrono una svolta nella
cultura e nell'arte romana.
Dopo Siracusa le occasioni di importare arte greca furono continuee
frequenti: vittoria contro Filippo V di Macedonia (194),guerra
contro Antioco (198),la presa di Corinto(146) la quale segnò l'arrivo
a Roma di archittetti quali Hermodoro di Salamina e scultore della
famiglia Polykles.
I primi edifici in marmo bianco a Roma furono due piccole
costruzioni: il tempio di Giove Statore e il tempio di Giunone
Regina,opera di Hermodoro di Salamina.Un artista italico costruì nel
136 a.C. un tempio in Campo Marzio che conteneva una statua di
Marte colossale e una di Afrodite,attribuite a Skopas minore. Tra i
resti meglio conservati di quella stagione c'è il tempio di Ercole
Vincitore a Roma.
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MERCATO DELLE COPIE
In un secondo momento,dopo la formazione di una categoria di collezionisti
appassionati, gli original greci non furono più sufficientia esaurire la domanda
degli interessati perciò si avviò un commercio di copie in massa,di statue e
quadri,alle quali vanno aggiunte le opere ispirate a modelli dell'età classica,uscite
soprattutto dalle officine neoattiche di Atene
ECLETTISMO
L'afflusso di opere d'arte di stili differenti fu alla base del carattere DAdiversi in
una stessa opera. Ad esempio,l'ara di Domizio Enobarbo,uno dei più antichi
bassorilievi di arte romana. In esso troviamo la raffigurazione di un thiasos di
divinità marine in stile ellenistico e quella di una processione sacra in stile
realistico. (Eclittica fu anche l'Ara Pacis).
PITTURA TRIONFALE
Dal III secolo a.C. si ha la documentazione di pitture ''trionfali'',dipinti portati nei
cortei dei trionfi con le narrazioni di eventi della campagna militare vittoriosa o
l'aspetto delle città conquistate. La pittura trionfale ebbe sicuramente influenza nel
rilievo storico romano.
ETÀ SILLANA E CESARIANA
Dal 130 a.C. alla dittatura di Silla 82 a.C. Roma consolidò le
conquiste nel mondo mediterraneo,attraversando un periodo buio
di rivoluzione e guerra civile tra plebe e oligarchia che infine fece
prevalere i cittadini più ricchi creando uno Stato con un
organizzazione burocratica e una propria ideologia politica e
militare. In questi anni si vede la nascita di cultura artistica romana
che influenzò la storia culturale,economica e sociale dell'Occidente.
Dopo l'immane afflusso di arte straniera a Roma fu necessario un
erto lasso di tempo per assimilare e iniziare a comprendere queste
eredità artistiche. quando il contatto con l'arte diventò una cosa
norma e consueta iniziò a svilupparsi una nuova civiltà
artistica''romana'' dai caratteri propri. La maggior parte dell'arte
''romana'' venne fabbricata da artisti ellenici,non romani ne italici,i
quali non avevano modo di viaggiare all'estero per arricchire le
proprie conoscenze.
ARCHITETTURA
Durante l'ellenismo si era arrivati a sollevare gli elementi architettonici dalla mera funzione
statica,permettendo un uso decorativo che dava grande libertà agli architetti. anche a Roma
venne ripresa questa libertà,applicando a forme che non esistevano nel mondo ellenistico
per funzione,tipo e tecnica muraria.
Al tempo di Ermodoro e delle guerre macedoniche erano sorti i primi dìedifici in marmo a
Roma,che no si distinguevano per grandiosità.Lucio Licinio Crasso era stato il primo a usare il
marmo anche nella decorazione della propria abitazione privata sul Palatino nel 100 a.C.
Dopo l'incendio dell'83 a.C. venne ricostruito in pietra il tempio di Giove Capitolino,con
colonne marmoree venute da Atene. Risale al 78 a.C. la costruzione del Tabularium,quinta
scenografica del Foro Romano che lo metteva in comunicazione con il Campidoglio e fungeva
da archivio statale;si usarono semicolonne addossate su pilastri dai quali partono gli archi. I
templi romani sillani sopravvissuti sono piuttosto modesti ,mentre più importanti si hanno in
quelle città che subirono meno trasformazioni ( Pompei,Terracina, Fondi,Tivoli,Cori e
Palestina).Particolarmente significativo èil santuario della Fortuna Primigenia a Palestina,dove
le strutture interne sono in opus incertum e le coperture a volta ricavate tramite gittate di
pietrisco e malta pozzolana:queste tecniche definivano le strutture portanti della grande
massa architettonica,mentre le facciate erano decorate da strutture archiviate in stile
ellenistico,che nascondeva il resto.
Al tempo di Cesare si ebbe la creazione del sontuoso Foro e tempio di Venere Genitrice,ma fu
solo grazie al restauro del tempio di Apollo che Roma ebbe per la prima volta un edificio di
culto all'altezza dell'eleganza ellenistica.
RITRATTO
L'altro importante traguardo raggiunto dall'arte romana a partire
dall'epoca di Silla è il cosiddetto ritratto.L'importanza di questa produzione
artistica è dovuta alla novità, rispetto ai precedenti ritratti ellenistici, del
cosiddetto "verismo", che esprime nella durezza del modellato tutta
quella serie di valori tradizionali romani che accomunavano la classe
patrizia romana.Il punto di partenza per tale innovazione artistica, che
ebbe la migliore fioritura nel decennio 80-70 a.C., fu senza dubbio il
ritratto ellenistico fisionomico, non tanto le opere etrusche perché esse
furono influenzate da quelle romane e non viceversa . Il diverso contesto
dei valori nella società romana portò divergere dai modelli alessandrini
con i volti ridotti a dure maschere, con una resa secca e minuziosa della
superficie, che non risparmia i segni del tempo e della vita dura.
Tra gli esempi piu significativi del ''verismo patrizio'' ci sono, il velato del
Vaticano,il ritratto di ignoto di Osimo e il busto dell'Albertinum di Dresda...
PITTURA
In questo periodo si colloca anche la costituzione di una tradizione
pittorica romana. Essa viene detta anche ''pompeiana'',perchè studiata nei
ritrovamenti di Pompei e delle altre città vesuviane sommerse
dall'eruzione del 79, anche se il centro della produzione artistica fu
sicuramente Roma. Mentre Plinio il Vecchio si lamentava della decadenza
della pittura (intendendo che la vera pittura di merito era quella su tavola,
non quella parietale), era già in vigore il "quarto stile", dall'esuberante
ricchezza decorativa.Era tipico per una casa signorile avere ogni angolo di
parete dipinta, da cui deriva una straordinaria ricchezza quantitativa di
decorazioni pittoriche.Si individuano quattro "stili" per la pittura romana,
anche se sarebbe più corretto parlare di schemi decorativi. Il primo stile
ebbe una documentata diffusione in tutta l'area ellenistica (incrostazioni
architettoniche dipinte) dal III-II secolo a.C. Il secondo stile (finte
architetture) non ha invece lasciato tracce fuori da Roma e le città
vesuviane, databile dal 120 a.C. per le proposte più antiche, fino agli
esempi più tardi del 50 a.C. circa. Questo è forse un'invenzione romana. Il
quarto stile, documentato a Pompei dal 60 d.C., è molto ricco, ma non
ripropone niente di nuovo che non fosse già stato sperimentato nel
passato. In seguito la pittura si inaridì gradualmente, con elementi sempre
più triti e con una tecnica sempre più sciatta.
MOSAICO
Le prime testimonianze di mosaico a tessere a Roma si datano attorno alla fine del
III secolo a.C.: anche nel mondo romano questa forma d'arte aveva intenti pratici,
per impermeabilizzare il pavimento di terra battuta e renderlo più resistente al
calpestìo. Successivamente, con l'espansione in Grecia e in Egitto e quindi con gli
scambi non solo commerciali, ma anche culturali, si sviluppò un interesse per la
ricerca estetica e la raffinatezza delle composizioni.Il mosaico parietale nacque alla
fine della Repubblica, verso il I secolo a.C., nelle cosiddette "grotte delle Muse",
costruzioni scavate nella roccia, interrate o artificiali, dove l'elemento principale
era una sorgente o una fontana: si rendeva perciò necessario un rivestimento
resistente all'umidità anche sulle pareti.Nel Gatto che ghermisce una pernice, dalla
Casa del Fauno a Pompei, vennero utilizzati smalti per arricchire la scala cromatica:
questo mosaico è uno dei cosiddetti xenia, "doni ospitali", ovvero piccoli quadri
rappresentanti frutta, verdura, pollame, cacciagione, che si usavano offrire gli
ospiti. Il grande Mosaico nilotico di Palestrina, I secolo a.C., nel santuario della
Fortuna Primigenia: è una descrizione accurata del corso del Nilo, con scene di
caccia, pesca, rituali e banchetti, dove è la luce, e non più la sola linea di contorno,
a definire le figure, con effetti luministici accentuati dal velo d'acqua che ricopriva
il mosaico.Già nel I secolo a.C. il mosaico era talmente diffuso che la qualità
impoveriva: era ormai presente in tutte le case, con soggetti comuni e poco curati.
Mancava l'inventiva dell'artista: sono opere di artigiani che si accontentano di
copiare grossolanamente temi conosciuti.
ARTE IMPERIALE
Dopo un lungo periodo di guerre di espansione e in seguito alla battaglia di Azio nel 31 a.C ha inizio il
lungo periodo dell’impero romano. Sotto all’impero di Augusto si ha l’inizio di un periodo di sviluppo
economico e culturale, oltre a quello politico e militare. Gli imperatori promuovono una diffusione di
tutte le arti ed è il momento delle opere più straordinarie e famose della civiltà romana. Il concetto di
decoro inteso come apparenza, potere, ricchezza e sapienza caratterizza questo periodo e alla fine
supera lo stile austero, tipico delle fasi iniziali della storia di Roma. L’esigenza di “decoro” e di
manifestazione del potere, in età imperiale porterà alla necessità di costruire opere monumentali e
celebrative. In generale scultura e pittura vengono affidate a schiavi e artisti appartenenti ai popoli
vinti perché considerate attività manuali e quindi indegne di un cittadino romano. L’architettura
invece è molto più considerata perché ha funzione di utilità pubblica. Per questo i romani curano
molto le architetture, sia nella monumentalità sia nella solidità, infatti molte strutture sono usate
tutt’oggi. Uno degli esempi più noti è il Ponte di Augusto e Tiberio a Rimini. L’importanza di Augusto è
anche legata all’impulso sociale, culturale ed artistico che questo imperatore darà a Roma, infatti
dietro alle opere d’arte si celava sempre un fine politico, sociale e pratico. Anche nei casi del miglior
artigianato di lusso la bellezza era connessa al concetto di sfarzo, inteso come autocelebrazione del
committente della propria potenza economica e sociale. Le sculture ufficiali, per quanto valide
esteticamente, avevano sempre scopi celebrativi, se non addirittura propagandistici, che in un certo
senso pesavano più dell’astratto interesse formale. Ciò non toglie che l’arte romana fosse comunque
un’arte “bella” e attenta alle qualità: la celebrazione imponeva scelte estetiche curate, che si
incanalavano nel solco dell’ellenismo di origini greche. Quasi tutti gli artisti che operano a Roma sono
greci, e i romani amanti dell’arte, commissionano opere originali o copie perfette dai maestri greci.
Soltanto quando Roma diventa la dominatrice universale, il percorso dell’arte subisce un significativo
cambiamento. Gli artisti assumono altri nuovi compiti e le loro tecniche e linguaggi vengono mutati
in modo significativo, soprattutto nel campo dell’architettura. Molte opere dell’ingegneria civile
romana sono arrivate ai nostri giorni ostentando ancora imponenza e maestosità.
ARCHITETTURA
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L’architettura dell’età imperiale è caratterizzata da una forte tendenza
classicista e tradizionalista che si interseca nel ricorso ai modelli greci e
nella ripresa di motivi italici ed etruschi. La continuità delle esperienze non
viene a mancare e si possono registrare risultati importanti sia nel campo
tecnico che formale. Per quanto riguarda il campo decorativo si ebbero
notevoli cambiamenti connessi all’introduzione del marmo. L’uso di questo
materiale richiese la presenza di artigiani e causò l’abbandono della
decorazione a stucco su pietre sagomate.
Tra il 40 e il 15 a.C Vitruvio Pollione scrive il De architectura dove affronta i
problemi tecnici e teorici dell’edilizia. Secondo Vitruvio l’architettura deve
avere tre qualità:
-venustas: la bellezza e l’armonia tra le parti
-utilitas: correttezza e funzionalità
-firmitas: robustezza, maestosità e solidità
Durante questo periodo sorgono molti archi di trionfo realizzati al solo
scopo di celebrare le vittorie, avevano dunque uno scopo propagandistico.
Durante questo periodo sorgono molti archi di trionfo realizzati al solo scopo di celebrare le
vittorie, avevano dunque uno scopo propagandistico.
Il più antico dei 17 archi voluti da Augusto si trova a Rimini e risale al 27 a.C. Nel Campo
Marzio Augusto fece costruire l’Ara Pacis, altare dedicato alla pax augustea. Ha la forma di un
recinto rettangolare in marmo aperto da due ingressi sui lati lunghi. All’interno vi è l’altare.
Le pareti esterne presentano due registri decorativi in basso rilievo separati da un meandro.
Negli stessi anni Augusto completò il Teatro Marcello, dedicato al nipote. Si tratta del più
antico teatro romano in pietra. I teatri romani, grazie all’uso dell’arco disposto in sequenza,
riuscivano a realizzare teatri completamente emersi dal terreno.
Con l’avvento della dinastia Flavia l’arte romana raggiunse una completa autonomia di
linguaggio. Nel 72 d.C Vespasiano dà inizio alla costruzione di un anfiteatro finanziato dalle
ingenti ricchezze arrivate dalla repressione degli Ebrei da parte del figlio Tito. Il Colosseo,
originariamente conosciuto come Anfiteatro Flavio è il più grande anfiteatro al mondo, è
situato nel centro della città di Roma. In grado di contenere un numero di spettatori stimato
tra i 50 000 e i 75 000, è il più importante anfiteatro romano, nonché il più imponente
monumento della Roma antica che sia giunto fino a noi. L’edificio forma un’ellisse di 527
metri di perimetro. La struttura esprime con chiarezza le concezioni architettoniche e
costruttive romane della prima età imperiale, basate sulla linea curva e avvolgente offerta
dalla pianta ellittica e sulla complessità dei sistemi costruttivi. Archi e volte sono concatenati
tra loro in un serrato rapporto strutturale.All’esterno la facciata è scandita da 80 arcate
sovrapposte su tre ordini e chiuse da una parete continua. Dentro all’anfiteatro si svolgevano
combattimenti tra gladiatori, venatories (combattimenti con animali feroci) e naumachìe
(battaglie navali). L’arco di Tito fu realizzato durante la dinastia flavia sulla via Sacra per
celebrare le vittorie di Tito e del padre Vespasiano nella guerra giudaica terminata con la
conquista della Palestina e la distruzione del tempio di Salomone. L’arco è sostenuto da due
grandi pilastri e chiuso in alto da un attico. Per la prima volta compare il capitello composito,
una fusione delle volute ioniche con le foglie corinzie.
Il Pantheon fu realizzato sotto Adriano. È un
tempio dedicato alle sette divinità planetarie.
La grandezza di questo monumento è data
soprattutto dallo spazio interno costituito da
un vano a pianta circolare coperto da
un’immensa cupola che dà l’impressione di
essere sospesi. La cupola è realizzata in
calcestruzzo. Un oculo zenitale, dal diametro
di 9 metri, costituisce l’unica fonte di luce.
All’interno della cupola sono presenti 5 anelli
concentrici di 28 cassettoni quadrangolari che
alleggeriscono la struttura e la rendono più
resistente attraverso la griglia di nervature che
vanno a formare.
I romani per la prima volta capiscono
l’importanza della luce che crea lo spazio
interno.
L'ultima fase dell'impero, a partire da
Diocleziano, Costantino fino alla caduta della
parte occidentale, è caratterizzata dalla
perdita delle certezze e dall'insinuarsi di una
sensibilità nuova. In architettura si
affermarono costruzioni per scopi difensivi,
come le mura aureliane o il Palazzo di
Diocleziano (293-305 circa) a Spalato,
provvisto di solide fortificazioni.
SCULTURA
Anche nelle arti figurative si ebbe una grande produzione artistica. Con l’avvento di Augusto la
scultura assume un ruolo sempre più politico perché deve dimostrare che l’imperatore governa non
per autorità di forza ma per autorità morale e razionale e la scultura è improntata ad un classicismo
finalizzato a costruire un’immagine solida e idealizzata dell’impero.
Si recuperala scultura greca del V secolo a.C nella rappresentazione delle divinità e dei personaggi
illustri romani, tra cui il ritratto di Augusto come pontefice massimo e la statua di Augusto di Prima
Porta che è la celebrazione dell’imperatore, divinizzato come Apollo. Augusto è raffigurato nelle
vesti di comandante dell’esercito nell’atto di esortare le truppe. Il ritratto è in parte veristico, come
da tradizione repubblicana, e dall’altra la superiorità morale del personaggio è amplificata
dall’impostazione policletea. La statua è alta 2,04 metri ed è realizzata in marmo bianco. È
attualmente conservata nei Musei Vaticani
La colonna Traiana è una colonna commemorativa realizzata a Roma nel 113 d.C. Aveva la funzione
di celebrare la conquista della Dacia ad opera dell’imperatore Traiano. La colonna è alta 30 metri e
ha un diametro di 3,80 metri, fu realizzata attraverso la sovrapposizione di 21 blocchi del marmo di
Carrara. Un fregio scolpito a bassorilievo ne percorre tutta la superficie laterale avvolgendosi a
spirale lungo tutta la sua altezza. La colonna è stata poggiata su un basamento che doveva ospitare
le ceneri dell’imperatore, è percorsa da una lunga scala a chiocciola al suo interno che conduce fino
in cima. I 220 metri del fregio rappresentano 154 scene animate di circa 2500 figure che illustrano
gli avvenimenti delle campagne di conquista della Dacia.
Dopo l’impero di Traiano sale al potere Adriano che mette termine alla politica espansionistica per
poter consolidare lo stato. Edificò a Tivoli la più estesa residenza mai costruita (circa di 300 ettari).
Fu interpretata come un luogo dove far rivivere i luoghi esotici dell’impero. La struttura appare un
ricco complesso di edifici.
Sotto Commodo si assistette a una svolta artistica, legata alla
scultura. Nelle opere ufficiali, dal punto di vista formale si ottenne
una dimensione spaziale pienamente compiuta, con figure ben
collocate nello spazio tra le quali sembra "circolare l'atmosfera"
(come negli otto rilievi riciclati poi nell'Arco di Costantino). Dal
punto di vista del contenuto si assiste alla comparsa di sfumature
simbolico-religiosi nella figura del sovrano e alla rappresentazione
di fatti irrazionali.
Durante la dinastia dei Severi si fa uso più frequente dello scalpello
che creando solchi più profondi si creano toni chiaroscuri.
Durante il III secolo i ritratti imperiali in quegli anni divennero
innaturali, con attenzione al dettaglio minuto piuttosto che
all'armonia dell'insieme, idealizzati, con sguardi laconici dai grandi
occhi. Non interessava più la rappresentazione della fisionomia, ma
ormai il volto imperiale doveva esprimere un concetto, quello della
santità del potere, inteso come emanazione divina.
PITTURA
Il terzo stile pompeiano, detto anche stile ornamentale,è uno dei 4 stili
della pittura romana. In esso viene completamente ribaltata la prospettiva
e la tridimensionalità caratteristiche dello stile precedente lasciando il
posto a strutture piatte con campiture monocrome, prevalentemente
scure. Le decorazioni della Casa della Farnesina e della Casa del
Criptoportico a Pompei ne sono un esempio.
Nel periodo di Augusto anche la toreutica e la glittica ebbero la migliore
fioritura, con un notevole livello sia tecnico che artistico. La prima è
un'arte analoga all'oreficeria, ma in genere ha per oggetto opere di
dimensioni maggiori dei gioielli (vasi, coppe, vassoi, armi, ecc.). I metalli
oggetto della toreutica sono l'oro, l'argento, il bronzo, l'ottone, il rame e
varie altre leghe.Nell'antica Grecia il termine veniva riferito a lavorazioni
che riguardavano la superficie degli oggetti, attraverso diversi strumenti
come il martello, il trapano, lo scalpello e il bulino, e che non si limitavano
ad oggetti metallici ma si estendevano alle pietre, al legno, all'avorio,
quelle che in seguito si è preso a designare come arti minori e che non
erano originariamente distinte dalla tecnica scultore. La glittica, invece, è
una tecnica molto antica mediante la quale vengono incise pietre dure e
gemme od altri materiali adatti. Sfruttando adeguatamente materiali
costituiti da strati di differente colore, questa tecnica consente di
realizzare sigilli, intagli o anche piccoli oggetti.
ARTE PROVINCIALE ROMANA
L’arte romana provinciale è la produzione artistica nelle province dell’impero romano.
Nelle province orientali, a partire dal I e II secolo d.C., si ha la propaganda politica
manifestata con edifici celebrativi e monumentali, come l’arco di Traiano nell’attuale
Algeria. In alcune provincie troviamo anche resti di prodotti scultorei legati all’arte
ufficiale imperiale (ritratti di imperatori). A Efeso, capitale delle province d’Asia, venne
costruito il monumento dedicato alle vittorie di Marco e Lucio Nero con schemi derivati
dal naturalismo greco su un tema tipicamente romano. Nel tempio di Adriano e Efeso le
decorazioni hanno effetti chiaro-scuro particolarmente accentuati. Mentre la biblioteca
di Celso mostra una bella articolazione architettonica che ha fatto parlare di “Barocco
microasiatico”. Altra prova dell’ esperienza artistica delle province orientali è la
produzione dei ritratti del Fayyum, maschere funerarie egizie composte da tavole lignee
decorate a mano con tempera a base di uovo, che rappresentavano i volti dei defunti e
si svilupparono dal I secolo a.C al III secolo d.C. Grazie alle particolari condizioni
atmosferiche sono arrivati fino a noi moltissimi reperti databili a partire dal 100-120 d.C
che dimostrano il resistere della ritrattistica ellenistica arrivata fino a quest’epoca. Le
province Occidentali romane non avevano conosciuto l’arte e la cultura greca e quindi si
basavano sulla tradizione dell’arte plebea, diffusa tra il ceto sociale medio italico.
A partire dal I secolo a.C compare l’uso delle proporzioni gerarchiche: cioè il
dimensionamento delle figure a seconda della loro importanza nella società.
altre caratteristiche tipiche sono la prospettiva o “volo d’uccello” cioè la visione
dall’alto e la composizione paratattica (cioè le figure semplicemente affiancate
senza interconnessione).
Altra tendenza è la semplificazione, creata per ottenere maggiore espressività,
soprattutto nei volti, con ritratti più incisivi e rudimentali.
In definitiva questa produzione asiatica aveva degli scopi diversi dal naturalismo
greco, dove era fondamentale l’aderenza all’aspetto naturale delle cose. . Le
province Occidentali romane non avevano conosciuto l’arte e la cultura greca e
quindi si basavano sulla tradizione dell’arte plebea, diffusa tra il ceto sociale medio
italico.
Nell’arte provinciale era fondamentale la chiarezza dell’immagine che si voleva
trasmettere.
AUGUSTO E DINASTIA GIULIO-CLAUDIA
Sotto Augusto e la dinastia Giulio-Claudia si
sviluppa l’arte nelle province d’occidente, come
nella Gallia Garbenensi. Oltre agli elementi più
imitativi dell’arte ufficiale, si riscontrano anche
due tendenze originale e principali:
1. La coincidenza delle figure scolpite in blocchi
con accentuazione delle mosse in
corrispondenza degli spigoli
2. La ricerca di una fresca serietà e gentilezza di
espressione del tutto estranea al freddo
accademismo ufficiale.
TRAIANO E ADRIANO
• Traiano fece costruire molte infrastrutture per le campagne
militari, come il grandioso ponte di Traiano sul Danubio.
Sotto di lui venne anche eretto un grande monumento, il
Tropaeum troiani, commemorativo ai caduti in guerra e
celebrativo della vittoria finale, presso la cittadina di . Esso
è circolare, secondo il modello funerario italico-romano,
dove le maestranze locali usarono modelli provenienti da
Roma.
• Adriano fece costruire qualche edificio in quasi tutte le città
da lui visitate nei suoi frequenti viaggi. Le opere più
rilevanti si trovano ad Atene dove venne completato
Alypeion e venne innalzata la biblioteca monumentale
lungo le mura cittadine. Fece, inoltre, costruire un arco, dal
disegno misti-lineo ispirato all’ellenismo.
ETÀ DEGLI ANTONINI
Durante l’età degli Antonini, le province imperiali
si dimostrarono porti molto fiorenti dal punto di
vista artistico e culturale, diventando anche centri
artistici molto importanti grazie all’esportazione
delle opere.
Alcune novità del successivo miglioramento
dell’arte romana nel età di Commodo, come le
tecniche compositive e spaziali, arrivarono nelle
province dell’impero romano un po’ di anni dopo.
SETTIMIO SEVERO
Settimio severo (originario di Leptis magna, in
Libia) una volta salito al potere, poté abbellire la
sua città natale. A Leptis magna erano attivi artisti
greco-orientali per dirigere le maestranze locali. Il
marmo, utilizzato per costruire i palazzi, veniva
preso dalle cave di marmo in Bitinio e venivano
decorate a mano. Nei rilievi architettonici si può
infine rintracciare, in questo periodo, l’origine di
intagliare in profondità i contorni, isolando i
singoli elementi, riducendone al tempo stesso il
rilievo plastico, come grandi pitture con zone
d’ombra create in negativo dai solchi.
ETÀ TARDOANTICA
Nell’età tardo-antica l’arte mostrata nell’epoca
di Settimio Severo diventa predominante; nei
ritratti imperiali si assiste a rappresentazioni
innaturali, con molta attenzione sui minimi
dettagli piuttosto che sull’armonia
dell’insieme. Non era più importante la
rappresentazione della fisionomia, ma ormai il
volto imperiale doveva esprimere un concetto:
quello della santità cristiana e del potere,
inteso come emozione divina.
DIFFERENZE TRA ARTE
ROMANA E ARTE ETRUSCA
ARTE ROMANA
Per arte romana si intende l'arte della civiltà di
Roma dalla fondazione alla caduta dell'impero
d'Occidente, sia nelle città che nel resto d'Italia.
Con il contatto con la civiltà greca Roma avrà un
atteggiamento ambivalente nei confronti della
superiori arte greca: progressivamente ne
apprezzerà le forme, mentre proverà disprezzo
per gli autori, artisti greci socialmente inferiori
nei confronti dei conquistatori romani. Con il
passare dei secoli l'arte greca avrà sempre
maggiore apprezzamento.
RITRATTO
A partire dall'epoca di Silla un importante
traguardo nell'arte romana è il cosiddetto ritratto
“veristico”. Il diverso contesto dei valori nella
società romana portò però divergere dai modelli
ellenistici con i volti ridotti a dure maschere, con
una resa secca e minuziosa della superficie, che
non risparmia i segni del tempo e della vita dura.
Nonostante la rilevanza solo in ambito urbano e
la breve durata temporale, il ritratto romano
repubblicano ebbe un riflesso e seguito notevole
nel tempo, soprattutto nei monumenti funerari
delle classi inferiori al patriziato.
PITTURA
La pittura romana viene detta anche “pompeiana” perché studiata
nei ritrovamenti di Pompei, anche se il centro della produzione
artistica fu sicuramente a Roma. Era tipico per una casa signorile
avere ogni angolo di parete dipinta, da cui deriva una straordinaria
ricchezza quantitativa di decorazioni pittoriche. Si individuano
quattro stili per la pittura romana.
Il primo stile, incrostazioni architettoniche dipinte, ebbe una larga
diffusione in tutta l'area ellenistica dal III al II secolo a.C. Il secondo,
finte architetture, non ha lasciato tracce fuori da Roma e le città
vesuviane. Il terzo stile, ornamentale, si sovrappose al secondo stile
ed arrivò alla metà del I secolo. Il quarto stile, illusionismo
prospettico, documentato a Pompei dal 60 d.C., è molto ricco, ma
non ripropone niente di nuovo che non fosse già stato sperimentato
nel passato.
