In apparenza, la disciplina della pubblicità ingannevole e quella

Vincenzo Meli
“Diligenza professionale”, “consumatore medio” e regola di “de minimis”
nella prassi dell’AGCM e nella giurisprudenza amministrativa.
SOMMARIO: 1. DALLA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE ALLE PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE – 2.
CARATTERISTICHE STRUTTURALI DELLA FATTISPECIE “PRATICHE COMMERCIALI SCORRETTE”. – 3. IL
PARAMETRO DELLA DILIGENZA PROFESSIONALE. - 4. LA DILIGENZA PROFESSIONALE NELLA PRASSI. - 5. LA
DILIGENZA PROFESSIONALE NELLA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA. - 6. IL PARAMETRO DEL
CONSUMATORE MEDIO. - 7. IL CONSUMATORE MEDIO NELLA PRASSI. - 8. IL CONSUMATORE MEDIO NELLA
GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA. - 9. LA REGOLA DI DE MINIMIS.
1. Dalla pubblicità ingannevole alle pratiche commerciali scorrette. Al
momento dell’entrata in vigore della disciplina delle pratiche commerciali scorrette,
l’Autorità garante della concorrenza e del mercato aveva già all’attivo quasi quindici anni
di applicazione della disciplina della pubblicità ingannevole ( 1) e non si può negare che
tra le due discipline sussistano elementi di continuità. Com’è noto, un'autonoma
disciplina della pubblicità ingannevole continua a vigere, ma essa è adesso dedicata
esclusivamente alle relazioni business-to-business (art. 1, comma 1, del d.lg. 2 agosto
2007, n. 145, attuativo della direttiva 2006/114/CE), mentre, per ciò che riguarda le
relazioni business-to-consumer, essa è stata in qualche modo inglobata nella disciplina
delle pratiche commerciali scorrette. Tra queste ultime sono comprese, infatti, accanto
alle pratiche aggressive, le pratiche commerciali ingannevoli, con le quali si ripropone,
dunque, anche la fattispecie della pubblicità ingannevole ( 2).
1
Questa, come si ricorderà, fu introdotta nel nostro ordinamento in (tardiva) attuazione della direttiva
84/450/CEE, le cui scarne disposizioni il legislatore italiano riprodusse letteralmente nel d.lg. n. 74/92,
aggiungendovi solamente un divieto esplicito della pubblicità non trasparente e alcune regole in materia di
pubblicità di prodotti pericolosi e di protezione di bambini e adolescenti. Il d.lg. n. 74/92 fu poi modificato
con il d.lg. n. 67/00, che, anch’esso in attuazione di una direttiva comunitaria (la 97/55/CEE), vi introdusse
disposizioni in materia di pubblicità comparativa illecita. La disciplina della pubblicità ingannevole e
quella della pubblicità comparativa illecita confluirono infine nel Codice del consumo (d.lg. n. 206/05), dal
quale sono state infine espunte. Con la l. n. 49/05 (c.d. legge Giulietti), l’apparato sanzionatorio di tali
discipline fu rafforzato, con la previsione di sanzioni amministrative pecuniarie, in precedenza assenti.
2
Alla luce della prassi dell’Autorità in questi primi tre anni di applicazione della disciplina delle pratiche
scorrette, è da rivedere quanto avevo sostenuto in precedenza (si veda, in particolare, V. MELI, Le pratiche
sleali ingannevoli, in I decreti legislativi sulle pratiche commerciali scorrette, a cura di A. GENOVESE,
Padova, 2008, 87 ss.), e cioè che nella definizione di pratiche ingannevoli si sia null’altro che registrata la
traduzione in legge di diverse indicazioni che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato aveva già
fornito nella precedente prassi. Utilizzando pienamente l’indicazione della direttiva 2005/29/CE, secondo
1
Se è, dunque, indubbio che le principali novità introdotte con la disciplina delle
pratiche scorrette siano il divieto delle pratiche aggressive (artt. 24, 25, 26, cod.cons.) ( 3)
e quello delle pratiche scorrette atipiche (art. 20, cod. cons.), è soprattutto cogliendo la
metamorfosi della pubblicità ingannevole in pratiche scorrette ingannevoli che si possono
apprezzare similitudini e differenze della nuova disciplina rispetto alla vecchia,
valutandone l’impatto sulla prassi dell’Autorità e il riscontro ricevuto nella
giurisprudenza amministrativa.
La pubblicità ingannevole era (ed è tuttora) definita come “qualsiasi pubblicità
che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre
in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a
causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento
economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente” (art. 2,
lett. b, d.lg. n. 74/92; art. 20, lett. b, cod. cons. vecchia versione; art. 2, lett. b, d.lg. n.
145/07); definizione che costituisce la pedissequa trasposizione di quella fornita dalla
direttiva 84/450 ( 4).
Il giudizio di ingannevolezza si articolava, pertanto, in una valutazione delle
caratteristiche oggettive del messaggio (non veridicità dell’informazione, mancanza di
trasparenza, incompletezza, ambiguità, finanche veridicità capziosa ( 5)) e della sua
cui la medesima “si applica alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori (…) poste in essere
prima, durante e dopo un’operazione commerciale relativa a un prodotto”, l’Autorità ha, in realtà, esteso il
suo giudizio al di là della pur ampiamente interpretata nozione di comunicazione pubblicitaria, per
comprendere nell’ambito della nuova disciplina qualunque comunicazione intercorrente tra professionista e
consumatore, sia al di fuori, sia all’interno di una relazione commerciale.
3
Sul tema, si vedano L. LA ROCCA, Commento agli art. 24, 25, 26 cod.cons., in V. CUFFARO (a cura di),
Codice del consumo, 2^ ed., Milano, 2008, 139 ss. L. DI NELLA, Le pratiche commerciali “aggressive”, in
G. DE CRISTOFARO (a cura di), Pratiche commerciali scorrette e Codice del consumo, Torino, 2008, 287
ss.
4
Null’altro che una manifestazione della pubblicità ingannevole era la “pubblicità non trasparente” (art. 4,
d.lg. n. 74/92), che la dottrina aveva ricondotto all’ingannevolezza sotto il profilo della “presentazione” (G.
GUGLIELMETTI, Pubblicità nascosta ed autodisciplina pubblicitaria, in Riv.dir.ind., 1990, I, 384; L. DI
VIA, in F. CAFAGGI – V. CUFFARO - L. DI VIA, Commentario al Decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 74,
in Le nuove leggi civili commentate, 1993, p. 671727; V. MELI, La repressione della pubblicità
ingannevole, Torino, 1994, 70; V. COTTAFAVI, in L.C.UBERTAZZI (MARCHETTI-UBERTAZZI), Commentario
breve al diritto della concorrenza, 3^ ed., Padova, 2004, 1951).
5
E’ il caso di quelle pubblicità in cui l’impresa vanta il possesso di un’autorizzazione pubblica che, in
realtà, è comune, per legge, a tutta la categoria: ex multis, si veda, PI2340/99 - SAS.I Scuola
Addestramento Sicurezza Internazionale. Si veda V. MELI, voce “Pubblicità ingannevole”, in Enc.giur.
Treccani, Roma, 2006.
2
idoneità ad indurre in errore i destinatari o coloro che esso poteva comunque
raggiungere, con possibile pregiudizio del comportamento economico (inteso in senso
neutro, come influenza ai fini delle scelte d’acquisto) ( 6).
Nessuna rilevanza, invece, attribuiva la legge (da ciò, una conforme prassi
dell’Autorità) ad una censura soggettiva del comportamento dell’operatore pubblicitario
( 7).
E’ pur vero che il requisito della colpa aveva fatto silenziosamente il suo ingresso
già nel sistema della pubblicità ingannevole, allorché, modificandosi l’originaria
disciplina, che prevedeva, quali conseguenze dell’accertamento della pubblicità
ingannevole, solo l’ordine di cessazione e, eventualmente, di pubblicazione del
provvedimento o di una dichiarazione rettificativa ( 8), erano state introdotte le sanzioni
pecuniarie. Tuttavia, tale elemento non aveva avuto significativa evidenza nei
provvedimenti
dell’Autorità,
posto
che,
per
orientamento
consolidato
della
giurisprudenza in tema di sanzioni amministrative ex l. n. 689/81, la colpa si presume e
deve, dunque, essere il soggetto destinatario della contestazione a doverne provare
l’assenza ( 9).
6
Si veda, ad es., T.a.r. Lazio, Sez. I, 13 ottobre 2003, n. 8316. Nell’intenzione del legislatore, il requisito
avrebbe dovuto selezionare gli errori innocui da quelli rilevanti (il requisito corrisponde, infatti, alla
materiality richiesta dal sistema statunitense (Si veda FTC Policy Statement on Deception, Appended to
Cliffdale
Associates,
Inc.,
103
F.T.C.
110,
174
(1984),
scaricabile
all’indirizzo
http://www.ftc.gov/bcp/policystmt/ad-decept.htm.). La valutazione relativa ad esso ha, tuttavia, trovato
pochissimo spazio nella prassi, valendo solo in qualche isolato caso ad escludere il giudizio di illiceità della
pubblicità: si vedano, ad es., PI86/93 – Vestro; PI624/96 – Air Power Z; PI1352/97 – TIM Eurotime.
7
Si vedano, ad es., Cons. stato, Sez. VI, 6 marzo 2001, n. 1254; Ta.r. Lazio, Sez. I, 11 gennaio 2006, n.
1372. Tale opzione non era, del resto, nella disponibilità dei legislatori nazionali, atteso che la direttiva
84/450/CEE consentiva loro (art. 7) di mantenere o adottare “disposizioni che abbiano lo scopo di
garantire una più ampia tutela, in materia di pubblicità ingannevole, dei consumatori, delle persone che
esercitano un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché del pubblico in
generale”. E’ evidente che l’introduzione di un requisito soggettivo non previsto sarebbe andato
esattamente nella direzione opposta.
8
Sul quale, si rinvia a V. MELI, I rimedi per la violazione del divieto di pubblicità ingannevole, in
Riv.dir.ind., 2000, I, 5.
9
Si veda, in proposito, il provv. IP17/07 – Vodafone Servizio numero fisso: “ai sensi dell’articolo 3 della
legge n. 689/81, applicabile in virtù del rinvio operato dall’articolo 26, comma 12 [ora 27, comma 13], del
Decreto Legislativo n. 206/05, è principio generale in materia di sanzioni amministrative che 'ciascuno è
responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Secondo
la consolidata giurisprudenza relativa alla disposizione citata, ‘il rilievo dato alla coscienza e volontà
dell’azione od omissione postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo
ha commesso’ [Cfr. Sent. Corte Cassazione, Sez. Lav., 8 marzo 2000, n. 2642 (sottolineatura aggiunta).] e
‘il caso fortuito e la forza maggiore, ancorché non espressamente contemplati per le infrazioni
3
2.
Caratteristiche
strutturali
della
fattispecie
“pratiche
commerciali
scorrette”. Se si guarda alla disciplina delle pratiche scorrette, in essa si riscontrano
alcune rilevanti differenze rispetto al quadro descritto. Per un verso, la fattispecie risulta
arricchita nei suoi elementi costitutivi; per un altro, l’applicazione della relativa
disciplina incontra un limite di tipo quanti-qualitativo.
Sotto il primo aspetto, una pratica, per essere qualificata come scorretta:
a)
deve essere contraria alla “diligenza professionale” (art. 5, della direttiva,
che il nostro legislatore ha trasfuso negli art. 18, lett. h; 20, comma 2, cod.cons.), della
quale la direttiva fornisce una definizione (art. 2, lett. h), trasposta nell’art. 18, lett. h,
cod. cons.;
b)
deve essere idonea a falsare il comportamento di un “consumatore medio”
(Considerando 18; artt. 5, comma 2, lett. b; 6, 7 e 8, della direttiva, che il nostro
legislatore ha trasfuso negli art. 18, lett. e; 20, commi 2 e 3; 21, commi 1 e 2; 22, commi
1 e 2; 24, comma 1, cod.cons.);
Sotto il secondo aspetto, l’applicazione della disciplina è limitata alle pratiche il cui
impatto sia “rilevante” o “apprezzabile” (art. 5, comma 2, lett. b della direttiva; artt. 18,
lett e) e 20, commi 2 e 3, cod.cons.) e non “trascurabile”.
Presi singolarmente, questi elementi suggeriscono, rispettivamente, l’ingresso nel
giudizio di scorrettezza di una censura soggettiva del comportamento del professionista;
l’introduzione, in certa misura, di una regola di caveat emptor ( 10); la rinuncia ad imporre
alle imprese oneri economici sproporzionati, in nome dell’obiettivo dell’eliminazione di
amministrative […], sono ostativi all’affermazione della responsabilità per le infrazioni medesime, […]
tenendo conto che il primo esclude la colpevolezza dell’agente e la seconda esclude la coscienza e
volontarietà dell’azione’ [Cfr. Sent. Corte Cassazione, Sez. I, 2 ottobre 1989, n. 3961.]”.
10
Ed è appena il caso di rilevare, prendendo spunto dall’ultimo scritto, sul tema, di F. DENOZZA,
Aggregazioni arbitrarie v. “tipi” protetti: la nozione di benessere del consumatore decostruita, Relazione
al Convegno “Il diritto dei consumatori nella crisi e le prospettive evolutive del sistema di tutela”, Roma,
29 gennaio 2010, ora in Giur.comm., 2009, I, 1057, che la scelta circa il livello di consumatore sul quale
parametrare la tutela, in ultima istanza, riguarda la decisione di gravare o meno le imprese di costi di
informazione che sarebbero poi scaricati sui consumatori che di quelle informazioni non hanno bisogno.
Mutatis mutandis, la stessa funzione svolge la regola di de minimis. Non a caso, nel porre entrambe le
regole, la direttiva 2005/29/CE richiama il principio di proporzionalità.
4
ogni, sia pur piccola, eventualità di scorrettezza, attraverso la previsione di una vera e
11
propria regola di de minimis ( ).
In sintesi, la disciplina introdotta per iniziativa comunitaria si caratterizza per
l’adozione di una serie di clausole generali e/o nozioni giuridiche indeterminate ( 12), che
non possono non essere viste come recanti limiti alla massima tutela del consumatore.
Tale scelta fornisce un’importante indicazione sistematica: nella tutela contro le pratiche
scorrette, ancor più che in quella contro la pubblicità ingannevole, trova espressione una
Interessenabwägung. E’ vero che essa si dichiara ispirata alla massima protezione dei
consumatori, ma, attraverso una costruzione che combina obblighi di protezione e oneri
di attenzione, ponendo poi una soglia di proporzionalità della repressione, non perde mai
di vista l’obiettivo del buon funzionamento del mercato interno. Più in generale – cioè al
di là delle esigenze specifiche della circolazione intracomunitaria -, può dirsi vero che la
disciplina in esame tende “ad allontanarsi (…) dal modello di un diritto privato dei
consumatori, per avvicinarsi ad un modello sempre più di diritto delle imprese e del
mercato” ( 13).
Ciò non segna, si badi, un vero stravolgimento del disegno posto alla base della
disciplina della pubblicità ingannevole, bensì la definizione di un differente equilibrio tra
gli obiettivi che erano stati già posti alla base della direttiva 84/450/CEE. Questa
spiegava, infatti, il proprio disegno armonizzatore delle discipline nazionali con
11
In tal senso BERNITZ, The Unfair Commercial Practices Directive: Its Scope, Ambitions and Relation to
the Law of Unfair Competition, in WEATHERILL – BERNITZ (eds.), The Regulation of Unfair Commercial
Practices Under EC Directive 2005/29: New Rules and New Techniques, Oxford, 2007, 40; LIBERTINI,
Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in
Contratto e impresa, 2009, 103; MELI, Le clausole generali relative alla pubblicità, in AIDA, 2008, 257.
12
Di notions en cascade parla H. BAUER-BERNET, Notions indéterminées en droit communautaire, in C.
PERELMAN – R. VANDER ELST, Les notions à contenu variable en droit, Bruxelles, 1984, 371. Di
contraddizione tra armonizzazione massima e clausole generali parlano diversi autori ; si vedano, ad es., A.
GARDE – M. HARAVON, Unfair Commercial Practices: Towards a Comprehensive European Consumer
Policy?, in European Consumer Law Journal, 2006, 116, 125. Si rinvia, sul punto, a V. MELI, Le clausole
generali relative alla pubblicità, in AIDA – Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello
spettacolo, 2008, 257 ss. Si vedano anche M. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella
disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., 73 ss., ove ampi richiami di dottrina; N. ZORZI, Le
pratiche scorrette a danno dei consumatori negli orientamenti dell’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato, in Contratto e impresa, 2010, 458.
13
Così C. CAMARDI, Pratiche commerciali scorrette e invalidità, in Obbligazioni e contratti, 2010, 408. Si
veda anche M. LIBERTINI, La tutela della libertà di scelta del consumatore e i prodotti finanziari,
Relazione al Convegno “Il diritto commerciale europeo di fronte alla crisi”, Roma, Università di Roma
Tre, 29-30 gennaio 2010 (su www.orizzontideldirittocommerciale.it).
5
l’esigenza di evitare distorsioni della concorrenza all'interno del mercato comune,
tutelando “l'interesse del pubblico in generale, dei consumatori e di quanti svolgono, in
regime di concorrenza, un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale
nell'area del mercato comune” (Considerando 6), di consentire la realizzazione di
campagne pubblicitarie transfrontaliere, con ciò promuovendo la libera circolazione di
merci e servizi. A seguito della scelta di armonizzazione minima, però, gli stati membri
restavano liberi di introdurre disposizioni volte ad assicurare una più elevata tutela agli
interessi considerati. E’ chiaro che con ciò si lasciava la porta aperta a trattamenti
nazionali di differente rigore, in realtà sacrificandosi, tra gli obiettivi dati, la pur citata
tutela/promozione del libero commercio transfrontaliero e – se ancora si pone
l’attenzione sui profili sistematici piuttosto che sulla contingenza della politica
comunitaria -, l’affermato contrasto alle distorsioni della concorrenza.
