Sui conflitti.
Primi appunti e citazioni
di
Franco Cazzola
Indice
I.- I conflitti nelle realtà sociali
L’uso della parola oggi
L’importanza del conflitto
I diversi significati della parola nelle scienze sociali
II.- Le teorie del conflitto
Premessa
Le domande per ogni teoria
I processi che attivano conflitto
I partecipanti
Gli effetti
Le teorie: Machiavelli e Hobbes
Le teorie: da Marx a Simmel
Le teorie: Carl Schmitt
Le teorie: I funzionalisti
Le teorie: Alain Touraine
Le teorie: Ralf Dahrendorf
In chiusura 1: le società liberali e le società totalitarie di fronte al
conflitto
In chiusura 2: La politica e i conflitti
III.- Tipologie dei conflitti: Pizzorno e Dahrendorf
I soggetti
L’estensione
Le modalità: intensità e violenza
La soluzione
IV.- I conflitti violenti
Che cosa si intende per violenza: alcune definizioni (Nieburg, Heritier,
Ruggiero)
Alcune teorie sulla violenza(Hobbes, Bentham, Durkheim, Elias,
Arendt)
Potere, autorità, forza, violenza
Le forme della violenza
Violenza istituzionale
Violenza anti-istituzionale
Dalla protesta alla guerra
V.- La “limitazione” della violenza
La legittimazione della guerra
Lo ius ad bellum nelle epoche pre moderne
Sant’Agostino e san Tommaso
Machiavelli ed Erasmo da Rotterdam
L’età moderna: Hobbes
Kant
Lo ius ad bellum in epoca moderna
La rivoluzione francese: da Constant a Hegel
Marx
Il XIX secolo: le guerre coloniali
Il XX secolo: Kelsen
Lo ius belli: tra forma e sostanza
La violenza senza limiti: i terrorismi
VI.- I conflitti violenti dal 1946
In premessa: uno sguardo ai conflitti 1800-1945
L’analisi dei conflitti dal 1946
Le cause
- Sociali ed economiche, Politiche, Etniche, Religiose
I soggetti
- Tra soggetti “legittimi”
1. Guerre tra stati
2. Scontri di confine
3. Guerre di intervento (o “per missione)
- Contro soggetti “legittimi”
1. Sommosse e rivolte
2. Attentati
3. Golpe
4. Guerre di indipendenza
5. Guerre di secessione, religiose, etniche
- Contro soggetti “illegittimi”: repressione
I luoghi
- Africa
- Medio Oriente
- Asia
- Russia ed ex Urss
- Ex Jugoslavia
- Europa est
- Mediterraneo orientale
- Resto dell’Europa
- America del nord
- America centrale e meridionale
I modi
- La guerriglia
- Il “Terrore” di Stato
- Il “Terrorismo” illegittimo
VII.- Tipi di conflitti e tipi di regimi
Le diverse cause
I diversi tipi
I diversi effetti
I.- I conflitti nelle realtà sociali
L’uso della parola oggi
E’ una specie di parola pas partout, si usa nel linguaggio comune come nei
linguaggi più o meno specialistici; serve a indicare fenomeni molto diversi, è
un termine, per dirla in breve, ambiguo, super utilizzato, che evoca
prevalentemente “cose” negative. Ci richiama alla mente, come termini che si
accostano a questo, la parola violenza, forza, la guerra, scontri a fuoco, tra
civiltà, ecc.
Eppure, come si vedrà, questa parola ha anche altri significati, molto meno
cruenti, più quotidiani nella nostra vita, nel privato come nel pubblico. Fatto sta
che oggi è una fra le parole più usate anche nel linguaggio della informazione.