ARCHITETTURA
Con il principato di Augusto ebbe inizio una radicale
trasformazione urbanistica a Roma in senso
monumentale. Nel periodo da Augusto ai Flavi si nota
un irrobustirsi di tutti gli edifici privi dell'influenza del
tempio greco: archi trionfali, terme, anfiteatri ecc.
Nell'arco partico del Foro Romano (20 a.C. circa)
nacque una forma ancora embrionale dell'arco a tre
fornici. Risalgono a questo periodo i più spettacolari
edifici per spettacoli: il teatro di Marcello, l'anfiteatro
di Pola, l'Arena di Verona, il teatro di Orange e poco
dopo il Colosseo (inaugurato da Tito nell'80 e poi
completato da Domiziano).
Sotto Traiano l'impero conobbe il suo apogeo, e anche l'arte riuscì, per la
prima volta a staccarsi dall'influenza ellenistica, portando un proprio,
nuovo prodotto artistico ai livelli dell'arte antica: i rilievi della Colonna
Traiana. Vi sono molte innovazioni stilistiche, ma è straordinario come
anche il contenuto, per la prima volta in un rilievo storico, riesca a
superare la barriera del freddo distacco delle opere augustee e flavie.
Scene dure, come i suicidi di massa o la deportazione di intere famiglie,
sono rappresentati con drammatica e pietosa partecipazione e la ricchezza
di dettagli e accenti narrativi fu probabilmente dovuta a un'esperienza
diretta negli avvenimenti. Inoltre, in quel periodo, la ricchezza ottenuta
con le campagne militari vittoriose permise il rafforzarsi di una classe
media, che diede origine a una nuova tipologia abitativa, con più
abitazioni raggruppate in un unico edificio, sempre più simili alle ricche
case patrizie.
L'arte romana fu per la prima volta nel mondo europeo e mediterraneo,
un'arte universale, capace di unificare in un linguaggio dai tratti comuni
una vastissima area geografica, che travalica anche i meri confini
dell'impero. Ciò implicò che l'arte romana, grazie alla sua diffusione, fosse
nelle generazioni future il diretto tramite con l'arte antica. Per gli artisti
europei la produzione romana venne sempre considerata come "una
seconda e più perfetta Natura dalla quale trarre insegnamento"; e grazie
proprio ai monumenti ed alle opere d'arte romane si possono spiegare le
rifiuriture "classiche" di civiltà come quella carolingia, gotica o
rinascimentale.
ARTE ETRUSCA
Per arte etrusca si intende la produzione
artistica degli Etruschi, popolo inizialmente
stanziato nel territorio chiamato Etruria,
triangolo compreso tra l'Arno a Nord, il Tevere
a Sud e il Mar Tirreno a Ovest. Essa si
distingue tra l'VIII secolo a.C. e la metà del I
secolo a.C. circa (l'epoca di Silla e Ottaviano).
ARCHITETTURA
I primi villaggi etruschi erano costruiti da capanne a pianta
rettangolare o ovoidale, la cui struttura e forma si desume
dai fori lasciati dai pali di sostegno.
Una grande rivoluzione, di matrice greca, dovette verificarli
verso la metà del VII secolo a.C. : l'introduzione delle
coperture in terracotta. Negli scavi di Acqua-rossa si può
chiaramente vedere che sono presentate coperture in
tegole di terracotta dipinta con motivi tratti dal repertorio
greco e orientalizzante. Sull'evoluzione delle abitazioni
comuni non si hanno dati cronologici certi e probabilmente
diverse tipologie abitative continuarono a convivere nel
tempo; i materiali impiegati per la costruzione delle case
potevano differire in base alle possibilità economiche delle
famiglie o in base ai fattori ambientali.
TEMPLI
La tipologia del tempio etrusco nacque all'inizio
dell'età arcaica nel secondo quarto del VI secolo a.C. A
differenza dei templi greci ed egizi, che si evolvevano
assieme alla società, i templi etruschi rimasero
sostanzialmente immutati nel tempo. Essi svilupparono
la tipologia abitativa a tre vani, trasformando l'atrio
inferiore nel pronao. Il tempio, elevato su un alto podio
decorato con montature contrapposte, era accessibile
attraverso una scalinata frontale. La pianta a cella unica
poteva essere priva o avere colonne in facciata, la
pianta con tripartizione presentava nel pronao una
doppia fila di colonne.
PITTURA
Gli ambienti sepolcrali non erano gli unici luoghi affrescati in
Etruria, ma sono quelli meglio conservati. Dalle prime esperienze
del VII secolo a.C. l'uso di dipingere le pareti delle tombe con scene
legate agli ideali della vita aristocratica, ai riti funerari e alla vita
ultraterrena si diffonde manifestando l'accoglienza della lezione
della pittura greca in scene a soggetto sempre più complesso,
all'inizio mediate dalla ceramica greca, che fonde temi locali ai
modelli greci. La tecnica pittorica maggiormente utilizzata era
l'affresco, solo in pochi casi si riscontra l'uso della pittura a secco;
uno di questi è la tomba del Barone. Ad una prima fase di grande
libertà nella composizione e nella scelta tematica segue un periodo
di maggiore contenimento e standardizzazione; i grandi e complessi
cicli pittorici si hanno con la metà del IV secolo a.C.
SCULTURA
Pur essendo fortemente influenzata dalla scultura greca, non seguì
un percorso di armonia e perfezione formale. I singoli centri
svilupparono gli stimoli che giungevano dall'esterno in modo
autonomo dando luogo ad una produzione diseguale ed estranea a
coerenti ricerche formali. Influenze ioniche e attiche si evidenziano
tra VI e V secolo a.C., mentre la scultura greca di epoca classica è
recepita in modo marginale e superficiale. Dalla prima metà del V
secolo a.C. le forme si attardano su elementi arcaici, persino più
originali che in passato, per un rinvigorirsi delle tradizioni e delle
forme locali. Con il IV secolo inizia la produzione dei sarcofagi in
pietra che condurrà in età ellenistica alle eccezionali urne rinvenute
nell'ipogeo dei Volumni a Perugia. I materiali principali con i quali si
esprime la grande scultura etrusca sono il bronzo e la terracotta.
OREFICERIA
Gli artigiani etruschi furono in grado di praticare le più sofisticate tecniche
di lavorazione dei metalli preziosi: incisione, filigrana, granulazione. La
conoscenza di queste tecniche giungeva loro insieme agli artigiani e agli
oggetti di lusso del Vicino Oriente, ma essi seppero perfezionarle
padroneggiandole soprattutto nel VII e VI secolo a.C. I gioielli etruschi
entravano a far parte dei corredi funerari e in questo modo sono giunti
sino a noi.
Un oggetto che doveva in particolar modo distinguere lo status del
defunto in questi contesti tombali era il pettorale in lamina d'oro. Allo
stesso ambito produttivo occorre riferire il vasellame in materiale
prezioso, come anche gli oggetti in avorio. Durante il VI secolo a.C. non si
registrano innovazioni tecniche rispetto al periodo precedente, ma gli
oggetti mostrano una maggiore attenzione agli aspetti coloristici mediante
inserzione di pietre colorate. Tipicamente etruschi tra metà del VI secolo
a.C. e la metà del V sono gli orecchini a bauletto; In epoca classica ed
ellenistica si diffonde l'uso delle corone con foglie in lamina d'oro e quello
delle bulle, decorate a sbalzo.
LA DONNA
ROMANA
LA DONNA ROMANA
La donna romana cominciava dalla nascita ad affrontare mille difficoltà per la sua sopravvivenza.
La condizione femminile era considerata al di sotto di quella maschile, sia pur sempre migliore di quella
greca, dove il suo ruolo era quello di una schiava.
La donna era considerata un essere inferiore, con pochissimi diritti e totalmente sottomessa prima al
padre e ai fratelli, poi al marito.
Quando vennero rapite le Sabine nel famoso ratto, le donne accettarono di andare spose solo a certi
patti che i Romani accettarono:
• le sabine non avrebbero mai dovuto lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana;
• per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo;
• nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza;
• nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro;
• i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea).
I Romani promisero, ma presto dimenticarono.
ESPOSIZIONE DELLE FEMMINE
La sproporzione tra maschi e femmine derivava da un lato dall'ingiustizia sociale che preferiva aiutare i maschi anziché le
femmine e poi dall'uccisione delle neonate per l'antichissima usanza della pubblica esposizione. Con l'avvento del
patriarcato le donne non potevano combattere pertanto erano di peso e venivano eliminate o tenute quel tanto che serviva
per procreare. Nel duro passaggio dalla libertà delle donne sabine alla semischiavitù romana, i Romani ebbero la meglio e le
leggi sabine che proteggevano le donne scomparvero.
Le donne romane non furono totalmente schiave come le Greche, segregate come in cella nel gineceo senza alcun diritto,
anzi rispetto alle donne barbare erano privilegiate.
Virgilio nell'Eneide scrive della volsca Camilla, che durante la guerra contro Enea guida il suo popolo combattendo a cavallo,
accompagnata da una schiera di vergini guerriere, le amazzoni.
Un tempo le donne combattevano ed erano fiere, lo testimonia anche Cesare che dichiara in Senato, a chi lo accusa di
essere donna per la sua omosessualità, che le amazzoni erano donne, eppure avevano dominato l'Asia, non lo cita come un
mito ma come un accaduto.
Nel patriarcale mondo romano il rapporto tra i sessi era cambiato. Si nasceva ufficialmente solo con il rito del
riconoscimento. Dopo il parto il neonato veniva deposto in terra.
Se il capofamiglia lo sollevava in aria con gesto rituale, veniva accolto come figlio legittimo dalla famiglia e dalla società,
altrimenti veniva esposto, cioè abbandonato nella strada.
I neonati più a rischio di esposizione erano i deformi, gli illegittimi e le femmine.
Questa legge valeva anche per Atene.
Romolo per evitare l'eccessivo abbandono delle neonate femmine, impose di allevare almeno le primogenite.
Nonostante tutto, durante l‘Impero, le donne verranno in parte riscattate e la dote rimaneva a loro se ripudiate. Inoltre alle
donne fu concesso il divorzio però con l'avvento del Cristianesimo, fu proprio grazie alla Chiesa che alle donne fu privata
questa libertà. Riconquisteranno tutto ciò 2000 anni dopo.
I DIRITTI
In una antica moneta romana si vedono un uomo una donna e un bambino che si recano a votare passando su uno
stretto ponte. I cittadini, infatti, per votare dovevano percorrere uno stretto viottolo, che finiva in un ponticello in cui al
votante era consegnata una tavoletta cerata sulla quale egli segnava la lettera iniziale del nome del candidato preferito.
Al termine del ponte, chi aveva votato deponeva la propria scheda in urna alla presenza di alcuni rappresentanti dei
candidati.
Ma non lasciarsi ingannare dalla moneta, per la famiglia era una passeggiata e basta. Perché soltanto l'uomo godeva dei
diritti politici di votare, eleggere e farsi eleggere e la carriera politica. La donna ne era esclusa, e pure per esercitare i
diritti civili, come sposarsi, ereditare, fare testamento, aveva bisogno del consenso di un uomo che esercitasse su di lei la
tutela: il padre, poi il marito e, all'eventuale morte del marito, il parente maschio più prossimo. Le cose cambieranno solo
con Ottaviano.
La donna romana era costantemente sotto tutela, cioè in manu: dalla manus del padre passava, anche senza il suo
consenso, a quella del marito. Augusto le dette la possibilità di sposarsi senza quella tutela, tuttavia è documentato il
matrimonio senza manus, cioè senza potere del marito, in epoca precedente alle Dodici Tavole di Romolo, quando il regime
risentiva del precedente matriarcato sabino ed era meno patriarcale.
La donna romana aveva molte limitazioni alla sua capacità giuridica, giustificate da pretese qualità negative della donna
come l'ignoranza della legge, in quanto non le veniva fatto studiare. Non poteva:
•
adottare (cosa consentita anche a impotenti ed eunuchi);
•
rappresentare interessi altrui, né in giudizio, né in contrattazioni private;
•
garantire per debiti di terzi;
•
fare operazioni bancarie;
•
essere tutrice dei suoi figli minori.
In epoca imperiale la donna romana, specie se di classe sociale elevata, cominciò a rifiutare la prole, soprattutto per il
rischio della vita. Augusto alla fine del I secolo, dovette incentivare nozze e natalità promettendo alle donne maritate la
liberazione dalla tutela alla morte del padre, purché vi fossero almeno tre gravidanze. Al contrario la donna che tra i 18 ed i
50 anni risultasse ancora nubile non poteva ricevere eredità.
Per il matrimonio sine manu, senza potere maritale c'erano due condizioni: la convivenza degli sposi e il
reciproco consenso a considerarsi marito e moglie. Se veniva a mancare uno di questi elementi il matrimonio
si scioglieva. Il ripudio era invece sempre possibile. Bastava recapitare al coniuge un biglietto con su scritto:
tuas res tibi habeto(riprenditi quello che è tuo). Dunque la situazione della moglie romana agli inizi
dell'impero mutò e il ruolo protettivo del marito cominciò ad apparire inutile e soffocante. La matrona
divenne libera di uscire, le schiave la truccavano, la pettinavano e si guarniva di gioielli. Durante l‘Impero
la matrona usciva di casa, tenendo in una mano la borsetta e nell'altra il flabellum, ventaglio di piume di
pavone, per il caldo e per scacciare le mosche. La schiava le reggeva l'ombrellino da sole, (perché
l'abbronzatura non era di moda e faceva male alla pelle) e che non si chiudeva, di solito verde. Scambiava
visite, a volte da sola, a volte con il marito o con un'amica. Per spostarsi più lontano usava la carrozza. Faceva
spese nei negozi, dalla fullonica (tintoria) ritirava la biancheria, dal calzolaio i sandali e dal sarto le vesti, ma
non faceva la spesa quotidiana per il cibo, spettante agli schiavi. La sera accompagnava il marito ai banchetti,
rincasava tardi, anche dopo il marito.
Le classi superiori potevano limitare le nascite con la continenza. La matrona che viveva in tal modo veniva
ammirata ed approvata.
C'era netta distinzione tra donne ignobili e donne rispettabili come le matrone. Le prime appartenevano al
mondo del teatro, del circo, della prostituzione, oppure le adultere, con divieto di portare la stola, di
contrarre matrimonio e di trasmettere diritti civili.
La donna di basso ceto poteva convivere in famiglia come concubina. La matrona accettava le relazioni del
marito con schiave o donne non rispettabili.
Il ruolo della donna crebbe in età imperiale.
Se un tempo essa poteva venire ripudiata dal marito, adesso poteva intentargli causa di divorzio e richiedere
indietro la dote versata al momento del matrimonio.
Certo è che la donna migliore, soprattutto se di famiglia patrizia, era ancora considerata quella che non si
faceva notare, che si sottometteva al marito, che rimaneva in silenzio.
Tuttavia, in una società mobile ricca come quella della Roma imperiale, non era difficile trovare donne
indipendenti, istruite, influenti presso gli uomini più potenti, ben lontane dal modello di sposa remissiva,
dedita alla crescita dei figli, che l'ideologia tradizionale continuava a proporre.
La donna dunque che ritroviamo in epoca imperiale, è in una condizione diversa rispetto a quella dei secoli
precedenti. Essa infatti acquisì maggiore indipendenza e raggiunse la sua emancipazione nel ruolo
femminile.
Divenne sempre più comune la presenza delle ricche matrone nella gestione delle imprese di famiglia e in
politica furono le matrone ad esprimere il loro potere ufficioso attraverso le azioni e le decisioni dei mariti.
Con il matrimonio la donna diventava matrona e aumenta la sua importanza politica e la sua capacità di
persuadere il marito,il quale fu costretto dalla moglie a sollevare dall'incarico il segretario.
Fu proprio durante l'impero che le donne continuarono a seguire i mariti sia nella buona che nella cattiva
sorte, possiamo ricordare infatti donne virtuose come Paolina, la giovane moglie di Seneca, che tentò di
uccidersi insieme al marito.
IL FEMMINISMO
Fu nella Roma imperiale che le donne iniziarono a
prediligere occupazioni tradizionalmente maschili a
scapito del loro ruolo materno.
Le donne incominciarono a reclamare la parità dei diritti e
a pretendere di vivere vitam, affermando che "Homo
Sum"(sono un essere umano).
Fu con il femminismo che le donne uscirono dagli schemi
tradizionali e poterono accedere ai ruoli e mestieri
tipicamente maschili entrando a far parte anche della
politica interessandosi alla letteratura.
IL CRISTIANESIMO DELLA DONNA
La donna subì una drammatica demonizzazione
da parte dei cristiani. Il sesso fu visto dalla
Chiesa un male necessario solo per avere figli, al
di fuori di questo era turpitudine e peccato.
Per la Chiesa le donne erano in tutto più deboli e
meno intelligenti degli uomini, considerandole
schiave dei piaceri della carne e pericoloso
oggetto di tentazione.
IL MATRIMONIO
Esattamente come nel mondo greco la donna si sposava molto presto, all’età di 10, 11, massimo 12 anni.
Intorno a questi anni le donne erano infatti chiamate “viripotens” cioè in età da marito.
I romani si sposavano così presto principalmente per garantirsi una discendenza. Nella forma più antica
l’uomo chiedeva alla donna di essere la sua mater familias, e la donna chiedeva reciprocamente se l’uomo
voleva essere il suo pater familias. Al matrimonio precedeva però la sponsalia, cerimonia di
fidanzamento, durante la quale la donna riceveva un anello, simbolo di accordo in vista del matrimonio.
Esistevano tre tipi di matrimonio:
• Confarreatio: prevedeva la consumazione di un dolce da parte degli sposi;
•
Coemptio: consisteva in un simbolico acquisto di un bene, che equivaleva a comperare la sposa da suo
padre. Era quindi una vera e propria cessione di persona dietro pagamento, come la trattazione di uno
schiavo;
• Usus: si basava sul principio dell'usucapione, secondo cui un bene (la donna) tenuto per almeno un anno
da qualcuno, ne divine legittima proprietà.
L'uomo aveva il diritto di uccidere la propria moglie per vari comportamenti illeciti:
• L'adulterio: l’uomo aveva infatti la facoltà di uccidere la moglie non appena veniva colta in fragrante con
un altro uomo;
• Bere vino: i Romani temevano infatti che, bevendo vino, le donne avrebbero abortito. Si dice che il
marito tornando a casa controllasse l’alito della moglie, e spesso le donne erano uccise impunemente: la
scusa del vino era infatti un sistema drastico per divorziare senza dover pagare gli alimenti.
IL TRADIMENTO
La separazione avveniva in due modi: divortium e repudium:
• Repudium: in alcuni casi la donna non assolveva la sua funzione principale, quella di
generare figli, a causa nella maggior parte dei casi di una malattia. Veniva quindi
cacciata di casa e ritornava dalla propria famiglia.
• Divortium: la forma più comune di divorzio, che veniva attuata soltanto dal marito.
Nel 18 a.C. Ottaviano dovette trovare una soluzione ai divorzi facili, e impose
così la famosa legge Lex Iulia de maritandis ordinibus che sanciva l’obbligo al
matrimonio, stabiliva premi per le famiglie numerose e multe a celibi, alle
coppie senza figli, e agli scapoli che si erano fidanzati più volte.
Inoltre, con questa legge Ottaviano concesse alle donne il divorzio.
Nella famiglia le donne venivano lodate in base a quanto avevano amato
marito e figli, e quanto avevano accudito la loro casa.
La moglie doveva accompagnare il marito a tutti i banchetti e i ricevimenti,
ma a differenza dei maschi non aveva la possibilità di sdraiarsi nei triclini, rimaneva
infatti seduta.
IL PARTO
Partorire in età romana era molto pericoloso: il 10% delle donne moriva di parto, spesso per lacerazioni e lesioni irreparabili in un utero troppo
infantile per la giovinezza delle spose, o per emorragia.
In età imperiale la donna cercò di limitare le nascite, soprattutto se era riuscita a portare a termine le tre gravidanze dovute. Usava pozioni
contraccettive ed abortive, con ruta, elleboro e artemisia. Ricorreva anche a rimedi medici come i pessari, tamponi di lana imbevuti in aceto e
collocati negli organi genitali.
Ciò doveva essere fatto di nascosto, in quanto la decisione dell’aborto spettava al futuro padre che poteva ripudiarla se non era d’accordo.
La maggior parte dei medici rifiutava di assistere aborti, che potevano derivare anche da adulterio, diventando così complici e subendo le stesse
pene degli amanti. La donna dunque, ricorreva alle levatrici o a donne esperte.
Se la donna moriva nella pratica dell’aborto, il medico veniva accusato di omicidio. Inoltre l’aborto non era punito di per sé, solo se procurava la
morte della donna.
La puerpera alle prime contrazioni si lavava le mani e si copriva il capo. Invocava Giunone Lucina o la Dea Carmenta e veniva spogliata e
sistemata sulla sedia da parto, forata sotto per far colare i liquidi e dotata di maniglie per attaccarsi nella spinta.
Le schiave portavano ampolle di olio di oliva, cataplasmi, spugne coperte di lana grezza e versavano acqua calda nelle catinelle. Una schiava
abbracciava da dietro lo schienale la partoriente e l’ostetrica, seduta su uno sgabello, la ungeva d’olio d’oliva per rendere la pelle più elastica e
facilitare il passaggio. Le schiave ponevano sul ventre mani calde e panni bagnati di olio caldo sui genitali. Sui fianchi veniva messa una vescica
piena di olio caldo per evitare dolori e smagliature. Per sedare il dolore si usavano cataplasmi caldi; per asciugare il sangue delle ferite vi erano le
spugne, mentre l’acqua calda serviva per la pulizia dei genitali. Le coperte coprivano le gambe della donna. Quest’ultima stringeva le maniglie
della sedia da parto e iniziava a spingere, l’ostetrica invece non doveva guardare i genitali della donna. Tratto fuori il bimbo gli si tagliava il
cordone ombelicale, veniva controllato e poi lavato. Le bende e il cuscino serviva per fasciare e deporvi il neonato. Se questo nasceva con i piedi
in avanti veniva chiamato “Agrippa”.
Un parto cesareo era raro e veniva praticato con un gancio acuminato.
LA GESTAZIONE
I Romani ritenevano possibile la gestazione di sette mesi, ma era frequente quella di nove e di dieci.
IL NOME
Trascorsi i primi otto giorni dalla nascita c'era il rito di purificazione con l'acqua, un po’
come il battesimo. Parenti e amici di famiglia portavano doni e alla bambina veniva
dato un nome, il vero praenomen, tenuto assolutamente segreto, ma solo per la
femmina, e custodito nell’intimità familiare.
Al di fuori dell’ambiente domestico, il nome era sostituito da un cognomen, quello
della gens paterna con le aggiunte per distinguerla dalle sorelle, secondo l’ordine di
nascita: Maxima, Maior, Minor oppure Prima, Seconda, Tertia, o con un soprannome
per le sue caratteristiche fisiche: Rutilia o Fulvia (di capelli rossi), Murrula (bruna),
Burra (tenera).
Così mentre un uomo aveva tre nomi la donna ne aveva solo uno. Nella cerimonia
nuziale, alla domanda del marito “Qual è il tuo nome?” la sposa risponderà di
chiamarsi con lo stesso nome di lui e al precedente cognomen gentilizio paterno
subentrerà o si aggiungerà quello dello sposo.
L’EDUCAZIONE
Giovenale nelle Satire commenta la donna romana: "Non si sente interessante se non posa a donna greca.
Magari è di Sulmona o è toscana, ma vuole sembrare un'ateniese puro sangue. Parla solo in greco e non sa
neppure il latino. Ha paura in greco, s'arrabbia in greco, s'addolora in greco, dice in greco tutti i segreti del
cuore, fa addirittura ... l'amore in greco.“
Ma Giovenale è misogino e sulle donne ha sempre da ridire, perché parlare greco era un vezzo di molti
romani, compresi imperatori come Adriano, ma se lo facevano le donne non andava bene.
Al padre spettava nutrirle, controllare la loro moralità e combinare un buon matrimonio. Il resto era affare della
madre.
Nelle case patrizie i precettori facevano il resto, indirizzando la fanciulla a essere sposa e madre, educandola
nelle attività domestiche, come la tessitura della lana, e verso le virtù di castità, riservatezza e modestia.
I genitori, specie se agiati, facevano impartire lo studio a casa per i pericoli nei tragitti tra casa e scuola. La
verginità delle fanciulle andava preservata. Nelle scuole pubbliche la fanciulla imparava a leggere, scrivere e
fare di conto. Poi veniva spedita a casa prima dei suoi coetanei maschi.
Alcune donne, per l'elevato livello culturale della famiglia, divennero colte, ma la donna intellettuale non
sempre piaceva. La ragazza che avesse compiuto gli studi di letteratura greca e latina, docta puella, e
mostrasse troppo la sua cultura poteva, al contrario dei maschi, infastidire.
Da molti scrittori però, come Quintiliano, Tibullo, Ovidio e Plutarco, la donna colta era ammirabile e lo stoico
Musonio Rufo in pieno I secolo giunse a dire che alla donna andava impartita la stessa educazione dell’uomo.
L’ISTRUZIONE
In famiglia il padre si preoccupava di educare i figli
maschi, delle femmine se ne curava poco. Il padre
aveva il compito di nutrirle, controllare la loro moralità
e trovare loro l’uomo giusto. Il resto era dovere della
madre. Nelle case patrizie i precettori si occupavano di
indirizzare la fanciulla ad essere sposa e madre,
educandola nelle faccende domestiche, come la
tessitura della lana, e nelle virtù di castità, riservatezza
e modestia.
I genitori, specie se erano di un ceto sociale alto, facevano studiare
la loro figlia in casa con un insegnante privato, per scansarle pericoli
durante i tragitti dalla casa alla scuola. Col tempo i romani
cercarono di favorire anche la scuola pubblica, pagandola di tasca
propria. Da Cesare a Costantino vennero accordati regolarmente
compensi e privilegi agli educatori pubblici, poiché si riteneva fosse
un dovere sociale imparare a leggere, a scrivere e a far di conto.
L’istruzione pubblica venne suddivisa in:
• primaria (fatta con il maestro elementare);
• secondaria (fatta con il grammatico) e superiore (fatta con il
retore).
Alla scuola secondaria avevano la precedenza di accesso i ragazzi e
le ragazze delle famiglie più agiate. Le materie erano: lingua e
letteratura latina e greca, fisica, astronomia, mitologia e storia.
Quando arrivavano a dodici anni, l’età giusta per
il matrimonio, potevano continuare con lo studio
delle lettere, della danza e della musica.
Vi erano scuole professionali, come quelle
dell’edilizia e dell’agrimensura, ma anche istituti
prevalentemente femminili, dove intraprendevano
lo studio del canto, della musica e della danza.
IL LAVORO
Per i romani lavorare non era considerato né un privilegio
né un diritto, ma una pesante necessità di cui non essere
fieri. Le donne svolgevano prevalentemente lavori domestici.
I lavori più svolti, oltre quello della casalinga, erano quello di
medico, cameriera, segretaria e sarta.
Lo scopo della sua vita era quello di diventare un’esperta
amministratrice della casa, circondata, se possibile, da ancelle
che ne eseguivano gli ordini (ecco perché l’origine della parola
“donna”, dal latino domina che significa padrona).
In casa essa si dedicava soprattutto al ricamo.
L’ABBIGLIAMENTO
I costumi e la moda con la quale le Donne della Antica Roma si vestivano, nel lungo periodo
di diffusione della sua civiltà, è attestabile sia dagli affreschi e dalle statue dell’epoca che
dai racconti dei molteplici scrittori, poeti e storici romani. Dalla iniziale uniformità dei vestiti
tra uomini e donne nella Roma primitiva, realizzati con stoffe di lana e fibre vegetali più o
meno grezze, ben presto l’abito femminile si differenziò da quello maschile. La conquista di
nuovi territori fece affluire a Roma, tra le altre merci, stoffe e drappeggi di gran qualità;
questo accentuò la differenza nei colori più o meno vivaci, e talvolta nei ricami.
L’abbigliamento femminile, nel corso dei secoli, rimase sostanzialmente simile.
Le donne indossavano come indumenta il perizoma,il seno era coperto da una fascia
(strophium, mamillare) o una guaina (capetium) e una o più tuniche subuculae, intessute con
lana o lino ed in genere prive di maniche.
Sopra la subùcula veniva indossato il sùpparum oppure la stola (dette per questo tuniche
superiori). Il sùpparum era una tunica femminile di lunghezza varia, ma non fino ai piedi (per cui
la parte inferiore della subùcula rimaneva in vista); somigliava al chitone greco, ma aveva i
fianchi sempre cuciti; i margini superiori (non cuciti assieme) venivano chiusi con fibule o
cammei, in modo da formare due false maniche lunghe fin quasi al gomito.