Tale questione viene affrontata con la disciplina delle pratiche scorrette e la
soluzione, stavolta imposta, non è più quella della incondizionata difesa dei consumatori.
Il presente scritto intende valutare se ed in quale misura le scelte dell’Autorità e dei
giudici amministrativi in sede di applicazione della disciplina abbiano davvero inteso
assecondare tale disegno.
A tale scopo, si assumerà come prevalente – ma non esclusivo - riferimento la
prassi nei settori del credito e delle assicurazioni. Essa appare, del resto, pienamente
coerente con quella maturata in altri settori ( 14) ed è appena il caso di osservare che il
settore creditizio è, dopo le comunicazioni elettroniche, quello che ha fatto finora
registrare il più elevato numero di interventi repressivi dell’Autorità ( 15). Dunque, la
scelta consente di considerare settori in cui la prassi decisionale (e la successiva
giurisprudenza) sia talmente ricca da dare significatività agli indirizzi in essa emersi ( 16).
14
Per la conferma in una varietà di settori degli indirizzi che qui saranno posti in evidenza, si veda la
casistica riportata da N. ZORZI, op. cit., 458 ss.
15
Si veda Relazione annuale sull’attività svolta nel 2009.
16
Si veda ampiamente, sul tema, V. MELI, L’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali
scorrette nel macrosettore «credito e assicurazioni», in corso di pubblicazione in Banca, borsa e tit. cred.,
2011 e Le pratiche commerciali scorrette nella relazione banca-cliente, Relazione al Convegno Nuove
regole per le relazioni tra banche e clienti. Oltre la trasparenza?, San Miniato, 22 e 23 ottobre 2020, in
pubblicazione negli Atti del convegno, Torino, 2011.
6
3. Il parametro della diligenza professionale. Secondo l’art. 18, lettera h), cod.
cons., la diligenza professionale è “il normale grado della specifica competenza ed
attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro
confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività
del professionista” ( 17).
Non mi diffonderò sull’interpretazione di tale definizione ( 18). Ricordo solamente
come simile guazzabuglio abbia trovato ingresso nella direttiva per la bizzarra idea della
Commissione di eliminare ( 19) le notevoli differenze nello sviluppo e nell’applicazione
giurisprudenziale del “principio giuridico generale” che nei diversi ordinamenti
nazionali presiedono al giudizio di lealtà delle pratiche commerciali ( 20), attraverso il
ricorso ad un’unica clausola generale, per costruire la quale, tuttavia, si è tentata una
sintesi dei riferimenti alla correttezza contenuti in detti ordinamenti. Da qui un evidente
paradosso: se può dirsi, certo un po’ generalizzando, che negli ordinamenti interni le
clausole generali/nozioni giuridiche indeterminate, servono a concedere margini di
flessibilità all’interprete, proprio tale fine appare difficilmente compatibile con l’esigenza
di armonizzazione nel perseguimento del fine unitario del conseguimento degli obiettivi
comunitari ( 21). Sul contenuto della nozione, mi limito a sottolineare come la
17
Si può discutere se tale definizione sia realmente fedele a quella contenuta nella direttiva. Lo nega G. DE
CRISTOFARO, Le pratiche commerciali scorrette nei rapporti tra professionisti e consumatori: il d.lg. n.
146 del 2 agosto 2007, attuativo della Direttiva 2005/29/CE, in Studium Iuris, 2007, 1181, 1188.
Favorevole alla scelta del legislatore italiano si mostra, invece, M. LIBERTINI, Clausola generale e
disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, in Contratto e impresa, 2009,
46 ss.
18
Rinvio, per un approfondimento, a V. MELI, Le clausole generali relative alla pubblicità, cit.
19
Si veda il Libro Verde sulla protezione dei consumatori, Bruxelles, 2.10.2001, COM(2001) 531
definitivo.
20
Rilevava la Commissione (Ibidem, 6 s.), che «Il principio generale contra bonos mores si osserva nel
diritto dei seguenti paesi: Austria, Grecia, Portogallo e Germania (dove peraltro è stato eliminato nel
2004, proprio in occasione della modifica tesa a considerare nell’UWG forme di pratiche scorrette nei
confronti dei consumatori: n.d.a.). Il principio delle pratiche commerciali leali è presente nel diritto dei
seguenti paesi: Belgio, Italia, Lussemburgo e Spagna. La Francia e i Paesi Bassi applicano disposizioni
generali sulla responsabilità civile, i Paesi Bassi utilizzano il concetto di illiceità. Un principio simile,
quello delle buone pratiche commerciali, è in vigore in Danimarca, Finlandia e Svezia. Altri principi
generali simili caratterizzano gli ordinamenti giuridici di molti paesi terzi, in particolare gli USA, il
Canada (dove la tutela dei consumatori è gestita a livello provinciale) e l'Australia. Nel Regno Unito e in
Irlanda, sebbene non esistano norme giuridiche generali che disciplinino i rapporti tra le imprese e i
consumatori, gli ordinamenti giuridici contemplano principi equivalenti».
21
Sull’ordinamento comunitario come ordinamento finalizzato, si veda J. JOUSSEN, L’interpretazione
(teleologica) del diritto comunitario, in Riv.crit.dir.priv., 2001, 491 ss., spec. 495 ss. Scettico sulla stessa
7
qualificazione in termini di conformità a modelli di comportamento dell’azione (o
omissione) del professionista non possa non inserire nel giudizio il già ricordato profilo
di valutazione della colpevolezza.
Della novità, rispetto alle esigenze della prassi precedente, l’Autorità ha preso atto,
dato che, può dirsi, non esiste provvedimento in tema di pratiche scorrette nel quale
manchi un passaggio espressamente dedicato ad argomentare la sussistenza del requisito
della contrarietà alla diligenza professionale ( 22). Sul punto, mi limito a ribadire ( 23) che,
se è vero che pratiche ingannevoli e aggressive sono costruite come tipiche
manifestazioni di comportamento professionalmente scorretto, ciò non elimina, un volta
individuata la fattispecie rilevante, la necessità dell’indagine sulla diligenza professionale
in concreto: il giudizio di contrarietà alla diligenza professionale può, infatti, sì agire a
monte della qualificazione di una pratica (per verificare se essa sia ingannevole,
aggressiva o atipica), ma anche a valle di essa, quale parametro di giudizio dello
specifico comportamento del professionista.
In poche parole, da un lato, si pone, nei termini dibattuti in dottrina, il tema del
rapporto tra clausola di diligenza professionale e fattispecie tipiche di comportamenti
scorretti, ma, dall’altro, accertata un’azione che ha le caratteristiche oggettive per essere
considerata scorretta (ingannevole, aggressiva, atipica), sull’Autorità incombe l’onere di
dimostrare che la scorrettezza è imputabile al professionista, e cioè che gli si può
rimproverare, appunto, un’assenza di diligenza professionale: in sintesi, che nel suo
comportamento è riscontrabile l'elemento della colpevolezza ( 24).
possibilità di configurare clausole generali, nel diritto comunitario, distinguendole dalle nozioni giuridiche
indeterminate, è P.-C. MÜLLER-GRAFF, Schlußwort: Elemente einer gemeinschaftsprivatrechtlichen
Dogmatik der Generalklauseln - Was leistet die deutschen Wissenschaft vom Europäischen Privatrecht?, in
C. BALDUS – P.-C. MÜLLER-GRAFF, Die Generalklausel im Europäischen Privatrecht, Zur
Leistungsfähigkeit der deutschen Wissenschaft aus romanischer Perspektive, München, 2006, 129 ss.
22
Per tale suddivisione, si veda M. LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina
delle pratiche commerciali scorrette, cit., 29 ss. (in cui ampi riferimenti alla dottrina e alla posizione della
Commissione), il quale sposa il secondo orientamento, condiviso anche dalla giurisprudenza
amministrativa (si veda, ad es., T.a.r. Lazio, Sez. I, 11 marzo 2009, n. 3126).
23
Si veda già il mio Le clausole generali relative alla pubblicità, cit.
24
Correggo qui una imprecisione contenuta nel testo citato, nel quale affermavo che nel giudizio a valle –
cioè quello sul concreto comportamento del professionista indagato - opera una presunzione relativa, che
lascia spazio “alla possibilità per il professionista di dimostrare di non aver potuto evitare la produzione
di effetti ingannevoli (cioè di aver agito con correttezza e buona fede)”. E’ evidente, infatti, che è più
corretto affermare che è obbligo dell’Autorità dimostrare positivamente l’assenza di correttezza e buona
8
4. La diligenza professionale nella prassi. In molti casi, il giudizio di contrarietà
alla diligenza professionale non si presenta complesso, costituendo un passaggio quasi
routinario. Ciò accade in quelle ipotesi nelle quali il comportamento del professionista,
già per le sue caratteristiche obiettive, appare strutturalmente diretto a pregiudicare la
libertà di scelta o di autodeterminazione del consumatore. Si tratta, per lo più, di ipotesi
di pratiche ingannevoli, nelle quali la falsità delle affermazioni o la vera e propria
omissione di informazioni rilevanti è talmente evidente da non porre l'esigenza di
complesse dimostrazioni. In tali casi, l’Autorità non rinuncia comunque a formulare una
considerazione
sulla
contrarietà
del
comportamento
accertato
alla
diligenza
professionale, ma, in genere, segue uno schema standardizzato, che identifica tale
contrarietà con la qualificazione stessa del vizio che affligge una certa pratica. La
formulazione del giudizio, in questi casi (al netto di quei passaggi che costituiscono
semplice riproduzione del dettato legislativo) si sostanzia in affermazioni del tipo “Nello
specifico, la contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il
comportamento economico dei consumatori destinatari della pratica oggetto di
valutazione discendono dalla natura omissiva della medesima pratica, nella misura in
cui sono omesse informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per
prendere una decisione consapevole di natura commerciale” ( 25) o anche “Nel caso di
specie, la contrarietà alla diligenza professionale e l’idoneità a falsare il comportamento
economico dei consumatori della pratica oggetto di valutazione derivano dalla acclarata
fede e non obbligo del professionista di dimostrare la loro sussistenza. Sull’elemento della colpevolezza,
nell’applicazione della disciplina delle pratiche scorrette, si veda adesso Cons. Stato, 23 dicembre 2010, n.
9329. Il Consiglio di Stato, tuttavia, invoca la regola generale sulla presunzione di colpa, di cui all’art. 3
della l. n. 689/81, che ritiene governare la materia in virtù dell’affermazione, contenuta nell’art. 27 del cod.
cons., che richiama espressamente (“in quanto applicabili”), appunto, i generali principi della materia
sanzionatoria di cui al capo I, sezione I della l. n. 689/81. A me pare che il Consiglio di Stato confonda così
il giudizio di illiceità, con il presupposto per l’applicazione delle sanzioni. Il primo, infatti, non è governato
dalla legge interna, bensì dalla normativa comunitaria, cioè dalla direttiva 2005/29/CE; é da discutere se sia
compatibile con la definizione di contrarietà alla diligenza professionale in questa contenuta, una
presunzione di colpevolezza.
25
Si vedano, ad es., i provv. PS122/08 – Or.Fin.; PS2299/09 – Italmoney Network di Manea Davide –
Omessa indicazione TAN e TAEG; PS2316/09 – Euro Fiditalia – Omessa indicazione TAN e TAEG;
PS3588/09 – Immobiliare Priolo – Pubblicità finanziamenti; PS2736/10 – Multifinitalia – Carta Refil..
9
natura ingannevole della stessa ai sensi degli articoli 21 e 22 del Codice del Consumo”
( 26).
Ben più articolata si presenta, invece, la valutazione di contrarietà alla diligenza
professionale in quei casi in cui non è possibile argomentare senz’altro, sulla base della
sola osservazione oggettiva della pratica, una strategia scorretta o, comunque, la
censurabilità del comportamento del professionista nel caso concreto.
Non deve meravigliare come tale incombenza urga soprattutto in presenza di
ipotesi di pratiche aggressive, se si considera che la stragrande maggioranza dei
comportamenti “aggressivi” che viene all’attenzione dell’Autorità non consiste in
eclatanti manifestazioni di coercizione o di violenza, ma in forme più subdole di
“indebito condizionamento”, spesso manifestantesi sotto forma di disservizio.
Non di rado, la necessità di motivare discende dalle stesse argomentazioni
difensive formulate dalla parte, la quale, di fronte all’evidenza – in genere ricavabile
dall’avere l’Autorità ricevuto un certo numero di segnalazioni - di una pratica
potenzialmente pregiudizievole ai consumatori, sostiene la non difformità del proprio
comportamento da uno standard di correttezza, l’occasionalità dell’accaduto e/o l’assenza
di colpa all’origine dell’accaduto medesimo.
Nell’attività interpretativa svolta dall’Autorità – e nelle motivazioni che ne
costituiscono l’evidenza nel provvedimento - rilevano perciò:
A) l’individuazione di standard di comportamento che appaiono
disattesi;
B)
l’individuazione della specifica negligenza del professionista;
C)
l'assenza di cause di giustificazione.
Quanto alla fonte degli standard di comportamento (profilo A), essa viene
generalmente individuata:
A) i) in disposizioni giuridiche;
A) ii) nelle caratteristiche dell’attività esercitata;
26
Si vedano, ad es., provv. PS1943/09 – Banca Popolare di Bari – CartaSì Choice; PS2431/09 – Barclays
Bank – Scegli il 5% netto; PS768/09 – Banca di Sassari – Operazioni gratuite illimitate; PS3653/09 –
Prestitalia e Madafin - Finanziamenti; PS2873/09 – Consel – Carta di credito non richiesta.
10
A) iii) nella posizione di fatto rivestita dal professionista nel mercato di
riferimento;
Sotto il profilo A) i), fuori dai casi in cui al riferimento al settore di attività è una
semplice clausola di stile ( 27), appaiono rilevare, in particolare:
A) i) a) obblighi giuridici specificamente imposti da norme regolanti il settore di
attività, come, ad esempio, quelle che dettano la tempistica nella cancellazione delle
ipoteche ( 28), il diritto di recesso del consumatore dal contratto di assicurazione ( 29), la
portabilità gratuita dei mutui ( 30), il divieto di imporre costi al consumatore per l’uscita
dai rapporti di durata ( 31). In questo contesto, le regole che si possono ricavare dalla
prassi sono, in estrema sintesi, le seguenti: la violazione di norme settoriali è considerata
anche violazione della diligenza professionale ( 32); l’osservanza delle norme settoriali
non esaurisce tuttavia l’assolvimento degli obblighi compresi nella diligenza
27
In questo caso, l’argomento non fa che applicare al caso concreto quanto affermato in generale nella
Relazione 2009 dell’AGCM: “È consolidato, in definitiva, il richiamo al tipo di attenzione e cura che può
ragionevolmente attendersi dall’agente modello che svolga il determinato tipo di attività nella quale si
risolve la pratica commerciale oggetto di valutazione. In altri termini, la pratica è contraria alla diligenza
professionale quando il professionista l’abbia posta in essere violando in concreto i canoni di correttezza,
perizia, attenzione, cura e salvaguardia pretendibili dall’“agente modello”.
28
Si vedano, ad es., PS1481/09 – BNL – Cancellazione ipoteca; PS1130/09 – Intesa San Paolo –
Cancellazione ipoteca; PS1644/10 – Banca di Roma – Richiesta cancellazione ipoteca.
29
Si vedano, ad es., PS317/09 – RAS Disdetta polizze assicurative; PS2425/09 – Agenzia di assicurazioni
Generali – Recesso Polizza.
30
PS 1188, 1189, 1190, 1191, 1192, 1193, 1194, 1197, 1198, 1201, 1203, 1204, 1206, 1207, tutti del 7
agosto 2008. Da ultimo, PS4126/10 – Barclays Bank – Rata di cauzione, in cui si legge che “Deve inoltre
ritenersi che la dimensione e il contenuto dei doveri di diligenza a carico delle banche debbano
ricostruirsi tenendo conto del favor espresso dal legislatore per la portabilità gratuita dei mutui, nel senso
di riconoscere uno specifico dovere a carico della banca di porre in essere procedure tali da garantire la
gratuità della surroga”.
31
Si veda PS2833/10 - Webank – Chiusura c/c. A proposito della scorrettezza connessa alla violazione di
norme settoriali, in dottrina ci si chiede con sempre maggiore insistenza se sia sostenibile la duplicazione di
interventi (Autorità garante e autorità di settore) per violazioni che, sostanzialmente, appaiono previste a
tutela del medesimo interesse pubblico. Si vedano, sul punto, M. CLARICH, Le competenze in materia di
diritto dei consumatori delle autorità di regolazione settoriale, Relazione al Convegno “Il diritto dei
consumatori nella crisi e le prospettive evolutive del sistema di tutela”, organizzato dall’Autorità Garante
della Concorrenza e del Mercato Roma, 29 gennaio 2010 (atti su www.agcm.it); M. LIBERTINI, La tutela
della libertà di scelta del consumatore e i prodotti finanziari, cit.: V. MELI, L’applicazione della disciplina
delle pratiche commerciali scorrette nel macrosettore «credito e assicurazioni», cit. e Le pratiche
commerciali scorrette nella relazione banca-cliente, cit.
32
Per un’affermazione chiara di tale principio, si veda PS3611/09 – Tele2 – Codice di migrazione, per cui
“la normativa in materia di pratiche commerciali scorrette richiede ai “professionisti” l’adozione di
modelli di comportamento desumibili dal quadro regolamentare di riferimento, ove esistente, nonché
dall’esperienza propria del settore di attività e dalle finalità di tutela perseguite dal Codice del Consumo,
ove concretamente esigibili in un’ottica di bilanciamento tra l’esigenza di libera circolazione delle merci e
il diritto del consumatore a determinarsi consapevolmente in un mercato concorrenziale”.
11
professionale ( 33).