Proviamo a verificare quanto sovente si scrive “conflitto” in uno dei massimi
quotidiani italiani (“la Repubblica”). Tra il 1984 e il 2007, cioè in un arco di 24
anni, il termine “conflitto” appare in circa 29.000 articoli, in altrettanti appare
la parola “violenza”, in 9.000 casi si parla di “competizione”, in 90.000 di
“guerra”. Termini, che potremmo chiamare opposti, quali “pace”, “”coesione”,
“armonia” compaiono rispettivamente in 43.000, in 2.000, in 1.500 articoli.
“Consenso” è presente in poco meno di 17.000 articoli e “dissenso” in 7.000.
Se guardiamo le riviste di scienze sociali (Archivio JSTOR) abbiamo il
seguente andamento relativo al numero di saggi riportanti i termini “conflitto”
o “violenza”:
Conflitto
Violenza
1900-1945
9.803
2.926
1946-1955
6.078
2.342
1956-1965
9.420
3.493
1966-1975
16.098
6.717
1976-1985
22.123
8.445
1986-1995
25.049
11.679
1996-2000
12.942
7.301
La letteratura, come la musica, il cinema o il teatro, ci narrano, e non da ieri, di
grandi e piccoli conflitti, tra singoli, tra generi, tra etnie, tra gruppi, tra
religioni, tra generazioni. Ma che cosa significa questa parola? Si può cercare
di renderla meno equivoca? E ancora: quale è il ruolo del conflitto non solo
nella storia dell’umanità, ma anche in quella del pensiero politico e sociale?
L’importanza del conflitto
Diversi studiosi hanno sottolineato come il conflitto accompagni tutta la storia
dell’umanità, come possa variarne l’intensità, la portata, ma come questo sia
sempre presente, a livello di relazioni tra singoli, come tra gruppi, collettivi,
società. Come ha scritto Alessandro Pizzorno (1993) “con l’idea di conflitto
continuiamo a pensare tanta parte della realtà sociale contemporanea. E’
un’idea che abbiamo ricevuto da una ben radicata tradizione del pensiero
politico occidentale, e non possiamo non fare i conti con essa” (pp. 187-188).
Più precisamente si può ricordare che:
“tra i concetti centrali degli studi sociali, quello di conflitto
occupa certamente un posto più che rilevante. Abbondantemente
utilizzato nelle discipline psicosociologiche, ed in ognuna di
queste conservando purtroppo un significato specifico, il
concetto di conflitto ha dato persino luogo a tentativi
d’elaborazione d’una vera e propria teoria generale, suscettibile
d’inglobarne ad un tempo le diverse dimensioni e tutte le varietà
d’applicazioni possibili, nonché, ovviamente, le più correnti
utilizzazioni al livello micro - e/o macrosociale. (…) i numerosi
tentativi di generalizzazione e sistematizzazione compiuti negli
ultimi quarant’anni non sono mai andati al di là, invero, della
descrizione degli attori, in situazione di conflitto, delle forme
che i conflitti possono assumere, dei fattori che direttamente o
indirettamente li determinano, e talvolta anche delle funzioni
che assolvono nella società e nella biografia degli attori,
individuali e collettivi. Le tensioni, gli stereotipi, i pregiudizi, il
razzismo, il colonialismo, gli scioperi, le rivolte, la guerra e le
guerriglie, e molte forme di contestazione si sono così
inestricabilmente fuse nel concetto, ormai vago ed incerto, di
conflitto tra gruppi, oppure di conflitto tra supergruppi. (…)
Benché tutte le definizioni finora elaborate ammettano, più o
meno nettamente, l’esistenza d’un comune, generico
denominatore – la cosiddetta relazione antagonistica –, nessuna
di esse arriva tuttavia a rendere convenientemente conto, ad un
tempo, delle specificità e delle generalità in ogni tipo di
relazione antagonistica, e soprattutto a mettere in evidenza i
processi, i meccanismi, le forme attraverso cui le volontà e le
posizioni degli attori, diventando strutturalmente incompatibili,
danno luogo a conflitti; e perché poi questi stessi conflitti siano
ora funzionali e ora disfunzionali, talvolta integratori e talaltra
disintegratori, oggi negativi e domani positivi” (G. Busino,
Conflitto, in AA.VV., Enciclopedia, vol. 3, Einaudi, Torino,
1978, p. 757).