La stola era invece una tunica ampia e lunga appunto fino ai piedi, fermata alla vita da
un cingulum, una cintura di stoffa o di pelle, liscia o decorata di ornamenti in metallo o
pietre dure, in genere usata doppia, una sotto il seno, l’altra in vita, e generalmente si
faceva uso di un succingulum per formare un secondo kolpos (sbuffo di stoffa) più ricco
all'altezza delle anche.
La recta, infine, era una tunica bianca sprovvista di maniche, aderente alla vita e
lievemente scampanata in basso. Era il vestito delle giovani spose romane, completato
dal flammeum, ampio velo di color giallo fiamma (da cui il nome) da appoggiare sul capo e
fatto scendere sul retro.
La palla invece era il classico mantello femminile usato nei periodi invernali. Di forma
rettangolare simile al mantello greco, veniva indossata in modi svariati, talvolta anche
poggiandone un lembo sul capo. Era l'equivalente del pallium maschile, diversa da questo
per la vivacità dei colori e non tanto per la linea.
Mentre gli uomini non portavano copri capi riparandosi dal sole o dalla pioggia con un
lembo del mantello o sollevando il cappuccio (cucullus) della loro paenula, la donna
romana metteva tra i capelli un nastro di color rosso porpora o un tutulus, una larga benda
collocata a forma di cono sulla fronte.
La matrona aveva poi di solito annodato al braccio un fazzoletto, la mappa, per pulire il
viso dalla polvere e dal sudore. Il muccinium destinato a soffiarsi il naso, non comparve
prima della fine del III secolo d. C.
La signora aveva poi un ventaglio per rinfrescarsi e cacciare le mosche e un ombrello, non
richiudibile, per ripararsi dal sole.
Per proteggersi dalle intemperie poteva essere indossato un mantello con
cappuccio, il byrrus, un indumento che si è tramandato fino al giorno d'oggi in NordAfrica, con il nome, derivato dal latino, di burnus.
Tra le calzature più importanti c’era il solea, ovvero il tipico sandalo romano ed il
calceum, uno stivaletto alto fino a mezza gamba e stretto con dei lacci.
Gli Etruschi diffusero anche una specie di babbuccia orientale che le donne romane
fecero tingere in diversi colori, con applicazioni in seta ed anche in oro.
Ma anche gli orpelli erano importanti: le donne romane quasi sempre ponevano nastri
sui capelli a diverse altezze, prima solo rossi poi di diversi colori, e pure una fascia
piuttosto alta che formava quasi un cono sui capelli.
I nastri erano di seta e talvolta di velo ritorto.
LE STOFFE
La differenza tra vesti maschili e femminili non consisteva tanto nella confezione
dell’ abito quanto nei tessuti e nei colori.
Le stoffe femminili, e non solo, potevano essere di diversi colori; con lo
zafferano si otteneva una bellissima tintura gialla, più aranciata o più pallida a
seconda della tinta impiegata, mentre dall’uva bianca si otteneva il verde, mista
con l’uva nera il viola, mentre l’uva nera dava tinte dal grigio al bruno; colla bava
del mollusco Murex, si otteneva il colore porpora, ma insieme al mollusco
essiccato e tritato, donava alla stoffa una sfumatura bluastra (oltremare
purpureo).
Gli Etruschi avevano insegnato ai Romani ad usare tinture come robbia (rosso),
zafferano (giallo) e guado (celeste).
Secondo Vitruvio la tintura indaco veniva dall’India, ma sembra che ce ne fosse anche
una autoctona ottenuta col fiordaliso.
Si usavano pure ocre minerali con ossidi idrati di ferro per ottenere i colori più svariati.
Taranto divenne famosa per la tintura con l’ oricello, un tipo di lichene, che mischiato
alla porpora serviva ad abbassarne i costo notevole.
Nella Roma del II sec. a.C. i tintori erano suddivisi per categorie; i croceari per il giallo, i
violari per il viola, le officinae purpurinae per la porpora.
Le donne Romane poi non avevano solo stoffe in tinta unita ma anche a strisce, come
Dimostrano numerosi busti romani i cui vestiti erano imitati da marmo, e pure ricamate o
intessute a telaio a disegni vari.
Se prima i tessuti erano di lana, canapa e lino, in età imperiale diventarono misti: lana e
cotone, cotone e lino, cotone e seta.
I più preziosi erano i veli, le stoffe leggere e la seta, e le stoffe ricamate.
I GIOIELLI
I gioielli più indossati dalle donne nell’antica erano gli orecchini, inaures, che
furono anche i primi mai usati nell’antica Roma.
Il cerchio semplice in oro era chiamato buccola ed era spesso impreziosito da una
pietra.
I crotalia erano orecchini doppi che terminavano con una perla e quando si
toccavano producevano un tintinnio.
Ogni bambina portava al mignolo un anello dorato e alle orecchie due cerchi
anch’essi d’oro. Chiaramente non tutti potevano permettersi bigiotteria d’oro,
infatti le bambine più povere portavano collane, anelli e orecchini bianchi spesso
realizzati con materiali più umili come le conchiglie.
Un altro gioiello molto famoso era la bulla aurea usata come amuleto
portafortuna.
I gioielli utilizzati invece dalle donne adulte erano molto simili a quelli utilizzati
dalle donne etrusche. Il gioiello più comune era quello a forma di serpente, che
veniva usato come bracciale o come anello ed era un antico simbolo portafortuna
della Dea Terra.
Le romane indossavano gioielli di ogni tipo: gli anelli, ad
esempio, erano usati sia sulle mani che sui piedi. Venivano usate
pietre preziose fra i capelli, nastri ornati da gemme, collane e
cavigliere.
Spesso nei capelli le donne romane usavano l’Ago Crinale, uno
spillone sormontato da una pietra o decorato in vari modi. L’ago
poteva essere d’oro, d’argento o d’avorio.
Si racconta che nel caso la decorazione in pietra alla punta dello
spillone fosse concava, contenesse veleno, infatti questo tipo di
gioiello fu proibito in molte zone dell’impero perche quando le
donne si sentivano aggredite dai mariti, utilizzavo l’ago crinale
per difendersi.
LO SPECCHIO
Le donne romane si dedicavano al proprio corpo,
facevano attenzione al loro aspetto ed erano abbastanza
vanitose da non farsi mancare l’oggetto che più terrorizza
ma allo stesso tempo serve loro: lo specchio. Esso poteva
essere quadrato, tondo o di forma ovale; i primi erano
costruiti in metallo levigato, poi s’iniziò ad aggiungere il
vetro. Dove si riponeva lo specchio si potevano trovare
anche i contenitori per le creme e tutti quelli “attrezzi”
del mestiere che possono essere paragonati a quelli
utilizzati oggi.
LE PETTINATURE
Anche le acconciature erano considerate un abbellimento.
Le donne romane portavano i capelli raccolti in un nodo dietro la testa, trattenuti
da nastri color rosso porpora chiamati vittae, da un titulus, una larga benda
collocata a forma di cono sulla fronte o da uno spillone, l’acus.
Potevano essere anche rialzati sulla fronte con un rigonfio o divisi in trecce con un
nodo sulla nuca. Nel I secolo d. C. la divisa nel mezzo e i riccioli simmetrici
formavano una pettinatura armoniosa e il volume dei capelli aumentò
gradatamente. Se le fanciulle potevano anche solo raccogliere i capelli con una
crocchia sul retro o con un nodo a spirale nella parte superiore della testa, le
donne dedicavano alle acconciature molto tempo e sforzo.
Per le imperatrici romane infatti, l’acconciatura divenne una specie di costruzione
architettonica. Esse erano assistite da schiave, chiamate ornatrices, specializzate
nella difficile arte della pettinatura.
Abbellivano le pettinature con reticelle d’oro, pietre preziose, diademi, fiori e
corone.
Venivano applicati anche capelli finti per rendere maggiormente voluminoso
l’effetto, producendo vere e proprie sculture di ricci e trecce disposti sulla sommità
della testa, raggiungendo anche i quaranta centimetri di altezza. Le serve
pettinatrici correvano il rischio molto frequente di essere duramente punite se
l’acconciatura non soddisfaceva la signora. Mentre erano più fortunate quelle
parrucchiere che rimediavano alla calvizie della padrona con posticci e parrucche,
bionde o nere, come quelli di capelli veri fatti venire dall’India. Le matrone
preferivano avere i capelli di colore biondo, ricavato da grasso di capra e cenere di
faggio oppure rosso acceso, ottenuto con l’henné.
I colori particolari come il turchino o il rosso carota erano appannaggio delle
meretrici. Per coprire la canizie, si usava il malo delle noci e minerali derivanti
dall’antimonio nero, unito a grassi animali. Inoltre venivano stirati ed arricciati
tramite ferri roventi, scolpiti con un esercito di forcine, retine e ausili meccanici di
vario tipo. Fino al II secolo la pettinatura era pesante e complicata, ma nel III secolo
mantenne una certa nobiltà di linee con onde profonde che incorniciavano il viso e
una treccia arrotolata e piatta raccoglieva i capelli sulla nuca. I capelli venivano
anche profumati attraverso prodotti appositi.
Il giorno delle nozze le fanciulle cambiavano pettinatura: i capelli
venivano divisi in sei parti mediante l'hasta caelibaris e, legati con
nastri, s'arrotolavano alla sommità del capo e attorno alla testa
formando i seni crines.
Ogni donna nobile dell’Impero faceva a gara per avere l’acconciatura
alla “Ottavia” (dalla sorella dell’imperatore Augusto) o alla “Plotina”
(la moglie di Traiano).
PETTINATURA ALL’OTTAVIA
PETTINATURA ALLA PLOTINA
PETTINATURA A MELONE
IL TRUCCO
Le donne romane, sia quelle di alto ceto che le prostitute, si truccavano
normalmente. Era l’ornatrix ad occuparsi del trucco e della depilazione della
signora. Per avere una candida carnagione occorreva un fondotinta luminoso, della
biacca mista a miele ed altre sostanze grasse, detta cerussa, oppure veniva steso il
lomentum, farina di fave, o il gesso cretese. A volte per ottenere un incarnato
dorato, passavano sul collo e sulle braccia una polvere di zafferano profumato. Per
il fard si mescolava un po’ di terra rossa di Selina, proveniente dalla Sicilia, la feccia
del vino, il focus (estratto di alga) o l’ocra rossa. Si creavano anche effetti speciali,
come un fondotinta iridescente stendendo sul viso polvere di vetro. Con lo stibium,
antimonio polverizzato, o fumidus, nero di fuliggine di carbone, misto a grasso
d’oca o grasso vegetale, venivano marcati i sopraccigli e si sottolineava il contorno
degli occhi, l’eyeliner. Venivano disegnati sulla guancia e sul mento piccoli nei neri,
gli splenia. Le palpebre venivano colorate con l’ombretto, preferibilmente verde o
azzurro, ricavato dalla triturazione di malachite e azzurrite, talvolta misti a
polvere d’oro.
Vi erano anche rossetti, ricavati dal gelso, dal fuco, da estratti animali e vegetali e
da sostanze minerali, in particolare cinabro, gesso rosso e minio.
Gli unguentarii, riempivano il fornitissimo cofano di belletti, profumi, balsami e
unguenti.
Esistevano anche le maschere di bellezza, alcune vegetale e altre con miscugli di
corna di cervo, escrementi di alcione nonché la placenta, lo sterco e l’urina dei
vitelli. Mentre la maschera faceva effetto si procedeva alla depilazione, in quanto
una donna affascinante doveva avere un corpo in cui non fossero presenti “ispidi
peli pungenti” come lo stesso Plinio il Vecchio ricorda. Si ricorreva all’uso di cerette
depilatorie e creme, come il psilothrum e il dropax, composti a basa di pece greca,
resina, cere e sostanze caustiche disciolte nell’olio. Inoltre si ricorreva alle pinzette
dette valsellae, di solito in metallo, ma anche in oro e argento.
Poppea, era solita fare il bagno nel latte d’asina, infatti il latte era fra gli unguenti
più usati per la pelle, spesso mescolato con il miele.
I PROFUMI
Il profumo era un tocco di classe. Veniva messo in particolari contenitori a
forma di colomba, riempiti e sigillati a fiamma. Per aprirli si usava
spezzarne la coda o il becco e, dopo l’apertura, il profumo veniva travasato
in bottigliette.
Le sostanze aromatiche venivano spremute con il tornio; gli oli essenziali
venivano macerati nell’onfacio, base oleosa di olio d’oliva, o nell’agresto,
spremitura di uva acerba, e successivamente filtrati.
Il profumo più pregiato era il REGALE UNGUENTUM, così chiamato perché
preparato per il re dei Parti. Inoltre vi erano anche il RHODINIUM, profumo alle
rose dell’isola di Rodi; la VIOLA, usato per profumare le sale dei banchetti e i
commensali e formato da viole e acque profumate per lo più con petali di rosa; il
LASMINUM, gelsomino importato dall’Oriente; il MELINUM, ottenuto dalle mele
cotogne e la MIRRA, apprezzata come ingrediente per profumi e incensi e
utilizzata come unguento e tonico stimolante.
Le essenze, già dal I secolo d. C. raggiungevano prezzi esorbitanti.
L’IGIENE
Per la matrona romana il momento della toeletta era un vero e proprio rito,
un’arte da mantenere segreta. Aveva a disposizione catini, specchi di rame,
d’argento o di vetro ricoperto di piombo e poteva disporre di una personale
vasca da bagno, il lavatio, facendo così a meno dei bagni pubblici.
Per i denti si usava un dentifricium a base di soda e bicarbonato di
sodio. Anche l’urina era utilizzata per sbiancare i denti. Oltre al
dentifricio di uso quotidiano, si usavano attrezzi come il dentiscalpium,
una sorta di stuzzicadenti per eliminare i residui di cibo, in osso, legno,
piuma o metallo. Era anche un filo interdentale che poteva essere
persino d’argento o d’oro. La matrona romana era solita, dall’età
imperiale, usare per lavarsi i denti anche la polvere di corno.
L’auriscalpium invece, era utilizzato per la pulizia
delle orecchie. Nel set da toletta non poteva
mancare lo scalptorium, arnese per grattarsi la
testa, il culter, coltellino per pulire le unghie e la
volsella, pinzetta per la depilazione. Presso le terme
vi era un servo addetto appositamente alla
depilazione ed era chiamato alipilus.
AGRIPPINA
Giulia Agrippina (in latino: Iulia Agrippina; Ara
Ubiorum, 6 novembre 15- Miseno, 23 marzo 59),
fu augusta dell’Impero romano dal 49 al 54 e
madre dell'imperatore Nerone. È conosciuta come
Agrippina Minore, così detta per distinguerla dalla
Madre Agrippina Maggiore. Agrippina ebbe il ruolo
di reggente durante l'assenza del marito e zio
Claudio, e fu la prima donna a governare di fatto
l‘Impero durante i primi anni di regno del figlio.
LA VITA
Nacque ad Ara Ubiorum l'attuale città tedesca di Colonia, nell'accampamento
militare dove si trovavano il padre Germanico e la madre Agrippina Maggiore, figlia
del console Agrippa e nipote di Augusto. Fortissimamente convinta dell'importanza
della propria stirpe, ambiziosa, dominatrice, ma anche accorta, lungimirante,
pregna di senso dello Stato, Agrippina fu una delle più significative figure femminili
dell'Impero romano, e l'unica che riuscì a conseguire uno status effettivo
comparabile a quello di un principe-donna, ovvero di un'autentica imperatrice. Fu
isolata, umiliata e perseguitata ed infine giustiziata dal figlio, Nerone, con la morte
del quale si estinse la dinastia Giulio- Claudia.
Sulla storia e le gravi vicende della sua dinastia, Agrippina scrisse dei Commentari,
utilizzati da Tacito e Plinio il Vecchio come fonte storica. Fu la fondatrice della
moderna Colonia sul Reno (Colonia Agrippinense). Gli abitanti di questa nuova città
si chiamarono Agrippinensi. Nel 1993, la Città di Colonia ha eretto una statua ad
Agrippina sulla facciata del proprio Municipio.
Il suo favore verso il mondo celtico fu confermato allorchè concesse la grazia al re
britannico Carataco, giunto a Roma in catene.
Ebbe dal Senato di Roma il titolo di Augusta, che non corrispondeva a quello di
imperatrice nel
senso moderno del termine, ma che era comunque un riconoscimento di grande
prestigio e
pressoché unico, concesso a personalità di particolare spicco.
GLI ANNI SOTTO IL PRINCIPATO DI TIBERIO
Fin da ragazza Agrippina covò un odio profondo verso
Tiberio, suo parente in quanto fratello di suo nonno Druso.
Tiberio, infatti, le sterminò la famiglia. Allo sterminio compiuto
da Tiberio sopravvissero solo Agrippina, le sorelle Giulia Livilla e
Giulia Drusilla, e Gaio Cesare, meglio noto alla storia come
Caligola. Nel 29 Tiberio obbligò la quattordicenne Agrippina a
contrarre matrimonio con Gneo Domizio Enobarbo, che ella
odiava. Dal matrimonio nacque un unico figlio, nel dicembre del
37, Lucio Nerone, e nel 40 Enobarbo morì di malattia.
SOTTO IL PRINCIPATO DI CALIGOLA
Alla morte di Tiberio, avvenuta nel 37, gli successe al trono il fratello di
Agrippina, Gaio Cesare, detto Caligola (per via dei sandali militari che era
solito portare, chiamati appunto "caligae"), e l'Impero sembrò aver trovato
finalmente un sovrano che avrebbe portato pace e tranquillità dopo il regno
del crudele e dispotico Tiberio; ed, effettivamente, così fu per i primi mesi di
regno di Caligola.
Nel 38 l'amata sorella Drusilla morì ventenne; i maltrattamenti da parte di
Caligola si accentuarono a tal punto, che Agrippina e la sorella Livilla decisero
di organizzare una congiura, anche se non è storicamente accertato che le
due sorelle abbiano tentato di assassinare il fratello. Scoperte, il marito di
Livilla, Marco Vinicio, fu giustiziato e nel 40 le due sorelle dovettero partire in
esilio per Ponza; Agrippina fu costretta a lasciare il figlio alle cure della zia
paterna. Nel 41 Caligola fu assassinato in seguito ad una congiura capeggiata
da Cassio Cherea: il nuovo imperatore fu Claudio.
CLAUDIO
Agrippina e Livilla furono richiamate dall'esilio e diedero una degna sepoltura al
fratello Caligola. Ma ben presto l'imperatrice Messalina, gelosa dell'avvenenza di
Livilla, l'accusò di adulterio con Lucio Anneo Seneca e la mandò nuovamente in
esilio. Pochi giorni dopo, la testa di Livilla fu portata a Roma: Agrippina era ora
l'unica sopravvissuta della famiglia di Germanico.
Nel 42 sposò il facoltoso Gaio Passieno Crispo, alla morte del quale ereditò il suo
patrimonio. Nel 48 Messalina fu travolta dallo scandalo della bigamia e l'influente
liberto Narciso ne approfittò per eliminarla e sponsorizzare la propria favorita, Elia
Petina.
Facendo credere di aver ricevuto un preciso ordine dal Principe, inviò alcuni soldati contro la
moglie di Claudio e la fece crudelmente assassinare. Invece egli aveva udito l'Imperatore voler
concedere udienza alla moglie, prima di eventualmente condannarla.
Successivamente Agrippina fece giustiziare Narcisso.
Nel 49 Claudio fu convinto a cercare una nuova moglie; Agrippina, appoggiata dal potente
liberto Pallante, fu una delle candidate, ed alla fine, con la sua ipnotica bellezza, il prestigio dei
natali, il carisma della personalità, riuscì a farsi preferire dal Principe, nonostante lo scandalo
costituito dall'esserne la nipote (a cui si pose prontamente rimedio con una legge che
regolarizzava questo genere di nozze).
Agrippina divenne sempre più potente e popolare e riuscì a far
sposare il figlio Nerone con Claudia Ottavia, figlia di Claudio e
Messalina, nonché a convincere Claudio a designare erede al
trono non il figlio Britannico, avuto da Messalina, ma Nerone
stesso.
Passarono alcuni anni e l'anziano Claudio si ammalò senza
rimedio. Avvicinandosi alla morte, egli si pentì di aver posposto il
figlio naturale, Britannico, a quello adottivo, Nerone. Questo suo
ripensamento ingenerò dissidi con Agrippina. Poiché la morte
intervenne in un tale contesto, molte voci si levarono contro di
lei.
Nerone divenne il nuovo imperatore.
VITTIMA DI NERONE
Il rapporto tra madre e figlio, però, non era destinato a mantenersi solido e
collaborativo: Agrippina non tollerava ombre al proprio potere e, quando il
figlio prese a preferirle come consiglieri Sesto Afranio Burro e Lucio Anneo
Seneca e a mostrare scarsa disponibilità al sacrificio, nonché a tradire
Ottavia con la liberta Atte, ella cominciò ad esercitare pressione sul figlio,
avvicinandosi al giovane Britannico, suo figliastro.
Nerone, insofferente dell'autorità materna, tolse di mezzo Britannico,
avvelenandolo durante un banchetto. Da allora, madre e figlio si
dichiararono guerra aperta. Nerone tolse ogni protezione alla madre e la
fece allontanare dalla corte. Prese quindi come amante la bella Poppea
Sabina, la quale istigò l'imperatore a sbarazzarsi di sua moglie Ottavia e
della stessa madre Agrippina.
Nerone si risolse dunque al matricidio, senza temerne le conseguenze, che
lo porteranno invece ad un inesorabile declino.
LUCILLA
Nata il 7 marzo di un anno che oscilla fra 148 e 150, fu la
seconda figlia femmina e terza tra i figli dell'imperatore
romano Marco Aurelio e di sua moglie Faustina Minore, e
una delle sorelle maggiori del futuro imperatore
Commodo. Nacque e crebbe a Roma Lucilla aveva un
fratello gemello che morì intorno al 150 d.C.
Lucilla nel 161, fu promessa in sposa a Lucio Vero, che suo
padre aveva associato al trono come co-imperatore, e lo
sposò in Efeso nel 164. In quel periodo Marco Aurelio e
Lucio Vero stavano combattendo una guerra contro i Parti
in Siria. Ricevette in occasione del matrimonio il titolo di
Augusta. Lucilla diede a Lucio Vero tre figli: due femmine
ed un maschio. La figlia maggiore nacque nel 165 ma morì
in età giovane insieme al maschio. Lucilla fu una donna
rispettabile ed influente che teneva a dar lustro del suo
status. Trascorreva molto tempo a Roma mentre suo
marito Lucio era nelle province per adempiere ai suoi doveri
di co-regnante. Lucio morì nel 169.
IL SECONDO MATRIMONIO
Poco tempo dopo, Marco Aurelio la obbligò a sposare Tiberio
Claudio Pompeiano Quintiniano, un cittadino romano nato in
Siria, che fu due volte console e politicamente alleato di suo
padre. Lucilla e sua madre erano contrarie a questo
matrimonio, in quanto Quintiniano era un uomo anziano e
Lucilla preferiva un uomo più giovane. Lucilla, intorno al 170
diede a Quintiniano un figlio chiamato Pompeiano.
Lucilla e Quintiniano accompagnarono, nel 172, Marco
Aurelio a Vienna in supporto della campagna militare del
Danubio. Furono con lui fino al 17 marzo del 180, quando
Marco Aurelio morì e Commodo divenne il nuovo
imperatore. Ritornarono a Roma e ogni speranza di Lucilla di
diventare nuovamente imperatrice era ormai persa.
L’IMPERO DI COMMODO E LA CONGIURA
Lucilla non era felice di vivere una vita tranquilla da privata cittadina in
Roma e diventò gelosa di suo fratello e sua cognata per via del potere
esercitato e degli onori a loro tributati. Era inoltre molto preoccupata
del comportamento instabile di suo fratello. Nel 182, un gruppo di
membri della famiglia imperiale riuniti intorno a Lucilla pianificò
l'assassinio di Commodo immaginando di vedere Lucilla e suo marito
come nuovi governanti di Roma.
Il nipote di Quintiniano irruppe dal suo nascondiglio con un pugnale
cercando di colpire Commodo. Gli disse "Qui c'è il pugnale che ti
spedisce il Senato" svelando la sua intenzione prima ancora di agire. Le
guardie furono più veloci di lui, fu sopraffatto e disarmato senza
riuscire nemmeno a ferire l'imperatore.
Commodo ordinò la sua condanna a morte.
MESSALINA
Figlia di Domizia Lepida e di Marco Valerio
Messalla Barbato nasce in una famiglia patrizia
imparentata con la casa Giulio-Claudia. Quando
Caligola salì al trono, era già una delle donne più
desiderate di Roma per la sua bellezza. Costretta
dall'imperatore a sposare Claudio, un uomo più
grande di lei di trent'anni, balbuziente, zoppo e
al terzo matrimonio, ebbe da lui due figli, Claudia
Ottavia e Cesare, detto poi Britannico. Dopo che
il 24 gennaio del 41 i pretoriani uccisero Caligola,
lei e suo marito Claudio furono eletti imperatori
di Roma. Insieme al marito fece uccidere gli
assassini di Caligola, esiliò Seneca in Corsica,
esiliò Giulia Livilla (sorella minore di Caligola e supposta amante di
Seneca) a Ventotene dove fu uccisa, e richiamò dall'esilio
Agrippina Minore, sua zia.
Giovane ed inquieta, Messalina non amava molto la vita di corte;
conduceva invece un'esistenza trasgressiva e sregolata.
Dopo le accertate relazioni adulterine con il governatore Appio
Silano Valeria Messalina si innamorò di Gaio Silio. Gaio Silio
ripudiò la moglie e divenne l'amante di Messalina e, mentre
l'imperatore Claudio si trovava ad Ostia, durante una festa
dionisiaca a palazzo i due amanti "si sposarono" nel 48 d.C.
Informato dal liberto Narciso, Claudio (forse timoroso che il rivale
volesse succedergli sul trono) decretò la morte dei due amanti.
Mentre Gaio Silio non oppose resistenza e chiese una morte
rapida, Messalina si rifugiò negli "Horti Lucullani" (giardini di
Lucullo) e fu uccisa da un tribuno militare.
NELLA STORIOGRAFIA
Messalina è stata descritta dagli storici dell'epoca come una donna dissoluta e senza scrupoli,
pronta a sbarazzarsi dei suoi avversari. Le fonti storiche a cui si fa riferimento sono tutte a suo
sfavore. Alcune leggi vigilavano del resto sulla morigeratezza dei costumi femminili, prima fra
tutte la legge contro l'adulterio emanata da Augusto per proteggere i valori della famiglia. Tale
legge prevedeva come punizione per le donne adultere (escluse le prostitute o meretrici) la
deportazione a vita su un'isola, pena che fu inflitta anche a Giulia, unica figlia di Augusto.
In realtà il caso Messalina non era, nella Roma imperiale, un caso eccezionale. Tradimenti e
adulteri a corte erano consueti e spesso avevano motivazioni politiche.
Secondo questa interpretazione l'accanimento contro Messalina (anche da parte degli storici)
trova giustificazione in due elementi: era la moglie dell'Imperatore Claudio ed era membro della
"gens Iulia".
In quanto moglie di Claudio il suo modo di vivere le causò l'ostilità e l'odio dei fedeli di Claudio,
che dopo il "matrimonio" con Gaio Silio le impedirono addirittura di vedere il marito.
In quanto appartenente alla famiglia giulio-claudia, fu vittima delle rivalità e della lotta interna
alla sua stessa famiglia in cui altri membri, oltre a suo figlio Britannico, potevano essere proposti
come successori dell'Imperatore Claudio. E proprio per far sì che il figlio potesse un giorno
divenire Imperatore, Messalina eliminò fisicamente i potenziali rivali e chiunque potesse anche
solo apparentemente ostacolare i suoi piani.
Pagò non solo con la vita tutti gli intrighi e gli omicidi commessi; infatti su di lei fu applicata la
"damnatio memoriae", cioè l'eliminazione del suo nome dai documenti e dai monumenti di
Roma e la distruzione delle sue statue. Inoltre il figlio Britannico non fu mai Imperatore.