A) i) b), obblighi giuridici connessi alle modalità di esercizio dell'attività in cui si
inserisce la pratica, quali, ad esempio, quelli relativi all’informazione da fornire al
consumatore nell’ambito dell’attività di vendita a distanza ( 34);
A) i) c), obblighi aspecifici, quale quello di interpretare correttamente le norme
giuridiche di cui ai punti precedenti; una casistica interessante, sotto questo profilo, è
ancora quella che riguarda il diritto di recesso dal contratto di assicurazione ( 35), ma
anche quella sulla portabilità dei mutui. Il professionista non può, in pratica, farsi scudo
della incertezza interpretativa per interpretare le norme a proprio favore. Nel caso della
portabilità dei mutui, tuttavia, il giudice amministrativo ha ritenuto che l’obiettiva
incertezza interpretativa, nel caso di specie relativa a chi, tra il professionista ed il
33
Si veda, per un caso al di fuori dei settori del credito e delle assicurazioni, PS1/08 – Prezzi bloccati
elettricità, con riferimento alla sufficienza, ai fini dell’assolvimento degli obblighi di informazione
preventiva dei possibili clienti sul mercato libero dell’energia elettrica e del gas, della scheda di
confrontabilità prescritta dall’AEEG.
34
PS243/09 - Findomestic Aura indennitaria plus; PS2940/09 – Ducato carta revolving mai richiesta.
35
Si vedano i provv. citati in nota 29. Le vicende che hanno dato luogo ai procedimenti erano connesse alla
disciplina del recesso dai contratti di assicurazione di durata poliennale, introdotta dal c.d. decreto Bersani
(d.l. n. 7/2007, convertito, con modificazioni, in l. n. 40/2007). Questo attribuiva, infatti, agli assicurati il
diritto di recedere annualmente, senza oneri e con preavviso di sessanta giorni. In sede di conversione del
decreto legge, si è precisato che la disposizione è applicabile ai contratti stipulati successivamente
all’entrata in vigore della legge di conversione, mentre per i contratti anteriori “la facoltà di cui al primo
periodo può essere esercitata a condizione che il contratto di assicurazione sia stato in vita per almeno tre
anni”. Qualche assicuratore interpreta la regola nel senso che la modifica del contratto già in essere con
l’assicurato fissa un nuovo dies a quo per la decorrenza del triennio previsto dalla legge. Sulla base di tale
interpretazione, nega ad un assicurato il diritto di recedere. Per valutare la conformità di tale pratica alla
diligenza professionale, l’Autorità deve valutare non solo l’esistenza e la portata della norma attributiva del
diritto che si assume violato, ma anche la fondatezza dell’interpretazione di tale norma, alla quale
l’assicuratore dichiara di essersi attenuto, e la sussistenza di un obbligo dell’assicuratore di interpretare con
competenza e buona fede tale norma. Sotto il primo profilo, l’Autorità ritiene che la norma, con
l’esprimersi in termini di “esistenza in vita del contratto” abbia voluto riservare il riavvio del termine dei
tre anni ai soli casi di novazione oggettiva del medesimo, non potendosi ritenere idonea a fissare un nuovo
termine ogni modifica, anche non incidente sulla sostanza del contratto (quale l’aggiornamento del
premio). Ciò detto, l’Autorità valuta come non diligente il comportamento del professionista, in quanto,
allorché “ha sostenuto il carattere di novità della seconda polizza, ha mostrato di fondare tale giudizio non
su una rigorosa valutazione tecnico-giuridica della portata sostanzialmente novativa delle modifiche
rispetto alle obbligazioni originariamente assunte, sottolineando piuttosto il profilo temporale costituito
dalla data di sottoscrizione ai fini del riconoscimento del diritto di recesso”. Inoltre “Il criterio adottato
per la valutazione della dichiarazione di recesso (…) non soddisfa lo standard di conoscenze specialistiche
e di attenzione che il consumatore di servizi di intermediazione assicurativa ragionevolmente attende dal
professionista, tenuto conto delle specificità del settore di attività, con particolare riferimento alle
asimmetrie informative che in esso si riscontrano”. In sintesi, non solo il professionista non ha
adeguatamente motivato le ragioni del diniego ad ammettere il recesso, ma il criterio da lui adottato per
valutare la ricorrenza dei presupposti per negarlo dimostra un atteggiamento non competente e non attento
ai diritti di informazione del consumatore.
12
consumatore, dovesse sopportare determinate spese in sede di surroga, valesse ad
eliminare la responsabilità del professionista ( 36).
Sotto il profilo A) ii), (caratteristiche dell'attività esercitata), viene in evidenza la
figura dell’ ‘agente modello’ ( 37), declinata variamente a seconda dei settori di attività.
L’esercizio di determinate attività è stato, in particolare, ritenuto di per sé fonte di
obblighi speciali di diligenza. In questo senso, l’esercizio di determinate attività (quale,
tipicamente, quella creditizia) sintomatica è la considerazione dell’attività creditizia, è
stato ritenuto di per sé fonte di obblighi speciali di diligenza, configurati talvolta come
rispondenti ad un dovere di protezione del consumatore ( 38).
A tale proposito, numerosi sono i provvedimenti che ritengono che tale elevato
livello di diligenza sia imposto dall’esistenza, rispetto ai beni o servizi ai quali la pratica
afferisce, di asimmetrie informative tra imprese e consumatori ( 39). Tale concetto è
divenuto, anzi, un vero e proprio catchword nell’attività di repressione delle pratiche
scorrette, di ricorso assai frequente in tutti i settori, ma prevalentemente con riferimento
36
Si veda, per tutte le decisioni in primo grado sulla vicenda, T.a.r. Lazio, Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 3689;
in appello, in senso conforme, la già citata Cons. Stato, 23 dicembre 2010, n. 9329. Rispetto alla
inesigibilità di comportamenti differenti da quelli adottati, motivata con difficoltà interpretative del dato
normativo, mi pare dissenta LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi in materia di pratiche
commerciali scorrette, in Giur. comm., 2009, II, 889, per il quale “Il punto centrale, in materia, è quello di
stabilire lo standard di scusabilità dell'errore, in una disciplina in cui il professionista è comunque
obbligato a rispettare il principio di diligenza professionale. Si deve tenere presente che tale principio
comporta anche la doverosità di interpelli e di comportamenti attivi, volti a chiarire la portata di obblighi
di legge gravanti sul professionista”.
37
Si veda la Relazione 2009 dell’AGCM: “È consolidato, in definitiva, il richiamo al tipo di attenzione e
cura che può ragionevolmente attendersi dall’agente modello che svolga il determinato tipo di attività
nella quale si risolve la pratica commerciale oggetto di valutazione. In altri termini, la pratica è contraria
alla diligenza professionale quando il professionista l’abbia posta in essere violando in concreto i canoni
di correttezza, perizia, attenzione, cura e salvaguardia pretendibili dall’’agente modello’”.
38
Si vedano A. GENOVESE, Il contrasto delle pratiche commerciali scorrette nel settore bancario, in corso
di pubblicazione in Giur.comm.; V. MELI, L’applicazione della disciplina delle pratiche commerciali
scorrette nel macrosettore “credito e assicurazioni”, cit., e Le pratiche commerciali scorrette nella
relazione banca-cliente, cit. Nel settore assicurativo, si è argomentato di una “particolare attendibilità” che
il cliente attribuirebbe «alle posizioni tecnico-giuridiche espresse dalla propria controparte contrattuale» (si
veda PS317/09 – RAS – Disdetta polizze assicurative.
39
Si vedano, ad es., PS 243/08 - Findomestic – Aura Indennitaria Plus; PS668/08 – Findomestic –
Sollecitazione alla richiesta di finanziamento; PS2425/09 – Agenzia di assicurazioni Generali – Recesso
Polizza; PS2431/09 – Barclays Bank – Scegli il 5% netto; PS1506/09 – Direct Line Insurance – Omaggio
buoni benzina; PS768/09 – Banca di Sassari – Operazioni gratuite illimitate; PS2873/09 – Consel – Carta
di credito non richiesta; PS1904/09 – CheBanca! – Spot televisivo; PS3576/09 – Expert – Interessi zero.
13
al settore del credito ( 40) e a quello delle comunicazioni elettroniche ( 41) (cioè, ai due
settori che hanno visto la maggiore frequenza di interventi dell’Autorità). Deve essere
precisato che le asimmetrie informative possono essere invocate all’interno del giudizio
di diligenza professionale, ma possono talvolta anche contribuire per argomentare la
vulnerabilità del target di riferimento ( 42).
Sotto il profilo A) iii), in diverse ipotesi l’Autorità argomenta che “non si riscontra,
da parte del professionista, il normale grado di competenza e attenzione che
ragionevolmente ci si poteva attendere da un operatore di primaria importanza nel suo
specifico settore di attività” ( 43).
Se si considera il profilo B), l’oggetto della valutazione muta sensibilmente. Le
precedenti osservazioni riguardano, infatti, l’individuazione dei parametri in base ai quali
considerare un comportamento conforme o meno ad uno standard di correttezza, mentre
nel seguito il problema diventa quello della colpa del professionista rispetto al
discostamento da detto standard.
Sotto questo profilo, come già ricordato, una frequente (o ovvia) difesa del
professionista, che si richiama ad una consolidata prassi dell’Autorità in materia di
pubblicità ingannevole ( 44), è che la pratica segnalata è meramente occasionale ed è
dovuta ad un isolato disguido o errore tecnico, ecc., ecc ( 45). Altra difesa è che essa è
40
Un esame complessivo della prassi dell’Autorità evidenzia come siano più di 150 i provvedimenti in cui
l’argomento dell’asimmetria informativa tra professionista e consumatore viene utilizzato per fondare (o
contribuire a fondare) un giudizio di assenza di diligenza professionale. L’uso dell’argomento risulta assai
frequente anche nel contesto dell’offerta di servizi di telecomunicazione.
41
Si vedano, ex multis, PS7/08 – Sky – Pacchetto calcio; PS54/08 – Vodafone Casa; PS637/08 – Tiscali
Italia – Voce + Adsl 8 megabyte senza limiti; PS557/08 – H3G – ADSM Card Modem USB PS10/09 –
Alice 7 mega; PS1268/09 – Tele2 – Ostruzionismo migrazione; PS1484/09 – Wind – Mancata attivazione;
PS3028/09 – Fastweb – Mancata indicazione canone; PS4540/10 – H3G – Perdita credito; PS4471/10 –
TIM – Carta Vacanze 2009.
42
Si veda PS91/08 – Enel Energia – Richiesta cambio fornitore.
43
Si veda, da ultimo, PS705/10 – BNL - Contratto di mutuo.
44
Si vedano, ex multis, i provv. PI4311/04, Best Western – Punti Mille Miglia; PI4821/05, Libro d’arte
Treccani; PI5427/06, Telnet-Videotelefono in omaggio; PI5998/07, Alice20mega con modem in noleggio.
Si vedano anche le Relazioni annuali sull’attività svolta nel 1992, nel 1996, 1998 e nel 1999.
45
Per tale argomento difensivo si vedano, ad es., PS675/08 – Qui il quinto – Finanziamenti con cessione
del quinto di stipendio; PS317/09 – RAS disdetta polizze assicurative; PS1481/09 – BNL – Cancellazione
ipoteca; PS3574/09 – Trony – Finanziamento “senza interessi”; IP5/10 – INA Assitalia – Polizze
assicurative.
14
stata posta in essere da un ausiliario autonomo, ad insaputa o addirittura contro la volontà
dello stesso professionista ( 46).
Quanto al primo argomento, si può rilevare una resistenza dell'Autorità ad
accoglierlo ( 47). A fronte di esso, l’Autorità, in genere:
- cerca di dimostrare che la frequenza o l’ampiezza della pratica rende insostenibile
la tesi della sua occasionalità;
- argomenta sull’esistenza di carenze organizzative, che rivelano, appunto,
insufficiente diligenza ( 48).
Il primo passaggio è, dunque, collegato alle evidenze istruttorie e rappresenta un
serio problema per l’Autorità, per la ragione che, pur normativamente dotata di strumenti
idonei a condurre penetranti indagini (si pensi alle ispezioni, di cui all’art. 14 del
Regolamento sulle procedure istruttorie o alle audizioni, che l’art. 12, comma 2, del
medesimo Regolamento configura come mezzo istruttorio e non come strumento di
difesa), essa attualmente non sembra avere risorse sufficienti ad attivarli con continuità e
l’impressione è che lo faccia un po’ a campione ( 49).
E’ vero che un elevato numero di segnalazioni è in sé idoneo a dimostrare la
consistenza di una pratica e che essa può desumersi anche dalle stesse informazioni
richieste al professionista, ad esempio per ciò che riguarda il numero di reclami pervenuti
e la loro gestione ( 50); tuttavia, non è detto che le segnalazioni siano numerose e che le
46
Si veda PS5371/10 – INA Assitalia – Polizze assicurative.
Raramente l’Autorità, in vigenza della disciplina delle pratiche scorrette, ha escluso la scorrettezza di
una pratica a ragione della sua occasionalità. Un caso recente, in tal senso, è tuttavia rappresentato, da
PS1750/10 – Unicredit Banca di Roma – Ostruzionismo chiusura c/c, in cui le ritardate chiusure dei conti
correnti è sfuggita al giudizio di scorrettezza, perché “Pur sussistendo casi di consistente ritardo nel dar
seguito alla richiesta del consumatore recedente, essi appaiono ascrivibili a eventi sporadici, tali da non
qualificare la condotta tenuta dal professionista come illecita ai sensi del Codice del Consumo”. Si veda
anche PS740/09 – Barclays Bank – Estinzione mutuo, con riferimento all’esercizio dell’opzione a tasso
fisso. Su questi casi dovrà però tornare.
48
Sul tema, si veda adesso G. SCOGNAMIGLIO, Le pratiche commerciali sleali: disciplina dell’atto o
dell’attività?, in C. RABITTI BEDOGNI – P. BARUCCI (a cura di), 20 anni di antitrust. L’evoluzione
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Torino, 2010, vol. II, 1221 ss.
49
Per un’ipotesi – nella quale, invero, non si coglie una peculiare gravità rispetto ad altri casi nello stesso
settore - in cui l’istruttoria ha compreso un’ispezione, volta ad acquisire, tra l’altro, le “schede reclamo”, si
veda PS799/08 – Credito Bergamasco – Violazione Codice etico.
50
Si vedano, ad es., PS1130/09 – Intesa Sanpaolo – Cancellazione Ipoteca (“con specifico riferimento alla
contestazione avente ad oggetto il sistematico mancato riscontro delle richieste inoltrate dai consumatori,
la stessa banca ha riconosciuto la fondatezza della maggior parte dei reclami ricevuti dalla clientela
[circa 350 segnalazioni fondate su un campione di circa 430]”); PS1750/09 – Unicredit Banca di Roma –
47
15
informazioni siano esaurienti (o che la relativa richiesta si riveli, infine, ben calibrata).
Ne deriva l’attitudine a supplire alla carenza di prove circa la effettiva consistenza di una
pratica lamentata dai consumatori ricorrendo a presunzioni. Attitudine che diviene
censurabile allorché le presunzioni non siano fondate su indizi gravi, precisi e
concordanti, ma su espedienti dialettici ( 51), spesso costruiti su quanto argomentato, in
sede di difesa, dallo stesso professionista; sull'interpretazione (senza possibilità di
contraddittorio) delle informazioni da questo fornite ai sensi dell'art. 27, comma 3, cod.
cons. ( 52); sulla acritica assunzione, con ruolo decisivo, delle prospettazioni dei
Ostruzionismo chiusura c/c (“Invero, dalla documentazione afferente i reclami agli atti è emerso che, in un
numero cospicuo di casi, la data di richiesta estinzione presente sui sistemi informatici della Banca
risultava successiva, talvolta di gran lunga, a quella di ricezione della richiesta dei consumatori”).
51
Per un esempio di argomentazione del genere, si veda PS317/09 – RAS Disdetta polizze assicurative, nel
quale si legge, rispetto al fenomeno dell’invio di solleciti di pagamento a taluni clienti già receduti, che si
possa “ragionevolmente ritenere che lo stesso è venuto ad emersione solo nei casi in cui il consumatore è
stato adeguatamente edotto in ordine ai diritti conferitigli dall’ordinamento e ai rimedi predisposti a tutela
delle ragioni della categoria” aggiungendosi che “Ad ogni buon conto, si rileva come il numero delle
segnalazioni pervenute in Autorità (sei) prima dell’avvio del procedimento (altre se ne sono aggiunte
successivamente), sia sufficientemente significativo, attesa la concentrazione territoriale del fenomeno e,
comunque, non sia tale da consentire di ascrivere la vicenda all’area dell’errore scusabile”.
52
Uno degli aspetti maggiormente criticabili dell'attuale procedimento in materia di pratiche commerciali
scorrette è l'assenza di un momento (equiparabile alla comunicazione delle risultanze istruttorie, di cui
all'art. 14 del D.P.R. n. 217/98, in tema di procedure istruttorie nell'ambito di applicazione della l. n.