I diversi significati della parola nelle scienze sociali
I dizionari ci servono poco, partiamo quindi da un classico. Max Weber accosta
la parola “conflitto” alla parola “lotta” (kampf), e questa al concetto di potere:
“Una relazione sociale può essere definita lotta quando l’agire è
orientato in base al proposito di affermare il proprio volere
contro la resistenza di un altro o di altri individui. Debbono
venir chiamati mezzi di lotta ‘pacifici’ quelli che non consistono
nell’esercizio attuale della violenza fisica. La lotta ‘pacifica’
deve essere definita ‘concorrenza’ quando essa viene condotta
come ricerca, formalmente pacifica, di un proprio potere di
disporre di possibilità a cui anche altri individui aspirano (…)
Dalla lotta sanguinosa, che mira ad annientare la vita
dell’avversario e che rifiuta ogni legame di regole di lotta, fino
alla lotta cavalleresca regolata convenzionalmente e al gioco
agonistico conforme a certe regole (lo sport), dalla
‘concorrenza’ priva di regole, quale quella che si manifesta nel
tentativo di conquistare il favore di una donna, e dalla
concorrenza per lo sfruttamento – dipendente dall’ordinamento
del mercato – di certe possibilità di scambio, fino alle forme di
‘concorrenza’ regolate artificiosamente o alla ‘lotta elettorale’,
vi è una serie ininterrotta di passaggi. L’isolamento concettuale
della lotta violenta si giustifica con il carattere specifico dei
mezzi ad essa normali, e per i particolari aspetti, a questo legati,
delle conseguenze sociologiche del suo presentarsi” (M. Weber,
Economia e società, vol. I, Edizioni di Comunità, Milano, 1961
(1922), pp. 35-36).
Conflitto come lotta, non necessariamente violenta, per imporre ad altri (ma
sappiamo che ciascuno di noi vive di conflitti all’interno della propria, singola,
personalità) ciò che ci interessa, singolarmente considerati o meno.
La definizione weberiana è alla base di tantissime altre interpretazioni, per non
farla lunga prendo in esame solo quelle di Ralf Dahrendorf (che ritroveremo
anche più avanti) e di Charles Tilly.
“Nel linguaggio corrente, alla parola ‘conflitto’ colleghiamo di
regola l’idea di scontri particolarmente violenti. Se adottassimo
questo linguaggio tradizionale, dovremmo indicare come
conflitto uno sciopero, non una trattativa tariffaria, le lotte
politiche interne, non i dibattiti parlamentari. Ma la definizione
di conflitto da noi accettata è in contraddizione con quest’uso
ristretto del termine. Il concetto di conflitto deve innanzi tutto
indicare qualsiasi rapporto tra elementi che si possa
caratterizzare mediante contrasti oggettivi (‘latenti’) o soggettivi
(‘manifesti’). Quando due concorrenti lottano per una posizione,
siamo di fronte ad un conflitto così come quando due partiti
lottano per il potere, o due partners del mercato del lavoro
lottano per la ripartizione dei profitti, o due squadre lottano per
la supremazia, o due gangs criminali per conquistare un settore,
o due nazioni si scontrano sul campo di battaglia, o due persone
non si possono soffrire tra loro, e così via. Il contrasto tra gli
elementi ogni volta in causa (che di frequente – se non sempre –
può essere indicato anche aspirazione comune a limitati ‘valori’)
può essere consapevole o soltanto desumibile, voluto o
condizionato dalla situazione; anche il grado di consapevolezza
non è rilevante per definire conflitti i rapporti (…) Un conflitto
può essere poi definito sociale se può essere dedotto dalla
struttura di unità sociali, cioè quando è sovraindividuale. Il
conflitto del medico tra le aspettative dei suoi pazienti e quelle
dell’ente mutualistico è un conflitto sociale; esso infatti esiste
indipendentemente dalla personalità del medico in questione. Lo
stesso vale, di regola, per i conflitti tra partiti politici, tra
imprenditori e sindacati, tra città e campagna, tra confessioni e
così via. Un conflitto tra due individui basato unicamente sulla
loro reciproca antipatia non è invece un conflitto sociale” (R.