LA SCUOLA
INTRODUZIONE
Nell'antichità la scuola fu lasciata a lungo all'iniziativa privata. A
Roma, ai tempi della repubblica, le scuole non esistevano ed
erano i padri ad insegnare ai propri figli le cose più essenziali
come leggere, scrivere e far di conto. Quando la vita pubblica
divenne più pesante ed impegnativa l'insegnamento fu lasciato
agli schiavi, soprattutto greci. Solo nel 235 a.C., sotto l'influsso
greco, a Roma sorge la prima scuola pubblica. Le prime scuole
statali furono istituite nel periodo imperiale con le cattedre di
retorica e filosofia (sec. I-IV d.C.), ma già all'inizio del IV secolo
tutto l'insegnamento è finanziato dallo Stato. La scuola romana
comprendeva tre gradi affidati al ludi magister (maestro
elementare), al grammaticus (commentatore di testi grecolatini) e al rhetor (maestro di eloquenza). Nella scuola primaria
(ludus litterarius) i bambini dai sei agli undici anni imparavano a
scrivere, leggere e contare.
Dagli undici ai sedici anni gli studi proseguivano alla
scuola del grammaticus (o litterator), con la lettura dei
maggiori scrittori greci e latini e con nozioni di storia,
geografia, astronomia e fisica. Il terzo ciclo di istruzione
si compiva alla scuola del rhetor, il maestro di
eloquenza: qui si studiava diritto e si approfondiva la
conoscenza dei classici latini e greci per sviluppare e
perfezionare “l’arte del dire“, ovvero la retorica: saper
parlare in pubblico e convincere l’uditorio era infatti
fondamentale per l’attività forense e la vita politica. . Il
poeta Orazio conservò sempre un odio accanito per il
suo maestro, autentico terrore della sua infanzia, da lui
soprannominato plagosus, “il battitore”.
Altre discipline erano la filosofia, la matematica e la
medicina. Al secondo e soprattutto al terzo ciclo di
studi accedevano quasi esclusivamente i figli degli
aristocratici, che venivano poi avviati alla vita pubblica.
Chi aveva concluso questo percorso spesso lo coronava
con una sorta di “master” all’estero: le mete più
rinomate erano le scuole filosofiche e scientifiche di
Atene, Alessandria d’Egitto, Rodi o Pergamo.
L’apprendimento si basava soprattutto sulla ripetizione
e i maestri non lesinavano bacchettate sulle mani o
sulla schiena per costringere gli allievi a imparare a
memoria i testi degli autori o a rispettare la disciplina.
IL CALENDARIO SCOLASTICO E I
MATERIALI
Le lezioni a scuola iniziavano al mattino presto e duravano circa sei ore.
L’anno scolastico durava otto mesi,a partire dalla fine di marzo, con un
interruzione durante i mesi estivi. Quando c’era il mercato(nondinae),
ogni nove gg,gli alunni non andavano a scuola come anche nei giorni
dedicati a festività religiose e civili. L’orario scolastico era di sei ore al
giorno, con l’intervallo per il pranzo (prandium) che veniva consumato a
casa propria. Le aule erano stanze d’affitto, tabernae, o portici, pergulae. Il
maestro sedeva su una sedia con spalliera e braccioli, chiamata cathedra,
mentre gli studenti stavano davanti a lui, seduti su sedie, sgabelli o
panche, e tenevano sulle ginocchia pugillares, tavolette, o cerae, tavolette
cerate, dove appoggiavano tutto il necessario per scrivere e leggere: il
papyrus, foglie di papiro e la pergamene, pelle di pecora conciata e usata
come materiale scrittoreo. Per scrivere usavano la penna, con il calamaio,
l’inchiostro, e lo stilus, ovvero un bastoncino con una parte appuntita per
scrivere e una piatta con una spatola per cancellare.
Il maestro aveva a disposizione una rozza lavagna (tabula) e un
abaco (abacus), per i calcoli. Spesso, per mantenere l’ordine e la
disciplina il maestro percuoteva con la ferula, la frusta, o con il
flagellum, la sferza, gli alunni svogliati e distratti. Per scrivere
usavano la penna, con il calamaio, l’inchiostro, e lo stilus, ovvero un
bastoncino con una parte appuntita per scrivere e una piatta con
una spatola per cancellare. Il maestro aveva a disposizione una rozza
lavagna (tabula) e un abaco (abacus), per i calcoli. Spesso, per
mantenere l’ordine e la disciplina il maestro percuoteva con la
ferula, la frusta, o con il flagellum, la sferza, gli alunni svogliati e
distratti. Le classi erano composte da ragazzi e ragazze senza
distinzione di età e di sesso. La disciplina era dura e brutale anche
perché gli insegnanti ricorrevano a punizioni corporali. Le scuole
chiudevano solo nei giorni di mercato, durante le feste per Minerva
e per le vacanze estive.
L’ISTRUZIONE DELLA DONNA
La donna veniva considerata inferiore rispetto all’uomo fin dalla nascita, e
ciò si rifletteva anche nella scuola. Solitamente i primi anni di studio li
svolgeva a casa con un insegnante privato o con la madre perchè il tragitto
da casa a scuola veniva considerato troppo pericoloso. Giunta l’adolescenza
potevano andare a scuola, ma dovevano uscire prima dei maschi e venivano
portate a casa dal padre. L’unico dovere del padre, era quello di indirizzare la
figlia nelle giuste scelte per il futuro dal punto di vista scolastico e coniugale.
Esistevano anche delle scuole unicamente femminili dove si studiavano
danza e canto e altre dove veniva insegnata la letteratura. Quando
diventavano madri, la donna ricca affidava i propri figli al pedagogo di fama
che aveva pagato a peso d'oro mentre le donne povere "si liberavano" dei
loro figli mandandoli in una di quelle scuole private che i professionisti
avevano aperto nell'Urbe alla fine del II secolo e che abbondavano in Roma. I
figli pativano di questa specie di abbandono materno. Se l'allievo
apparteneva ad una famiglia ricca aveva tutto l'agio di respingere il
sedicente maestro al suo ruolo di subalterno, che era poi quello di
domestico, anche se precettore. I fanciulli di origine modesta non avevano
alcuna considerazione del maestro di cui frequentavano la scuola.
LA FIGURA DEL MAESTRO
L'ambizione del maestro si limitava meccanicamente ad insegnare agli
allievi a leggere, a scrivere e a fare i calcoli, e poiché questo disponeva di
parecchi anni, non si preoccupava affatto di perfezionare i suoi metodi
approssimativi o piuttosto di rinnovare i suoi triti programmi. Le figure di
retore e grammatico si rivolgevano ad un pubblico ristretto. I primi
professori di grammatica e di retorica provenivano dall'Egitto e dall'Asia. Il
più famoso dei maestri fu Quintiliano. Le lezioni si impartivano in latino e
in greco presso il grammaticus. Sembra che i grammatici romani non
abbiano mai smesso di basare l'insegnamento della letteratura latina su
quello della letteratura greca. Il grammatico disponeva di una doppia
biblioteca a differenza del ludus litterarius il cui sapere si limitava a un
libro solo. Il grammatico aveva limitato da sempre la sua scelta di autori
latini ai poeti delle prime generazioni e aveva la civetteria di spiegare
questi scrittori in greco, le cui opere erano più o meno riduzioni dal greco.
Negli ultimi venticinque anni del primo secolo a.C. un
liberto attico, Quinto Cecilio Epirota, decise di attuare nella
scuola di grammatica che lui dirigeva due modifiche in un
colpo solo: osò parlare latino e ammettere all'onore delle
sue lezioni autori latini viventi o scomparsi da poco. Le sue
opere cominciavano gradualmente ad arricchire i
programmi. Questi tentativi intermittenti di rinnovamento
non bastarono a modificare il carattere fondamentale di un
insegnamento che si può definire tanto più come "classico"
quanto più era legato alle tradizioni di successi già
consacrati. La scuola di grammatica di Roma guardò sempre
al passato, se pure con maggior o minore intensità secondo
il momento, e il latino che vi si insegnava non fu mai, per
essere esatti, una lingua viva, ma la lingua di cui si erano
serviti i "classici".
I grammatici imponevano prima di tutto esercizi ad alta voce e
recitazioni a memoria. Lavorando su un testo si svolgevano tre
funzioni fondamentali:
• l'emendatio ovvero l'attuale critica orale che esigeva riflessione da
parte degli studenti;
• l'enarratio propriamente detto commentario i cui difetti
guasteranno più tardi l'opera di un Servio;
• l'explanatio ovvero la spiegazione frase per frase o verso per verso,
definendo tutte le figure retoriche e ricavando il senso di ogni
parola.
Le discipline che i Romani chiamarono arti liberali entravano
nell'insegnamento solo di seconda. Il grammatico romano si
occupava di tutto, senza nulla approfondire e i suoi allievi a loro
volta non facevano altro che sfiorare di sfuggita le conoscenze
implicite della letteratura ch'egli veniva citando.
La mitologia indispensabile a intendere le leggende poetiche, la musica
quando da essa dipendevano i metri delle odi o dei cori, la storia senza
della quale parecchi passaggi dell'Eneide sarebbero rimasti inintellegibili,
la geografia quando bisognava seguire Ulisse nelle tribolazioni del ritorno,
l'astronomia quando una stella si levava o tramontava nel ritmo di un
verso e le matematiche nella misura richiesta dalla musica e
dall'astronomia. Il rhetor, ovvero il retore, insegna a parlare
eloquentemente. L'eloquenza dominava le assemblee. Poco dopo il
regime imperiale sotto i Flavi l'eloquenza, soprattutto quella a cui
approdavano gli insegnamenti di grammatica e di retorica, si svuotò di
ogni contenuto. Quando irruppero i pretoriani nella politica anche l'arte
dell'eloquenza fu abbandonata. Gli studi filosofici non furono mai
pienamente accolti a Roma e il senato cacciò dall'Urbe l'accademico
Carneade, lo stoico Diogene e il peripatetico ("passeggiatore", ovvero
"che insegnava mentre passeggiava") Critolao; Traiano e Adriano la
permisero solamente nei paesi d'origine come ad Alessandria e ad Atene.
La filosofia aveva continuato a destare prevenzioni sospettose e ironiche e
il cittadino che avesse voluto dedicarsi ad essa non aveva che tra due vie:
o disporre di un grande patrimonio per mantenere a sue spese un maestro
a casa sua, o espatriare in una di quelle lontane città in cui i filosofi
potevano esporre liberamente le loro speculazioni.
IL LATINO LINGUA DELLA CIVILTA’
EUROPEA
La lingua latina fa parte del grande gruppo delle lingue indoeuropee. Con
questo termine si indica un insieme di lingue appartenenti all'area
geografica che va dall'Europa occidentale all'India e accomunate da vari
elementi (detti isoglosse). Confrontando infatti le varie lingue non
rimangono dubbi sull'esistenza di antichissimi dialetti molto simili fra loro.
Tuttavia non si può pensare ad una comune lingua indoeuropea,
soprattutto perché le varie popolazioni che parlavano questi dialetti si
sono disperse nel corso dei secoli e le loro lingue si sono differenziate.
Esaminando le isoglosse si possono stabilire rapporti insospettati fra
lingue parlate da popoli lontanissimi fra loro. Fra il 1400 e il 1000 a.C. varie
popolazioni di lingua indoeuropea si diffusero in Italia. Una di esse, che si
era insediata su un colle alla sinistra del Tevere fondando il villaggio
fortificato di Roma, riuscì ad imporre la sua egemonia a poco a poco in
tutto il bacino del Mediterraneo.
La lingua dei vincitori era il latino, ovvero la lingua del Lazio, che
rapidamente soppiantò tutte le altre. Si impose più facilmente sulle
popolazioni barbariche occidentali, mentre la penetrazione fu quasi
nulla nei territori orientali, come la Grecia, che aveva già una sua
cultura molto evoluta. L'unica nazione orientale che conserva una
profonda traccia della conquista romana è la Dacia, l'odierna Romania:
dalla fusione del latino con la lingua indigena nacque il rumeno.
Dell'antica lingua di Roma non sappiamo molto: gli unici documenti a
nostra disposizione sono testi scritti, mentre non sappiamo niente della
lingua parlata quotidianamente dalla gente. Per di più, il patrimonio
letterario dei latini ci è giunto in maniera molto esigua e frammentata.
Non abbiamo nemmeno precise informazioni sulla pronuncia, visto che
non siamo in grado di riprodurre l'accento latino. Quindi dell'antica
lingua di Roma conosciamo solo il latino letterario. A differenza di
quello popolare, il latino letterario era uguale dovunque, poiché veniva
insegnato nelle scuole di tutta Europa. Accanto al latino letterario c'era
quello parlato dal popolo. Era una lingua molto frammentata che
assumeva caratteristiche diverse a seconda delle vicende storiche di
ogni regione.
Con la caduta dell'Impero Romano d'Occidente (476 d.C.) le
frammentazioni regionali si fecero sempre più forti, al punto che nell'813,
in Francia, il Concilio di Tours esortò i preti a predicare in volgare, e non in
latino, affinché la gente potesse capire. Fra i numerosi volgari che stavano
nascendo ne prevalsero alcuni, che diedero vita alle lingue neolatine o
romanze. Si formarono quindi il portoghese, lo spagnolo, il catalano, il
provenzale, l'italiano, il sardo, il rumeno, il ladino e la lingua d'oil da cui
derivò il francese. Verso il XII sec. le nuove lingue volgari iniziarono ad
essere usate al posto del latino nella letteratura. Esemplare fu il caso di
Dante Alighieri, che scrisse opere sia in volgare sia in latino, a seconda del
pubblico a cui intendeva rivolgersi. Con il trionfo delle lingue neolatine,
tuttavia, il latino non scomparve ma rimase lingua della Chiesa e della
cultura per tutto il Medioevo. Era diverso dal latino classico, ma era in
compenso una lingua viva e concreta. Oggi il latino non è più la lingua
internazionale della cultura: per complesse ragioni storiche, oggi ha preso
il suo posto l'inglese. Tentare di sostituirlo con altre lingue, come
l'esperanto, è inutile. Il latino tuttavia rappresenta un elemento unificante
della storia dei vari Paesi europei.
DIFFERENZE TRA SCUOLA GRECA E
ROMANA
Anche a Roma il fanciullo entra nella scuola primaria a sette anni e
vi rimase fino agli undici o ai dodici. Il maestro elementare è
designato dai romani con la parola litterator o con le espressioni
primus magister, magister ludi, magister ludi litterari. Anche a Roma
il mestiere di maestro è poco considerato ed è per lo più esercitato
da gente di umile condizione. Il maestro è stipendiato dagli alunni,
una trentina dei quali è necessaria per mettere insieme una paga
equivalente a quella di un operaio qualificato. La scuola è sistemata
in un locale a pianterreno aprentesi sui portici di una strada
preferibilmente centrale. Anche le fanciulle possono frequentare la
scuola, per quanto, in genere, sia preferita, per loro, l'istruzione
privata. Attrezzatura e metodi corrispondono a quelli della scuola
primaria greca. Anche nella scuola romana predominano la
passività, il mnemonismo, la coercizione; solo verso il I secolo d.C. si
penserà di sostituire alla coercizione la spinta dell'emulazione o
l'attrazione di qualche dono.
L'insegnamento secondario, che appare, come s'è detto, nel corso
del III secolo, si basa, come in Grecia, sulla letteratura e sul
commento dei classici, rappresentati, qui, da Livio Andronico, da
Ennio e, probabilmente, dai commediografi. Ai tempi di Augusto,
Quinto Cecilio Epirota introdurrà nel canone Virgilio ed una serie di
nuovi autori, fissando così quel programma che resterà immutato
fino alle invasioni barbariche. Da tale programma sono esclusi
Cesare e Tacito; lo stesso Livio ha una posizione secondaria: lo
storico giù studiato è Sallustio; fra gli oratori eccelle, ovviamente,
Cicerone; fra i comici Terenzio. Il professore di scuola media
(grammaticus) è più considerato e meglio pagato (circa quattro
volte di più) del maestro elementare. Il metodo didattico riproduce
esattamente quello della scuola greca. La scuola superiore è, anche
in Roma, essenzialmente scuola di retorica. Anche l'insegnamento
del rethor latinus ha per soggetto l'arte oratoria, col suo bagaglio di
regole, di tecniche, di abiti da apprendersi ed acquisirsi
progressivamente. La prima scuola latina di retorica viene aperta
nel 94 a.C. da Lucio Plozio Gallo, un democratico, cliente di Mario; e
viene chiusa l'anno successivo per ordine dei censori aristocratici.
Il provvedimento ha una evidente duplice causa politico-sociale: da
un lato la tendenza dei nuovi maestri a lasciar da parte le astratte
argomentazioni attorno ad assurdi quesiti per avvicinarsi invece alla
realtà contemporanea, specialmente politica; dall'altro, il fatto che
lo studio della retorica impartito in latino riesce più facile e quindi
più rapido e meno costoso, e conseguentemente più accessibile ai
ceti poco abbienti, laddove la scuola superiore greca è privilegio
esclusivo dei ricchi.
Una scuola latina di filosofia non esiste; quei pochi intellettuali che
affrontano gli studi filosofici non bastano a giustificare lo sforzo
necessario per tradurre i testi classici nella lingua di Roma. Neppure
esiste una scuola latina di matematica o di alta specializzazione
tecnica, per quanto la letteratura romana sia ricca di una schiera di
teorici dell'agronomia e dell'architettura. Anche l'insegnamento
della medicina, che finirà più tardi coll'essere latinizzato, viene
impartito, nell'età repubblicana e in quella del primo impero, in
lingua greca.
Unica importante eccezione è quella del diritto. Lo sviluppo della
tecnica giuridica (prerogativa del genio latino) è ormai giunto a un
grado così avanzato da richiedere una seria specializzazione. D'altra
parte le carriere che una buona conoscenza del diritto apre dinanzi
ai giovani abbienti ed ambiziosi sono numerose e brillanti. Così a
partire dall'età augustea verranno sorgendo le stationes jus
publicae docentium aut respondentium, ad un tempo scuole
pubbliche di diritto e uffici di consultazione legale.
Cicerone considerava motivo di vanto per la repubblica non aver
creato alcun sistema di educazione uniforme e controllato
direttamente dallo stato. Intorno al 350 d.C. Costanzo II afferma, al
contrario, che ii primo merito di un governo e di un principe è
quello che egli si acquista verso la pubblica istruzione. Simmaco, nel
IV secolo, dichiara esplicitamente che « la prova della floridezza di
uno stato si desume dallo stanziamento di cospicue retribuzioni ai
pubblici docenti ». Nel corso dell'età imperiale la tendenza «
dirigista » e « interventista » dello stato si estende non solo ad un
numero sempre maggiore di imprese economiche, ma anche a
tutta una serie di altre attività, fino a coprire quasi completamente
l'estensione della vita sociale.
A poco a poco, anche la scuola debba rientrare nell'ambito del
controllo e delle direttive statali. Il movente principale che spinge lo
stato ad interessarsi della scuola è la necessità di assicurare in
continuità l'esistenza di una massa ormai enorme di funzionari. Si
tratta di una vera e propria nuova classe che va dagli « scribi » di
grado elevato, fino ai « notarii » (stenografi) di grado più modesto,
preparati in scuole speciali.
Lo stato interviene nella vita scolastica per tre vie: la creazione di
scuole pubbliche atte a rilasciare titoli ufficiali; la regolamentazione
delle scuole municipali ; la vigilanza sull'istruzione privata.
La creazione di scuole pubbliche statali, a sua volta, può attuarsi o
mediante l'istituzione di nuove cattedre o mediante il
riconoscimento ufficiale di cattedre e sedi già esistenti. Lo stato
finanzia la scuola, le fornisce i locali, ne fissa i rapporti di
dipendenza dall'autorità politica. Tutto ciò si riferisce solo alla
scuola superiore; la media e la primaria rimangono libere. Famose
saranno le scuole di diritto create, oltre che a Roma, a Beirut, a
Costantinopoli; ad Atene Marco Aurelio fonda cattedre di retorica e
filosofia; a Costantinopoli Teodosio apre nel 425 una vera università
di stato.
La scuola di stato è concepita, almeno fino a Giustiniano, come
scuola modello; la scuola ordinaria, che somministra il sapere a
grandi masse di alunni, è la scuola municipale. Solo ai tempi di
Giuliano, per ovvie ragioni di ordine politico-ideologico, si imporrà
un controllo statale circa i meriti scientifici ed il valore morale degli
insegnanti.
L'insegnamento privato a domicilio è totalmente libero, quello
privato impartito pubblicamente è in parte controllato. Non sono
sottoposte ad alcun controllo le scuole professionali, né quelle
cristiano-catechistiche. Lo stato, comunque, si interessa solo
dell'aspetto amministrativo ed interviene con esenzioni fiscali,
miglioramenti delle remunerazioni, borse di studio (istituzioni
alimentari).
Orari, metodi, programmi, sono di esclusiva spettanza del maestro.
Durante l'età imperiale lo stato affronta il problema educativo
anche mediante la creazione di accademie, musei, biblioteche. Dal
punto di vista burocratico, la scuola dipende direttamente
dall'autorità politica; non esiste una vera amministrazione
scolastica.
L’EDUCAZIONE
L’educazione, un argomento di forte dibattito
quotidiano non è di certo nata con la psicologia e la
pedagogia nel corso del ‘900; come ogni minimo spetto
della nostra cultura, ha origini molto antiche. Già
nell’antica ROMA erano ben delineati gli iter
dell’educazione e della formazione per accompagnare i
fanciulli nella crescita e per prepararli ad entrare nel
mondo come uomini liberi, perché istruiti. Ritengo
quindi molto interessante conoscere come i nostri
antenati avevano pensato alla formazione delle
persone e quindi, di fatto, a come inserire nella civiltà
nuovi individui.
LA SCUOLA PRIMARIA (LUDUS
LETTERARIUS)
La scuola primaria, che avrebbe dovuto porre le basi per il migliore
sviluppo dei fanciulli, si svolgeva in condizioni precarie. Il maestro si
limitava all'insegnamento della lettura, della scrittura e a far di conto. Il
metodo seguito era quanto di più meccanico e laborioso per gli alunni
che per imparare a leggere dovevano prima mandare a memoria
l'ordine e il nome delle lettere, successivamente riconoscere quale era
la loro forma e infine mettere assieme sillabe e parole. Altrettanto
faticosamente avveniva per la scrittura: gli alunni dovevano copiare un
modello aiutati dal maestro che, tenendo nella sua la mano dell'allievo,
gli faceva eseguire i movimenti necessari per riprodurlo. Era un sistema
inutilmente macchinoso e irrazionale, che sembrava fatto apposta per
prolungare il tempo necessario per l'apprendimento elementare che in
effetti durava diversi anni.
Anche per imparare a eseguire calcoli elementari gli alunni
trascorrevano molto tempo a fare conti con le dita delle mani: per
calcolare le decine, le centinaia e le migliaia imparavano a spostare i
sassolini (calculi) degli abachi. Gli imperatori del II secolo d.C., come
Adriano, favorirono la diffusione dell'insegnamento elementare fin
nelle lontane regioni dell'impero convincendo i maestri ad
esercitare il loro insegnamento esentandoli dal pagamento delle
tasse. Il metodo d'insegnamento, limitato e meccanico, continuò
nel tempo ad essere quello tradizionale, cosicché un analfabetismo
di ritorno era usuale tra classi più povere della popolazione e tra i
soldati, che per esempio erano incapaci di tenere una minima
contabilità della legione.
LA SCUOLA PRIMARIA DI RIPOLI
L’INSEGNAMENTO SECONDARIO
Durante il II secolo a.C., quando Roma iniziò a dominare sulla
Grecia, ci si rese conto della inferiore educazione dei governanti
romani nei confronti dei loro sudditi. Si favorì allora in Roma la
fondazione di scuole che permettessero una formazione culturale
simile a quella dei greci che, poiché permetteva l'ascesa al potere
politico tramite l'eloquenza, che dominava le assemblee, si volle
limitare alla classe più elevata. I primi professori di grammatica e
retorica provenivano dall'Oriente e insegnavano usando la lingua
greca; quando furono sostituiti da italici, si continuò ad usare il
greco per l'insegnamento superiore della retorica, mentre per
quello propedeutico della grammatica si adoperava sia il latino che
il greco. Durante il periodo riformatore del console del partito
"popolare" della repubblica romana Caio Mario si cercò di
estendere l'uso del latino come fece il retore Plozio Gallo, cliente di
Mario, il cui esempio fu seguito dalla pubblicazione dell'opera
Rhetorica ad Herennium.
Con questa si tentava una volgarizzazione della cultura superiore.
L'oligarchia romana intervenne a smorzare ogni tentativo di innovazione e
lo stesso Plozio Gallo per intervento nel 93 a.C. dei censori dovette
rinunciare al suo insegnamento poiché «bisognava ritornare alla regola
degli antichi» considerando «che era cosa colpevole adottare una novità
contraria alle loro abitudini.» Le scuole per l'insegnamento dell'eloquenza
riapriranno soltanto durante il periodo in cui Cicerone scrive i suoi trattati
sulla retorica, nell'età di Cesare, e successivamente nel periodo imperiale
dei Flavi, generosi mecenati di Quintiliano. L'insegnamento della retorica
continuò ad essere riservato a pochi anche se era impartito oltre che in
greco anche in latino. Col decadimento del libero dibattito politico nell'età
imperiale, anche la retorica perse ogni reale contenuto divenendo
esercizio di astratta eloquenza. Dall'insegnamento della retorica vennero
allontanate quelle dottrine che erano sempre state accomunate ad essa
come la filosofia e le scienze matematiche e naturali che pure gli
imperatori Traiano e Adriano continuavano a sostenere nel Museo di
Alessandria e ad Atene.
In vero nel centro del potere, a Roma, già da tempo il dibattito
filosofico pubblico era stato proibito dal senato nel 161 a.C. e
considerato politicamente pericoloso ancora nel 153 a.C. quando,
senza tener conto della loro immunità diplomatica, furono cacciati i
filosofi Carneade, Critolao e Diogene. Una politica intellettuale
antifilosofica questa che era stata ribadita da Vespasiano, che pure
concedeva privilegi ai retori e ai grammatici. Nonostante, quindi,
che le scuole preparatorie di grammatica e retorica fossero
frequentate da numerosi giovani provenienti da famiglie agiate e
che gli stessi imperatori ne fossero patrocinatori, l'insegnamento
dell'eloquenza fu caratterizzato da uno sterile formalismo. Il
grammaticus iniziava la sua lezione con la spiegazione (explanatio)
dell'opera classica in esame enumerando meccanicamente le figure
retoriche comprese nel testo: a questo seguiva l'emendatio una
critica formale del testo e alla fine l'enarrato un giudizio
complessivo dell'opera in esame. Da tutto questo le arti liberali non
entravano che di straforo senza nessun approfondimento.
Mitologia, musica, geografia, storia, astronomia, matematica erano
richiamate solo per una comprensione del testo in esame.
I romani non concepivano per il loro senso pratico che
si potessero studiare disinteressatamente quelle
discipline che potevano conoscere belle e fatte nei libri
senza sentire la necessità di svilupparle o controllarle.
Quando si giudicava che l'allievo avesse raggiunto
un'adeguata preparazione, questi poteva dare prova in
pubblico delle sue qualità di orator nelle causae dove
esaminava particolari casi di coscienza (suasoriae) o
nelle arringhe (controversiae), espressioni di
un'eloquenza del tutto artificiosa e lontana dalla realtà,
ridotta a pure declamationes. Questo insegnamento,
lontano dalla vita reale e chiuso in un gretto
classicismo, distaccò sempre più i giovani disgustati
dall'astrattezza di una scuola di cui si prendevano gioco
pensando solo a soddisfare i loro immediati bisogni
reali.
LA SCUOLA DEL RHETOR
Il terzo ciclo di istruzione si compiva alla scuola del rhetor, il maestro di
eloquenza: qui si studiava diritto e si approfondiva la conoscenza dei
classici latini e greci per sviluppare e perfezionare “l’arte del dire“,
ovvero la retorica: saper parlare in pubblico e convincere l’uditorio era
infatti fondamentale per l’attività forense e la vita politica. Altre
discipline erano la filosofia, la matematica e la medicina. Al secondo e
soprattutto al terzo ciclo di studi accedevano quasi esclusivamente i
figli degli aristocratici, che venivano poi avviati alla vita pubblica. Chi
aveva concluso questo percorso spesso lo coronava con una sorta di
“master” all’estero: le mete più rinomate erano le scuole filosofiche e
scientifiche di Atene, Alessandria d’Egitto, Rodi o Pergamo. I primi
professori di grammatica retorica provenivano dall’oriente e
insegnavano usando la lingua greca; quando furono sostituiti dagli
italici, si continuò a usare il greco per l’insegnamento superiore della
retorica, mentre per quello propedeutico della grammatica si
adoperava sia il latino che il greco.