287/90), in cui il professionista sotto indagine possa apprendere (e controbattere) la posizione dell'ufficio
procedente a conclusione dell'istruttoria. Ne deriva l'impossibilità di difendersi, se non sulla base della
generale prospettazione delle censure, contenuta nell'atto di avvio del procedimento. Il giudice
amministrativo ha tuttavia ritenuto corretta tale prassi, sulla base di argomentazioni che appaiono tutt'altro
che convincenti (da ultimo, si veda T.a.r. Lazio, infatti (Sez. I, 14 settembre 2009, n. 8673, confermata, ma
con motivazione essenzialmente in fatto, da Cons. stato, Sez. VI, 27 luglio 2010, n. 4905). Secondo il
giudice, in particolare, il contraddittorio, la piena cognizione degli atti e la verbalizzazione, richiesti
dall’art. 27 comma 11 del d.lgs. n. 206/2005, sarebbero assicurati alla parte dalla “possibilità di prendere
visione ed estrarre copia della documentazione acquisita dall’Autorità, (parte della medesima proveniente
peraltro dallo stesso operatore), come del pari di richiedere e partecipare ad audizioni (art. 12 [del reg.
procedure istruttorie in materia di pratiche commerciali scorrette]), di prendere cognizione di perizie e
consulenze e di nominare propri consulenti (art. 13), di farsi assistere da consulenti in eventuali ispezioni
(art. 14), di presentare documenti e memorie (artt. 6 e 16)”. E' evidente come a) l'esercizio del diritto di
accesso è perfettamente inutile ai fini della conoscenza della posizione maturata dall'ufficio (tanto più se
esercitato sulla stessa documentazione proveniente dall'operatore!); il riferimento alle audizioni, quale
strumento difensivo, è in palese contraddizione con la stessa pacifica giurisprudenza amministrativa, che
considera l'audizione un semplice mezzo istruttorio a disposizione dell'Autorità (tanto da negare alla parte
il diritto di ottenerne la convocazione e persino quello di vedersi motivato il rifiuto di convocarla!); la
partecipazione ad (eventuali) perizie e consulenze appare irrilevante rispetto al fine indicato di potersi
difendere prima che l'Autorità di pronunci sulle prospettazioni dell'ufficio procedente; conseguentemente,
il diritto di presentare documenti e memorie risulta svuotato di senso. Altra motivazione, fornita in
precedenti pronunce (e condivisa da M. LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi, cit., 891)
è che la ratio della previsione della CRI nei soli procedimenti antitrust sarebbe da riscontrare nella loro
particolare complessità, sicché può ritenersi ragionevole che, in materia di p.c.s., a fronte di istruttorie di
norma molto più semplici, tale garanzia non sia stata prevista (T.a.r. Lazio, Sez. I, 19 giugno 2009, n. 5807;
16
segnalanti ( 53); prassi, quest’ultima, che il giudice amministrativo ha però talvolta
ritenuto inidonea a surrogare una vera istruttoria ( 54).
Anche laddove la consistenza della pratica non venga provata, ciò non esclude che
ad un giudizio di scorrettezza si possa comunque giungere desumendo dal tipo di
inconveniente riscontrato un difetto di organizzazione ( 55). Ciò avviene quando anche un
solo caso consenta di individuare una “falla”, potenzialmente produttiva di una maggiore
diffusione degli effetti pregiudizievoli.
Quanto al profilo sub C), rarissimo è, poi, nella prassi, l’accoglimento esplicito di
cause di giustificazione ( 56).
Di notevole rilievo, ai fini della valutazione di diligenza professionale, è il
problema dell’imputazione al professionista di una pratica posta in essere non
direttamente, bensì da altri soggetti, autonomi o dipendenti, dei quali egli si avvalga per
lo svolgimento di fasi della propria attività.
E’ ovvio che la questione non riguarda quei casi in cui si possa provare o
presumere che il professionista abbia concorso nella pratica o, comunque, ne sia a
conoscenza ( 57), ma, piuttosto, quelli nei quali la carenza di diligenza professionale
debba, sostanzialmente, essere fatta discendere, anche qui, da un difetto di
organizzazione. Il criterio seguito dall’Autorità – approvato dal giudice amministrativo
T.a.r. Lazio, Sez. I, 3 luglio 2009, n. 6446). E' palese come nessuna minore complessità possa valere ad
occultare l'analogia di procedimenti e la pari sussistenza di esigenze difensive che la possibilità dell'ufficio
di “parlare per ultimo” di fronte all'Autorità pregiudica irrimediabilmente.
53
Rispetto alle quali si può condividere l’opinione di M. LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici
amministrativi, cit., 889, il, quale ritiene, in sostanza, che sulle segnalazioni dei consumatori non possa
gravare né una presunzione di insufficienza, né una di sufficienza, ma che “l'Autorità deve comunque
procedere a verifica della serietà e credibilità degli indizi forniti dal denunziante (non può presumerne la
veridicità, ma deve verificarla a seguito di adeguata istruttoria)”.
54
Si veda il ruolo giocato dalla esiguità dei riscontri nella motivazione con cui il T.a.r. Lazio ha annullato i
provvedimenti sulla portabilità dei mutui (per tutte, vedi T.a.r. Lazio, Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 3691).
55
Si vedano, ad es., PS317/09 – RAS Disdetta polizze assicurative; PS1130/09 – Intesa San Paolo –
Cancellazione ipoteca; PS1340/09 – Zurich Assicurazioni – Disdetta polizza assicurativa; PS1481/09 –
BNL – Cancellazione ipoteca; PS2624/10 – Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza-Estinzione c/c.
56
Nell’unico caso che mi risulta di decisione almeno parzialmente assolutoria per riscontro di un caso di
forza maggiore, la motivazione è, peraltro, non esplicita in tal senso, quasi vi fosse il timore di costituire
precedente. Si veda il provv. PS2163 – Acque potabili siciliane – Fatturazione forfettaria, del 29 aprile
2009, in cui, valutando un comportamento sicuramente generatore di qualche disagio economico
nell’utenza (la fatturazione forfetaria e non a consumo agli utenti del servizio idrico), l’Autorità ha
riconosciuto che esso si era reso inevitabile, in considerazione del rilevante ritardo con cui l’ATO
concedente aveva approvato l’articolazione tariffaria.
57
Si veda il già più volte richiamato PS317/09 – RAS Disdetta polizze assicurative.
17
( 58) - è quello dell’imputazione della pratica al committente laddove sia riscontrabile un
difetto di controllo e vigilanza sull’attività degli ausiliari ( 59).
Spontanea sorge l’analogia tra tale criterio e le regole di responsabilità delle
persone giuridiche per il caso della commissione di reati, previste dalla l. n. 231/01.
Anche qui, l’ente è responsabile (art. 7) “se la commissione del reato è stata resa
possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza”, ma “In ogni caso, è
esclusa l'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l'ente, prima della
commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di
organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello
verificatosi”. La domanda che ci si può porre è se l’adozione, cui sembrano orientarsi i
professionisti in taluni settori, di modelli di organizzazione mutuati, appunto, dalla
normativa sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, possa davvero
valere a predisporre una barriera al loro coinvolgimento nella sanzione di pratiche
scorrette poste in essere dai propri dipendenti ovvero non possa invece rivelarsi un
boomerang, agevolando l’acquisizione, da parte dell’Autorità, dello standard (interno)
violato dal professionista. Lo stesso può dirsi per l’adozione di (o l’adesione a) codici di
autoregolamentazione («codici di condotta» nella terminologia utilizzata dalla direttiva
58
Si veda, fuori dal settore considerato, T.a.r. Lazio, 25 marzo 2009, n. 3722, per la quale “…Il
fondamentale canone della diligenza professionale, nel caso di interposizione rileva […] nei limiti in cui
risulta pretendibile, nei confronti dell’operatore commerciale che si avvalga dell’opera di altri soggetti, un
complessivo atteggiamento di assidua e puntuale attenzione sulla condotta che questi ultimi abbiano posto
in essere…”, “…altrimenti risolvendosi l’utilizzabilità del modulo negoziale di agenzia nella allegazione di
una “esimente” (o, quanto meno, di una “attenuante”) volta a porre (in tutto o in parte) il professionista
al “riparo” da condotte che quest’ultimo assuma non riconducibili a fatto proprio…». Sull’argomento, si
veda, con richiamo ai principi generali, M. LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi, cit.,
886 s.
59
Si vedano, ad es., PS2316/09 – Euro Fiditalia – Omessa indicazione TAN e TAEG (“Professionista
responsabile del contenuto e della diffusione del messaggio si ritiene essere la società Euro Fiditalia
S.p.A. Ciò, infatti, alla luce delle indicazioni riportate nel messaggio, del fatto che si avvantaggia
dell’iniziativa promozionale e, soprattutto, del fatto che, seppur, come riportato nelle memorie, non abbia
autorizzato la predisposizione e la diffusione del volantino, tale circostanza non esclude che dovesse
comunque vigilare sull’attività posta in essere dal proprio agente”); PS5371/10 – INA Assitalia – Polizze
assicurative, in cui solleciti di pagamento (con minaccia di ricorso alle vie legali) erano state inviate in
relazione a polizze già scadute o disdettate da agenzie appena subentrate ad altre. L’Autorità rileva che
INA Assitalia conosceva la difficile situazione relativa al subentro nei mandati di agenzia e pertanto
avrebbe dovuto indirizzare precise indicazioni i) ai propri clienti, e b) ai propri agenti. La condotta degli
agenti è dunque ritenuta imputabile ad INA Assitalia in quanto resa possibile “… ed implicitamente
avallata dal comportamento omissivo da questa tenuto in relazione ai propri obblighi di sorveglianza
sull’operato della propria rete agenziale”.
18
2005/29/CE). Si rischia di incorrere nel paradosso per cui l’Autorità, che ha
sistematicamente ritenuto irrilevanti gli esiti, ma anche la stessa esistenza, di
procedimenti autodisciplinari nel contesto di tali codici ( 60), finisce con l’utilizzarne le
previsioni esclusivamente in danno degli aderenti ( 61)!
5. La diligenza professionale nella giurisprudenza amministrativa. Non sono
numerose le occasioni in cui il T.a.r. Lazio ha preso posizione sull’interpretazione del
criterio della diligenza professionale.
In generale, il giudice amministrativo ha condiviso la scelta dell’Autorità di
conformare il parametro alle normative settoriali, dove esistono, ma di non esaurire il
giudizio nel rispetto di esse. Ha infatti affermato che “Le norme in materia di contrasto
alle pratiche commerciali sleali richiedono ai professionisti l’adozione di modelli di
comportamenti in parte desumibili da siffatte norme [settoriali], ove esistenti, in parte
dall’esperienza propria del settore di attività, nonché dalla finalità di tutela perseguita
dal Codice” ( 62).
Quanto alla considerazione del grado di diligenza in relazione al tipo di attività
svolta, in un caso nel quale, in relazione all’utilizzazione ingannevole del termine
“microfibra”, il ricorrente sosteneva la propria buona fede, in relazione al comportamento
comunemente tenuto dagli altri operatori sul mercato, i quali non forniscono alla
generalità dei consumatori informazioni tanto dettagliate quanto preteso dall’Autorità, e,
60
Sui codici di condotta dispone, con norma sostanzialmente inutile, l’art. 27-bis cod. cons. Sui rapporti tra
azione dell’Autorità e autodisciplina dispone, in termini identici a quelli richiamati già nell’originaria
disciplina della pubblicità ingannevole, l’art. 27-ter cod.cons., a mente del quale, in particolare (comma 3),
«Iniziata la procedura davanti ad un organismo di autodisciplina, le parti possono convenire di astenersi
dall'adire l'Autorità fino alla pronuncia definitiva, ovvero possono chiedere la sospensione del
procedimento innanzi all'Autorità, ove lo stesso sia stato attivato anche da altro soggetto legittimato, in
attesa della pronuncia dell'organismo di autodisciplina. L'Autorità, valutate tutte le circostanze, può
disporre la sospensione del procedimento per un periodo non superiore a trenta giorni». Già anni fa avevo
espresso – e confermo adesso – tutte la mia perplessità su tale norma, che, del resto, l’Autorità non ha mai
applicato (si rinvia a V. MELI, Autodisciplina pubblicitaria e legislazione statale, in Giur. comm., 1995, I,
451).
61
Lo stesso può dirsi si vedano PS1750/10 – Unicredit Banca di Roma – Ostruzionismo chiusura c/c;
PS2624/10 – Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza – Estinzione c/c; PS2833/10 – Webank – Chiusura
c/c, nei quali l’ipotesi istruttoria (ritardo nella chiusura dei conti nei primi due casi, richiesta di spese per la
chiusura, nell’ultimo) viene fatta esplicitamente poggiare anche sulla contrarietà di tale prassi a quanto
previsto dagli “Impegni di Qualità” assunti nell’ambito del consorzio interbancario PattiChiari.
62
Si vedano T.a.r. Lazio, Sez. I, 15 giugno 2009, nn. 5625, 5627, 5629; Id., 7 luglio 2009, n. 6446; Id., 8
settembre 2009, nn. 8399, 8400.
19
comunque, in relazione alla circostanza che, allo stato, non esiste una definizione
normativa di “microfibra”, Il T.a.r. Lazio ( 63) omette di rispondere all’argomento “così
fan tutti” (facilmente contestabile, del resto!), e propone una condivisibile riconduzione
della diligenza professionale al quadro delle competenze tecniche che ci si attende dal
professionista in relazione al settore in cui opera.
Più articolate sul punto le pronunce in serie con le quali il T.a.r. Lazio ha annullato
i provvedimenti dell’Autorità in materia di portabilità dei mutui ( 64).
Prima di annullare i provvedimenti, il tribunale amministrativo ha comunque
affermato:
- che sui soggetti che esercitano l’attività creditizia, per la natura stessa dell’attività
svolta, gravi un obbligo di “alta” diligenza (che, in particolare, il giudice riconduce,
piuttosto ovviamente, all’art. 1176 c.c.);
- che, attesa la dimensione polifunzionale assunta dalle banche, tale parametro di
diligenza vada considerato “non solo con riguardo all'attività di esecuzione di contratti
bancari in senso stretto, ma anche in relazione ad ogni tipo di atto od operazione che sia
comunque oggettivamente esplicato presso una struttura bancaria e soggettivamente
svolto da un funzionario bancario”;
- che tale obbligo di diligenza deve essere “valutato non alla stregua di criteri
rigidi e predeterminati, ma tenendo conto delle cautele e degli accorgimenti che le
circostanze del caso concreto suggeriscono e/o impongono”, e, cioè, che “non esiste un
astratto paradigma suscettibile di integrare un univoco termine di riferimento quanto
all’individuazione di un comportamento ‘diligente’ in capo all’operatore creditizio”, e,
dunque
- che “la concreta commisurazione del relativo obbligo andrà necessariamente
parametrata con la condotta concretamente esigibile nella particolare fattispecie in
considerazione”, avendo riguardo
• “alla peculiarità della vicenda negoziale;
63
64
T.a.r. Lazio, Sez. I, 11 marzo 2009, n. 4138.
Si veda, per tutte, T.a.r. Lazio, Sez. I, 28 gennaio 2009, n. 3689.
20
• ed al complesso di conoscenze riferibili all’operatore commerciale
ed alla qualificazione del ‘contatto’ con la clientela (segnatamente, ove
riguardato con riferimento agli obblighi informativi non soltanto di
carattere
preliminare,
ma
anche
contestuali
e/o
successivi
al
perfezionamento dell’operazione)”.
Al netto della comune adesione all’idea dell’adeguamento del parametro alle
caratteristiche specifiche dell’attività svolta dal professionista, la posizione del giudice
amministrativo sembra distinguersi da quella dell’Autorità (almeno in questo caso) per
una maggiore flessibilità, consistente nel porre l’accento sull’esigenza di valutare caso
per caso la sussistenza della diligenza e sulla necessità di commisurare il giudizio alla
reale esigibilità dei comportamenti che si ritengono corretti. Proprio sulla base di tale
criteri, il T.a.r. Lazio, nel caso di specie, ha annullato i provvedimenti dell’Autorità ( 65).
Una sintesi dei parametri da considerare per la valutazione della contrarietà di una pratica
alla diligenza si trova nella sentenza resa sul caso Accord ( 66). Qui il TAR Lazio ha
osservato come “Il nuovo quadro di tutela offerto dal Codice del Consumo venga ad
aggiungersi, da un lato, ai normali strumenti di tutela contrattuale (attivabili dai
singoli), dall’altro, a quelli derivanti dall’esistenza di specifiche discipline in settori
oggetto di regolazione.
Le norme in materia di contrasto alle pratiche commerciali sleali richiedono ai
professionisti l’adozione di modelli di comportamento in parte desumibili da siffatte
norme, ove esistenti, in parte dall’esperienza propria del settore di attività, nonché dalla
finalità stessa di tutela perseguita dal Codice del Consumo, purché, ovviamente, siffatte
condotte siano dagli stessi concretamente esigibili, in un quadro di bilanciamento,
secondo il principio di proporzionalità, tra l’esigenza di libera circolazione delle merci e
dei servizi e il diritto del consumatore a determinarsi consapevolmente in un mercato
65
Rispetto alla inesigibilità di comportamenti differenti da quelli adottati, motivata con difficoltà
interpretative del dato normativo, mi pare dissenta M. LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici
amministrativi, cit., 889, per il quale “Il punto centrale, in materia, è quello di stabilire lo standard di
scusabilità dell'errore, in una disciplina in cui il professionista è comunque obbligato a rispettare il
principio di diligenza professionale. Si deve tenere presente che tale principio comporta anche la
doverosità di interpelli e di comportamenti attivi, volti a chiarire la portata di obblighi di legge gravanti
sul professionista”.
66
TAR Lazio, I Sez., 19 maggio 2010, n. 12364/10. Il caso, riguardante l’emissione di carte revolving, era
stato deciso dall’Autorità con provv. PS2760/09.
21
concorrenziale, secondo la logica alla base del modello, pur esso di derivazione
comunitaria, del c.d. consumatore medio”.
Quanto alla censura di assenza di diligenza professionale per pratiche poste in
essere da terzi, il giudice amministrativo, concordando con la posizione dell’Autorità
sulla configurabilità, a carico del professionista, di una culpa in eligendo o in vigilando,
ha ritenuto che “…Il fondamentale canone della diligenza professionale, nel caso di
interposizione rileva […] nei limiti in cui risulta pretendibile, nei confronti
dell’operatore commerciale che si avvalga dell’opera di altri soggetti, un complessivo
atteggiamento di assidua e puntuale attenzione sulla condotta che questi ultimi abbiano
posto in essere…”, “…altrimenti risolvendosi l’utilizzabilità del modulo negoziale di
agenzia nella allegazione di una “esimente” (o, quanto meno, di una “attenuante”) volta
a porre (in tutto o in parte) il professionista al “riparo” da condotte che quest’ultimo
assuma non riconducibili a fatto proprio…” ( 67).
6.
