LA RESISTENZA IN EUROPA
Dopo aver visto le caratteristiche della Resistenza in Italia, affrontiamo l’argomento per
quanto concerne l’Europa, visto che tale fenomeno di opposizione al nazifascismo
riguardò gran parte del continente. Già sappiamo che i partigiani, con la rilevante
eccezione della Jugoslavia, non sarebbero stati in grado di liberare da soli i paesi occupati
e beneficiarono perciò del determinante aiuto anglo – americano. Resta il fatto che la
resistenza ebbe ovunque un’importanza morale che va al di là del peso militare dei
partigiani, contribuendo al riscatto dell’Europa e alla costruzione delle basi del nuovo
ordine mondiale del secondo dopoguerra. In tale contesto parleremo dei paesi più
significativi per l’apporto che diedero alla liberazione.
La Francia fu il primo paese a iniziare la Resistenza, almeno a livello morale, con il
discorso di De Gaulle alla Bbc, con cui incitava nel giugno del ’40 il popolo francese alla
Resistenza contro l’invasione nazista. France libre è il nome del movimento partigiano
fondato da De Gaulle, che ebbe in Algeria la sua base logistica e che diresse le operazioni
contro l’invasore; maquis, ovvero la macchia, è lo pseudonimo con cui è anche conosciuta
la resistenza francese che operò in patria in virtù della tendenza alla guerriglia e al darsi
alla macchia per sfuggire al nemico da parte dei partigiani. Mentre France libre faceva
capo a De Gaulle, maquis comprendeva tutti i membri della lotta partigiana, compresi i
comunisti che peraltro furono in ristretta minoranza, rispetto a quanto accadde in altri
paesi europei.
La Jugoslavia, come ricordato in precedenza, fu l’unico stato a liberarsi autonomamente e
ciò pesò molto nel secondo dopoguerra, consentendo a questo paese di realizzare una
politica piuttosto autonoma rispetto ai due blocchi, sovietico e occidentale, che verrà
denominata di non allineamento. A combattere contro i collaborazionisti croati, gli
ustascia di Ante Pavelic, abbiamo un movimento partigiano formato da due fazioni a loro
volta in conflitto tra di loro: i partigiani comunisti del maresciallo croato Josip Broz, meglio
conosciuto con lo pseudonimo di Tito (che riuscì ad amalgamare varie etnie, come serbi,
croati, bosniaci e sloveni) e i nazionalisti filo - monarchici serbi (sprezzantemente chiamati
cetnici, ovvero banditi dai titini) che puntavano alla ricostituzione della monarchia in
Jugoslavia dopo la liberazione dal nazismo. Questi ultimi erano appoggiati da Stalin, ma
ciò non deve meravigliare, perché in tale contesto si pongono già le basi della futura
guerra fredda. Appoggiare i nazionalisti serbi obbedisce ad una precisa e fredda logica
calcolatrice da parte del dittatore sovietico: in tal modo egli voleva da un lato indebolire
con tutti i mezzi Tito e il suo progetto di costituire, dopo la guerra, una federazione di
paesi balcanici che comprendesse Macedonia, Bulgaria e Albania; dall’altro, puntava a
dimostrare agli alleati che non intendeva sovietizzare i Balcani, come Churchill temeva. In
realtà, il premier inglese non si sbagliava: per Stalin sarebbe stato molto più semplice
assoggettare i nazionalisti serbi e una Jugoslavia indebolita dal conflitto anziché vedersela
con Tito, desideroso di autonomia da Mosca. Il disegno di Stalin di sovietizzare non solo i
Balcani, ma l’intera Europa orientale era dunque reale. Tito e i partigiani comunisti
poterono rivendicare un’autonomia nazionale da Mosca proprio perché erano riusciti a
liberarsi da soli dall’invasore nazista. Prima di parlare della Grecia, occorre far riferimento
ad un importante incontro al Cremlino che si tenne il 9 Ottobre del ’44, tra Churchill e
Stalin (Roosevelt era assente perché impegnato in patria nella campagna elettorale). Già
a Teheran si era iniziato a parlare dell’assetto dell’Europa, particolarmente della Polonia,
ventilando l’ipotesi di estendere ad ovest il confine polacco verso il fiume Oder ai danni
della Germania, per compensarla della perdita della parte est da parte sovietica. Al
Cremlino si stipulò un accordo informale, passato alla storia con il nome di accordo sulle
percentuali (testimoniato da un biglietto riassuntivo della riunione condiviso dai due
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statisti), mediante il quale Stalin e Churchill concordarono la percentuale di influenza che
entrambi i paesi dovevano ottenere nell’Europa centrorientale all’indomani della guerra: in
Romania e Bulgaria ci sarebbe stata una netta preponderanza russa, in Jugoslavia e
Ungheria il 50% a testa, in Grecia una netta prevalenza anglo – americana. Premesso che
le cose andranno poi diversamente rispetto a quanto preventivato, il premier britannico fu
aspramente criticato dal parlamento del suo paese per tale accordo, che sembrava
assegnare ad una decisione a tavolino le sorti dei popoli dell’Europa dell’est e appariva un
cedimento verso Stalin, un venir a patti con una logica spartitoria di pura potenza. In
realtà, Churchill era preoccupato della conquista sovietica dei Balcani e pensò che fosse il
caso di limitarla contrattando con Stalin, regolamentando, se così possiamo dire, la
situazione. Roosevelt, invece, non condivideva tale impostazione: al realismo di Churchill
egli contrapponeva i principi della Carta atlantica, che a suo giudizio dovevano essere
applicati in tutta l’Europa liberata, senza disegni spartitori: ogni popolo doveva essere
libero di decidere del suo destino.