LE MATERIE
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Le discipline principali studiate nell’ antica Roma
erano:
Mitologia
Musica
Geografia
Storia
Astronomia
Matematica
Fisica
I GIOCHI E GLI
SPETTACOLI
I GIOCHI E GLI SPETTACOLI
Le feste nel calendario romano e il significato
religioso degli spettacoli
Con il termine feriae i romani indicavano i giorni in cui venivano celebrate le
festività religiose,le più importanti erano i ludi che erano degli omaggi a un
particolare Dio.
C’erano tre tipi di ludi:ludi scaenici ovvero spettacoli di danzatori,mimi e giocolieri
accompagnati dalla musica a dal canto,si svolgevano a teatro;ludi circenses ovvero
i giochi del circo e i ludi gladiatorii ovvero i combattimenti tra gladiatori che
avvenivano negli anfiteatri.
Alle feste
religiose si aggiungevano quelle offerte dai Cesari,quelle celebrate in campagna
dai contadini,quelle di quartiere in onore dei santuari locali,quelle dei nuovi
culti,quelle delle corporazioni,quelle militari e quelle che offriva a sorpresa
l’imperatore,in questo modo i romani contavano più di 175 giorni di festa all’anno.
Augusto fece molte riforme sui giochi e sugli spettacoli:la prima fila di panche
spettava ai senatori e vietò agli ambasciatori degli alleati di assistere ai giochi e agli
spettacoli,separò i soldati dal popolo,assegnò ai plebei sposati,a chi indossava la
pretesta e ai loro precettori delle gradinate specifiche,vietò a chi era mal vestito di
posizionarsi nelle gradinate di mezzo,le donne potevano sedersi solo nella parte
superiore e dovevano essere da sole,inoltre non potevano andare a teatro prima
della quinta ora.
Anche le feste non religiose avevano in realtà un origine
religiosa,ad esempio la gara di pesca che si svolgeva l’8 giugno e che
si concludeva con una mangiata di pesce fritto,in origine era un
tributo a Vulcano,che cedeva i suoi pesci in cambio di anime
umane.
Un origine religiosa ce l’avevano in realtà anche le corse dei cavalli
perché a fine gara il cavallo vincitore veniva immolato e il suo
sangue veniva utilizzato per le lustrazioni (cerimonie di
purificazione).
Proprio per l’origine religiosa di questi giochi,Augusto impose delle
regole per i combattimenti tra gladiatori:gli spettatori dovevano
indossare la toga di gala,dovevano mantenere un atteggiamento
educato,non potevano ne mangiare ne bere e si potevano alzare
solo durante la processione inaugurale in onore dell’imperatore che
offriva loro degli spettacoli così grandi.
Infine si aveva un’impronta religiosa nella simbologia astrologica
rappresentata nell’arena:l’arena rappresentava la Terra,il fossato
che circondava la pista era il mare,l’obelisco simboleggiava il sole,i
sette giri di pista dei carri inaugurali riproducevano l’orbita dei sette
pianeti e il susseguirsi dei sette giorni della settimana,infine le
dodici porte delle rimesse dei carri rappresentavano lo zodiaco.
GIOCHI ALL’INTERNO DELL’ANFITEATRO
All’interno dell’anfiteatro si svolgevano le battaglie tra gladiatori,che potevano essere di due
tipi.
Il primo tipo era tra due gladiatori,il secondo tipo era tra una belva e un gladiatore,chiamate
venatiores.
A loro volta le venatiores potevano essere di due tipi,tra un gladiatore e una belva o tra due
belve.
Le venatiores si tenevano la mattina,mentre i combattimenti tra gladiatori il pomeriggio.
Gli anfiteatri non offrivano mai una protezione alla folla da queste belve,se venivano alzate
delle barriere o scavati dei fossati erano solo per non far scappare le belve.
Raramente le belve sopravvivevano,gli animali più utilizzati in queste battaglie erano i leoni,le
tigri,gli elefanti,i cammelli,le capre e i cervi.
Spesso le venatiores venivano anche utilizzate per uccidere criminali di basso rango;una
condanna molto comune era la damnatio ad bestias,che consisteva nell’essere sbranato vivo
dalla bestia.
Le damnatio ad bestias erano delle vere e proprie tragedie in quanto,all’inizio,il criminale
doveva giocare con la bestia per far divertire gli spettatori,ma alla fine veniva sbranato dalla
bestia stessa.
Si dice che “lo spettacolo” era così cruento che le persone di alto rango preferivano andare a
pranzo anziché assistervi.
Inoltre questi criminali dovevano combattere contro le bestie senza armi ed armatura.
Augusto era affascinato dalla diverse belve che ogni volta vedeva e quindi decise che,quando
quest’ultime erano particolarmente belle,le avrebbe fatte apparire in posti in usuali per farle
vedere al popolo.
Infine negli anfiteatri si potevano svolgere anche le naumachiae.
Le naumachiae erano le battaglie navali.
Le naumachiae venivano considerate degli spettacoli più grandi dei combattimenti tra
gladiatori perché la prime terminavano sempre con la morte di una delle due flotte;per fare
ancora più scena spesso l’acqua veniva fatta straripare dai bordi dell’arena.
Inoltre venivano fatte di rado perché richiedevano grandi spazi per essere svolte e ingenti
somme di denaro per procurarsi le navi.
A scontrarsi erano sempre due flotte composte da condannati a morte,anche in questo caso
venivano utilizzate come pretesto per uccidere i criminali.
Ogni flotta doveva rappresentare un popolo che era famoso per la sua potenza marittima
nelle Grecia classica o l’Oriente ellenistico.
La prima naumachia di Roma fu svolta sotto Cesare nel 46 a.C.
Cesare ingaggiò 2000 combattenti e 4000 rematori.
Le naumachiae più importanti,oltre a quella di Cesare furono quella di Augusto;quella di
Claudio,che fu l’unico a riprodurre una vera e propria battaglia navale;quella di
Domiziano;quella di Traiano;quella di Tito e quella di Nerone.
L’arena si riempiva d’acqua grazie ad un bacino che si trovava sotto di essa.
Questo bacino era collegato tramite delle condutture all’acquedotto più vicino.
Grazie a questo stesso sistema era anche possibile svuotare l’arena dell’acqua.
L’introduzione di nuove tecnologie fecero perdere fascino alle naimachiae e l’ultima si ebbe
sotto i Flavi.
L’anfiteatro più importante di Roma è il Colosseo.
TEATRO LATINO
Il teatro era fortemente legato all’intrattenimento in quanto piaceva molto alla
popolazione,tutti andavano a teatro l’ingresso era gratuito.
Spesso i testi erano di origine greca rielaborati con elementi etruschi (contaminatio).
La prima opera teatrale latina è attribuita a Livio Andronico (liberta greco) nel 240 a.C.
La prima forma di opera latina fu la satura,letteralmente la nostra satira,che nasceva dai
fescennini etruschi.
Questi fescennini nascono in campagna,erano le tipiche battute botta e risposta che si
scambiavano i contadini per passare il tempo (osterie).
Si dice anche che la satura si chiamasse così dal tipico piatto dove c’era un po’ di tutto.
La satira personale fu però proibita e la pena era la carcerazione.
Questo genere consisteva in un’opera teatrale mista di musica,danze e recitazione.
Successivamente nacquero due tipi di spettacoli:le commedie,che avevano un inizio triste e
una fine divertente e le tragedie,che avevo un inizio tranquilla e una fine tragica.
I più grandi commediografi furono Tito Maccio Plauto e Publio Terenzio Afro.
La commedia greca si chiamava palliata dalla tipica veste che portavano gli attori,mentre
quella romana veniva chiamata togata dalla veste che portavano gli attori romani.
I più grandi tragediografi furono Lucio Anneo Seneca e Lucio Accio.
La tragedia greca si chiamava coturnata dalle tipiche calzature degli attori greci,mentre quella
romana si chiamava praetexta dalla veste dei senatori romani.
Sia che le commedie che le tragedie derivano dalle atellane.
Le atellane,chiamate così perché sviluppatesi nella città di Atella,erano scena di
vita quotidiana in cui gli uomini (le donne non potevano recitare) con delle
maschere interpretavano un tipo (l’avaro,il soldato,il messaggero…).
Questi tipi avevano dei costumi tipici (l’avaro indossava la pelliccia,il soldato
portava la spada,il messaggero portava il cappello…)
Il declino di commedie e tragedie portò alla diffusione del mimo.
Il mimo apportò alcune modifiche alla recitazione classica:attori senza
maschera,presenza di donne sul palco e assenza di calzature per permettere di
ballare.
I mimi indossavano o vestiti candidi (mimus albus) o vestiti multicolori (mimus
centuculus).
Inizialmente era supportato da una drammaturgia,ma poi si arricchì di
musica,canto e gestualità;era uno spettacolo in cui la parola non serviva.
Una compagnia di attori era detta grex ed era formata da schiavi,mentre per le
atellane gli attori erano uomini liberi;a sua volta gli attori si dividevano in due
categorie principali:histriones e mimi.
L’attore romano poteva definirsi un interprete completo in quanto era addestrato
a fare di tutto:ballo,canto e recitazione,gli attori non godevano però di buona
fama.
Infine c’erano le catervae che erano le compagnie condotte da un capocomico,un
conductor e un choragus (un attrezzista tuttofare che preparava i costumi egli latri
attrezzi necessari per la messa in scena).
Le maschere erano di legno o tela e avevo dei capelli finti.
I tratti somatici del personaggio erano fortemente
caratterizzati così da permettere ad uno stesso attore di
fare più personaggi inoltre le maschere fungevano anche da
amplificatore così da far sentire meglio la voce dell’attore.
Nelle commedie venivano utilizzate ben 44 maschere:11
per il ruolo del giovane,9 per quello del vecchio,7 per gli
schiavi e le cortigiane,5 per le donne giovani,3 tre per
quelle vecchie e 2 per le fantesche.
Le maschere erano tipiche delle commedie e delle tragedie
infatti i mimi non le utilizzavano.
Gli spettatori potevano capire ancora prima dell’inizio dello
spettacolo di cosa si sarebbe trattato grazie alla musica in
quanto ogni tipologia aveva un suono diverso.
Il prologo veniva recitato prima dell’inizio dello spettacolo e
serviva per esporre i fatti.
LA CUCINA
LA CUCINA NELL’ANTICA ROMA:COSA E DOVE
MANGIAVANO I ROMANI
Gli antichi romani a tavola
Durante l’intera giornata, gli antichi romani facevano tre pasti
principali: ientaculum (da ieiunus, <<digiuno>>, e iento, <<faccio
colazione>>), ovvero la prima colazione, tra le otto e le nove del
mattino; il prandium, il pranzo, consumato intorno a mezzogiorno e
la cena. Il primo pasto era a base di cibi leggeri come pane,
formaggio, latte, miele e frutta secca e si consumava molto
velocemente. Il prandium era un po’ più abbondante e si
mangiavano cibi preparati la sera prima, come legumi o carne, o si
finivano gli avanzi del pasto precedente. Il prandium era spesso
consumato fuori casa, nel thermopolium, un locale che vendeva cibi
e bevande, anche caldi. Per lo più i Romani vi mangiavano focacce,
salsicce, pesce fritto, cavoli, cipolle, olive e frutta. La copa,
<<ostessa>>, era colei adibita a servire da bere in vasi, coppe e
bicchieri, posti sulle mensole a parete dietro al bancone. Nel
bancone, inoltre, c’erano incavi utilizzati per contenere i recipienti
dei cibi e delle bevande; in un angolo, marmitte di bronzo o di
terracotta, bollitori o tegami, che venivano posti su piccoli focolari
in mattone o in metallo.
THERMOPOLIUM
La cena, invece, era il pasto più importante della giornata ed anche il più
abbondante. Di solito cominciava al tramonto del sole, ma se si trattava di
una cena importante, ovvero di un convivium, <<banchetto>>, i
commensali si mettevano a tavola tra le quindici e le sedici e vi
rimanevano anche fino all’alba del giorno successivo. La cena si svolgeva in
tre tempi: la gustatio o gustus, la cena propriamente detta e le secundae
mensae. La gustatio corrispondeva al nostro antipasto: si servivano uova
(da cui è derivata l’espressione ob ovo incipere, <<cominciare dall’uovo>>),
olive, funghi, crostacei, ostriche e porri, tutti alimenti che servivano per
stuzzicare l’appetito. Di solito durante la gustatio si beveva il mulsum, un
vinello leggero con aggiunta di miele.
Seguiva quindi la cena vera e propria caratterizzata anch’essa da più
portate, chiamate cenae: c’era la prima cena, l’altera cena, la tertia cena e
così via. Qui venivano servite carni di vario genere accompagnate da
salse.
Le secundae mensae comprendevano dolci di vario tipo, soprattutto a base
di miele come le placentae (focacce al miele), mele, pere, noci, ciliegie,
albicocche, datteri.
Era molto apprezzato il vino, diluito con acqua calda e addolcito con miele
o con resine profumate. Era posto nel cracter, un grosso vaso e versato in
coppe, pocula, da uno schiavo addetto a tale compito, il puer ad cyathum.
La cena veniva inizialmente consumata nell’atrio ma quando le case divennero più
ampie e articolate e soprattutto dove la ricchezza della classe dirigente lo rendeva
possibile, si svolgeva nel triclinio (sala da pranzo) dove il padrone di casa faceva
disporre i letti tricliniares (letti/divani) sui quali potevano sdraiarsi i convitati. Essi
erano composti da una base di legno o murata dove venivano disposti i cuscini,
materassi e coperte; erano inoltre leggermente inclinati verso la mensa. Il letto di
destra era chiamato summus, quello centrale medius e quello di sinistra imus. Su
ognuno dei tre letti c’erano tre posti, anch’essi distinti con il nome di summus,
medius e imus. Ci si sdraiava sul letto senza le scarpe e lavati e il posto d’onore era
riservato al padrone di casa che si sdraiava sul letto detto medius, accanto
all‘ospite più ragguardevole. Le donne stavano sedute ai piedi del marito. E questo
si fece fino all’età imperiale. Poi anche loro poterono sdraiarsi. I ragazzi invece,
sedevano su sgabelli di fronte ai genitori: era un segno di distinzione sociale difatti
soltanto i forestieri e i clienti delle osterie e degli alberghi mangiavano seduti. Gli
schiavi potevano stare sul triclinium solo nei giorni di festa e se autorizzati dal
padrone. Appena il nomenclator, lo schiavo che accompagnava gli invitati, aveva
sistemato gli ospiti alla mensa, i servitori, ministratores iniziavano a portare le
vivande, i piatti e gli utensili. Sulla tavola veniva sistemata una tovaglia ma solo
dall’età dell’imperatore Domiziano, prima se ne puliva di volta in volta la superficie
che era di legno o marmo. I piatti erano o piani (i patina o patella) o fondi (catinus)
e i bicchieri senza manico (poculum) o le tazze. Le posate non venivano usate, si
mangiava con le mani e dunque fra una portata e l’altra ci si lavava
frequentemente con acqua profumata che gli schiavi versavano da delle anfore.
Venivano anche forniti tovaglioli per asciugarsi; i commensali comunque ne
portavano da casa altri che venivano utilizzati durante la cena e poi riportati
indietro spesso pieni delle pietanze avanzate di cui il padrone faceva dono
(apophoreta).
Per i cibi liquidi o cremosi si usavano i cucchiai e la forchetta
non esisteva. Venivano portati quindi coltelli e cucchiai di
vario tipo, la ligula, il cucchiaio tradizionale e la trulla che è il
nostro mestolo e vari tipi di stuzzicadenti, dentiscalpia.
Era inoltre consuetudine buttare per terra i resti del cibo o
quello che non piaceva: uno schiavo aveva il compito di
spazzare il pavimento quando era sporco.
Di solito si curava particolarmente l’allestimento del
banchetto attraverso effetti scenografici ad esempio con fiori
e giochi d’acqua che esaltassero la magnificenza dei cibi offerti
agli invitati.
Per una cena offerta da Nerone, si racconta, vennero spesi per
la sola decorazione floreale oltre quattro milioni di sesterzi
(moneta romana).
Gli antichi romani, mangiavano distesi appoggiandosi
lateralmente sul fianco sinistro e con la mano sinistra
tenevano il piatto che, non appoggiavano sulla tavola, poiché
essa era occupata dal repositorium, un vassoio di cibi a cui
tutti attingevano liberamente.
BANCHETTO DI NERONE
L’ospite d’onore aveva diritto ad un posto d’onore, detto “consolare” e si trovava
alla destra del “triclinare” centrale, posto frontalmente alla porta in modo che un
messaggero potesse comunicargli, con facilità, un messaggio urgente. Il padrone di
casa doveva accomodarsi alla sinistra dell’ospite d’onore. Le dimore più ricche,
potevano godere di più camere da pranzo: il “triclinio” estivo, orientato a nord e
quello invernale orientato a ovest che sfruttava fino all’ultimo raggio di sole.
La cucina più antica era molto semplice, a base di cereali, legumi, formaggi e frutta.
Con la conquista dell’Oriente acquistò dei sapori e dei profumi particolari che a
noi, oggi, possono sembrare un mix tra la cucina orientale e quella medievale. Le
nuove conquiste arrivavano, chiaramente, solo sulle tavole dei ricchi.
Quello che sappiamo oggi ci arriva principalmente dal ricettario di Apicio, un noto
gastronomo contemporaneo dell'imperatore Tiberio (imperatore dal 37 a.C. al 14
a.C.), i manoscritti attribuiscono un corpus di ricette, il DE RE COQUINARIA, diviso
in 10 libri. Questa opera in realtà si è allargata nel corso dei secoli perchè partendo
da due libri scritti da Apicio, sono state aggiunte da altre persone ricette di diversa
provenienza fino a raggiungere il numero di 468.
La redazione che oggi leggiamo è quella del V secolo d.C.
Il manuale DE RE COQUINARIA ha un importante valore documentario poiché ci
fornisce un vasto numero di informazioni sugli usi alimentari dei romani, sui loro
gusti, sulle tecniche di preparazione dei cibi e sugli alimenti utilizzati per le ricette.
Questo manuale esprime anche i gusti raffinati dei ricchi romani che facevano a
gara nell'imbandire banchetti sontuosi con piatti sofisticati con ingredienti esotici e
pregiati.
La finalità di questa grande opera è solamente pratica infatti non gode di pregi
letterari. Lo stile è semplice e Apicio spesso si limita a elencare solo gli ingredienti
delle ricette. Il lessico è invece assai ricco di parole tecniche e popolari che
indicano alimenti o utensili.
Esempi di ricette:
-Antipasto di zucchine ripiene:vuota la zucca attraverso un
piccolo taglio verticale lungo un fianco e lessala in acqua
fredda. A parte prepara un ripieno tritando
pepe,levisco,maggiorana,salsa di Apicio,cervella già cotte e
delle uova crude,amalgama bene e se necessario
ammorbidisci il tutto con della salsa. Infarcisci la zucca cotta
con il composto,richiudila e friggi. Nel frattempo avrai
preparato della salsa acida qui di seguito:pepe
tritato,levisco,vino e salsa di Apicio,diluisci con del passito e
fai bollire con un po' di olio. Aggiungi dell'amìdo per
rendere la salsa più densa,versa sopra le zucche fritte con
un pizzico di pepe e servi.
-Secondo di pesce ''(Pesce) salato senza (Pesce)
salato'':cuoci fegato,pesta e metti pepe,liquame o sale.
Aggiungi olio. Fegato di capretto o di agnello o di lepre o di
pollo;e se vorrai formerai un pesce nello stampino.
Aggiungi olio verde sopra.
(E' stata interpretata con ''pesce di fegato'')
-Dessert ''Dolci casalinghi'': farcisci con una noce o pinoli o pepe
tritato(frutti di ) palma o datteri snocciolati. Tocca fuori con il sale,friggi in
miele cotto e servi.
(E' stata interpretata con ''Datteri caramellati'')
In ogni ricetta si mescolano gusti assai diversi.
Nei piatti di Apicio c'è un abbondante uso di spezie, vino e salse tra le
quali privilegia il GARUM, una saporita salsa a base di pesce usata per
insaporire ogni tipo di pietanza ,qui tradotta con ''salsa di Apicio''; questa
usanza di usare molte spezie e salse ci fa capire la necessità che i romani
avevano di coprire con sapori forti le degenerazioni del gusto di alimenti
conservati in pessime condizioni igieniche.
Gli aromi più usati erano: il cumino,il ligustico, lo zafferano,lo zenzero,la
menta,aglio,cipolla e il pepe.
L'abbondante uso di carni e verdure fresche dà l'idea di una società
amante della cucina; in realtà questi piatti raffinati erano riservati alle
fasce sociali più ricche dato che la dieta della gente comune era ben
diversa.
Una caratteristica della cucina dell’antica Roma era l’accostamento di
sapori contrastanti tipo il dolce con il piccante o il dolce con lo speziato.
Sicuramente ai nostri giorni le ricette del famoso cuoco Apicio non
avrebbero molto successo mentre per i Romani del tempo erano
estremamente raffinate e appetitose.
APICIO
La maggior parte della popolazione, che non era ricca, faceva
consumo di pasti molto più semplici, principalmente a base di
cereali, legumi e frutta, sicuramente poca carne e non poteva
permettersi di svolgere la cena nei “triclinia” e tantomeno
sdraiata sui comodi letti/divani. Lo svantaggio era quello di
mangiare meno, il vantaggio era di mangiare, probabilmente,
in modo più sano senza l’uso di condimenti come il “garum” e
senza il consumo eccessivo di carne che spesso, nei ricchi
provocava la malattia della gotta.
Vivevano in strette stanzette per lo più in affitto, prive di
cucina, nelle scomode e pericolose insulae, case alte fino a 8
piani. Essendo presente un’unica e affollatissima cucina
(culina) nel palazzo, sistemata nell’atrio comune (una sorta di
cortile), molti erano ridotti a cucinare alla meglio con uno
scaldino al centro della stanza per evitare incendi, e altri
ancora acquistavano addirittura l’acqua bollente nel
sottostante thermopolium.
Molto diffuse erano le taverne (caupona) e i venditori
ambulanti, i quali vendevano un po’ di tutto e per lo più olive,
pesci in salamoia, pezzetti di carne arrosto, uccelli allo spiedo,
polpi in umido, frutta, dolci e formaggio.
La cucina degli antichi romani aveva pasti molto frugali. Il nutrimento essenziale
era rappresentato dalla polenta di frumento (puls o pulmentus), da legumi (fave,
ceci, lenticchie), da farro e da ortaggi. Nella preparazione della polenta, veniva
utilizzato principalmente il farro (far) che era in linea di massima il cereale più
coltivato in quel periodo; più tardi vennero utilizzati anche miglio, panico, orzo, la
farina di fave o di ceci. In ogni caso il prodotto più utilizzato restava il farro che
poteva essere cotto sia in grani interi, sia macinato o frantumato nel mortaio e
ridotto in polvere assumendo l'aspetto di ciò che noi chiamiamo farina.
La polenta era preparata in un contenitore di terracotta detto pultarium dove al
farro trattato si aggiungeva acqua, sale e un po’ di latte e a seconda dei gusti
veniva arricchito con fave (puls fabata), cavoli, cipolle, formaggio (puls caseata) ed
anche con alcuni pezzi di carne o di pesce; tutto ciò per darle un sapore più ricco,
fino ad arrivare ad un vero e proprio miscuglio che conteneva un'infinità di
ingredienti chiamato satura o satira ( da cui l'utilizzo moderno di queste due
parole: saturazione e satira nel senso di battute o scherzi pesanti), che portava in
breve tempo alla sazietà di chi lo mangiava. Con l'arrivo del pane sulle tavole, la
polenta, che era stata l'alimento base per molto tempo, vide diminuire la sua
importanza. Vi erano tre tipi di pane: il pane nero o pane dei poveri (panis plebeius
o rusticus), il pane bianco anche se poco migliore del primo (panis secundarius) e il
pane bianco di farina finissima o pane dei ricchi (panis candidus o mundus); il
grano con cui era fatto arrivò ad avere un'importanza primaria, e i Romani
arrivarono perfino alla promulgazione di leggi che regolavano la corretta
distribuzione di questo prodotti. Furono organizzati speciali servizi di
approvvigionamento, facendo arrivare il grano via mare da zone lontane,
depositandolo in magazzini speciali per la successiva distribuzione alla popolazione
sotto forma di grano in chicchi oppure come avvenne in un secondo momento,
direttamente in pani già cotti. I pistores erano i panettieri dell’epoca.
I PISTORES
Dall'analisi dei pollini rinvenuti durante gli scavi
archeologici si è potuto ricostruire l'ambiente vegetale
caratteristico dell'epoca etrusca, a cui va aggiunta la
testimonianza pittorica delle tombe e quella dei vasi
che riproducono scene di vita quotidiana.
Anche i Romani utilizzavano il farro,descritto da Plinio
"primus antiqui Latio cibus" e coltivato nella pianura
Padana e in quella Campana,granaio dell'Etruria.
Roma,talvolta,importava cereali dall'Etruria ed in
particolare durante le guerre che videro protagonista
Scipione l'Africano le città etrusche erano tra le prime
importatrici di cereali per le campagnie d'Africa. Nelle
numerosissime tombe rupestri di cui la Tuscia è ricca
sono state trovate anche residui di cereali e di farro
lasciate insieme ad utensili personali per la vita
nell'oltre tomba del defunto.
IL PESCE
Ai tempi della Roma imperiale, mangiare pesce e molluschi freschi non era certo
possibile per tutti. Sulle bancarelle dei mercati della Roma di duemila anni fa non
era semplice trovare pesce particolarmente fresco, difficilmente il popolo poteva
trovarsi nel piatto un alimento così pieno di proprietà nutritive e povero di grassi.
Tradizionalmente la Roma del III- IV millennio a.C. non era una città con grandi
consuetudini marinare, si poteva ricorrere al pesce d'acqua dolce del Tevere o a
quello maleodorante delle bancarelle venduto da pescatori che tentavano di
mantenere umido il loro pescato ricoprendolo con alghe bagnate. Poche e piccole
erano le imbarcazioni da pesca, lunghi i tempi di trasporto fino ai mercati cittadini,
spesso si finiva per importare pesce essiccato dalle aree attorno a Gibilterra,
quantità insufficienti per coprire il fabbisogno della popolazione. Con l'espandersi
dell'egemonia romana in tutto il mondo allora conosciuto, le abitudini e le
esigenze dei cittadini cambiano, dopo la conquista di Cartagine Roma diviene
potenza marittima, superando perfino Greci e Fenici . Con l'allargarsi dei confini
geografici i gusti alimentari si raffinano: i ricchi iniziano ad apprezzare e distinguere
le qualità del pesce di mare lasciando al popolo quello di acqua dolce. Nascono
così nella Roma imperiale del I secolo le prime forme di piscicoltura, già in uso
presso Egizi e Fenici. In Cina era invece già praticato l'allevamento della carpa a
livello indutriale.
Tra i pesci più ambiti troviamo orate, sogliole, triglie, murene, anguille, cefali,
scampi, seppie, polpi, molluschi tra cui le ostriche. Allevare pesci e molluschi
presso le ville sulle coste diventa una moda sfrenata a cui i patrizi non possono
rinunciare, non solo passatempi ma anche fonti di guadagno. Si arriva ad
imprigionare braccia di mare per creare stagni e piscine (vivarium) in cui si pratica
la piscicoltura. Manie di grandezza ed esagerazioni avevano dato vita a costruzioni
di dighe sotterranee e canali comunicanti col mare affinchè le maree favorissero
un ricambio giornaliero dell'acqua. I vivaria erano studiati accuratamente, vasche e
corridoi in piombo con grate manovrate dall'alto assicuravano un continuo
ricambio dell'acqua ed impedivano la fuga dei pesci, come in un grande acquario
venivano collocati piccoli scogli e alghe, creati anfratti e inserite anfore ad uso di
tane per i pesci affinché l'ambiente fosse il più naturale possibile. Nel tempo le
strutture adibite alla piscicoltura situate sulla costa laziale e campana diventano di
alto livello ingegneristico con percorsi obbligati per i pesci che vengono allevati
intensivamente.