Il parametro del consumatore medio. Come si è ricordato all’inizio,
nella disciplina della pubblicità ingannevole, il giudizio di ingannevolezza non poteva (e
non può) prescindere dalla valutazione dell’idoneità della comunicazione ad essere
percepita, appunto, in termini ingannevoli. E’ evidente come la questione si ponesse
specialmente rispetto al trattamento di messaggi suscettibili di diverse interpretazioni
( 68). Per decodificare un messaggio dal significato ambiguo è, infatti, indispensabile
67
T.a.r. Lazio, 25 marzo 2009, n. 3722. Sull’argomento, si veda, con richiamo ai principi generali,
LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi, cit., 886 s.
68
Nella Relazione annuale sull’attività svolta nel 2000, l’Autorità si mostra pienamente consapevole della
questione e la collega alla tipologia dei mezzi di diffusione della pubblicità, dei quali coglie le
caratteristiche in termini di conformazione delle caratteristiche comunicazionali dei messaggi. Dopo aver
rilevato il diverso grado di presenza della comunicazione simbolica su quella informativa nella pubblicità
radiotelevisiva rispetto a quella diffusa con altri mezzi, afferma, infatti, che “Le conseguenze sull’attività
dell’Autorità prodotte dai fenomeni illustrati sono facilmente intuibili. La tutela dalla pubblicità
ingannevole, così come è stata delineata nel decreto legislativo n. 74/92, fa prevalentemente riferimento
all’aspetto informativo presente nei messaggi. Il messaggio pubblicitario non deve essere idoneo a
“indurre in errore” circa le caratteristiche o il prezzo del prodotto, ovvero circa le qualifiche dell’impresa
che diffonde l’annuncio, con ciò potendo “pregiudicare il comportamento economico” dei suoi destinatari.
Non sorprende, quindi, che i procedimenti istruiti dall’Autorità si riferiscano in larga misura ad annunci
diffusi a mezzo stampa o tramite stampati, dove maggiore rilievo viene dedicato agli aspetti fattuali
rinvenibili nei beni proposti. In prospettiva, anche la rete Internet appare rappresentare un ambito
propizio di intervento ai sensi del decreto legislativo n. 74/92. Per contro, per i messaggi in cui è
prevalente la connotazione simbolica rispetto al contenuto informativo, l’Autorità deve in primo luogo
22
preliminarmente dichiarare i criteri interpretativi adottati, il che richiede, ancor prima,
l’identificazione della target audience e, al suo interno, del consumatore/interprete-tipo
al cui punto di vista fare riferimento. Dunque, tale aspetto, venuto esplicitamente alla
ribalta solo con la nuova disciplina, già caratterizzava (rectius, avrebbe dovuto
caratterizzare), l’applicazione della vecchia.
L’Autorità ha, in effetti, in più occasioni affermato la necessità di adeguare la
valutazione di ingannevolezza ai destinatari della comunicazione ( 69). L’individuazione
del consumatore-tipo al quale fare riferimento per valutare la decettività dei messaggi ha
invece portato alla luce aspetti di problematicità, che non hanno trovato soddisfacente
soluzione né sotto il regime della pubblicità ingannevole, né – il che è maggiormente
degno di attenzione, alla luce della espressa previsione normativa - sotto quello delle
pratiche scorrette. Non v’è, infatti, dubbio, che la definizione di un soggetto-tipo, da
prendere a parametro per la formulazione di un giudizio di scorrettezza, sia scelta di
politica del diritto, che si ripercuote sul livello della tutela e sugli obblighi di motivazione
dell’organismo pubblico competente ad applicare la disciplina.
Nessuna indicazione effettivamente sussisteva nella disciplina della pubblicità
ingannevole sui requisiti della target audience. In teoria, il legislatore nazionale, nonché i
individuare la decodifica del messaggio, ossia ricostruire la ragionevole interpretazione che i destinatari
possono elaborare, sulla base dei contenuti sia espliciti che impliciti del messaggio. Non è raro che la
valutazione di ingannevolezza faccia riferimento a quanto deducibile dal messaggio, piuttosto che a
quanto affermato direttamente. In altri casi, la brevità e la semplificazione del messaggio finiscono con il
renderlo omissivo, privo di quelle specificazioni su limiti e condizioni di fruibilità della promessa
pubblicitaria, che spesso sono tali da modificarne l’impatto e l’appetibilità”.
69
Si veda quanto affermato nella Relazione annuale sull’attività svolta nel 1994: “Nell'interpretazione
della nozione di pubblicità ingannevole l'Autorità ha cercato di adeguare il suo parametro valutativo al
tipo di destinatari dei messaggi, in dipendenza della tipologia di beni o servizi pubblicizzati. Ciò è valso, in
particolare, a far escludere l'ingannevolezza di taluni messaggi aventi a oggetto la promozione di beni
tipicamente destinati a soggetti esperti del settore (Maxiren), mentre con particolare rigore sono stati
valutati i messaggi relativi a beni e servizi di uso comune, destinati perciò a raggiungere una pluralità
indistinta di soggetti (Euromail)”. Ciò non ha impedito, tuttavia, che, nel mettere in pratica tale criterio, si
sia talvolta giunti ad esiti piuttosto discutibili. Si pensi al provv. PI1346/97 – Abbonamento Il Sole 24 ore,
in cui l’affermazione della deducibilità ai fini fiscali del costo dell’abbonamento, pur accompagnata dalle
indicazioni delle norme rilevanti, viene giudicata ingannevole dall’Autorità, la quale ritiene che “una
minoranza significativa di tali lettori abituali non si identifica nel profilo socio-culturale medio-alto dianzi
ricordato, e soprattutto, che il messaggio pubblicitario in contestazione non viene diffuso sulle pagine del
quotidiano, bensì attraverso una comunicazione postale, indirizzata non necessariamente alla sola
categoria degli ex abbonati, ma anche ad altri soggetti dei quali la casa editrice abbia selezionato i
recapiti valutando elevata la percentuale di riscontro positivo” e si determina, pertanto, a “ponderare
l’impatto del messaggio su una seconda tipologia di destinatario rispetto alla quale le considerazioni circa
la competenza finanziaria e la smaliziata ricettività ai messaggi non sono pertinenti”.
23
giudici e le autorità incaricati di applicare le norme di attuazione della direttiva
comunitaria potevano decidere il livello della tutela. Purtuttavia, già con riferimento
all’applicazione di tale disciplina, non era sfuggito alla giurisprudenza comunitaria come
un grave pregiudizio all’attività pubblicitaria transfrontaliera potesse essere arrecato
dall’affermarsi di criteri non uniformi di valutazione dell’ingannevolezza.
Tale non uniformità avrebbe potuto, infatti, condurre in taluni casi ad abbassare la
soglia del giudizio di illiceità, per adeguarlo al punto di vista del consumatore totalmente
disinformato o sprovveduto o in altri, per contro, a limitare la tutela al consumatore
particolarmente esperto, oscillandosi così tra eccesso e difetto di tutela.
E’ evidente come l’esigenza di uniformazione sul territorio comunitario nulla dice,
però, sul livello al quale essa deve essere realizzata. Come già osservato, dunque,
l’affermata esigenza di tutela della libertà di circolazione dei beni e dei servizi è stata in
realtà, il viatico per dettare un parametro ispirato all'esigenza di non pregiudicare il buon
funzionamento, in senso concorrenziale, dei mercati.
Da qui la scelta di tutelare il consumatore medio, che ha, peraltro, ascendenze
risalenti, al di fuori del contesto comunitario. Essa si era, infatti, già affermata
nell'ambito della giurisprudenza tedesca in materia di concorrenza sleale ( 70), ma,
soprattutto,
aveva
costituito
oggetto
di
dibattito
e
conseguente
revisione
giurisprudenziale nel sistema statunitense. Con un restatement pubblicato nel 1984 ( 71),
la Federal Trade Commission ha abbandonato la regola, fino ad allora seguita, sancita
dalla Supreme Court nel 1937 ( 72), per cui “laws are made to protect the trusting as well
70
Si vedano W. HEFERMEHL – H. KÖHLER – J. BORNKAMM, Wettbewerbsrecht, 25^ Aufl., 2007.
FTC Policy Statement on Deception, cit.
72
FTC v. Standard Education Society, 302 U.S. 112 (1937). Per completezza, all’argomentazione della
corte inferiore, secondo cui “We cannot take too seriously the suggestion that a man who is buying a set of
books and a ten years' 'extension service' will be fatuous enough to be misled by the mere statement that
the first are given away and that he is paying only for the second. . . . Such trivial niceties are too
impalpable for practical affairs, they are will o' the wisps which divert attention from substantial evils”, la
Corte Suprema oppose che “The fact that a false statement may be obviously false to those who are trained
and experienced does not change its character nor take away its power to deceive others less experienced.
There is no duty resting upon a citizen to suspect the honesty of those with whom he transacts business.
Laws are made to protect the trusting, as well as the suspicious. The best element of business has long
since decided that honesty should govern competitive enterprises, and that the rule of caveat emptor should
not be relied upon to reward fraud and deception”.
71
24
as the suspicious” ( 73), per approdare all'idea che la legge deve invece proteggere il
reasonable consumer. Alla base vi è, appunto, la convinzione che una più ampia tutela
caricherebbe di oneri insopportabili le imprese, chiamate a prevedere e scongiurare anche
l'effetto che i propri messaggi potrebbero avere su soggetti di marginale debolezza. Il
risultato sarebbe un aggravio dei costi, che finirebbe con lo scaricarsi su tutti i
consumatori, collocabili su gradi di avvedutezza e informazione superiori a quelli dei più
sprovveduti ( 74).
A partire dalla metà degli anni Novanta, la Corte di giustizia e il Tribunale di primo
grado hanno dunque stabilito:
a) l’assunzione quale parametro di riferimento del consumatore medio, inteso come
il “consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”;
b) la necessità di valutare tale parametro non in astratto, bensì “in relazione al
prodotto”;
Tale ormai ricchissima giurisprudenza ( 75) viene poi espressamente richiamata
dalla Direttiva 2005/29/CE, nel Considerando 18. Alcuni aspetti dell’articolata
definizione in nesso contenuta ( 76) appaiono particolarmente degni di nota.
73
Si veda G.E. ROSDEN – P.E. ROSDEN, The Law of Advertising, New York-Oakland, 1997, 18.02.
Sul punto, si veda, da ultimo F. DENOZZA, Aggregazioni arbitrarie v. “tipi” protetti: la nozione di
benessere del consumatore decostruita, Relazione al Convegno “Il diritto dei consumatori nella crisi e le
prospettive evolutive del sistema di tutela”, Roma, 29 gennaio 2010, in www.agcm.it.
75
Si vedano, Corte giust., 6 luglio 1995, causa C-470/93, Verein gegen Unwesen in Handel und Gewerbe
Köln eV contro Mars GmbH, in Racc. 1995, I-01923, para. 24; Id., 16 luglio 1998, causa C-210/96, Gut
Springenheide e Tusky, ivi, 1998, I-4657, punto 31; Id., 22 giugno 1999, causa C-342/97, Lloyd
Schuhfabrik Meyer & Co. GmbH contro Klijsen Handel BV, ivi, 1999, I-03819, para. 25-26; Id., 13
gennaio 2000, causa C-220/98, Estée Lauder c. Lancaster, ivi, 2000, I-117; Id., 27 novembre 2008, causa
C-252/07, Intel Corporation Inc./Cpm United Kingdom Limited, in GUCE, n. C 019 del 24/01/2009 pag.
0004 – 0005; Trib. Primo grado, 15 febbraio 2005, causa T-296/02, Lidl Stiftung/UAMI – REWE-Zentral
(Lindenhof), in ivi, 1995, II-563, para. 54). Per una fedele applicazione domestica dei principi così sanciti,
si veda Cass., 26 marzo 2004, n. 6080, in Foro it., 2005, 2843. Alla questione la Corte, in realtà, aveva già
fatti riferimento riguardo all’applicazione di altre discipline che presentavano anche profili di correttezza
informativa. Così, ad es., con riguardo alla definizione di farmaci, si veda la sent. 30 novembre 1983, causa
22/82, Leendert van Bonnekom, in Raccolta, 1983, 3883. In dottrina, si vedano, A. GARDE – M. HARAVON,
Unfair Commercial Practices, cit., 133 ss.; R. INCARDONA - C. PONCIBÒ, The average consumer, the unfair
commercial practice directive, and the cognitive devolution, in Journal of Consumer Policy, 2007, 21; S.
WEATHERILL, Who is the “Average Consumer”? in S. Weatherill – U. Bernitz (eds.), The Regulation of
Unfair Commercial Practices Under EC Directive 2005/29: New Rules and New Techniques, Oxford,
2007, 115; C. PONCIBÒ, Il consumatore medio, in Contratto e impresa/Europa, 2007, 734; C. ALVISI, Il
consumatore ragionevole e le pratiche commerciali sleali, in Contratto e impresa, 2008, 700; C.E. MAYR,
Il parametro del consumatore, in Annali Italiani del Diritto d’Autore - AIDA, 2008, 274, spec. 287 ss., ove
ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza; C. CAMARDI, op.cit., 420 ss. M. LIBERTINI, Clausola
74
25
La scelta del parametro del consumatore medio viene collegata al principio di
proporzionalità (art. 5 del Trattato istitutivo della CE, secondo il quale “L'azione della
Comunità non va al di là di quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del
presente trattato”). Ciò vuol dire che anche l'opzione comunitaria è stata quella di non
gravare le imprese dei costi connessi all'estensione della tutela a tutti i consumatori, ivi
compresi quelli non ragionevolmente attenti, né avveduti. Ciò implicitamente suggerisce
che una simile tutela esula dall'obiettivo di massima protezione “del” consumatore. Ciò
conferma, secondo quanto già osservato, come tale protezione, ancorché massima, vada
vista nel contesto di una Interessenabwägung, tipica di un diritto della concorrenza.
Laddove, per il tipo di prodotto considerato, la target audience sia costituita da una
categoria di consumatori particolarmente vulnerabili, ciò non vuol dire che il parametro
del consumatore medio debba essere abbandonato, bensì che tale parametro andrà
applicato con specifico riferimento a tali categorie ( 77).
“La nozione di consumatore medio non è statistica”. Tale indicazione, certo di non
facile gestione, comporta che l’organismo giudicante (giudice o autorità amministrativa),
individuato il gruppo di consumatori sul quale parametrare la pratica, non debba
identificare il membro medio di tale gruppo facendo la media tra tutti i gradi di
conoscenza e avvedutezza effettivamente riscontrabili in esso, bensì costruire un profilo-
generale e disposizioni particolari nella disciplina delle pratiche commerciali scorrette, cit., spec. 103 ss.
Per un interessante punto di vista critico, si veda F. DENOZZA, Op. cit.
76
“È opportuno proteggere tutti i consumatori dalle pratiche commerciali sleali. Tuttavia, la Corte di
Giustizia ha ritenuto necessario, nel deliberare in cause relative alla pubblicità dopo l’entrata in vigore
della direttiva 84/450/CEE, esaminare l’effetto su un virtuale consumatore tipico. Conformemente al
principio di proporzionalità, e per consentire l’efficace applicazione delle misure di protezione in essa
previste, la presente direttiva prende come parametro il consumatore medio che è normalmente informato
e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo
l’interpretazione della Corte di giustizia, ma contiene altresì disposizioni volte ad evitare lo sfruttamento
dei consumatori che per le loro caratteristiche risultano particolarmente vulnerabili alle pratiche
commerciali sleali. Ove una pratica commerciale sia specificatamente diretta ad un determinato gruppo di
consumatori, come ad esempio i bambini, è auspicabile che l’impatto della pratica commerciale venga
valutato nell’ottica del membro medio di quel gruppo. È quindi opportuno includere nell’elenco di
pratiche considerate in ogni caso sleali una disposizione che, senza imporre uno specifico divieto alla
pubblicità destinata ai bambini, tuteli questi ultimi da esortazioni dirette all’acquisto. La nozione di
consumatore medio non è statistica. Gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali dovranno esercitare
la loro facoltà di giudizio tenendo conto della giurisprudenza della Corte di giustizia, per determinare la
reazione tipica del consumatore medio nella fattispecie”.
77
Sulle due differenti tipologie di giudizio, si veda N. ZORZI GALGANO, Il consumatore medio ed il
consumatore vulnerabile nel diritto comunitario, in Contratto e impresa/Europa, 2010, 549.
26
tipo di consumatore medio (appunto, il “virtuale consumatore tipico”, di cui al
Considerando). Il che vuol dire che, nella realtà di una certa target audience, il
consumatore medio al quale fare riferimento potrebbe anche non esistere (ad esempio,
perché in quel gruppo si è diffusa la tendenza alla disinformazione e alla distrazione o, al
contrario, ad una elevata informazione o attenzione) ( 78). Anche tale aspetto contribuisce
ad allontanare da una protezione del consumatore ad ogni costo, per inserirla all’interno
di una disciplina del mercato.
Infine, le autorità amministrative e le corti nazionali dovranno, nell'applicazione
della disciplina, tenere conto dei su espressi criteri “per determinare la reazione tipica
del consumatore medio nella fattispecie”. E' innegabile che ciò si traduca nella
imposizione di uno specifico obbligo di motivazione sul punto.
7. Il consumatore medio nella prassi. Come si è detto, l’applicazione della
disciplina della pubblicità ingannevole – pur nel silenzio della direttiva 84/450/CE –
aveva già posto la necessità di individuare nel consumatore medio il modello da
assumere a parametro della tutela. A questa scelta di politica del diritto non poteva che
conseguire, sul piano dell'enforcement, la necessità, per gli organi procedenti, di
determinare ed esplicitare criteri quanto più oggettivi possibili di valutazione sul punto.
In mancanza, infatti, si può benissimo dichiarare che si tiene conto del consumatore
medio e, di fatto, tenere conto del consumatore più sprovveduto, senza che la scelta
presenti elementi di oggettiva verificabilità sotto il profilo della sufficienza e della
congruità della motivazione.