In Grecia, dunque, gli inglesi, cui l’accordo assegnava il controllo del paese, tentarono di
disarmare i partigiani comunisti una volta sconfitti i tedeschi, allo scopo di restaurare la
monarchia, ma essi non avevano intenzione di smobilitarsi. Nel 1946 iniziò così una dura
guerra civile, durata circa tre anni, che oppose la guerriglia comunista, appoggiata da Tito,
Albania e Bulgaria (ma non da Stalin), al governo monarchico, sostenuto da GBR e USA.
La svolta si ebbe nel 1948, quando Tito, rompendo definitivamente i rapporti diplomatici
con Stalin, ebbe necessità di riavvicinarsi agli americani e interruppe così l’appoggio ai
partigiani greci, il che portò alla vittoria della monarchia.
Peraltro, fu probabilmente in Polonia che la resistenza mostrò la sua pagina più crudele.
Già nel luglio – settembre del 1942 era avvenuta la rivolta del ghetto ebraico di Varsavia,
che portò alla durissima repressione nazista e alla morte della maggior parte dei 500.000
ebrei del ghetto (per tale evento, cfr. libro di testo, pp. 500-503). La resistenza polacca era
divisa in due fazioni: quella nazionalista e anticomunista, che faceva capo al regolare
governo in esilio a Londra (dopo l’invasione nazista) e appoggiato dai britannici e quella
comunista, sostenuta dai sovietici e legata al governo di Lublino (nella parte della Polonia
orientale sotto giurisdizione sovietica). I rapporti già tesi tra Stalin e il governo ufficiale in
esilio nella capitale inglese giunsero alla completa rottura quando venne alla luce quanto
successo a Katyn: i tedeschi si affrettarono a smentire ogni loro coinvolgimento in tale
vicenda, mentre Stalin, con abile mossa propagandistica, attribuì al nazismo tutte le colpe.
Il governo polacco chiese allora l’istituzione di una commissione di inchiesta, presieduta
dalla Croce rossa, che facesse luce sull’accaduto e il dittatore sovietico, indignato che si
potesse dubitare della responsabilità tedesca e che ciò potesse alludere ad un cedimento
verso la lotta contro il nazismo (in chiave antisovietica), strumentalizzò la situazione e in
modo pretestuoso ruppe le relazioni diplomatiche con il governo in esilio a Londra. Nel
luglio del ’44 Varsavia insorse: il disegno dei partigiani nazionalisti polacchi era quello di
liberare la capitale dai tedeschi autonomamente, prima che l’Armata rossa
sopraggiungesse da est, in modo da poter trattare al tavolo della pace alla pari con l’Urss.
Fu allora che i nazisti repressero in modo brutale la rivolta di Varsavia, con l’Armata rossa
che, su ordine di Stalin, arrivata alle porte della città, si fermò volutamente senza correre
in soccorso dei civili polacchi, che ebbero 250.000 morti tra agosto e i primi di ottobre, con
Varsavia quasi completamente distrutta dai tedeschi. Tale decisione di Stalin rientra nella
spietata logica della ragion di stato e della politica di potenza, che prefigura la guerra
fredda. L’Armata rossa poté occupare la Polonia con tutta tranquillità dopo la ritirata
dell’esercito tedesco. Alla conferenza di Yalta (febbraio 1945), anche gli alleati riconobbero
il governo comunista di Lublino, chiedendo però in cambio la partecipazione di esponenti
non comunisti a libere elezioni. Stalin acconsentì, anche se poi la polizia segreta sovietica
deportò o eliminò migliaia di dissidenti polacchi favorendo la vittoria dei comunisti e del
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suo capo Gomulka (riguardo alle conferenze di Yalta e Potsdam, cfr. libro di testo, pp.
530-533).
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