I vivaria erano costituiti da numerose vasche distinte tutte collegate ad una vasca
centrale adibita alla pesca del pesce, nelle vasche periferiche si collocava il pesce
da allevare, suddiviso per categoria. I fondali venivano mantenuti il più possibile
allo stato naturale, dove erano carenti si creavano anfratti, le profondità scarse
venivano aumentate mediante scavi. l personale che gestiva i vivaria si muoveva
tra una vasca e l'altra mendiante ponteggi o piccole imbarcazioni. Le interiora e i
pesci meno pregiati non si gettavano: servivano per la preparazione dl famoso
garum, la maleodorante salsa di cui i romani andavano pazzi!
Molto comune era l'allevamento delle murene.Per esse esistevano apposite
piscine in cui si ricreavano gli ambienti naturali idonei,si allevavano appositamente
pesci per sfamarle. Pare che la bellezza, la pericolosità e la voracità delle murene
attraesse notevolmente gli antichi Romani, che ne amavano molto le prelibate
carni. Storie tutte da dimostrare raccontano di allevatori che utilizzavano schiavi
ribelli per nutrire le fameliche murene, altri ancora le amavano come animali da
compagnia fino ad ornarle con orecchini posti sulle branchie.
PESCE
L’AGRICOLTURA
L'agricoltura nell'antica Roma non era solamente una necessità, ma era anche idealizzata nella società
d'élite come uno stile di vita. La coltivazione di base era il grano e il pane era il pilastro di ogni tavola
romana.
La proprietà della terra era un fattore determinante nella distinzione fra l'aristocrazia e la plebe, e più
terra possedeva un romano, più sarebbe stato importante nella città. I soldati erano spesso ricompensati
con terreni dai comandanti sotto i quali servivano. Nonostante le aziende agricole dipendessero dal lavoro
servile, uomini liberi e cittadini venivano assunti per supervisionare gli schiavi e assicurare che l'azienda
funzionasse agevolmente.
Pratiche nell'agricoltura
Nel V secolo a.C., le terre a Roma erano divise in piccoli appezzamenti a conduzione familiare. I contatti
romani con Cartagine, la Grecia e l'est ellenistico, migliorarono i metodi dell'agricoltura romana, che
raggiunse il suo apice in produzione ed efficienza fra l'eta tarda della repubblica e l'inizio dell'impero
Romano.
La dimensione delle aziende agricole a Roma poteva essere divisa in tre categorie. Le piccole proprietà
terriere potevano avere da 18 a 108 iugeri, dove uno iugero equivaleva a circa 0.65 acri o ad un quarto di
ettaro. Le medie proprietà avevano dagli 80 ai 500 iugeri. Le grandi proprietà terriere (chiamate latifondi)
avevano oltre 500 iugeri.
Nell'epoca della tarda repubblica, il numero di latifondi aumentò. I romani benestanti compravano la terra
ai contadini della plebe che non riuscivano più a guadagnarsi da vivere; infatti, dal 200 a.C., le Guerre
Puniche chiamarono alle armi i contadini plebei per lunghi periodi di tempo.
La produzione di zucchero si concentrò sull'apicoltura, mentre alcuni Romani allevarono lumache come
vivanda di lusso.
I Romani utilizzavano quattro metodi di conduzione dei terreni agricoli: lavoro diretto eseguito dal
proprietario e dalla sua famiglia; terreno affittato a terzi o mezzadria, che consisteva nella divisione dei
prodotti fra il proprietario e il mezzadro; lavoro eseguito da schiavi posseduti da aristocratici e sottoposti
ad un continuo supervisionamento; e altri arrangiamenti in cui la terra era ceduta in affitto ad un
contadino.
LA CARNE
Anche se nella mensa romana erano più frequenti piatti a base di pesce, anche la carne
aveva una sua importanza. Le carni più utilizzate erano quelle di bue e di maiale, ma non era
raro trovare anche carne di cervo, di asino selvatico (onager), di cinghiale e di ghiro; di
quest'ultimo, molto ricercato nelle tavole dei ricchi, esistevano anche alcuni allevamenti
(gliraria) e veniva servito di solito disossato e farcito.
Molto utilizzata anche la carne di uccelli. Oltre alle specie classiche ancora da noi utilizzate
(tordi, piccioni ecc.), venivano cucinati anche alcuni trampolieri in gran parte importati dalle
varie regioni dell'impero, come i fenicotteri (se ne gustava in modo particolare la lingua), le
cicogne e le gru. Piatto molto ricercato era quello a base di carne di pavone e di fagiano. In
quanto al pollo, di cui oggi facciamo molto uso, al tempo era considerato carne poco pregiata
e la si trovava principalmente nell'alimentazione dei poveri.
La carne veniva cucinata in moltissimi modi: arrosto, in umido e ripiena, con salse di vario
genere.
Nelle opulente mense dei ricchi, in occasione di grandi banchetti i piatti di carne o di pesce,
venivano preparati nei modi più fantasiosi; era in queste occasioni che i cuochi sfoderavano la
loro arte culinaria, servendo in tavola piatti a base di carne camuffati in modo che avessero
l'aspetto di uno stupendo pesce alla griglia o sotto forma di vere e proprie sculture a tema
mitologico.
Dal latte si ricavavano formaggi freschi e secchi e dolci con aggiunta di miele, farina e frutta;
il burro era poco utilizzato in cucina in quanto era usato come medicinale o come unguento
per il corpo.
La fase conclusiva della cena era caratterizzata dal rito tradizionale della commissatio che
prevedeva che, anche se i commensali avevano bevuto già abbastanza, si brindi passandosi le
coppe che dovevano essere tante quante erano le lettere che componevano i tre nomi di un
invitato che veniva scelto, verso il quale tutti tendevano le coppe. I commensali erano inoltre
allietati da canti, danze, musiche e da esibizioni varie di buffoni e giocolieri.
Le donne dovevano ritirarsi quando il banchetto entrava nella fase dell’intrattenimento.
IL COMMERCIO
Il commercio fra le province dell'impero era florido, e tutte le regioni
dell'impero erano perlopiù economicamente indipendenti. Alcune
province si specializzarono nella produzione del grano, altre in quella del
vino e altre nella produzione di olio di oliva, a seconda del tipo di terreno.
ACQUISIZIONE DI UN TERRENO
Aristocratici e plebei insieme potevano acquisire terreni da coltivare in tre
metodi. Il più comune era comprare il terreno. Nonostante alcuni plebei
possedessero piccole proprietà terriere, queste erano spesso troppo
costose e difficili da mantenere. Per questo motivo, questi terreni
venivano venduti a qualcuno nell'aristocrazia che possedeva le risorse
finanziarie necessarie per mantenerli. Anche se esistevano delle terre
pubbliche destinate alla gente comune, gli aristocratici tendevano a
comprare anche quei terreni, causando gravi tensioni tra le due classi. Un
altro metodo era l'acquisizione di terre come ricompensa per essere
andato in guerra. Ai soldati di grado elevato che ritornavano dalla guerra
venivano spesso concessi piccoli terreni di terreno pubblico o di lande
nelle province come metodo di pagamento per i loro servizi. L'ultimo
metodo per ottenere terreni era attraverso l'eredità. Un padre poteva
lasciare i suoi terreni alla sua famiglia, solitamente al proprio figlio, in caso
della sua morte. I testamenti specificavano chi dovesse riceve i terreni
come metodo per assicurarsi che altri cittadini non tentassero di sottrarre
la terra alla famiglia del deceduto.
L'ARISTOCRAZIA E LA TERRA
Nonostante alcune piccole parti dei terreni fossero di proprietà della bassa classe
sociale e dei soldati, la maggior parte della terra era controllata dalla classe
nobiliare di Roma. La proprietà della terra era solo uno delle molte distinzioni che
separava l'aristocrazia dalla classe plebea. L'aristocrazia voleva riorganizzare le
piccole proprietà in terreni molto più grandi e redditizi per competere con gli altri
nobili.Era considerato un punto d'onore non solo possedere il più grande pezzo di
terra, ma anche terra che crescesse prodotti di alta qualità. Privati che cercavano
di comprare un terreno dovevano anche tenere in considerazione il clima della
regione, la condizione del terreno e quando vicino si trovava da una città o da un
porto. Una prudente pianificazione veniva usata in ogni aspetto del possesso e del
mantenimento di un terreno nella cultura romana.
PROBLEMI CON GLI AGRICOLTORI
Gli agricoltori romani affrontarono molti di quei problemi che afflissero gli
agricoltori fino ai tempi moderni, compresi: l'imprevedibilità del tempo, alluvioni, e
parassiti. Gli agricoltori dovevano inoltre essere diffidenti nell'acquisto di terre
troppo distanti da una città o un porto, per via delle guerre e dei conflitti per le
terre. Dato che Roma era un vasto impero che conquistò molte terre, ebbe molti
nemici, formati anche da individui le quali terre erano state sottratte. Questi
spesso perdevano i loro territori a vantaggio di invasori che gli avrebbero poi
sostituiti e cercato di gestire le fattorie loro stessi.Anche se i soldati romani
vennero frequentemente in aiuto degli agricoltori e tentavano di recuperare la
terra, queste battaglie spesso risultavano nel danneggiamento o la distruzione
delle proprietà. I proprietari terrieri dovettero a volte anche affrontare le ribellioni
degli schiavi. 'In aggiunta all'invasione dei Cartaginesi e delle tribù celtiche,
ribellioni di schiavi e guerre civili che vennero ripetutamente combattute su suolo
italico, tutte contribuirono alla distruzione delle tradizionali proprietà
agricole.Inoltre, mentre l'agricoltura romana declinava, le persone adesso
giudicavano gli altri dalla loro ricchezza invece che dal loro carattere.
IL MOS MAIORUM
IL MOS MAIORUM
Con l'espressione mos maiorum (letteralmente "il costume degli antenati) i Romani
indicavano quel complesso di valori e di tradizioni che costituivano il fondamento della loro
cultura e della loro civiltà. Essere fedeli al mos maiorum significava riconoscersi membri di
uno stesso popolo, avvertire i vincoli di continuità col proprio passato e col proprio futuro,
sentirsi parte di un tutto, in marcia verso la realizzazione di un grande progetto comune. Il
mos maiorum era, in altri termini, l'insieme dei valori collettivi e dei modelli di
comportamento cui doveva conformarsi qualsiasi innovazione; rispettare il mos maiorum
significava quindi incanalare le energie e le spinte innovative entro l'alveo rassicurante della
tradizione, così da renderle funzionali al bene comune. Cardine fondamentale del mos
maiorum era l'assoluta preminenza dello Stato sul singolo cittadino: questa è l'ottica da cui va
esaminato qualunque valore e qualunque comportamento; così ad esempio, non era tanto il
coraggio in sé ad essere apprezzato, ma il coraggio che veniva dimostrato nell'interesse e per
la salvezza dello Stato; allo stesso modo, poco interessava la ricerca teorica o l'abilità poetica,
se tali qualità non erano finalizzate ad obiettivi socialmente utili. In tale prospettiva, quali
sono i valori fondamentali che costituiscono il mos maiorum? Anzitutto viene la virtus, cioè la
qualità propria dell'uomo grande, del vir appunto; essa si esprime come fortitudo (coraggio e
sprezzo del pericolo), come patientia, cioè come capacità di sopportare il dolore e i rovesci
della sorte (il verbo patior significa appunto "soffrire, sopportare") e come constantia, cioè
fermezza e coerenza nell'azione. Molto importanti sono poi la fides, cioè la lealtà, la fedeltà
alla parola data; la pietas, cioè il rispetto per gli obblighi e i doveri che ci legano agli altri (agli
dei, agli amici, alla patria, alla famiglia...); la gravitas e cioè la dignità propria del magistrato,
ma anche del semplice civis ("cittadino"), che imponeva un contegno severo, poco incline al
sorriso. Questi valori venivano trasmessi, oltre che con l'esempio, anche attraverso alcuni
racconti di cui erano protagonisti personaggi vissuti nell'epoca più antica di Roma, la cui
esistenza è spesso sospesa tra mito e storia.
Il vocabolario dei valori della tradizione. Le doti morali che facevano parte del mos maiorum
e di cui il civis Romanus doveva dar prova sia nell'attività politica sia in campo militare, erano:
la virtus, la qualità più importante per il cittadino perché da essa dipendeva l'onore
personale e la dignità sociale. Il termine deriva infatti da vir, che designa non solo l'uomo di
cui si celebrava enfaticamente il carattere fermo, il coraggio, la forza, l'energia, il valore, ma
anche il soldato; la fides, il rispetto della parola data, la condotta leale in guerra e nei
rapporti con gli altri popoli, sia alleati che nemici; la libertas, l'amore e la difesa della libertà,
che sono valori insopprimibili per i Romani e si realizzano nel prevalere degli interessi dello
Stato su quelli dell'individuo; la concordia, cioè l'armoniosa collaborazione tra tutti gli ordini
sociali che ha come fine la salus rei publicae, cioè il benessere e la salvezza dello Stato; essa
riguarda sia i magistrati in pace, sia i generali in guerra, sia la classe dei patrizi sia quella dei
plebei; la iustitia, esercitata sia nei rapporti con i popoli alleati sia con quelli stranieri, che
non dovevano mai essere aggrediti senza giuste motivazioni né oppressi o trattati
dispoticamente. In questo senso i Romani introdussero il concetto di iustum bellum in base al
quale le guerre dovevano essere combattute solo a scopo difensivo o per vendicare torti
subiti; di fatto, questo fu un principio puramente teorico, perché gran parte delle guerre
intraprese da Roma furono dettate dalla sua politica aggressiva e imperialistica; la clementia,
che i Romani dovevano dimostrare nei confronti degli avversari vinti; la disciplina, che gli
eserciti e i loro comandanti dovevano mantenere durante le imprese militari; per i soldati
significava la totale obbedienza al comandante che, a sua volta, doveva dimostrare di essere
all'altezza della situazione; la prudentia, che in campo militare significava per i generali non
lasciare mai nulla al caso, valutare in modo attento e accorto tutte le circostanze, anteporre
alle proprie ambizioni personali il bene dell'esercito e il buon esito dell'impresa
La traduzione più corretta di Mos Maiorum sarebbe costume degli antichi, inteso come usi e
costumi in senso etico. Chiarendo meglio il concetto, i Mores erano dei precetti, delle norme
accettate prima dalle comunità, poi da cittadini, che venivano definite Maiorum perché
rispettate dai padri cioè, nella società patriarcale romana, dagli uomini più anziani e
autorevoli.
Agli inizi della storia romana i mores erano una sorta di modelli di comportamento,
vagamente simili a delle “leggi orali”, che venivano tramandate e che, solo verso l’inizio
dell’età regia, vennero (forse) raccolti in forma scritta dai sacerdoti. Tuttavia queste raccolte
restarono nella mani di questi e continuarono ad essere tramandate e interpretate. Si ipotizza
che le famose Leges Regiae fossero, in realtà la trascrizione di alcune generali regole dei
mores.
L’apertura al mondo ellenistico, sostenuta dal potente circolo degli Scipioni che introdusse a
Roma la filosofia ellenistica (scetticismo,epicureismo, stoicismo) mise in crisi gli antichi e sobri
costumi tradizionali romani (il mos maiorum).
Il più grande sostenitore della battaglia tradizionalista fu Catone il Censore(234-149 a.C.). I
tradizionalisti fecero emanare, con scarsi effetti pratici, dei provvedimenti contro il lusso,
le leggi suntuarie (da sumptus, “spesa”): nel 215 (legge Oppia), nel 182, nel 161 a.C. e altre
ancora. Questi provvedimenti vietavano alle donne di indossare vestiti e gioielli troppo
costosi e ponevano un limite alle spese per feste e banchetti. Catone e i tradizionalisti,
tuttavia, non combattevano la ricchezza in quanto tale, ma la trasformazione culturale e
politica di cui essa era sintomo.
Gli ultimi decenni del periodo repubblicano videro la crisi più acuta del sistema dei valori
del mos maiorum. Nel De Catilinae coniuratione (“La congiura di Catilina”, il colpo di stato
tentato nel 63 a.C.), lo storico Sallustio (86-35 a.C.) racconta che ambizione, avidità, brama di
potere e di ricchezza, corruzione causavano una generale decadenza dei costumi e minavano
dalle fondamenta la vita stessa della res publica.
I mores sono dei precetti normativi accettati da tutta la comunità, poiché investiti di
un'auctoritas. Questi mores non solo sono un'usanza investita di sacralità, bensì
rappresentano un abbozzo di 'costituzione' per l'intera comunità romana obbligata a seguirli.
Si riteneva infatti, soprattutto in epoca regia, che il rispetto di tali precetti proteggesse dalle
forze dell'occulto, in quanto espressione del soprannaturale e della volontà divina. I mores,
come sistema di credenze e di valori universalmente riconosciuti e unanimemente condivisi
all'interno della civiltà romana, informavano a sé, l'agire pubblico e privato dell'individuo.
Non si è certi, ma è possibile che i mores, una volta emanati, avessero la funzione di creare
un precedente normativo. Secondo le opere storico-giuridiche di Gaio e Sesto
Pomponio i mores, sono usi e costumi delle tribù che si unirono fondando la città di Roma.
In quella prima fase erano solo i mores a identificarsi con il diritto romano, costituendo il modello al quale
gli appartenenti alla comunità adeguavano il loro comportamento: tali modelli derivavano da secoli di
usanze precedenti, risalenti ai pagi. Gli studiosi ritengono che antecedentemente all'età regia, quindi nel
corso della fase pre-civica, i mores si basassero sul comportamento delle familiae, e, successivamente, a
partire dalla metà dell'VIII secolo a.C., anche delle gentes, nel rispetto delle forze naturali, secondo
l'interpretazione dei sacerdoti, che, a mano a mano li raccoglievano tramandandoli oralmente, e
custodendoli in archivi sacerdotali segreti.
In un primo momento i mores non costituirono leggi effettive ma, soprattutto nella Roma precivica,
erano precetti unanimemente condivisi ed attuati dalla comunità. Intorno al X secolo a.C. i sacerdoti
raccoglievano tramite forma orale, e probabilmente anche per iscritto, tali usi, mantenendoli segreti. In
questo periodo erano gli unici detentori di conoscenze giuridiche, e uno dei loro compiti consisteva nel
rivelare, sempre segretamente, questi usi, al soggetto che li richiedesse o piuttosto ad interpretarli nel
modo che ritenessero più adatto. Quindi consigliavano al richiedente una condotta da seguire per
conseguire un proprio legittimo interesse o per difendersi correttamente da un diritto altrui. Ciò perché
nel diritto dell'epoca era insito una forte componente morale, che occorreva dunque rispettare, seguendo
determinate ritualità nelle dichiarazioni, nei comportamenti e in generale nell'agire sociale, tanto pubblico
quanto privato. Tali modalità continuarono a vigere sia nel periodo regio che in buona parte del
repubblicano. Nell'età regia l'interpretazione fu affidata al rex e al Pontifex Maximus, talvolta
congiuntamente. Nessuna fonte tramanda nulla di preciso sui mores nell'età primitiva di Roma, e di come
si evolsero nel tempo. Solo Sesto Pomponio confidava che, con i primi re, fu necessario definire norme
scritte, tanto da generare l'atto normativo delle leges regiae. Grazie anche ad altre fonti, tra
cui Plutarco, Cicerone e Sesto Pomponio, conosciamo queste norme emanate dai re, anche attraverso
l'intervento del Pontefice massimo. Gli storici hanno ipotizzato che ci potesse essere un profondo
collegamento tra "leges regiae" e mores, dal momento che anche il pontefice possedeva l'autorità per
emanarle. Si ritiene dunque che alcuni di tali atti, con qualche modifica, altro non siano che costumi
diventati leggi. Secondo la tradizione, è in quest'epoca che si emanarono in forma scritta le leggi, benché il
primo non fu Romolo, che le emanò sempre in forma orale, anzi la prima compilazione, che si perde nella
leggenda, sarebbe il fantomatico Liber Numae di Numa Pompilio, che tuttavia non ci è pervenuto: in
questo libro, infatti, si sarebbero raccolte le norme sia stabilite da Romolo che da Numa Pompilio,
segnatamente i riti sacerdotali sicuramente derivanti dai mores. Trassero ispirazione da tali scritti anche i
re successivi, creando nuove leges, e, probabilmente anche nuovi mores, in parte ripresi o sviluppati dai
mores attribuiti a Numa. La tradizione successivamente ci parla anche di altre opere, come
ilCommentarius di Servio Tullio e i Libri sibillini, che Tarquinio il Superbo ricevette dalla ninfa Sibilla, nei
quali sarebbero raccolti alcuni riti religiosi. Tutti gli atti normativi dell'età regia sono comunque scomparsi,
a causa dell'incendio che colpì Roma nel 390 a.C. ad opera dei Galli di Brenno. Comunque, sia le pratiche
tradizionali, sia i rituali arcaici, affondano le proprie radici nelle consuetudini collettive.
Nell'età regia anche il rex era a conoscenza dei mores interpretati, e poteva rivelarli. D'altra parte anche
il Pontifex Maximus contribuiva all'emanazione delle leges regiae, per cui, alcuni studiosi ritengono che
talune di tali leggi siano in realtà mores attuati con, o almeno in parte, un atto normativo regio. Di
conseguenza tale agire diventa un ulteriore modalità di emanazione di mores (seppur indiretto),
di mores e legislazioni del periodo precedente.
Età repubblicana (509-27 a.C.)
Con la cacciata dei Tarquini si concluse l'età regia, e l'unico diritto ritorna a essere le rivelazioni e
l'interpretazione dei soli Pontefici dei mores. Però in questo periodo, che durerà circa 50 anni,
la plebe inizia a sospettare che i Pontefici interpretino solo a vantaggio della classe sociale alla quale
appartengono, i patrizi, a discapito degli stessi plebei.
Nella prima metà del V° Secolo a.C. si giunse ad un punto di rottura. Alcune fonti, tra cui Livio e Dionigi
d'Alicarnasso, raccontano che a partire dal 462 a.C. si creò un movimento plebeo il cui fine era una
legislazione scritta, legislazione che ottennero nel 450 a.C. grazie a un decemvirato legislativo durato due
anni, commissione che aveva il compito di elaborare in massime il diritto esistente fino ad allora, dunque
per lo più dei mores. Successivamente, dal momento che queste massime non erano di facile lettura, la
loro interpretatio era comunque lasciata ai Pontefici e pertanto tenuta ancora segreta, perciò da ritenere
sempre rientrante come interpretatio di mores, almeno sino a quando Tiberio Coruncanio non la renderà
pubblica attraverso un'interpretazione laica e creando vero e proprio diritto ovvero la creazione dello Ius
Civile. D'altra parte però, le XII Tavole erano un'opera che non poteva riguardare e non riguardava tutti i
rami del diritto perciò dove non arrivavano le XII Tavole venivano utilizzati e rivelati i mores.
Sempre secondo Sesto Pomponio la prima opera riguardante i mores dell'età repubblicana secondo la
tradizione era rappresentata dallo ius papirianum di Sesto Papirio, una raccolta di tutte le "leges
regiae" appartenute all'età regia: anche quest'opera si perde nei meandri della tradizione e non sappiamo
se sia esistita per davvero. Il primo cinquantennio del V° Secolo a.C. venne caratterizzato dal regolamento
dei mores in forma di massime, ma da Livio e da Dionigi d'Alicarnasso ci viene raccontato che, a partire
dal 462 a.C., i plebei, resosi conto che i Pontefici emanavano i mores solo in favore loro o dei patrizi,
iniziarono a richiedere un'opera scritta che riassumesse l'essenza dei mores in modo tale da interrompere
il monopolio dei Pontefici su questi regolamenti orali, tramandati e conosciuti solo dai sacerdoti. Così con
un decemvirato legislativo durato un paio d'anni nel 450 a.C. venne emanata la legge delle XII Tavole. Si
trattava di una raccolta deimores fino ad allora esistenti. Poiché l'opera risultò di difficile interpretazione,
venne affidata ai pontefici, che mantennero così il monopolio interpretativo, dove le XII Tavole non
contemplavano determinate norme. Tutto ciò mutò con Tiberio Coruncanio, primo pontefice plebeo: egli
rivelò i rituali e come venivano emanate le XII Tavole e da qui si osserva la presenza dei primi giuristi laici.
Fonti utili potevano essere anche lo ius usucapionise lo ius Flavianum.
Il primo giurista può essere considerato Sesto Elio, diventato poi anche console, il quale nel 198
a.C. stila un'opera di analisi delle XII Tavole e dell'interpretazione pontificale, oltre alle legis
actiones, chiamata tripartita (lat. tripertita). Anche quest'opera non ci è pervenuta, ma sicuramente
poteva essere di grande aiuto per capire i collegamenti mores-XII Tavole e mores-legis actiones.
I mores dovevano comunque essere ancora molto seguiti nel I° Secolo a.C. Il giurista Gaio Svetonio
Tranquillo ci racconta di un editto di censura emesso nel 92 a.C. che pone i mores quali regolamenti
ai quali si devono adeguare tutte le consuetudini si devono adeguare, in caso contrario verranno
ritenute inique. Età imperiale (27 a.C.-395 d.C.)[ Con l'avvento degli imperatori romani, è possibile
che i mores siano stati decisi sempre da questi ultimi tramite le varie costituzioni che ne
delineavano i limiti. Le ultime informazioni che abbiamo sui mores come regolamenti risalgono al II°
Secolo, grazie al giurista Giuliano, dal quale sappiamo che i mores dovevano essere seguiti solo se
non vi erano leggi contrarie. Per i periodi successivi non ci sono informazioni, ma è da ritenere che
almeno in ambito religioso pagano qualcosa sopravvisse : un esempio sarebbero i sacrifici fatti dal
senato sull'altare della vittoria per buon auspicio nelle guerre, poi eliminato nel 382 per volere
imperiale, vicino al 380, quando invece l'editto di Tessalonica dichiarava la religione cristiana
religione di Stato. Oppure ancora i riti officiati dal rex sacrorum eliminato come figura istituzionale
solo nel 390.
Le rivelazioni dei pontefici per quanto riguarda i mores assumono con il tempo sempre minor
rilevanza, in quanto molti ambiti vengono sostituiti nell'osservanza di leges, e
contemporaneamente sempre più importanza assume la tradizione , gia applicata all'interno del
sistema giudiziario, si pensi alla "pignoris capio" della quale Gaio ci informa che rappresenta una
"legis actio" strutturata in alcuni punti secondo i mores. Se poi il iudex (giudice) e indeciso su una
causa controversa, essendo quel negozio e regolato da mores o regole conosciute solo dai pontefici
può chiedere che intervenga il Pontefice come arbitro della controversia. Dall'altra parte con
l'avvento del periodo imperiale sono gli stessi imperatori a restringere gli ambiti di utilizzo di questi
con le loro costituzioni e ne abbiamo informazione dai giuristi. Prima con Gaio Svetonio Tranquillo
che racconta di un editto di censura del 92 a.C., che dichiarava:
« Tutte le novità fatte contrariamente alle usanze e alle tradizioni dei nostri antenati, non devono
essere considerate giuste. »
Infine con Giuliano (II° Secolo) secondo il quale i mores si utilizzano solo se non vengono previste
leggi in quegli ambiti. Dopo il II° Secolo d.C. non si trovano più informazioni, ma sembrerebbe che
hanno perso quasi del tutto la loro rilevanza come atto giuridico, validi ancora per qualche rito
pagano addirittura la festività del Lupercalia sopravvisse sino al 495, o forse poco oltre.
I VALORI MORALI NELLA VITA PUBBLICA
II mos maiorum. L'espressione mos maiorum, «le tradizioni degli antenati», sintetizza tutte le qualità
attribuite ai Romani sin dai tempi dell'antica repubblica e costituisce perciò la chiave di interpretazione per
capire a fondo la società romana. I maiores erano i capostipiti delle gentes, cioè delle casate familiari che
traevano origine da un antenato comune: l'appartenenza ad una gens era l'elemento che distingueva gli
aristocratici dai plebei che, al contrario, non potevano vantare antenati illustri. Presso i componenti di
ciascuna gens gli avi erano oggetto di venerazione come divinità protettrici della famiglia: di loro si
celebravano le virtù e si praticava il culto delle imagines, cioè dei loro ritratti, esposti nelle dimore
aristocratiche come glorie familiari. I maiores costituivano, quindi, i modelli di comportamento da imitare
sia nella vita pubblica che in quella privata; e proprio a questo spirito tradizionalista, legato alle glorie del
passato e quindi fortemente conservatore, si riconduce l'esaltazione del mos maiorum, considerato dalla
società come l'ideale supremo a cui fare riferimento. Quindi il mos maiorum era per i Romani quel
complesso di valori e di tradizioni che costituiva il fondamento della loro cultura e della loro civiltà. Essere
fedeli al mos maiorum significava riconoscersi membri di uno stesso popolo, avvertire i vincoli di continuità
col proprio passato e col proprio futuro, sentirsi parte di un tutto. Il mos maiorum era, in altri termini,
l’insieme dei valori collettivi e dei modelli di comportamento a cui doveva conformarsi qualsiasi
innovazione; rispettare il mos maiorum significava quindi incanalare le energie e le spinte innovative entro
l’alveo della tradizione, così da renderle funzionali al bene comune. Cardine fondamentale di questo
sistema di valori è infatti l’assoluta preminenza dello Stato, della collettività, sul singolo cittadino: questa è
l’ottica da cui va esaminato qualunque valore e comportamento; così ad esempio non era tanto il coraggio
in sé ad essere apprezzato, ma il coraggio che veniva dimostrato nell’interesse e per la salvezza dello Stato.