A chi scrive pare che proprio questa sia stata la più rilevante lacuna nell’azione
dell’Autorità, fin dalla disciplina della pubblicità ingannevole, e che essa abbia, di fatto,
consentito di far convivere una formale conformità all’apparato concettuale dettato in
78
Non bisogna perciò farsi fuorviare dalla ricca giurisprudenza domestica consolidatasi sul “consumatore
medio” in tema di giudizio di confondibilità tra segni distintivi (la si veda ricordata in C.E. MAYR,
Commento all’art. 21 del CPI, in L.C. UBERTAZZI, a cura di, Commentario breve alle leggi su proprietà
intellettuale e concorrenza, 4^ ed., Padova, 2007, 284 Ss.). Questa, infatti, si è sviluppata con riferimento
ad una disciplina di tutela dei concorrenti; ne deriva che il “consumatore medio” è qui inteso quale
soggetto esistente. E’ la reazione, sia pure ipotetica, di un consumatore reale e non di un “consumatore
virtuale tipico” a determinare, infatti, una lesione concorrenziale, attraverso la confusione tra segni o
prodotti.
27
prima battuta dalla giurisprudenza comunitaria, con un sostanziale disattendimento delle
sue prescrizioni. Così, sebbene pochissime siano le ipotesi, tutte concentrate nei primi
anni dell’applicazione della disciplina, in cui l’Autorità ha esplicitamente affermato di
voler tutelare il consumatore sprovveduto ( 79), e di gran lunga più frequente, invece, sia
stata la menzione del consumatore medio (talvolta definito “destinatario medio”) ( 80),
non sembra che ad essa abbia corrisposto un adeguato innalzamento della soglia della
tutela, che si è costantemente attestata su un livello piuttosto basso ( 81). Ciò che più
colpisce è, però, che l'affermazione dell’idoneità decettiva della pubblicità rispetto al
target è rimasta spesso non motivata o è stata motivata con il richiamo a massime di
esperienza o ad assunti di mero buon senso, per loro natura difficilmente verificabili.
Rarissimo è rimasto il ricorso a strumenti di valutazione, quali indagini demoscopiche,
psicologiche, studi di marketing, ecc., ecc. ( 82). Tali strumenti hanno fatto la loro
comparsa nella prassi dell’Autorità solamente nei rarissimi casi in cui gli stessi operatori
indagati, evidentemente ritenendo particolarmente alta la posta in gioco, vi hanno per
primi fatto ricorso ( 83).
Transitati nel nuovo regime delle pratiche commerciali scorrette, in cui, come
ricordato, le indicazioni della giurisprudenza comunitaria sulla necessità di attenersi al
79
Si vedano PI565/95 – AEM Azienda Energetica Municipale; PI1178/97 – Scuola IPS.
Si vedano, ad es., PI4344/95 – Garanzia Sony; PI1002/96 – Nuovi abbonati TIM; PI1042/96 – Conto
Benefit S.Paolo; PI663/96 – Illycaffé; PI1326/97 – BMW 3 Berlina; PI1528/97 – Firma Tour; PI3947/03 –
Soccorso sanitario Europ Assistance; PI4128/03 – Abbey National Bank – Spread allo 0%; PI4848/05 –
Finanziamenti Forus. Il richiamo al “destinatario medio” o al “consumatore medio” è poi pressoché
onnipresente nei pareri rilasciati all’Autorità dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni.
81
Non condivido, pertanto, la periodizzazione operata da N. ZORZI, Op.cit., 452, la quale coglierebbe nella
prassi dell’Autorità una prima fase, in cui prevale la tutela del consumatore sprovveduto, ed una seconda,
in cui prevale la considerazione del consumatore medio. Come si vede dai casi sopra citati, il consumatore
medio viene richiamato già fin dalla metà degli anni Novanta, in chiara corrispondenza, del resto, con
l’affermarsi della giurisprudenza comunitaria che lo riguarda.
82
Si vedano la Relazione annuale sull’attività svolta nel 1997 e quella sull’attività svolta nel 2002,
rispettivamente, con riferimento a procedimenti riguardanti le pubblicità dei prodotti antirughe (nei quali si
è ricorsi a perizie psicologiche) e l’uso della dizione lights sui pacchetti di sigarette.
83
Significativo, sotto tale ultimo aspetto, è il procedimento deciso con il provv. PI3952 – Sigarette lights –
Varie marche, del 13 marzo 2003, chiaramente condotto dalle imprese coinvolte con l’occhio rivolto non
alla possibile sanzione (allora le sanzioni pecuniarie non erano previste), bensì al possibile successivo
avvio di una serie di iniziative giudiziarie “all’americana”, miranti al risarcimento di possibili danni ai
consumatori. In realtà, pochissime azioni del genere sono state REALMENTE intentate, tutte decise in
prima battuta da giudici di pace (si vedano Giud. pace Portici, 20 novembre 2003, in Danno e resp., 2004,
996; Giud. pace Napoli, 18 marzo 2005, in Dir. e Giust, 2005, 27, 37), con la condanna del produttore di
sigarette al risarcimento del danno esistenziale. Le decisioni sono state poi tutte successivamente annullate
dalla Suprema corte (si veda, in particolare, Cass., S.U., 15 gennaio 2009, n. 794, in Foro it., 2009, 3, 717).
80
28
consumatore medio sono state espressamente accolte all’interno dell’impianto normativo,
la prassi dell’Autorità sul punto è sembrata segnare addirittura un regresso, a fronte di
un’affermazione di continuità. Continuità preannunciata nella Relazione annuale del
2008 ( 84), nella quale si cerca di minimizzare (e disinnescare) la rilevante novità
introdotta nel codice del consumo, in ottemperanza alla direttiva (e, quindi, alla ricordata
giurisprudenza comunitaria). Si legge, infatti, “Il riferimento al consumatore medio quale
parametro per la valutazione di scorrettezza delle pratiche commerciali non sembra
destinato a incidere significativamente sulla prassi già seguita dall’Autorità in materia
di pubblicità ingannevole, che ha sempre valorizzato la considerazione delle
caratteristiche soggettive dei destinatari della comunicazione di impresa in relazione
alla decodifica del messaggio pubblicitario. Peraltro, il dettato normativo richiama
esplicitamente la necessità di approntare un’adeguata tutela dei consumatori più esposti
ai rischi connessi alle pratiche commerciali scorrette, prevedendo che qualora una
pratica commerciale - astrattamente suscettibile di raggiungere gruppi più ampi di
consumatori - spieghi i propri effetti pregiudizievoli su un insieme chiaramente
individuabile di destinatari particolarmente vulnerabili, l’eventuale scorrettezza dovrà
essere apprezzata nell’ottica del componente medio di tale gruppo svantaggiato”.
In tale passo, poco convincenti appaiono sia la descrizione del passato, rispetto al
quale si afferma la continuità, sia l’interpretazione dell'attuale dettato normativo.
Quanto al passato, come si è detto, è arduo riscontrare nella prassi in tema di
pubblicità ingannevole una reale attenzione alle caratteristiche dei destinatari, se non nei
termini generali della individuazione della target audience, nei casi in cui essa poteva
essere facilmente circoscritta a categorie di soggetti costituzionalmente “deboli” ( 85).
Non si può dire invece che l’Autorità, al di là delle affermazioni generali, abbia
realmente tenuto conto del consumatore “normalmente informato e ragionevolmente
attento ed avveduto” ( 86). Soprattutto, lo si ripete, appare comunque criticabile che tale
84
P. 18.
Per es., i destinatari di pubblicità di trattamenti dimagranti (si veda, ad es., PI4892/05, Dimagranti Labo
Real – Riva Beauty bio-line) o di trattamenti contro la cellulite (si vedano, ad es., PI1158/97, Calze Ex –
Cell Oroblu; PI4890/05 – Equilibra Equilife). Conformemente, N. ZORZI, Op.cit., la quale individua in tali
ipotesi le sole in cui la tutela è rimasta parametrata suol consumatore sprovveduto.
86
Si veda, in proposito, C. ALVISI, op.ult.cit.
85
29
elemento fondamentale per l'applicazione della disciplina abbia sostanzialmente occupato
alcuno spazio nelle motivazioni dei provvedimenti. In sostanza, la prassi dell’Autorità sul
punto non evidenzia tanto motivazioni contestabili, quanto una sistematica omissione di
motivazione.
Per altro verso, non mi pare regga l’affermazione per cui il riferimento normativo
ai destinatari più vulnerabili fonderebbe “la necessità di approntare un’adeguata tutela
dei consumatori più esposti ai rischi connessi alle pratiche commerciali scorrette”,
perché, al contrario, detto riferimento consente appunto di distinguere – e di adeguare a
tale distinzione il giudizio - i gruppi di consumatori particolarmente vulnerabili da quelli
che non lo sono, ma non consente di omettere, anche rispetto ai primi, di definire un
consumatore medio. In sintesi, il dettato normativo non consente all’Autorità – come essa
appare invece sostenere nel passo citato - di dare per presupposto che ogni pratica
scorretta sia suscettibile di impattare su consumatori vulnerabili, ma le impone di
motivare, laddove sia il caso, per quale ragione ritenga che la target audience della
pratica indagata debba essere considerato in tali termini e poi, comunque, di individuare
le caratteristiche del (virtuale) membro medio del gruppo, al quale commisurare la tutela.
In conclusione, l’interpretazione esposta nella Relazione approda, di fatto,
all’abrogazione del riferimento al consumatore medio e la prassi conferma tale dato: nel
solo 2008 l’Autorità ha emesso 109 provvedimenti in cui ha riscontrato violazioni della
disciplina della pratiche scorrette; nel 2009 i procedimenti istruttori sono stati ben 272, di
cui 246 chiusi con una condanna ( 87). Ebbene, solamente in un paio di casi si prova ad
argomentare sul consumatore medio assunto a riferimento. Si tratta del provv. PS1904/09
– CheBanca! Spot televisivo e di un caso nel settore assicurativo ( 88).
Nel primo caso, la banca in questione promuoveva un proprio “Conto Tascabile”,
definendolo una “alternativa al conto corrente”, caratterizzato dalla emissione e
consegna al sottoscrittore di una “carta personale multifunzione” prepagata. La
descrizione di tale carta riportava: “offre i tipici servizi di un conto corrente […] di un
bancomat e i vantaggi del circuito Mastercard”, senza che in alcuna sezione dello stesso
87
Dati ricavati dalle Relazioni annuali sull’attività svolta nel 2008 e nel 2009.
Ci si riferisce al già citato PS317/09 – RAS Disdetta Polizze assicurative, con il quale si valuta come
scorretto l’invio di avvisi di scadenza di rate di premio ad assicurati già receduti dal contratto.
88
30
sito, né nei fogli informativi scaricabili dal sito web, ne fosse specificata l’esatta natura,
in quanto strumento di pagamento, e senza che fossero fornite informazioni in ordine alla
tempistica degli addebiti laddove la carta fosse stata utilizzata in tale funzione. L'Autorità
ha rilevato (citando, in proposito, dati della Banca d'Italia) come le carte prepagate
costituiscano tutt'oggi un segmento minore, ancorché in crescita, sul totale delle carte di
credito e di debito, costituendo perciò un settore con caratteristiche nettamente meno
mature. Ha poi richiamato le risultanze di una propria recente indagine conoscitiva ( 89),
per argomentare sulla elevata disomogenietà della diffusione delle carte prepagate tra i
diversi strati della popolazione. Ha dunque dedotto la scarsa familiarità del consumatore
medio con tale mezzo. Ha concluso che “la novità del mezzo (specie se raffrontata con il
radicamento ben più risalente delle altre tipologie di carta di pagamento), nonché i dati
quantitativi e sociologici in punto di diffusione, inducono a concludere che la mera
introduzione della definizione tecnica del prodotto, non accompagnata da alcuna
indicazione circa le regole di funzionamento dello stesso, non vale a realizzare una
corretta ed esaustiva informazione, tale da consentire al consumatore medio di prendere
una decisione consapevole di natura commerciale”.
In realtà, in tal modo l’Autorità, ha argomentato sul grado di informazione del
consumatore medio del settore, ma ha omesso di farlo con riferimento con riguardo agli
altri due elementi da prendersi in considerazione per definire il consumatore medio, e
cioè ragionevole attenzione e avvedutezza.
E’ evidente come informazione, attenzione e avvedutezza non sono concetti
omogenei. L’informazione attiene al bagaglio culturale ed esperienziale del soggetto,
laddove l’attenzione non può, in questo contesto, che indicare la vigile consapevolezza
del proprio interesse quale consumatore, includente spirito critico e capacità di
selezionare le informazioni, e l’avvedutezza appare il contrario della distrazione o della
superficialità. Ne deriva che, nel giudizio sul grado di informazione, deve guardarsi al
modo di essere del consumatore, in quello sull’attenzione, al suo modo di rapportarsi al
mercato, in quello sull’avvedutezza, al suo modo di compiere determinate operazioni
89
IC37, Le carte prepagate in Italia, 2009, in www.agcm.it.
31
economiche ( 90). Se si considerano tale elementi di valutazione, vero che di fronte ad un
mezzo innovativo di pagamento anche il consumatore medio può trovarsi sfornito delle
necessarie conoscenze circa il suo funzionamento, resta da dimostrare però che un
consumatore mediamente attento e avveduto si lasci comunque convincere ad aderire ad
un’offerta rispetto alla quale non dispone di sufficienti informazioni.
Nel richiamato provvedimento emesso con riferimento al settore assicurativo ( 91),
dopo aver correttamente argomentato che il consumatore medio è “figura ipotetica da
ricostruirsi sulla base di fattori sociali e culturali di carattere generale, prescindendo da
ogni collegamento con la – eventuale – fattispecie concreta”, e che, sostanzialmente, è
irrilevante che nei casi concretamente portati a conoscenza dell’Autorità la pratica abbia
o non abbia avuto l’effetto di falsare il comportamento dei consumatori effettivamente
coinvolti, la motivazione costruisce le ipotetiche reazioni di un asserito consumatore
medio di prodotti assicurativi, di fronte ai suddetti avvisi di scadenza, senza alcun
verificabile supporto, presentando cioè solamente le rispettabili, ma del tutto opinabili,
deduzioni di colui che ha redatto il provvedimento. Vi si legge, così, “Vero è che il
consumatore medio di prodotti assicurativi il quale, pur avendo esercitato la facoltà di
recesso o di disdetta dal contratto, si veda recapitare un avviso di scadenza relativo ad
un periodo assicurativo per il quale il contratto avrebbe dovuto risultare cessato, solo in
casi marginalissimi imputerà l’evento ad un mero errore del professionista, cui non dare
alcun seguito. Al contrario, il consumatore medio di prodotti assicurativi, anche in
ragione del carattere tecnico-giuridico di tali prodotti, è certamente dotato di un
bagaglio di conoscenze tali da apprezzare le potenziali implicazioni di un avviso di
scadenza, di talché sarà indotto ad assumere un comportamento avente valenza
economica che non avrebbe altrimenti assunto.
Potrà infatti accadere che l’assicurato si determini a contattare l’agenzia o la
compagnia per chiedere chiarimenti e rivendicare la cessazione degli effetti del contratto
di assicurazione, venendo per tale via a realizzare un contatto diretto con il
professionista a potenziale vantaggio di quest’ultimo, il quale potrà sfruttare
90
V. MELI, voce Pubblicità ingannevole, cit.
Ci si riferisce al già citato PS317/09 – RAS Disdetta Polizze assicurative, con il quale si valuta come
scorretto l’invio di avvisi di scadenza di rate di premio ad assicurati già receduti dal contratto.
91
32
l’opportunità sia per tentare di indurre un mutamento nelle determinazioni del cliente,
sia per indagare le ragioni della scelta, sia per proporre soluzioni alternative, ecc. In
alternativa, potrà accadere che l’assicurato raggiunto dall’avviso di scadenza dubiti di
aver effettivamente inoltrato la dichiarazione di volontà di segno contrario (specie
quando l’invio sia avvenuto con ampio preavviso), ovvero ritenga, confidando nella
correttezza della valutazione del professionista, che la propria dichiarazione di
recesso/disdetta sia risultata concretamente inidonea a produrre l’effetto desiderato.
L’assicurato potrebbe, pertanto, essere indotto ad accedere alla richiesta di pagamento,
con contestuale produzione di una molteplicità di effetti consequenziali, alcuni
alternativi tra loro, ma tutti gravemente pregiudizievoli per le ragioni del consumatore.
Questi, infatti, sarebbe certamente indotto, in tal caso, a soprassedere rispetto ad un
eventuale diverso utilizzo della risorsa economica che riteneva essersi liberata e, in
specie, vi sarebbero inevitabili riflessi circa una eventuale nuova copertura assicurativa,
in ipotesi con diverso operatore, del rischio di cui al contratto in questione”.
Per il resto, il consumatore medio pare essere rimasto vuota formula, citata per
formale ottemperanza al dettato normativo ( 92).
Non integra tale lacuna il riferimento, assai frequente nei provvedimenti riguardanti
il settore del credito (e che trova sporadiche manifestazioni anche in altri settori, e in
primo luogo in quello delle telecomunicazioni) alle “debolezza” dei destinatari ( 93), né a
92
Nella Relazione annuale sull’attività svolta nel 2008, il “consumatore medio” viene menzionato 16 volte,
la maggior parte delle quali nella descrizione di casi decisi, eppure anche qui non esiste una sola
spiegazione su chi esso sia e su quali siano stati i criteri per identificarlo. Nella Relazione annuale
sull’attività svolta nel 2009 il “consumatore medio” viene menzionato solo 7 volte, sempre nella
descrizione dei casi decisi, senza alcun approfondimento sull’interpretazione della nozione. Viene poi
richiamato nella descrizione delle pronunce del giudice amministrativo sul punto, sulle quali ci si
diffonderà più avanti. Di uso tendenzialmente “declamatorio” dello standard parla M. LIBERTINI, Le prime
pronunce dei giudici amministrativi, cit., 884.
93
Si vedano PS426/08 – Cerruti multiservices; PS1903/08 – Fin-Florence – Finanziamento; PS1359/09 –
Euro contributi – Omessa indicazione TAN e TAEG; PS1320/09, San Matteo Finanza etica – Ambigua
indicazione TAEG; PS2295/09 – Servizi finanziamenti – Omessa indicazione TAN e TAEG; PS2298/09 –
Italcredi-Omessa indicazione TAN e TAEG; PS887/09 – Solo Mutui – Omissione TAN e TAEG;
PS1512/09 – Dom.In.Ve.st. – Ambiguità TAN; PS1321/09 – Eurofin – Ambigua indicazione TAEG;
PS2292/09 – Global Fin – Omessa indicazione TAN e TAEG; PS2294/09 – Asfina – Omessa indicazione
TAN e TAEG; PS2316/09 – Euro Fiditalia – Omessa indicazione TAN e TAEG; PS1079/09 – Ambrosiana
finanziamenti – Ritenute eccessive; PS3588/09 – Immobiliare Priolo – Pubblicità finanziamenti;
PS1786/09 – Italserfin – Omessa indicazione TAN e TAEG; PS2817/09 – Fintime Player – Pubblicità
finanziamenti; PS1185/09 – Cosmofin – Ambiguità TAEG; PS3468/09 – Quintorapido – Pubblicità
finanziamenti; PS983/09 – New Sefim – Omessa indicazione TAN; PS2518/09 – Prestitel Financial
33
quella, già menzionata, della esistenza di “asimmetrie informative” tra imprese e
consumatori in un determinato settore: il problema non è se una categoria sia debole in
un certo contesto di relazioni con il professionista, ma se quella pratica indagata sia
davvero idonea a falsare il comportamento economico di un consumatore medio – inteso
nel significato comunitario - di quel settore.
8. Il consumatore medio nella giurisprudenza amministrativa. Il giudice
amministrativo ha avuto più d’una occasione di pronunciarsi sul consumatore medio già
sotto il vecchio regime della pubblicità ingannevole.
In generale, l’impressione che si ricava dal complesso delle pronunce è che egli,
con poche eccezioni, abbia manifestato sul punto adesione alle scelte dell’Autorità, alla
quale ha, del resto, riconosciuto piena discrezionalità nella determinazione del
consumatore di riferimento (omettendo evidentemente di considerare che tale
discrezionalità dovrebbe invece essere limitata dai principi comunitari). Esplicitamente
interrogato dai ricorrenti, tuttavia, egli si è dovuto in qualche caso esporre più
dell’Autorità.
In un primo caso deciso, il T.a.r. Lazio ( 94) aveva osservato che “specifico scopo
della disciplina sulla pubblicità ingannevole è quello di tutelare il consumatore medio,
che non si pone certo, in presenza di un messaggio pubblicitario, nell’ottica di chi si
appresta a fare un esame esegetico-sistematico del messaggio, ma è piuttosto “colpito”
da ciò che esso immediatamente trasmette”, con ciò definendo, più che il consumatore
medio, il grado di percezione rispetto al quale tale natura deve essere verificata (non v'è
Services; PS2883/10 – Pubblicità finanziamenti; PS3852/10 – Crefin money – Pubblicità finanziamenti. In
tutti questi provvedimenti, la motivazione standardizzata è nei seguenti termini “Il messaggio in esame,
sulla base delle suindicate considerazioni e della debolezza dei destinatari, soggetti che presumibilmente
versano in una situazione di particolare debolezza psicologica dovuta alle proprie condizioni economiche,
deve ritenersi idoneo ad indurre in errore i consumatori”. Nella Relazione annuale 2009, l’Autorità
sostanzialmente spiega tale orientamento, affermando che “Negli ultimi anni il credito al consumo ha
rappresentato una delle principali forme di finanziamento delle famiglie italiane, registrando tassi di
crescita significativi. Proprio per l’importanza e la delicatezza di tale forma di credito e per la posizione
di dipendenza informativa che caratterizza il rapporto tra i consumatori e le società finanziarie che
concedono il credito, è necessario garantire la migliore correttezza dell’informazione fornita
relativamente al costo complessivo dell’operazione effettuata, al fine di rendere la scelta commerciale
pienamente consapevole”..
94
T.a.r. Lazio, Sez. I, 7 agosto 2002, n. 7028/02.
34
dubbio, infatti, che anche l'essere più o meno “colpiti” da ciò che la pubblicità trasmette
dipende dalle variabili capacità percettive-cognitive dell'osservatore e richiede, appunto,
di decidere chi sia il soggetto di media avvedutezza).
Ancora un intervento riguarda la valutazione di ingannevolezza di messaggi relativi
ad oroscopi falsamente pubblicizzati come “personalizzati”( 95). Secondo i ricorrenti,
l’Autorità non aveva tenuto conto del “consumatore medio”, bensì del consumatore “più
sprovveduto”. Il T.a.r. Lazio ritiene infondata la doglianza, affermando, in primo luogo,
che “in materia di scienze occulte e di magia appare oltremodo difficoltoso individuare
quale sia la linea di discrimine fra “consumatore medio” e “consumatore sprovveduto”,
e, in secondo luogo, che “la scelta della fascia di collettività sulla quale appuntare la
tutela (perché considerata particolarmente vulnerabile) costituisce determinazione di
merito insindacabilmente devoluta all’Autorità”, “la quale, pertanto, ben può decidere senza con ciò contravvenire alla propria funzione di pubblico interesse, ed anzi
valorizzandola - di rivolgere con maggior enfasi la propria attività tutoria proprio in
favore dei consumatori – per così dire – “più sprovveduti”, e cioè dei soggetti più deboli
e vulnerabili”. La prima affermazione coglie, in effetti, il limite dell’operazione di
individuazione del membro medio di un gruppo di soggetti vulnerabili: vi sono
indubbiamente casi in cui la stessa propensione ad acquistare il bene o servizio offerto
denuncia la presenza di un consumatore costituzionalmente sprovveduto. Individuare il
membro “normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto” in un tale
gruppo di soggetti è in effetti impresa, anche concettualmente, ardua ( 96)!. La seconda,
95
T.a.r. Lazio, Sez. I, 13 ottobre 2003, n. 8321/03.
L’Autorità, nella casistica relativa ai “prodotti dell’occulto”, di fronte al rischio di vietare l’attività tout
court, piuttosto che la sua pubblicizzazione (con ciò travalicando le proprie competenze), adottò un criterio
di buon senso, anche se difficilmente giustificabile sul piano razionale: colpì le pubblicità le promesse di
specifici risultati (guarigione da malattie, vincite a lotterie, ecc., ecc.) o di oggetti “magici”, dei quali si
vantava l’efficacia, e assolse la pubblicità in sé di attività attinenti alla sfera della magia e dell’esoterismo.
Si veda la Relazione annuale sull’attività svolta nel 1995: “Nell’esaminare tali messaggi, l'Autorità non ha
considerato di per sé illecita la promozione dei suddetti prodotti e servizi, quando essi siano qualificati
dall'interazione fra operatore esoterico e fruitore, tenendo conto che essa fa appello a preesistenti
componenti di irrazionalità e ha a oggetto prestazioni di cui non è accertabile in termini generalizzati
l'efficacia. Si è ritenuto opportuno sottoporre a un giudizio di ingannevolezza la pubblicità di prodotti
quali talismani, erbe magiche e oggetti analoghi, nella misura in cui, facendo leva su situazioni soggettive
di insicurezza, ansietà e timore di pericoli e sul desiderio dei destinatari di trovare soluzione a problemi
esistenziali, di lavoro o di salute, essa mira ad accreditare una specifica efficacia propiziatoria degli
oggetti promossi, nella loro materialità, attribuendo a essi caratteristiche ed effetti inverosimili, che non
96
35
invece, appare confondere (così come il ricordato passo della Relazione annuale 2008
dell’Autorità) l’identificazione del gruppo di riferimento con quella della valutazione
dell’idoneità del messaggio di ingannare un membro medio di quel gruppo, che andrebbe
preventivamente individuato, facendo riferimento a ciò che tale membro medio si attende
e ciò che la pubblicità è idonea a comunicargli.
Il T.a.r. Lazio torna sul punto ( 97) con riferimento ad un provvedimento in cui si
condanna l’affermazione della “vitaminicità” di un’acqua. Nella sentenza si legge che il
d.lg. 25 gennaio 1992, n. 74 “non fissa una soglia media di protezione del consumatore,
nel senso che sarebbe tutelato solo un ideale consumatore dotato di media cultura, senso
critico etc. … Il limite della protezione è invece costituito dalla idoneità del messaggio a
trarre in errore il destinatario pregiudicandone il comportamento economico: nella
relativa valutazione l’Autorità deve tra l’altro avere riguardo a caratteristiche dei beni o
dei servizi, quali la loro disponibilità, la natura, l'esecuzione, la composizione, il metodo
e la data di fabbricazione o della prestazione, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità,
la descrizione, l'origine geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere
con il loro uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati
sui beni o sui servizi”.
La giurisprudenza comunitaria appare qui ignorata. Il giudice amministrativo
sposa, infatti, esplicitamente l’idea per cui la disciplina della pubblicità ingannevole mira
a proteggere “the trusting as well as the suspicious”, e non il reasonable consumer, per
richiamare i concetti emersi nel già ricordato dibattito statunitense.
Interessante, invece, la considerazione sul rapporto tra ingannevolezza e natura
professionale dei soggetti destinatari di una comunicazione pubblicitaria, contenuta in
un'altra sentenza del 2004 ( 98), con la quale il giudice amministrativo ha annullato il
giudizio di ingannevolezza di un catalogo di chiusini e caditoie, affermando che “Non è
ingannevole un messaggio che, pubblicizzando chiusini e caditoie, indichi come
produttore dei medesimi un’impresa che, comunque, assume la responsabilità di
trovano riscontro nella realtà, ma solo nella credulità dei destinatari”. Tra i molti casi decisi, si veda, ad
es., PI611/95 – Divino Otelma.
97
T.a.r. Lazio, Sez. I, 3 marzo 2004, n. 2020/04.
98
T.a.r. Lazio, Sez. I, 17 settembre 2004, n. 9338/04.
36
progettazione e controllo della produzione di essi, tacendo che sono materialmente
prodotti da imprese estere”. Secondo il T.a.r. Lazio “Il principio per cui risulta
irrilevante, ai fini del giudizio di ingannevolezza, la circostanza che il messaggio sia
diretto a soggetti normalmente non sprovveduti, quali i titolari di imprese, è valido solo
allorquando l’attitudine decettiva del messaggio si connoti, oggettivamente e
strutturalmente, in modo tale che esso faccia leva non tanto sulla sprovvedutezza quanto
sulla distrazione dei suoi destinatari, non quando il messaggio si indirizzi a soggetti
professionalmente operanti in un settore professionale, per i quali sono (o si deve
presumere siano) ben note le caratteristiche tecniche dei materiali da impiegare per le
inerenti lavorazioni. È perciò difficile riconoscere di per sé portata ‘strutturalmente’ ed
‘oggettivamente’ ingannatoria ad un messaggio indirizzato a soggetti tecnicamente
competenti”.
Il successivo caso in cui il giudice amministrativo di prima istanza viene chiamato
ad occuparsi del consumatore medio è quello, particolarmente complesso, che segue alla
pronuncia di ingannevolezza della scritta “light” sui pacchetti di sigarette ( 99). Nel corso
del procedimento, la difesa dei produttori di sigarette si era incentrata in prevalenza
sull’affermazione – che essi cercarono di dimostrare con il ricorso ad analisi e dati
statistici - della inidoneità di detta scritta ad indurre i consumatori a ritenere che tali
sigarette fossero meno dannose per la loro salute.
Il T.a.r. Lazio afferma “Circa la pretesa necessità di individuare una soglia
‘critica’ di consumatori indotti in errore (…) le ricorrenti mettono in rapporto tale
percentuale critica con il modello del ‘consumatore medio’ ‘normalmente informato e
ragionevolmente attento ed avveduto’, al quale si richiamano numerose sentenze della
Corte di giustizia in materia di pubblicità ingannevole (…). Ma tra i due parametri, a
parere del Collegio, vi è non già un rapporto di convergenza bensì, semmai, di
alternatività. Infatti, mentre il ‘consumatore medio’ corrisponde ad un modello giuridico
astratto, il secondo è un metodo di indagine empirica al quale, secondo la stessa Corte
di giustizia, in mancanza di specifiche e uniformi disposizioni comunitarie, i giudici
99
T.a.r. Lazio, Sez. I, 11 gennaio 2006, n. 1372; si veda, con riferimento alla stessa controversia, anche Id.,
22 febbraio 2006, n. 2995.
37
nazionali possono ricorrere al fine di stabilire se una determinata percentuale, ancorché
esigua, di consumatori indotti in errore da una determinata dicitura pubblicitaria, rilevi
o meno ai fini del giudizio di ingannevolezza (così ancora la Corte di Giustizia nella
sentenza resa nel caso Estée Lauder)”. Sul punto si dovrà tornare, trattando della regola
di de minimis, perché, il giudice amministrativo ha ben colto qui la portata dei riferimenti
giurisprudenziali comunitari alle indagini statistiche.
Ciò detto, però, la pronuncia, senza soluzione di continuità, vira verso
un’affermazione decisamente poco comprensibile, della quale sfugge anche il legame
logico con la precedente. Si legge, infatti, che “E’ dunque evidente che, a livello
comunitario, non vi è una decisa e chiara opzione in ordine al profilo del soggetto degno
di essere protetto dagli effetti ingannevoli della pubblicità” ( 100).
Quindi, il T.a.r. Lazio fa seguire l’affermazione secondo cui “Il modello astratto
del ‘consumatore medio’ appare poi idoneo, ai fini del giudizio di ingannevolezza,
soprattutto nelle ipotesi in cui è sufficiente operare un bilanciamento, secondo il
principio di proporzionalità, tra l’esigenza di libera circolazione delle merci e il diritto
del consumatore a determinarsi consapevolmente in un mercato concorrenziale, ma non
già in quelle in cui la repressione della pubblicità ingannevole è funzionale alla
protezione di più rilevante bene giuridico, quale, in particolare, il diritto alla salute, la
cui tutela deve essere ovviamente assicurata anche ai consumatori più sprovveduti o non
particolarmente vigili”. In effetti, nel caso di specie, tra le norme poste in applicazione
dall’Autorità vi era l’art. 5 del d.lg. n. 74/92 (poi art. 24 del d.lg. n. 206/05, attualmente
art. 6 del d.lg. n. 145/07), che considerava ingannevole “la pubblicità che riguardando
prodotti suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza dei soggetti che essa
raggiunge, omette di darne notizia in modo da indurre tali soggetti a trascurare le
normali regole di prudenza e vigilanza”.
Se, delimitata in questo senso, la scelta interpretativa si può condividere e, anzi,
pone una questione della quale sarebbe stato opportuno investire la Corte di giustizia. Il
problema è che la massima in cui essa si esprime, coerente con il contesto in cui è stata
formulata per la prima volta, viene poi trasmessa tralaticiamente anche dove non
100
L’affermazione si trova riprodotta anche in T.a.r. Lazio, 1° febbraio 2011, n. 894.
38
ricorrono i presupposti che l’avevano generata. Il giudice amministrativo, infatti, in un
recente sentenza, riprende l’argomento dell’incompatibilità tra il riferimento obbligato al
parametro del consumatore medio e peculiari esigenze di tutela ( 101), ma qui tale
argomento risulta richiamato del tutto arbitrariamente, dato che la tutela del diritto alla
salute o di altro diritto sovraordinato al buon funzionamento del mercato concorrenziale
non c’entra più nulla (il provvedimento dell’Autorità si occupava di un caso di
ingannevole prospettazione di un rapporto di affiliazione commerciale ( 102)).
L’affermazione secondo cui “Il richiamo a siffatto modello [quello del consumatore
medio, n.d.a.] non esclude però (ad esempio nelle ipotesi in cui la repressione della
pubblicità ingannevole è funzionale alla protezione di un diverso e più rilevante bene
giuridico rispetto a quello della libera concorrenza) che la stessa tutela debba essere
assicurata anche ai consumatori più sprovveduti o non particolarmente vigili”, monca
dell’individuazione di questo “diverso e più rilevante bene giuridico”, appare
ingiustificata e chiaramente non conforme alla giurisprudenza comunitaria e alle stesse
norme – che pure il giudice menziona – che ad essa fanno adesso espresso richiamo.
In una pronuncia ( 103) riguardante un provvedimento di ingannevolezza – per
induzione a trascurare le cautele connesse all’uso di una birra analcolica (che, invece,
risultava contenere un modesto quantitativo di alcool, peraltro dichiarato nella
pubblicità), rispetto alla guida di autoveicoli - il T.a.r. Lazio accoglie invece parzialmente
il ricorso, osservando “(s)e per un verso va rilevato che le bevande alcoliche non sono di
per sé “pericolose” per la salute e la sicurezza degli assuntori (al contrario di quei
prodotti la cui composizione chimica, tanto per esemplificare, può effettivamente
costituire un importante fattore di rischio), dipendendo piuttosto qualsiasi profilo di
rischio dall’uso smodato dell’alcol, è per altro verso notorio che il ‘consumatore medio’
è perfettamente a conoscenza delle gravi conseguenze di tale consumo eccessivo”.
Qui l’argomentazione appare in linea con gli orientamenti comunitari, anche se si
ha l’impressione che il giudice applichi il criterio corretto all’informazione sbagliata. La
101
T.a.r. Lazio, Sez. I, 25 febbraio 2009, n. 3723.
Provv. IP41/08 – Areafilm – Formula di affiliazione innovativa. Si trattava di un caso di inottemperanza
al precedente provv. PI6050/07 – Areafilm.
103
T.a.r. Lazio, Sez. I, 10 gennaio 2007, n. 3531.
102
39
questione da porsi non era, infatti, se il consumatore medio sappia che un consumo
eccessivo di alcool è pericoloso per la guida, bensì se, agli occhi del consumatore medio,
le avvertenze sulla necessità di fare un uso moderato di un prodotto dichiarato analcolico,
ma in realtà contenente una modesta percentuale di alcool (dichiarata), a) fossero
sufficientemente chiare e b) fossero idonee a prevalere sulla circostanza che il testimonial
della campagna fosse un noto pilota di formula 1, abbigliato con la tuta da competizione.
Insomma, manca una riflessione (non semplice, peraltro) sulla relazione tra livello del
consumatore di riferimento e intensità della suggestione.