Ma nei secoli, con l’espansione territoriale, la struttura delle relazioni sociali e della cultura romana
subirono profondi sconvolgimenti: il contatto con la civiltà greca generò nel popolo romano un
cambiamento. Da una parte si desiderava rinnovare i costumi rurali romani (mos maiorum) introducendo
usanze e conoscenze provenienti dall’Oriente (si pensi alla filosofia, alla scienza), ma questo generò anche
una decadenza dei valori morali, testimoniata dalla diffusione di costumi moralmente discutibili persino
oggi. Questo provocò una forte resistenza da parte degli ambienti più conservatori, che si scagliarono
contro le culture extra-romane, accusate di corruzione dei costumi, di indecenza, di immoralità e di
sacrilegio. Catone il Censore lottò accanitamente contro l’ellenizzazione del modo di vivere romano , a
favore del ripristino del più antico mos maiorum, che aveva permesso al popolo romano di rimanere unito
di fronte alle avversità, di sconfiggere ogni sorta di nemico. Aveva paura che la cultura greca divenisse
portatrice di valori che minassero le basi sociali e l’assetto raggiunto dalla repubblica. La morale
tradizionale era necessaria per mantenere immutata la repubblica. Con il passare dei secoli e con
l’influenza delle usanze di nuove popolazioni, le tradizioni del mos maiorum si dispersero a favore della
nuova cultura cristiana e delle esotiche usanze ellenistico-orientali.
Il vocabolario dei valori della tradizione. Le doti morali che facevano parte del mos
maiorum e di cui il civis Romanus doveva dar prova sia nell'attività politica sia in
campo militare, erano: la virtus, la qualità più importante per il cittadino perché da
essa dipendeva l'onore personale e la dignità sociale. Il termine deriva infatti da
vir, che designa non solo l'uomo di cui si celebrava enfaticamente il carattere
fermo, il coraggio, la forza, l'energia, il valore, ma anche il soldato; la fides, il
rispetto della parola data, la condotta leale in guerra e nei rapporti con gli altri
popoli, sia alleati che nemici; la libertas, l'amore e la difesa della libertà, che sono
valori insopprimibili per i Romani e si realizzano nel prevalere degli interessi dello
Stato su quelli dell'individuo; la concordia, cioè l'armoniosa collaborazione tra tutti
gli ordini sociali che ha come fine la salus rei publicae, cioè il benessere e la
salvezza dello Stato; essa riguarda sia i magistrati in pace, sia i generali in guerra,
sia la classe dei patrizi sia quella dei plebei; la iustitia, esercitata sia nei rapporti
con i popoli alleati sia con quelli stranieri, che non dovevano mai essere aggrediti
senza giuste motivazioni né oppressi o trattati dispoticamente. In questo senso i
Romani introdussero il concetto di iustum bellum in base al quale le guerre
dovevano essere combattute solo a scopo difensivo o per vendicare torti subiti; di
fatto, questo fu un principio puramente teorico, perché gran parte delle guerre
intraprese da Roma furono dettate dalla sua politica aggressiva e imperialistica; la
clementia, che i Romani dovevano dimostrare nei confronti degli avversari vinti; la
disciplina, che gli eserciti e i loro comandanti dovevano mantenere durante le
imprese militari; per i soldati significava la totale obbedienza al comandante che, a
sua volta, doveva dimostrare di essere all'altezza della situazione; la prudentia, che
in campo militare significava per i generali non lasciare mai nulla al caso, valutare
in modo attento e accorto tutte le circostanze, anteporre alle proprie ambizioni
personali il bene dell'esercito e il buon esito dell'impresa.
SOCIETÀ ROMANA
ABBIGLIAMENTO NELL’ANTICA ROMA
Per le donne Romane era molto importante abbigliarsi e acconciarsi bene,
questo poteva far intendere alla gente del popolo quanto esse fossero
ricche e rilevanti nella scala sociale. Le matrone quasi facevano a gara a
essere le più belle e le più notate dagli uomini Romani. Nell’abbigliamento
dell’antica Roma venivano distinti due generi di indumenti: gli indumenta,
che si portavano di giorno e di notte, e gli amictus, che venivano indossati
solo di giorno.
Come indumenta, le donne, indossavano il perizoma, il seno era coperto
da una fascia (strophium, mamillare) o una guaina (capetium) e una o più
tuniche (subuculae), intessute con lana o lino ed in genere prive di
maniche. Sopra la tunica veniva portato il supparum, o la stola. Il
supparum era una tunica femminile di lunghezza varia, ma non fino ai
piedi, aveva sempre i fianchi cuciti mentre i margini superiori dell’abito
erano fermati da fibule o cammei. La stola, a differenza del supparum era
una tunica larga, lunga fino ai piedi, fermata alla vita da una cintura (il
cingulum), a volte si faceva uso anche del succingulum, un’ulteriore
cintura all’altezza della anche, che formava un secondo sbuffo di stoffa.
La recta, infine, era una tunica bianca senza maniche, aderente alla vita e
lievemente scampanata in basso. Questo era il vestito delle giovani spose
romane, completato da un ampio velo color giallo fiamma, ossia il
flammeum, da appoggiare sul capo, tutt’ora sostituito col normale velo
bianco che si porta sino all’altare.
ABBIGLIAMENTO
La palla era il classico mantello femminile. Di forma rettangolare,
simile a quello greco, veniva indossata in modi svariati, spesso
appoggiandone un lembo sul capo. Un cenno al pallium viene fatto
anche da Ovidio ,il quale, nell’Ars amandi, spiega che, se il mantello
è troppo lungo e tocca il terreno, è consigliabile prenderlo e
sollevarlo delicatamente dalla strada, sarà una buona scusa per
mostrare le gambe.
Mentre l’uomo romano non indossava copricapi la donna romana
metteva tra i capelli un nastro color rosso porpora o un titulus, una
larga benda collocata a forma di cono sulla fronte. La matrona aveva
poi di solito annodato al braccio un fazzoletto, la mappa, per pulire
il viso da polvere e sudore. Il muccinium, destinato a soffiarvicisi il
naso, spesso teneva anche sottomano un ventaglio per rinfrescarsi
e scacciare le mosche o un ombrello, per ripararsi da sole. Per
proteggersi dalla pioggia si poteva invece indossare il byrrus, un
mantello con cappuccio. Le donne dell’antica Roma si adornavano
con pettini ed era frequente indossare gioielli, collane, catenelle
intorno al collo, al braccio e alle caviglie e molti anelli alle dita.
COSMESI
La cosmesi, la cura della bellezza del corpo e del viso, è una prassi antica e non ha mai
riguardato solo le donne. Gli archeologi hanno ritrovato tantissimi oggetti per la cosmesi
delle donne romane: specchi (di rame o di argento levigato), pettini, spilloni per i capelli,
cassettine, vasetti per il trucco e i profumi. Per colorare le gote si utilizzava una sorta di
fondotinta (pigmentum), mentre il gesso o la biacca (cerussa) servivano a rendere più bianchi
il viso e le braccia; molto diffusa era l’abitudine di disegnarsi nèi finti. Gli occhi erano
evidenziati con una sostanza nera, tipo il kohl egiziano, ottenuto dalla fuliggine,
dall’inchiostro di seppia oppure da formiche abbrustolite.
Le ciglia venivano scurite e infoltite, mentre le sopracciglia venivano definite e allungate con
un bastoncino di carbone dolce; talvolta le palpebre venivano colorate (generalmente in
verde o azzurro) con mine di piombo o con cenere.
Come rossetto si utilizzava la feccia di vino o l’ocra, un tipo di argilla rosso-bruna. Per la
cosmesi, essenze odorose mescolate a oli o ad altre sostanze grasse fungevano da profumi.
Le ragazze giovani in genere erano acconciate con tagli semplici e corti, mentre le matrone
sfoggiavano pettinature stravaganti e complicate, realizzate da schiave specializzate. Il tutulus
era un’acconciatura di origine etrusca, molto in voga, in cui i capelli erano raccolti con un
nastro in modo da formare una sorta di cono sulla sommità del capo. Ottavia, sorella
dell’imperatore Augusto e moglie di Antonio, inaugurò un’acconciatura detta appunto
“all’Ottavia”, imitata da tutte le donne del palazzo: sulla fronte si lasciava solo un ricciolo,
mentre gli altri capelli si raccoglievano in trecce sulla nuca. Nella seconda metà del I secolo
d.C. andavano invece di moda le pettinature “a più livelli”, appariscenti e di difficile
realizzazione. Esistevano le tinture: per diventare bionde, per esempio, si impiegava il sapo
(un misto di cenere e di grasso animale o vegetale), altrimenti si poteva ricorrere a parrucche
fatte con capelli dei popoli nordici.
Parlando di cosmesi, non potevano mancare le creme di bellezza. Gli ingredienti più usati
erano i bulbi di narciso per rendere la pelle luminosa; lupini, fave e incenso come detergenti;
papaveri come decongestionanti.
COSMESI
OVIDIO
MEDICAMINA FACIEI FEMINAE
Ovidio, famoso poeta Romano del 43 a.C., che fin da giovane si mosse con disinvoltura negli
ambienti mondani e intellettuali di Roma, si interessò molto a questo argomento. Le sue opere più
famose infatti, riguardano l’amore e la donna. Nell’Ars Amandi, appunto, Ovidio pone egli stesso
come maestro d’amore e insegna ai componenti della società del tempo a rendersi più affascinanti,
dando, anche, molti consigli per conquistare i rappresentanti del sesso opposto. Con lo scopo di
scrivere il manuale dell’amante perfetto, riscuote molto successo, facendo però emergere scalpore
nella società, poiché ogni forma d’amore al di fuori del matrimonio, a quel tempo, era considerata
scandalosa. Nel terzo libro di quest’opera Ovidio rimanda le sue lettrici alla consultazione di un’altra
opera da lui composta: il medicamina faciei feminae, di cui però adesso abbiamo solo un
frammento di cento versi. In questo poemetto Ovidio consacra la sua sapienza sull’argomento della
bellezza, l’esaltazione e la cura di essa. Riporta pure alcuni raffinati espedienti e i trucchi che
permettono di “tener desto l’amore”. Il termine medicamina si riferisce appunto ai prodotti di
bellezza, ai trucchi e ai preparati cosmetici che donne e fanciulle devono imparare a confezionare. Il
poeta si fa portavoce di una civiltà raffinata e colta dedita alla cura dell’eleganza, soprattutto da
parte delle ricche matrone ma anche delle fanciulle spensierate. L’arte cosmetica antica non si
limita solo al trucco ma anche all’ars ornatix, l’uso di creme e maschere di bellezza per la cura del
viso e del corpo, ottenute da prodotti naturali con olii. Questi cosmetici erano utilizzati per ridurre
le rughe, per dare candore alla pelle o per cancellare le macchie. Tra le righe del medicamina faciei
feminae abbiamo anche le istruzioni tecniche di un medico GRECO, Galeno per la preparazione di
due lozioni detergenti e tonificanti, per il viso. Entrambe le ricette vengono preparate con prodotti
naturali: albume d’uovo, frumento, miele, incenso e terra rossa. Tra le tinture di capelli, la più
importante è il biondo, colorazione ottenuta con un impacco di cenere di faggio e lascivia. Per il
nero invece si utilizza il grasso animale. Molto in voga è anche il rosso intenso, tintura ricavata dal
seme di henna, una pianta esportata dall’Egitto, in latino, detta cypros. Vanno molto di moda i ricci
e infatti Ovido spiega un trucco per crearli: le ciocche dei capelli dovevano essere avvolte su dei
ferri roventi, che lasciavano la perfetta forma delle onde. Adesso si è trasformata nell’attuale
piastra. In questo trattato di bellezza si viene a sapere anche che le donne amavano indossare
parrucche, provenienti dalle provincie o per minor spesa, dalle schiave.
Alla fine del poema viene però collocata una frase di
Ovidio, con la quale fa capire che prima o poi la
bellezza svanirà, ovviamente con il passare del tempo.
L’unica bellezza che rimarrà in vigore sarà quindi quella
interiore, ed è per questo che dobbiamo coltivare essa,
non quella dell’ estetica.
“E’ durevole solo l’amore per il buon carattere,
gli anni devasteranno la vostra bellezza
e il volto un tempo ammirato sarà solcato di rughe.
Verrà il giorno in cui vi spiacerà guardarvi allo specchio
e il raccapriccio sarà ulteriore causa di rughe. La bontà
d’animo invece resiste e dura a lungo e a questa è
fedele l’amore nel corso degli anni.”
I GLADIATORI
CHI ERANO I GLADIATORI?
- SCHIAVI: Spesso erano nemici di Roma divenuti prigionieri
di guerra e quindi, in base al diritto romano, schiavi. In
quanto schiavi, non sceglievano di combattere, ma vi erano
costretti. chi di loro avesse superato un gran numero di
combattimenti conquistando il favore del pubblico e
dimostrandosi meritevole, avrebbe ottenuto ciò che uno
schiavo sogna fin dalla nascita: la libertà.
- EX GLADIATORI E UOMINI LIBERI: Nonostante ciò, molti
gladiatori “Rudiarii”, ossia liberi in seguito alla consegna del
Rudis, continuavano la loro carriera gladiatoria,
- GLADIATRICI: contrariamente all’opinione comune, sono
esistite gladiatrici donne, come testimoniano cronache
dell’epoca, fonti legislative e reperti archeologici
- NOBILI: è facile immaginarsi quindi lo scandalo che
esplose quando, in preda alla passione per gli spettacoli
gladiatori, che avevano raggiunto il loro apice, in arena
scesero addirittura i nobili, come ad esempio Gracco,
cavalieri romani, nobili matrone, senatori, e addirittura
imperatori!!!
ORGANIZZAZIONE E SVOLGIMENTO DEGLI
SPETTACOLI NEGLI ANFITEATRI
L’organizzatore dei giochi, rendeva noto alla cittadinanza, mediante iscrizioni sui
muri delle case, il motivo per cui offriva i munera, i nomi dei gladiatori che
sarebbero scesi nell’arena e la loro specializzazione; inoltre precisava se avessero
avuto luogo aspersioni profumate distribuzione di cibo (missilia) o denaro, se nel
circo era previsto il velarium a protezione della calura o della pioggia e se lo
spettacolo includeva anche le venationes. L’organizzatore dei combattimenti
gladiatori era chiamato munerarius. La sera prima veniva offerto un banchetto
(coena libera) dove i cittadini potevano vedere da vicino i gladiatori.
I giochi cominciavano di mattina e seguivano un cerimoniale prestabilito: un corteo
rituale (pompa) rendeva gli onori alle autorità o all’Imperatore (se presente).
MATTINA: aprivano lo spettacolo le venationes (se in programma), che si
protraevano fino all’ora di pranzo. Queste cacce potevano prevedere lotte tra
uomini e animali o tra animali, anche legati tra loro. Complesse scenografie
riproducevano ambienti esotici o mitologici.
DA MEZZOGIORNO: nell’intervallo avevano luogo le esecuzioni dei condannati a
morte, molto gradite dal pubblico, dove persone inermi venivano trucidate in ogni
modo, fatte sbranare dalle fiere (damnatio ad bestiam) o immolate nei modi più
barbari, crocifisse, arse vive.
Sempre durante l’intervallo, scendevano in arena i gladiatori Meridiani (che r
prendevano il nome proprio dall’ora in cui venivano fatti esibire). Questi Rsecondo
alcune fonti storiche combattevano con armi inoffensive, per intrattenere il
pubblico durante l’intervallo.
POMERIGGIO: alla ripresa pomeridiana avevano luogo i ludi gladiatorii veri e
propri.
L’editor dava quindi inizio ai combattimenti tra le urla della folla entusiasta e il baccano dei musici
che accompagnavano lo svolgersi dei giochi.
I primi gladiatori a scendere nell’arena erano gli equites. Si susseguivano poi i gladiatori delle altre
categorie.
Più coppie si affrontavano contemporaneamente (gladiatorum paria). Se qualche gladiatore non si
batteva con sufficiente impegno, veniva sollecitato a colpi di frusta (lora) dai loraii presenti
nell’arena.
La vita del gladiatore sconfitto dipendeva dall’editor, il quale prendeva la sua decisione valutando
da un lato l’impegno profuso nel combattimento ascoltando gli umori del pubblico presente, e
dall’altro tenendo conto delle spese sostenute per l’affitto dei gladiatori. Quest’ultima
argomentazione spesso era determinante, pertanto, contrariamente all’immaginario collettivo, era
raro che i gladiatori venissero puniti con la morte per essere stati sconfitti. In ginocchio davanti al
vincitore, lo sconfitto attendeva il verdetto offrendo la gola e la propria spada. Se si era battuto
male la folla gridava: “iugula” (sgozzalo) e, l’editor o se era presente l’Imperatore, decideva se
seguire l’umore del pubblico, decretando la morte del gladiatore; se si era battuto alla pari riceveva
la grazia (missio). I morti venivano portati in una sala denominata spoliarum attraverso la porta
libitinaria da inservienti mascherati da Caronte.
Al termine il vincitore riceveva la palma della vittoria oltre a doni preziosi; il premio più ambito però
era la spada di legno, rudis, che significava per i gladiatori schiavi l’affrancamento dall’obbligo di
combattere in arena.
I GIOCHI
L'edificio è legato ai giochi gladiatori e alle venationes, ovvero spettacoli che comprendono animali,
sia in forma di caccia più o meno ritualizzata, sia in forma di combattimento in cui uomini o animali
vengono variamente penalizzati. L'origine di questi giochi risale forse a giochi che si tenevano in
occasione dei funerali, ampiamente documentati nell'antichità. La grande espansione degli
anfiteatri in tutto l'Impero si ha tra il I e il II secolo d.C. Questi giochi godevano di una grande
popolarità, e affluivano spettatori sia dalle città vicine, sia dalla campagna. Il numero di posti
disponibili ci pare oggi modesto rispetto agli stadi moderni: l'anfiteatro più grande, il Colosseo,
conteneva verosimilmente 40.000 o 50.000 spettatori. Per facilitare gli spostamenti degli spettatori
locali e dei forestieri, di solito gli anfiteatri erano collocati in periferia o fuori le mura lungo direttrici
importanti. Già dal IV secolo alcuni anfiteatri iniziarono ad essere demoliti.
MASCHERA E MAZZA DEL CARONTE
Il “Caronte” era lo schiavo incaricato di accertarsi della morte del
gladiatore sconfitto, non graziato, dandogli il colpo finale, nel caso fosse
ancora in vita. Per questo utilizzava una mazza ed aveva il volto coperto da
una maschera, rappresentante appunto Caronte (il nocchiero mitologico
che traghettava le anime dei morti dall’ una all’ altra riva del fiume
Acheronte, nel regno degli Inferi). Dopo aver assolto a questo compito,
portava via dall’ arena il cadavere, trascinandolo o su di un carro o su una
barella, attraverso la porta libitinensis e lo deponeva nello spoliarium, l’
obitorio dell’ anfiteatro, dove venivano tolti gli abiti e le armature al
gladiatore morto.
RUDIS
Il “Rudis” è un gladio in legno che veniva utilizzato in allenamento per
evitare ferimenti gravi nell’apprendimento dell’ ars dimicandi (arte del
combattere). Probabilmente i Novicii inizialmente combattevano solo con
il rudis, data la loro inesperienza. Il lanista infatti non poteva permettersi,
dato il costo che sosteneva per l’acquisto ed il mantenimento dei
gladiatori, che questi si ferissero gravemente. Anche dopo il passaggio
all’uso delle armi pesanti, verosimilmente il Rudis continuava ad essere
utilizzato nella fase di riscaldamento e per meglio apprendere le varie
tecniche di combattimento.
FLOTTA ROMANA
Un esempio dell'efficienza della marina da guerra romana accadde nel 56 a.C., quando Cesare
organizzò una spedizione punitiva contro i Veneti. A questo scopo requisì alcune navi da carico ai
popoli alleati e fece costruire delle galee che equipaggiò con rematori e marinai della Gallia
Narbonense. Non sono pervenute descrizione di queste galee, ma è presumibile che si trattasse di
triremi, quinqueremi e liburne. Le triremi erano lunghe circa 40 metri e larghe 5; disponevano di
170 remi, su tre ordini, manovrati ciascuno da un solo uomo. Imbarcavano anche 30 marinai e 120
legionari. Le quinqueremi avevano le stesse dimensioni e, sembra, 160 remi su tre ordini; i rematori
erano 270: probabilmente c'erano più uomini per ogni remo. Imbarcavano 30 marinai e 200
legionari. Le liburne erano navi più piccole, leggere e veloci, armate con 82 remi disposti su due
ordini. I Veneti disponevano invece di imbarcazioni a vele quadre, lunghe da 30 a 40 metri e larghe
da 10 a 12, senza remi. Erano molto alte sul livello dell'acqua, per cui gli equipaggi erano protetti
dai proietti romani. Durante la battaglia navale svoltasi presso Lorient, che vide la flotta di Cesare
combattere contro 220 navi venete, i Romani riuscirono a rimontare lo svantaggio iniziale tagliando
le drizze dei loro avversari: le vele di cuoio caddero, immobilizzando così i Veneti e permettendo ai
Romani l'abbordaggio.
LEGIONI ROMANE
La legione romana era l'unità militare di base dell'esercito romano. Nacque dalla trasformazione
dell'esercito alto-repubblicano dal modello falangitico a quello manipolare nel IV secolo a.C. Grazie
al grande successo militare della Repubblica e, in seguito, dell'Impero, la legione viene considerata
come il massimo modello antico di efficienza militare, sia sotto il profilo dell'addestramento, sia dal
punto di vista tattico e organizzativo. Altra chiave del successo della legione era il morale dei
soldati, consolidato dalla consapevolezza che ciascun uomo doveva contare sull'appoggio del
compagno, prevedendo la legione l'integrazione dei soldati in un meccanismo complessivo di lavoro
di squadra. Era assimilabile ad una grande unità complessa odierna, di rango variabile tra una
brigata ed una divisione, ma soprattutto riuniva attorno a sé, oltre ai reparti dell'arma base, fanteria
e cavalleria. Nella storia di Roma, l'esercito poté contare su oltre 60 legioni al termine della guerra
civile, e su un minimo di 28 agli inizi del principato.
LA IV LEGIONE
La legio IV era un'unità militare romana di epoca tardo
repubblicana, che sembra sia stata formata da Gaio
Giulio Cesare nell'anno di consolato del 48 a.C.
Arruolata per combattere contro Gneo Pompeo
Magno, prese parte alla successiva battaglia di Farsalo.
Cesare formò la IIII legione con legionari italici in
occasione della guerra civile contro Pompeo: dopo aver
attraversato il Rubicone, il futuro dittatore a vita creò la
IV legione prima di attraversare l'Adriatico e inseguire i
suoi nemici in Grecia. La Legio IV entrò in azione nella
battaglia di Dyrrhachium (48 a.C.) e in quella di Farsalo,
nella quale Cesare sconfisse Pompeo, in seguito alla
quale sembra sia stata rinominata IV Macedonica.
Dopo l'assassinio di Cesare nel 44 a.C., giurò fedeltà ad
Ottaviano e dallo stesso fu utilizzata prima nella
battaglia di Filippi (42 a.C.) e forse anche ad Azio nel 31
a.C. contro Marco Antonio.
EQUIPAGGIAMENTO
L’equipaggiamento dei Gladiatori non necessariamente era uguale per tutti, anzi per
distinguerli tra loro e soprattutto per la necessità di spettacolarizzare i combattimenti, erano
armati diversamente.
L’imperatore Ottaviano Augusto, tra le varie riforme attuate nella sua carica, regolarizzò i
combattimenti gladiatori distinguendoli per classi e tipologie.
Esistevano, infatti, diverse categorie che venivano associate alla provenienza del guerriero
che combatteva utilizzando armi e tecniche del proprio popolo; in seguito le categorie furono
assimilate e quindi proposte ai vari gladiatori che si specializzavano nell’uso di una particolare
arma o tecnica.
Inizialmente si pensava che l’utilizzo del gladio, ovvero spada corta, nei munera, fosse un
collegamento col popolo Sannita, in quanto, nelle famose guerre sannite, nel III sec. a.C.,
furono i primi ad utilizzare questa particolare arma in battaglia, poiché risultava più efficace
nel corpo a corpo. In seguito il gladio fu associato sempre di più all’arma da combattimento
principale di un gladiatore, ed infatti dal termine “gladio” deriva il nome “gladiatore”
(combattente col gladio).
L’associazione di un combattente ad una tipologia di gladiatore era deducibile anche al tipo di
fisico che possedeva.
Combattere con un equipaggiamento pesante era più indicato ad un gladiatore avente
caratteristiche fisiche possenti.
Chi invece era veloce nei movimenti era più predisposto all’uso della sica, sfruttando quindi i
veloci affondi laterali.
Chi era agile e resistente nella corsa si specializzava nel combattere contro il gladiatore che
utilizzava rete e tridente, penalizzato in questo caso dal possedere l’arma lunga; il suo scopo
era avvicinarsi il più possibile all’avversario per compensare il divario di lunghezza delle armi
contrapposte e quindi rendergli difficile la maneggevolezza del tridente.
Al contrario il reziario doveva essere molto abile nell’utilizzo della rete, per trovare un
appiglio nell’armatura dell’avversario, ed anche esperto nei movimenti e robusto nel braccio,
per portare colpi mortali mantenendo in equilibrio il tridente.
C’è da premettere che non tutte le classi gladiatorie sono esistite
contemporaneamente: alcune scomparvero già in età repubblicana come i
Samnites, altre si modificarono come i Galli che divennero Mirmilloni, altre ancora
come i Traci giunsero immutate sino all’età imperiale.
Il vestiario era diverso a seconda della classe di appartenenza. Attraverso fonti
storiche a disposizione, si possono identificare all’incirca una dozzina di categorie,
non condivise però da tutti gli studiosi; non era facile, infatti, collegare i nomi alle
iconografie a disposizione. Il perizoma (subligalicum), la cintura (balteus), l’elmo
(galea), la protezione metallica per il braccio (manica), gli schinieri per proteggere
le gambe (ocreae e cnemides) facevano parte del vestiario di uso comune a tutte
le categorie.
ARMI D’OFFESA
Le armi che utilizziamo sono ricostruzioni quanto più fedeli, in peso e dimensioni,
a quelle utilizzate dai gladiatori in allenamento e nei combattimenti.
Durante gli allenamenti venivano usate anche armi di peso superiore a quelle con
cui si combatteva; ciò per abituare il braccio ad un peso maggiore e quindi
rinforzarlo.
Il gladio era l’ arma tipica dei gladiatori, dalla quale gli stessi presero il nome.
La sica, invece, è stata introdotta dal “Trace”, tipico guerriero della Tracia, che la
adoperava in combattimento. L’ abilità nell’ uso di quest’arma ha fatto si che al
Trace fosse attribuita una categoria di gladiatori.
Il pugio (pugnale) era usato dal Reziario come seconda arma (la prima era la rete) e
dal Dimachero, che combatteva con due pugi o con due gladi, o anche con un
pugio e un gladio.
Il gladio, la sica ed il pugio sono stati ricostruiti, come armi lusorie, ovvero non
affilati e non appuntiti, essendo impiegati dai nostri gladiatori in allenamento ed in
combattimento.
ELMI
L’elmo nella guerra “moderna”, come per gli antichi eserciti, è considerato
un prezioso alleato, in quanto protegge il punto vitale della testa. Per il
gladiatori invece combattere con un elmo non era necessariamente un
vantaggio, nonostante la spessa consistenza di ferro attutisse
adeguatamente i colpi ricevuti alla testa.