Sempre con riferimento alla pubblicità ingannevole, il Consiglio di stato ha avuto
una sola volta modo di confrontarsi con la nozione di consumatore medio ( 104). La
vicenda scaturiva da un provvedimento con il quale l’Autorità aveva dichiarato
ingannevole la dicitura “Oneglia”, contenuta nel marchio di un produttore di olio che, in
realtà, non proveniva dalla località geografica così evocata ( 105). Il Consiglio di stato
conferma, aderendo alla sentenza di primo grado, la valutazione di ingannevolezza
dell’Autorità. Nega, in particolare, che la associazione logica tra il prodotto e la località
geografica possa essere esclusa invocando la diligenza dell’uomo medio. Ritiene, infatti,
che sono “diverse le categorie di consumatori che si rivolgono ai prodotti DOC, da
quelle che, pur sprovviste di nozioni specifiche circa la legislazione in materia di
denominazione d’origine, sono inclini, comunque, ad acquistare beni che presentino un
qualche pregio rispetto alla massa e che possono, quindi, percepire l’indicazione di
Oneglia quanto meno come maggiormente tranquillizzante circa la qualità, rispetto ad
altri prodotti che tale indicazione non rechino o ne rechino una diversa”. Conclude,
quindi, che “Ne consegue, anche, che, in materia di pubblicità ingannevole, non è
possibile configurare in astratto (…) un tipo di consumatore di livello medio, al di sotto
del quale la tutela debba considerarsi inoperante, in quanto si sconfinerebbe nella
credulità, dovendosi, invece, procedere, caso per caso, all’individuazione della categoria
di consumatori suscettibile di essere fuorviata dal messaggio pubblicitario, in relazione
allo specifico prodotto”. Anche qui, in verità, mi pare poco netta la distinzione tra
104
105
Cons. stato, Sez. VI, 6 marzo 2001, n. 1254/99.
PI1518/97 – Olio Carli.
40
individuazione della categoria di consumatori da prendere a riferimento e individuazione
del membro medio del gruppo così individuato. Anche il Consiglio di stato, cioè, sembra
confondere individuazione della target audience e individuazione del membro medio di
tale target audience.
Finora in pochi casi il giudice amministrativo è stato chiamato a confrontarsi con la
questione del consumatore di riferimento in materia di pratiche commerciali scorrette.
In un primo caso ( 106), scaturente dalla condanna di pratiche relative all’attivazione
non richiesta di fornitura di energia elettrica e di gas naturale, all’imposizione di ostacoli
all’esercizio del diritto di ripensamento, alla diffusione di comunicazioni commerciali
ingannevoli, all’adozione di procedure di marketing aggressivo, il giudice afferma: “Se è
vero che – come da questa stessa Sezione in precedenza affermato (cfr. sentenza 3 marzo
2004 n. 2020) – l’individuazione del (livello di conoscenza del) consumatore medio non
può conseguire ad una valutazione condotta in termini meramente statistici (quanto,
piuttosto, devono essere necessariamente presi in considerazione fattori di ordine
sociale, culturale ed economico, fra i quali, in particolare, va analizzato il contesto
economico e di mercato nell’ambito del quale il consumatore si trova ad agire), non può
allora essere disconosciuta – a tali fini – la rilevanza alle caratteristiche proprie dei beni
e/o dei servizi coniugate con le (eventuali) peculiarità del settore merceologico di
riferimento”. Posta questa premessa, del tutto conforme all'indicazione comunitaria, il
giudice vede come decisivo un incremento dell’asimmetria informativa tra consumatore e
professionista, determinato dalla fase di transizione dei mercati dell’energia elettrica e
del gas naturale verso un regime di liberalizzazione. Dislivello, questo, che “non appare
suscettibile di essere colmato ricorrendo (…) alle conoscenze ordinariamente
pretendibili in capo ad un consumatore ordinariamente (e diligentemente) informato
sulla configurazione del mercato nell’ambito del quale venga a collocarsi la sua
posizione. E ciò non soltanto perché la larghissima diffusione dei beni offerti da EE
(energia elettrica; gas naturale) viene ad impattare su una larghissima platea di
potenziali utenti (all’interno della quale non è ragionevolmente predicabile non soltanto
un elevato grado di informazione; ma, neppure, un’omogenea diffusione della
106
T.a.r. Lazio, 25 marzo 2009, n. 3722.
41
consapevolezza in ordine alle caratteristiche intrinseche dell’offerta); ma anche in
considerazione del fatto che la conoscibilità della transizione verso un diverso regime di
mercato non avrebbe, comunque, potuto implicare l’accessiva cognizione di specifici
elementi identificativi dell’offerta promossa da ENEL ENERGIA che solo la completezza
del quadro informativo da quest’ultima prospettato avrebbe potuto, invece, rendere
concretamente disponibili e percepibili” ( 107). L’argomentazione appare stavolta
condivisibile.
Al di là della probabile correttezza della decisione nel merito, sostanzialmente
ambigua sul piano della conformità ai principi comunitari appare una pronuncia emessa
sul finire del 2009 ( 108), nella quale si leggono affermazioni chiaramente contrarie a detti
principi, come “deve escludersi la necessità (…) che rispetto ad un dato comunicato
venga accertata la condizione soggettiva media di intelligenza del consumatore”, o
“l’eventuale differenziato e qualificato livello di conoscenza del settore (nella fattispecie,
peraltro, indimostrato relativamente agli utenti del messaggio de quo) non appare
assurgere ad elemento autonomamente depotenziante la decettività del messaggio”, ma
poi si legge essere “irrilevante (…) l’affermata (quanto indimostrata) presenza, in capo
al percettore del messaggio, di una soglia di asserita consapevolezza che, in ogni caso,
non sia idonea a consentire una compiuta percezione dei contenuti dell’informazione”;
affermazione, quest’ultima, la quale non lascia comprendere se ogni oggettiva lacunosità
di una comunicazione esaminata porti ad escludere la rilevanza di qualunque valutazione
di consapevolezza dei suoi destinatari (affermazione criticabile, dato che il livello dei
destinatari è spesso elemento essenziale per la valutazione della qualità decettiva di
un’asserita lacuna informativa), ovvero se sia comunque da ritenersi oggettivamente
decettiva quell’informazione talmente lacunosa da non risultare correttamente
interpretabile da qualunque consumatore, quale che sia il suo grado di consapevolezza
(affermazione del tutto condivisibile).
Un evidente confusione tra determinazione del “consumatore medio” e
individuazione della categoria di consumatori cui la pratica si indirizza emerge, infine,
107
108
Il provv. è PS91/08 – Enel Energia – Richiesta cambio fornitore.
T.a.r. Lazio, 29 dicembre 2009, n. 13789.
42
dalla sentenza n. 12364/10 ( 109), nella quale si legge “Il richiamo al modello del
consumatore medio, ove posto in rapporto alla peculiarità del settore in esame, non
esclude perciò che adeguata tutela debba essere assicurata anche ai consumatori meno
smaliziati, in quanto presumibilmente, sono proprio costoro gli utenti “medi” dei servizi
oggetto della pratica”. Col che, si approda ancora una volta all’inottemperanza della
prescrizione comunitaria.
Non deve però essere trascurato, comunque, che il giudice amministrativo si è
pronunciato sempre su provvedimenti in cui l’Autorità sul consumatore medio nulla
aveva argomentato. Resta, cioè, ancora inevasa nella giurisprudenza amministrativa la
risposta alla censura di omessa motivazione dell’Autorità sul profilo di consumatore
adottato a riferimento. La questione è stata sollevata con certezza almeno in un caso
( 110). Sia il T.a.r. Lazio, sia il Consiglio di Stato, nel susseguente appello, hanno però
eluso l’argomento. Il primo, ha infatti, ancora una volta, ricostruito a posteriori una
figura di consumatore medio che, in realtà, l’Autorità non aveva per nulla definito ( 111); il
secondo ha affermato che non può ritenersi “alla portata di un consumatore di media
avvedutezza un’informazione, rilevante per l’adesione al contratto proposto e per i
comportamenti successivi, non fornita interamente e direttamente, pur se in termini
sintetici, nel contesto delle notizie promozionali e con rilievo equilibrato rispetto al
rilievo dato a tali notizie” ( 112). Ma il problema posto era proprio la determinazione del
consumatore di media avvedutezza, sulla base del quale l’Autorità aveva, appunto, a)
ritenuto rilevanti per la conclusione del contratto talune informazioni; b) ritenuto
insufficiente l’informazione sì fornita, ma non “interamente e direttamente”.
9. La regola di de minimis. Come anticipato, la sanzione delle pratiche
commerciali scorrette incontra il suo limite nella irrilevanza delle pratiche sleali il cui
impatto sia “rilevante” (art. 5, comma 2, lett. b della direttiva) e non “trascurabile”
(Considerando 6). Tali requisiti sono stati tradotti dal legislatore italiano, sia pure con
109
Cit. in nota ….
Il provv. è PS572/08 – Fastweb – Apparati in casa di utente.
111
T.a.r. Lazio, Sez. I, 14 settembre 2009, n. 8673.
112
Cons. stato, Sez. VI, 27 luglio 2010, n. 4905.
110
43
censurabile molteplicità di espressioni ( 113), nell’ambito delle definizioni, all’art. 18, lett.
e), cod. cons. (in cui si parla di “falsare in misura rilevante il comportamento economico
dei consumatori” e di “alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere
una decisione consapevole”), nonché nell’art. 20, ai commi 2 e 3 (in cui si parla di
“falsare in misura apprezzabile il comportamento economico” del consumatore medio).
Sottolineavo in un precedente scritto ( 114) la centralità del richiamo al principio di
proporzionalità, di cui all’art. 5, par. 4, Trattato istitutivo della CE, ai fini
dell’interpretazione di tale limitazione. Ne facevo derivare il rifiuto dell’alternativa
secca, ai fini della valutazione di dell’impatto della pratica, tra entità della sua incidenza
nella sfera del singolo consumatore e numero di consumatori sui quali la pratica può
produrre effetto (rispetto alla platea complessiva dei destinatari della pratica), suggerendo
di guardare, piuttosto, ai potenziali effetti complessivi di una pratica (incrociando, cioè,
dove possibile, il numero di consumatori coinvolti ed il valore economico
dell’operazione indotta nel consumatore), ponendoli in una relazione di proporzionalità
con i costi richiesti al professionista per evitarli: tanto minori saranno i primi, tanto meno
rigoroso dovrà essere il giudizio sull’adeguatezza dei costi affrontati dal professionista
per evitare l’esito scorretto, e viceversa. Aggiungevo che, tuttavia, il punto di equilibrio
tra rilevanza ed irrilevanza è chiaramente spostato verso la prima, dato che il citato
Considerando 6 della direttiva esclude dall’applicazione della disciplina solo le pratiche
che abbiano un impatto “trascurabile”. Ne deriva che la regola è la rilevanza di ogni
comportamento scorretto, mentre l’irrilevanza deve essere l’eccezione.
La giurisprudenza comunitaria sembra invece aver considerato la rilevanza della
pratica con esclusivo riferimento al numero dei consumatori coinvolti. E’ in tali termini
che si spiega il richiamo alle perizie e ai sondaggi di opinione quali strumenti a
disposizione del giudice nazionale, in presenza di una espressione della quale si deve
valutare l’ingannevolezza, per “determinare, conformemente al suo diritto nazionale, la
percentuale di consumatori indotti in errore da detta indicazione che gli possa sembrare
113
Si veda il mio Le clausole generali, cit.
Ibidem. Sul tema, si veda anche LIBERTINI, Clausola generale e disposizioni particolari nella disciplina
delle pratiche commerciali scorrette, cit., 103 s., il quale ritiene, invece, che i1 requisito di apprezzabilità
sia, volta ad evitare un’applicazione formalistica del divieto di PCS, in relazione a fattispecie che, in base
ad una valutazione sociale tipica, appaiano inidonee ad intluire sui processi di scelta del consumatore.
114
44
sufficientemente significativa per giustificarne, se del caso, il divieto” ( 115).
Giurisprudenza che, su tale specifico punto, è stata seguita dal nostro giudice
amministrativo, il quale, come si è visto (vedi supra, § 8), già in vigenza della disciplina
della pubblicità ingannevole, ha evidenziato come il rilevamento del numero dei
consumatori potenzialmente tratti in errore non abbia nulla a che vedere con la
determinazione del consumatore medio, ma serva, invece, a “stabilire se una determinata
percentuale, ancorché esigua, di consumatori indotti in errore da una determinata
dicitura pubblicitaria, rilevi o meno ai fini del giudizio di ingannevolezza” ( 116). Peraltro,
entrata in vigore la disciplina delle pratiche scorrette, il giudice amministrativo sembra
avere optato per l’indifferenza nei confronti delle dimensioni del possibile impatto di una
pratica sui consumatori, con ciò confermando il paradosso per cui all’arricchimento della
fattispecie ha fatto riscontro una semplificazione del giudizio, in senso non conforme
all’impianto comunitario ( 117). Paradosso che si riscontra già nella prassi dell’Autorità, in
cui la regola del de minimis non ha avuto alcuna evidenza. Anche nelle ipotesi in cui il
numero di consumatori dei quali (essenzialmente attraverso le segnalazioni pervenute
all’Autorità) si sia effettivamente provato il coinvolgimento nella pratica sia risultato
esiguo, l’Autorità non ha cioè mai considerato questo un elemento idoneo ad escludere il
giudizio di scorrettezza. L’argomentazione cui spesso si è ricorso è quella della
potenzialità diffusiva della pratica (la pratica non avrà avuto significativo impatto, ma
avrebbe potuto averlo). Qui si torna, però, alla questione della diligenza professionale: si
può concordare che se una pratica, della quale si sia evidenziata l’esiguità d’impatto, ha,
comunque, caratteristiche (non solo strutturali, ma anche di durata, di possibile continuità
nel tempo) che la rendono propagabile e ripetibile su una rilevante platea di destinatari, di
de minimis non si può parlare: le pratiche scorrette integrano, infatti, un illecito di
pericolo e non di danno ( 118). Laddove, però, ciò non avvenga, dovrebbe prendersi atto
115
Si vedano Corte giust., 16 luglio 1998, causa C-210/96, Gut Springenheide e Tusky, in Raccolta, 1998,
I-4657; Id., 13 gennaio 2000, causa C-220/98, Estée Lauder c. Lancaster, ivi, 2000, I-117.
116
T.a.r. Lazio, Sez. I, 11 gennaio 2006, n. 1372.
117
Sul punto, si veda già criticamente, M. LIBERTINI, Le prime pronunce dei giudici amministrativi, cit.,
881 s.
118
Il giudice amministrativo ha più volte ribadito che la diffusione della pratica, in termini di soggetti
colpiti non è importante, ai fini della sua illiceità, mentre il fatto che la pratica abbia avuto diffuse ricadute
è stato considerato come elemento aggravante, parlandosi, in questo caso, di un “rincarato grado di
45
che si è di fronte a fenomeni di scarsa rilevanza, di scarsa rilevanza, a fronte dei quali
non si può chiedere all’impresa di affrontare investimenti sproporzionati alla loro reale
potenzialità lesiva. Questo, infatti, dovrebbe essere lo spirito della regola ( 119).
negligenza” (T.a.r Lazio, Sez. I, 8 aprile 2009, n. 3722). Si veda, sui limiti di tale posizione, LIBERTINI, Le
prime pronunce dei giudici amministrativi, cit., 881.
119
Sul punto, vale la pena di segnalare, tuttavia, due recenti provvedimenti paralleli, riguardanti il settore
del credito (PS/2624/10 – Cassa di Risparmio di Parma e Piacenza-Estinzione c/c; PS1750/10 – Unicredit
Banca di Roma – Ostruzionismo chiusura c/c). Il tema affrontato era quello dei tempi impiegati dalle
banche per estinguere effettivamente il conto a seguito della richiesta del correntista, con connessi
problemi di informazione sulle ragioni ostative a tale chiusura. L’ipotesi istruttoria contemplava anche la
violazione, sul punto, dell’“Impegno per la Qualità”, assunto nell’ambito del consorzio interbancario
“PattiChiari”, relativo al monitoraggio dei tempi medi di chiusura dei conti correnti. Orbene, in entrambe le
vicende indagate, l’Autorità ha espressamente accertato anche il mancato rispetto del detto impegno, ma ha
ritenuto che questo fosse circoscritto ad una fase di avvio dell’iniziativa di autoregolamentazione,
caratterizzata da particolare complessità. Sulla base di tale asserita complessità e della breve durata della
pratica, ha deciso, pertanto, di non irrogare la sanzione pecuniaria con specifico riferimento a tale profilo di
scorrettezza (soluzione, questa, che appare in contrasto con il disposto dell’art. 27, commi 8 e 9, cod. cons.,
secondo i quali, se l’Autorità ritiene la pratica scorretta, la vieta (comma 8) e “Con il provvedimento che
vieta la pratica commerciale scorretta (…) dispone inoltre l’applicazione di una sanzione amministrativa
pecuniaria da 5.000,00 a 500.000,00 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione”.).
Tale decisione non sembra trovare fondamento in alcuna norma o principio, dato che “l’intrinseca
complessità della fase di avvio dell’iniziativa”, laddove possa ritenersi rilevante, dovrebbe escludere un
giudizio di negligenza professionale tout court, mentre la breve durata della violazione accertata non può in
sé esimere dall’applicazione della sanzione (ma dovrebbe semmai indurre ad irrogarla nel minimo edittale).
La verità è che la sede propria per la considerazione, in funzione esimente, della breve durata della
violazione, è proprio quella dell’argomentazione sul de minimis, che dovrebbe però condurre a negare la
sussistenza dell’illecito (e non la mera non applicazione della sanzione). Argomentazione che, tuttavia, non
potrebbe limitarsi alla durata (è ben possibile che una pratica esauritasi in un unico episodio abbia avuto
effetti gravissimi), ma dovrebbe collegare questa alla trascurabilità degli effetti generati (o, comunque,
generabili) dalla pratica.
46