I Gladiatori che indossavano un elmo avevano, infatti, lo svantaggio di
sostenere un grosso peso e quindi di esercitare uno sforzo maggiore con i
muscoli del collo; inoltre, la visibilità era limitata in quanto spesso gli elmi
offrivano esclusivamente una visione frontale e limitata ai lati. Alcuni elmi
avevano un'unica grata all’altezza degli occhi, altri addirittura dei piccoli
fori. Ma l’inconveniente maggiore era un altro: gli elmi aderivano
perfettamente alla testa del gladiatore altrimenti si sarebbero mossi
durante il combattimento e quindi avrebbero creato un problema di
visuale maggiore; l’aderenza al volto, però, limitava la capacità respiratoria
e quindi era interesse del gladiatore cercare di finire l’incontro prima che
la respirazione degenerasse (ecco perché il Secutor che solitamente era
contrapposto al Reziario, che non utilizzava l’ elmo, doveva essere
scattante e veloce nella corsa, per cercare di colpirlo mortalmente nel
minor tempo possibile, onde evitare l’immancabile insufficienza
respiratoria; al contrario, l’interesse del reziario era quello di prolungare il
combattimento ed essere inseguito, quindi indebolire l’avversario e
finirlo). Si pensa che l’utilizzo di questi tipi di elmi, a causa dei colpi
ricevuti frontalmente, provocasse la rottura del setto nasale.
PROTEZIONI ALTE: MANICHE E GALERI
La manica era formata da piastre articolate o scaglie metalliche o, talvolta, da una stretta
fasciatura di stoffa e cuoio. Serviva a proteggere il braccio dai colpi dell’ avversario e
solitamente veniva indossata sul braccio in cui il gladiatore impugnava l’ arma d’ offesa, più
esposta ai colpi, in quanto l’altro braccio era ben protetto dallo scudo.
I movimenti del braccio protetto da una manica risultano leggermente limitati rispetto
all’utilizzo di un gladio con il braccio libero da protezione. Ciò sta a significare che nella
preparazione di ogni sorta di incontro, bisogna aver cura prima di una buona difesa e di
ottime protezioni, per studiare successivamente un attacco efficace. Quindi, per quanto sia
limitato il movimento del braccio, averlo adeguatamente protetto ne fa guadagnare una
buona protezione ed attutire la forza dei colpi portati su di esso è fondamentale.
Per il Reziario il discorso della manica è diverso rispetto agli altri gladiatori. Molte
testimonianze, tra cui i famosi mosaici di Gladiatori esposti nella Galleria Borghese di Roma,
riportano diversi Reziari che indossano la manica al braccio sinistro.
Ciò farebbe presupporre che fossero mancini, e che quindi l’arma d’attacco fosse il tridente;
invece il presupposto viene rovesciato se si considera che l’arma d’attacco del reziario non è il
tridente, bensì la rete. Infatti si potrebbe elaborare un parallelismo tra la funzione difensiva
dello scudo, che è quella di parare i colpi, e quella del tridente, che è quella di tenere lontano
l’avversario. Pertanto questi gladiatori portavano la manica di protezione sul braccio sinistro,
ovvero su quello con cui impugnavano il tridente, che non incontrava alcuna limitazione nei
movimenti di affondo. La mano destra, invece, che utilizzavano per far volteggiare la rete,
doveva avere piena libertà di movimento per attaccare ed afferrare il rivale o portargli via le
armi, cosa che non sarebbe avvenuta se fosse stata presente in quel braccio la manica.
La manica di protezione del Reziario era completata da un galero (galerus), ovvero una placca
metallica di forma rettangolare fissata alla spalla del lato in cui il gladiatore utilizzava il
tridente, parte più esposta ai colpi dell’ avversario. Il galerus si alzava al di sopra della spalla
per circa 13 centimetri e serviva a proteggere la gola e la testa, in quanto il Reziario
combatteva privo di elmo.
GUANTI DI PROTEZIONE
La protezione della mano del gladiatore che
impugnava l’ arma d’ offesa (gladio, sica o altro)
era costituita da un guanto, che poteva essere: di
cuoio, di fasce sovrapposte di cuoio o di cuoio
con piastre metalliche sopra applicate.
Queste protezioni sono state riscontrate in diversi
bassorilievi, ed in particolar modo nel Museo
della Civitella di Chieti.
Da uno studio attento risulta che diversi gladiatori
ricorrevano a delle protezioni che avvolgevano
completamente la mano che impugnava il gladio.
PROTEZIONI DELLE COSCE
Fasce protettive, costituite da strisce di cuoio
avvolte intorno alle cosce, erano utilizzate
talvolta dal Trace e dall’ Oplomaco.
TIRONES
La classe minore era indubbiamente rappresentata dai novizi ovvero principianti che entravano per
la prima volta nel Ludus, la palestra dove veniva svolta la formazione di un gladiatore.
In seguito, divenivano TIRONES: si sarebbero dovuti specializzare nel combattimento di una classe
gladiatoria per poi esordire di fronte al pubblico. Quest’esordio li avrebbe resi gladiatori a tutti gli
effetti.
All'inizio della sua carriera il gladiatore utilizzava durante l'addestramento un bastone di legno,
chiamato Rudis. Questo per evitare che l'atleta si ferisse in allenamento. Teniamo presente infatti
che l'acquisto, il mantenimento o l'ingaggio di un gladiatore erano molto costosi.
MIRMILLONE (MYRMILLO)
Una delle classiche categorie gladiatorie era quella del Mirmillone, pesantemente armato, che
quindi basava la sua tecnica su forza e potenza.
Il suo armamento consisteva in un elmo a tesa larga, un grande scudo rettangolare, simile a quello
utilizzato dai legionari, ed una manica sul braccio armato.
L’arma d’offesa, il gladio, spada corta con una lama di circa 40 centimetri, ricorda l’armamento della
fanteria pesante delle legioni.
Essendo l’armatura del mirmillone molto pesante, il suo combattimento non era incentrato
sull’agilità, bensì sulla difesa, in quanto disponeva di un enorme scudo. Tuttavia l’armatura pesante,
oltre a renderlo meno vulnerabile, ne limitava le capacità respiratorie e di resistenza. Gli avversari
tipici del Mirmillone erano il trace, l'oplomaco o un altro mirmillone.
OPLOMACO (HOPLOMACUS)
Un’altra tipica categoria gladiatoria, era quella dell'Oplomaco, molto simile al Mirmillone, quindi
appartenente alla categoria degli scutati.
Il suo nome trae origine dal greco “oplon”, che significa grande scudo. A differenza dello scudo da
mirmillone però, quello dell’oplomaco era mistilineo.
Come il mirmillone, ha un’arma di offesa rappresentata da un gladio della lunghezza di circa 40 cm,
quindi con lama più corta rispetto al gladio in dotazione ai legionari, per favorire il combattimento
ravvicinato.
I suoi avversari tipici erano il trace ed il mirmillone.
PROVOCATOR
Il Provocator solitamente combatteva contro un altro provocator, tuttavia è probabile che abbia
combattuto anche contro altre categorie.
L'arma d'attacco era una lama di media o corta lunghezza (come l'odierno pugnale o daga), tuttavia spesso
utilizzava il pugio. Lo scudo, utilizzato anche come arma d'offesa, era di forma rettangolare o mistilineo,
cioè con parti dritte e parti curve, di medio-grandi dimensioni. Indossava inoltre un elmo, una manica
(protezione per il braccio che impugnava il pugio), uno schiniere alto sulla gamba sinistra ed un
cardiophilax (o spongia oectoris) per proteggere il torace.
Portava gli attacchi molto rapidamente: il combattimento tra due provocatores ricorda sotto molti aspetti
un moderno combattimento pugilistico, in quanto i colpi privilegiati erano quelli di affondo e l'utilizzo dello
scudo a ghigliottina.
TRACE (THRAEX)
Un'altra categoria gladiatoria era quella del Trace. A differenza dei gladiatori scutati, questa categoria si
dice “parmulata”, in quanto lo scudo aveva dimensioni molto più ridotte rispetto a quello dell'oplomaco e
pertanto il combattimento del Trace era incentrato sull'agilità.
Questa figura gladiatoria deve la sua origine ai guerrieri della Tracia (attuale Bulgaria). Il gladiatore Trace
portava un elmo a tesa larga con in cima un ornamento rappresentante la testa del grifone; ai lati della
calotta erano presenti due forellini per inserire piume ornamentali. Oltre all’elmo il Trace affidava la sua
protezione ad una manica, ad un piccolo scudo rettangolare e ad alti schinieri (cnemides).
L’ arma d’offesa era, invece, la sica, una corta spada con la lama ricurva, che consentiva di colpire più
facilmente l’avversario nelle parti posteriori del corpo. Il Trace costituiva l’antagonista tipico del Mirmillone
e dell'Oplomaco. La sua tattica si basava fondamentalmente sugli affondi, che gli consentivano di
raggiungere l’avversario oltre il grande scudo.
In molti dipinti e bassorilievi il trace viene invece rappresentato in modo diverso: rimangono l'elmo
pesante e gli alti schinieri, ma cambiano le armi di offesa e di difesa.
Infatti pur restando un “parmulato”, ovvero gladiatore armato di scudo piccolo, stavolta l'arma di difesa è
un piccolo scudo tondo che viene impugnato, nella prima parte del combattimento, insieme ad un gladio.
Nell'altra mano il trace impugna invece una lancia.
Dopo aver scagliato la lancia, il combattimento di questa tipologia di trace continua con il gladio ed il
piccolo scudo tondo.
Gli avversari di questa categoria di trace sono il mirmillone e l'oplomaco, nonché un altro trace.
GLADIATORI
EZIARIO (RETIARIUS)
ARMI
Le armi che erano diverse in base alla categoria del lottatore. Il reziario (letteralmente
"l'uomo con la rete" o "il combattente con la rete"), era una delle classi gladiatorie dell'antica
Roma. Sebbene la rete fosse l'arma più classica di questo tipo di gladiatore, non esistono
molte rappresentazioni di questo tipo di arma. È possibile che il combattimento con l'impiego
della rete si sia sviluppato in qualche momento dell'antichità, però esperimenti recenti ed i
paragoni con le reti odierne, progettate per pescare, possono suggerirci solamente alcuni
spunti su come si fabbricasse una rete per questi gladiatori. I dati risultanti ci fanno supporre
che questa rete si intessesse in forma circolare, con una maglia di tre metri di diametro e con
dei pesi di piombo disposti lungo tutto il bordo. La seconda e più potente arma utilizzata dal
reziario era un tridente di ferro o di bronzo chiamato fuscina, fascina o anche, in alcuni casi,
tridens e la cui altezza era equivalente a quella di un uomo. L'ultima risorsa del reziario, nel
caso che oltre alla rete gli fosse venuto a mancare anche il tridente, era un pugnale, il Pugio,
dalla lama larga e piatta.
ARMATURE
Il reziario portava un'armatura minima e, al contrario di altri tipi di gladiatori, non portava né
l'elmo, né lo scudo e neppure gli schinieri. Indossava una manica sul braccio sinistro anziché
sul destro, e questo gli consentiva un movimento più fluido quando doveva lanciare la rete
con la mano destra. Unita all'estremità superiore della manica indossava una protezione di
bronzo o di cuoio che gli copriva la spalla e che veniva detta galerus. Questa protezione si
estendeva parzialmente al di sotto della spalla mentre in alto era ricurva verso l'esterno,
lasciando così libertà di movimento alla testa del gladiatore. Il galerus proteggeva la testa, la
faccia e la parte superiore del braccio, sempre che il reziario avesse l'accortezza di mantenere
il lato sinistro di fronte al proprio avversario. La sua conformazione permetteva al lottatore di
tenervi riparata dietro la testa, e la sua curvatura facilitava la deviazione verso il basso dei
colpi che l'avversario portava dall'alto.
SECUTOR
Il gladiatore Secutor (Insecutore) rappresenta un‘evoluzione del Mirmillone in funzione del
loro avversario tipico, il Reziario. Infatti i Secutores erano armati di scudo grande rettangolare
(scutum) e gladio, come i Mirmilloni, ma si distinguevano da questi per l’ elmo arrotondato
ovoidale , con due fori per la visibilità e privo di cimiero, concepito per non offrire alcun
appiglio alla rete dell’avversario. Portava una manica al braccio armato (a volte squamata) e
uno schiniere (ocrea) sulla gamba dalla parte in cui teneva lo scudo, come il Mirmillone.
Scopo principale del Secutor , dopo aver cercato di evitare la rete dell’ avversario, era quello
di avvicinarsi al Reziario, facendo affidamento sul proprio armamento più pesante, che lo
proteggeva quasi interamente dai colpi del tridente, per poter meglio sfruttare la sua arma
d’attacco, il gladio, che è un’arma da combattimento ravvicinato.
AMAZZONI
Non pochi documenti storici ci parlano anche di donne combattenti, quindi Gladiatrici.
Tra questi, Marco Valerio Marziale, elogia il coraggio di alcune gladiatrici che affrontavano i
leoni. Cassio Dione ci parla di spettacoli notturni in cui combattevano le gladiatrici. Il fatto che
il loro combattimento notturno coincidesse con gli eventi principali dei giochi è indice della
possibile importanza o rarità delle gladiatrici. Ma esistono molte altre fonti a conferma della
realtà storica della figura delle amazzoni. Addirittura nel 19 d.C. Sotto l'Imperatore Tiberio
venne emanato un senatoconsulto con il quale si proibiva a donne di età inferiore ai 20 anni o
appartenenti o imparentate con classi sociali elevate di scendere in arena. Potremmo quindi
pensare che fare le gladiatrici fosse diventata una moda, ancorchè tale attività fosse
considerata inopportuna per le più importanti classi sociali.
In base alla Stele di Alicarnasso, il bassorilievo del II secolo rinvenuto in Turchia e giunto fino a
noi, oggi esposto al British Museum di Londra, pare che le gladiatrici combattessero a torso
nudo e che non indossassero l'elmo, a prescindere dalla figura gladiatoria rappresentata.
COMIZI CENTURIATI
I comizi centuriati furono una delle assemblee popolari della Repubblica romana, senza
dubbio la più importante dal punto di vista delle competenze riservatele; vi si raccoglievano
tutti i cittadini romani, patrizi o plebei che fossero, per esercitare i loro diritti politici e
contribuire a determinare la vita dello stato. Delle tre assemblee con compiti deliberativi in
cui il popolo romano saltuariamente si raccoglieva per guidare la politica dello Stato, questa
era l'unica basata su un criterio censitario timocratico, ovvero in cui i cittadini erano raccolti
in gruppi sulla base del reddito. Non a caso a quest'assemblea furono demandati i maggiori
compiti di governo, il cui esercizio era riservato al popolo, che consistevano principalmente
nell'elezione delle magistrature maggiori, nella legislazione e nella dichiarazione di guerre. I
comizi centuriati avevano anche il ruolo di tribunale nel caso di condanna a pena capitale, nel
giudizio del reato di alto tradimento e, almeno nel periodo repubblicano, fino alla fine del II
secolo a.C., nel giudizio d'appello sui condannati a morte.
COMIZI CURIATI
I comizi curiati erano la più antica assemblea romana. Ancora oggi si discute se vi
prendessero parte i soli patrizi, o anche i plebei, comunque in posizione subordinata. E
poiché i Romani usavano una forma di democrazia diretta, i cittadini-elettori non avevano
alcun potere, se non quello di esprimere un voto in assemblea. Ciascuna assemblea era
presieduta da un magistrato che, come tale, prendeva tutte le decisioni relative a questioni
procedurali e legali. In ultima analisi, il potere del magistrato che presiedeva l'assemblea era
quasi assoluto. L'unica forma per controllare questo potere era porre il proprio veto da parte
di altri magistrati: si trattava dei tribuni della plebe o dei magistrati di rango superiore.
SPARTACO
In origine Spartaco fu un pastore della Tracia, una regione balcanica tra il Mar Nero
e il Mar Egeo. Forse perché costretto dalla miseria, aveva accettato di arruolarsi in
un corpo ausiliario della milizia romana, dal quale però fuggì ben presto.
Dichiarato disertore, venne cercato e trovato da "squadre speciali", che lo
ridussero in schiavitù (la quale veniva sempre imposta ai disertori, ai prigionieri di
guerra, e più in generale ai cosiddetti "barbari"). Dopodiché fu trasformato in
gladiatore e venduto a Lentulo, un organizzatore di spettacoli di Capua.
Ma Spartaco nel 73 a.C. riuscì a fuggire anche da qui, trascinando con sé circa 200
gladiatori di cui solo una settantina riuscirono a rifugiarsi presso il Vesuvio, da dove
ebbero la meglio contro i primi inviati romani, guidati dai pretori Caio Clodio e P.
Vatinio.
Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio Varinio e i suoi
luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei cavalli e dei simboli littori
dell'esercito. Da questa posizione saccheggiavano la ricca regione campana.
Altri schiavi, braccianti, contadini poveri, pastori dei territori circostanti
cominciarono ad aderire alla rivolta. Sicché la linea di blocco posta intorno al
Vesuvio fu spezzata e più divisioni romane furono sconfitte in Campania.
Spartaco condusse gli schiavi nella parte sud della penisola, dove si aggregarono
altre bande. Nell'inverno 73-72 a.C. l'esercito dei ribelli fu armato regolarmente.
I consoli del 72, Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo, scesero in campo con due
legioni ciascuno. Una divisione di 20.000 schiavi celti e germani, comandata dal
celta Crisso, fu vinta in Puglia, sul Gargano, dal propretore di Gellio, Quinto Avio,
che uccise lo stesso Crisso.
Ma il grosso dell'esercito, che ormai era arrivato alle 100-120.000 unità, guidato
da Spartaco, vinse l'armata romana e si aprì a forza il passaggio verso il nord
d'Italia, fino a Modena.
Era praticamente aperta la via per le Alpi e quindi per il rimpatrio nei paesi celtici,
germanici e nel territorio balcanico.
Tuttavia una parte degli schiavi vittoriosi (soprattutto i contadini meridionali) volle
restare in Italia o tutt'al più marciare contro Roma, approfittando del momento di
debolezza dell'esercito romano.
Spartaco avrebbe preferito continuare le battaglie in Gallia, con l'appoggio sicuro
della popolazione locale, ben sapendo che i romani si sarebbero presto ripresi.
Però si piegò al volere della maggioranza, ottenendo soltanto che non si muovesse
subito contro Roma ma si cercassero al sud altri alleati. E così condusse il suo
esercito fino in Lucania.
Roma cominciava a impensierirsi e alla fine del 72 chiese di sostituire i consoli al
comando supremo col pretore Marco Licinio Crasso, in quel momento il miglior
stratega militare della capitale. Gli fu affidato un esercito di otto legioni, le stesse
che bastarono a Cesare per conquistare la Gallia!
Crasso intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente,
Mummio, incaricato di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli ordini e
attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta sconfitte e Spartaco
poté dirigersi nel Bruzio (Calabria), presso Turi. Qui, molti mercanti si erano
radunati per commerciare il bottino dei beni raccolti dagli schiavi, ma Spartaco
proibì che ricevessero in cambio oro e argento: i suoi uomini dovevano accettare
solo ferro e rame, necessari per forgiare nuove armi.
Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia attraverso lo stretto,
in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai completamente sopita. Non
vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che si misero probabilmente d'accordo
con Verre, governatore della Sicilia, rifiutando a Spartaco le navi dopo aver
ricevuto il compenso pattuito, mentre già le coste della Sicilia erano presidiate.
Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di
sfruttare la conformazione del Bruzio per confinare nella regione i nemici:
egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella Tirrenica,
lungo 300 stadi (55 km), per impedire qualunque forma di rifornimento.
Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio,
Spartaco riuscì a passare il vallo presso Petilia e le selve silane, in una
notte di tempesta.
A questo punto Crasso chiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli
doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla
rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe
accorso Marco Licinio Lucullo.
Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, il quale decise di dirigersi verso
Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico. A questo
punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati da
Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito. I due
capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse.
Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro
e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Nei pressi del fiume Sele,
in Lucania, si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco,
morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I romani
persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri, che Crasso fece
crocifiggere lungo la via Appia (che porta da Capua a Roma).
Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga
verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così
la rivolta di Spartaco.
SPARTACO
LA RELIGIONE
LA RELIGIONE NELL’ANTICA ROMA
La religione ebbe una notevole importanza nell’ Antica Roma e fu il fondamento stesso della
stabilità dello Stato. Basti pensare che le cerimonie religiose accompagnavano ogni atto della
vita pubblica e privata dei cittadini romani: la dichiarazione di una guerra, l’inizio di una
spedizione,la costruzione di un edificio, la celebrazione di un matrimonio e cosi via. Nel corso
dei secoli la religione romana subì un’ evoluzione: il popolo romano si mostrò, infatti, sempre
aperto alle influenze esterne e spesso fece propri gli Dèi dei popoli con cui venne a contatto,
prima gli Etruschi, poi i Greci, infine i popoli orientali.
I primi Romani credevano che in ogni realtà fossero presenti dei numina “potenze, forze
divine”, dapprima immaginate come personificazioni astratte successivamente concepite
come antropomorfe: essi infatti divinizzavano elementi e processi della natura ( il bosco, la
semina, il raccolto ecc…) e cercavano di avere il favore degli dei attraverso indigitamenta, “
formulario rituale” e offerte votive, come focacce, miele, avena, maiali che rispecchiano il
carattere contadino della società delle origini.
Le prime divinità furono pertanto legate all’ agricoltura e al focolare domestico, come Fauno
dio delle selve e delle greggi, Flora dea dei fiori, Cerere dea delle messi; Vesta protettrice del
focolare e dell’ ingresso della casa. Vanno inoltre ricordati i Lari, le anime buone degli
antenati che proteggevano la casa. I Penati dèi protettori della prosperità della famiglia e
dello stato; i Mani le anime dei morti che rendevano sacro il luogo dove il defunto era
sepolto. I Lari erano raffigurati con statuette di legno terracotta o cera, che venivano
collocate nella nicchia di un’ apposita edicola chiamata larario e, in particolari occasioni o
ricorrenze onorate con l’ accensione di una fiammella. I simulacri dei Penati, due giovani
seduti con in mano una lancia venivano conservati presso il focolare, nella parte più interna
della casa dove si teneva il cibo.
Quando nel III secolo A.c. i Romani vennero in contatto con la civiltà Greca ne assimilarono la
religione e identificarono i propri dèi con le maggiori divinità greche con caratteristiche
analoghe.
I principali dèi della religione romana furono: GIOVE, la divinità suprema, padre degli dèi e degli uomini,
dio dei tuoni e dei fulmini; GIUNONE, sorella e moglie di Giove, a cui erano sacri il cuculo, il pavone e il
melograno; MARTE dio della guerra, amante di Venere, protettore dei soldati per questo raffigurato con
spada, scudo ed elmo; MINERVA nata dalla testa di Giove e dea delle arti e delle scienze; NETTUNO
fratello di Giove e dio del mare rappresentato con il tridente; MERCURIO messaggero degli dei, dio dei
commercianti, degli avvocati e dei ladri; APOLLO dio della poesia e della musica, identificato anche con il
sole; VENERE nata dal mare, dea della bellezza e dell’ amore; PLUTONE, fratello di Giove e dio dell’oltre
tomba; VESTA dea del focolare, protettrice della famiglia e della città; VULCANO dio del fuoco,protettore
degli artigiani; LIBERO o BACCO dio della vendemmia e del vino.
Verso la fine della repubblica (fine I sec. A.c.) la religione di Stato cominciò a mostrare segni di crisi,
favorendo la diffusione di culti orientali che offrivano, o almeno sembravano offrire risposte alla sempre
più diffusa spiritualità. Questi culti erano chiamati Misterici con riferimento alla segretezza che
caratterizzava i riti e le cerimonie di iniziazione.
Le cerimonie si svolgevano di notte e includevano danze sfrenate di tipo orgiastico e numerose prove, alle
quali dovevano sottoporsi tutti coloro che desiderassero essere ammessi nelle file degli adepti. I Romani
più tradizionalisti e conservatori si schierarono contro tali culti: era forte la paura che potessero diffondersi
senza il controllo dello stato. Nel 186 A.c. il Senato promulgò un decreto contro i riti di bacco e attuò
misure repressive nei confronti di questi culti.
Lo storico Tito Livio racconta che 7000 fedeli del dio, sia uomini che donne, furono arrestati. Tuttavia,
nonostante episodi come questo, i culti misterici acquisirono sempre più peso e diffusione soprattutto
durante l’età imperiale : il culto della dea ISIDE e il suo marito OSIRIDE per esempio, fu importante e nel
mese di marzo, per festeggiare il ritorno della primavera e delle stagioni della navigazione, si svolgeva una
grande processione nella quale veniva consacrata una barca, navigium Isidis.
A Roma furono inoltre venerati la GRANDE MADRE CIBELE, dea figlia della fertilità e il suo amante e
sacerdote, il pastore ATTIS; infine è bene ricordare il culto persiano di MIREA identificato con il sole e
particolarmente venerato dai soldati.
Le cerimonie pubbliche erano celebrate da sacerdoti riuniti in collegi.
Su tutti vigilava il Pontifix Maximus (pontefice Massimo) inteso come il “capo”
della religione romana. Altri autorevoli sacerdoti erano i Flamini addetti al culto di
una particolare divinità.
I più importanti erano quelli preposti al culto di Giove, Marte e Quirino. Altri due
collegi importanti erano quello degli Auguri, che dovevano interpretare la volontà
divina attraverso gli “auspici” osservando il volo degli uccelli e il pasto dei polli
sacri (infatti il termine auspicia deriva da aves aspicere, osservare gli uccelli) e
quello degli Aruspices, gli aruspici i quali interpretavano gli avvenimenti attraverso
l’osservazione delle viscere degli animali sacrificati.
Le cerimonie pubbliche cominciavano sempre con la preghiera, fatta in piedi, con
la testa velata da un lembo della toga e con le mani aperte e sollevate.
Seguivano quindi un sacrificio: esso consisteva nell’ offrire agli dèi primizie o
animali scelti, “ vittime” chiamate hostiae, nel caso di bestiame minuto, victimae,
per animali grossi. L’ animale scelto veniva cosparso di farro e sale, (da cui deriva il
verbo immolare “sacrificare”) quindi ucciso.Il suo sangue era raccolto e versato
sull’altare, mentre le sue viscere erano bruciate in onore del dio. Le carni erano
mangiate in solenne banchetto dai sacerdoti e dai partecipanti al rito.
La divinità era, insomma, presente in ogni aspetto della vita umana e la sua
volontà poteva essere interpretata e scoperta attraverso la divinazione,predizione:
gli dèi, infatti, manifestavano il loro volere attraverso i già citati auspicia, oppure
mediante omina “presagi”, come il volo degli uccelli, fulmini e tuoni.
Nello stesso periodo della nascita dei culti misterici, si diffusero alcune correnti
filosofiche, tra cui l’epicureismo e lo stoicismo.
Nel I secolo a.C. l’Epicureismo si diffuse a Roma, dove il filosofo Fedro,
amico e maestro di Cicerone, tiene lezioni di filosofia e alla cui scuola si
recano esponenti della nobiltà romana. Negli anni immediatamente
successivi fiorì a Napoli un vero e proprio circolo epicureo, i cui esponenti
di maggior spicco furono Sirone e Filodemo di Gadara. L’Epicureismo
indica nel tetraphármakon (“quattro rimedi”) la via per conseguire l’
atarassia (imperturbabilità): 1) gli dèi non sono da temere; 2) la morte
neppure; 3) il bene si raggiunge facilmente;4) il male è sempre tollerabile.
In particolare, è abolita la religio,cioè la paura degli dèi e vi è l ’invito a
rinchiudersi in una dimensione privata, e ricercare la verità con pochi
amici costituenti una piccola comunità di eletti.
Mentre lo stoicismo fu una corrente filosofica e spirituale fondata intorno
al 300 a.C. ad Atene da Zenone di Cizio, con un forte orientamento etico.
Tale filosofia prende il suo nome dalla Stoà Pecìle o «portico dipinto»
dove Zenone impartiva le sue lezioni. Gli stoici sostennero le virtù
dell’autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all’estremo
nell’ideale dell’atarassia (imperturbabilità), come mezzi per raggiungere
l’integrità morale e intellettuale. Nell’ideale stoico è il dominio sulle
passioni o apatìa che permette allo spirito il raggiungimento della
saggezza. Riuscire è un compito individuale, e scaturisce dalla capacità del
saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive
gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri
uomini e l’aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata.
CONFRONTO TRA LE DIVINITA’
ETRUSCHE,GRECHE E ROMANE.
PRINCIPALI DIVINITA’ ROMANE
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