Dahrendorf, Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna, 1971
(1967), pp. 249-250).
Charles Tilly (1992) si concentra sul conflitto sociale, e così lo definisce:
“Vi è conflitto sociale quando una persona o un gruppo avanza
pretese di segno negativo nei confronti di altre persone o gruppi,
pretese che, qualora venissero soddisfatte, danneggerebbero
l’interesse altrui, cioè l’altrui probabilità di raggiungere una
situazione desiderabile. Le pretese di segno negativo implicano
tanto minacce quanto attacchi veri e propri. Quando esse
comportano una diretta presa di possesso, oppure un danno alle
persone o alle cose, gli osservatori utilizzano spesso la parola
‘violenza’. Un conflitto può essere asimmetrico, nel senso che
una sola delle parti in causa, e non l’altra, può avanzare pretese
di segno negativo: in questo caso si parla di ‘coercizione’.
Accade più spesso, tuttavia, che nel conflitto ci si avvicini a una
situazione di simmetria, con ciascuna delle due parti che avanza
almeno lacune pretese per neutralizzare quelle dell’altra. Il
conflitto è un caso particolare di ‘competizione’: due o più parti
cercano simultaneamente di ottenere dei vantaggi (o di evitare
degli svantaggi) che si escludono a vicenda. La normale
competizione diventa conflitto quando un concorrente avanza in
maniera esplicita delle pretese potenzialmente lesive dell’altrui
interesse; fare un’offerta maggiore rispetto a quella del proprio
vicino, per un pezzo di terra desiderato da entrambi, non può
essere di per sé configurato come conflitto, ma si configura
come tale il minacciare il proprio vicino di attaccarlo qualora
egli rilanci l’offerta. In base a tale definizione, l’ingaggiare una
gara con qualcuno è un comportamento che si situa ai margini
del conflitto, poiché, se per i due concorrenti perdere non
implica alcuna differenza sostanziale, il conflitto non si scatena;
se invece una delle parti ha interesse a vincere, la competizione
si trasforma in conflitto. In ogni caso, l’atto di ostacolare
l’avversario per indurlo a rallentare identifica chiaramente la
gara come un conflitto. Il conflitto è complementare alla
cooperazione, in cui unità sociali differenti avanzano istanze
positive le une nei confronti delle altre; i cooperanti, cioè,
offrono promesse e ricompense piuttosto che minacce e attacchi.
Le relazioni sociali che implicano minacce esplicite o attacchi
condotti da una delle parti nei confronti dell’altra rappresentano
il terreno naturale del conflitto. Per questo motivo, individui e
gruppi che esercitano il controllo su mezzi di coercizione – armi,
soldati, simboli sovrannaturali, accesso alla pubblicità negativa e
così via – giocano nel conflitto un ruolo senza paragoni; essi
diventano degli specialisti nella formulazione di pretese di segno
negativo, e dispongono di basi migliori per sostenerle. Tra tutti
costoro, i più importanti sono gli Stati, i quali si specializzano
non soltanto nell’accumulazione e nell’impiego di mezzi
coercitivi, ma anche nel controllo dell’uso che, all’interno dei
rispettivi territori, altre persone fanno della coercizione. Il
conflitto sociale comprende tutte quelle forme d’interazione
all’interno delle quali degli individui o dei gruppi si minacciano
o si attaccano a vicenda, e in molte situazioni conflittuali gli
Stati entrano in gioco o come partecipanti attivi, o come il terzo
polo del conflitto, oppure con funzioni di arbitrato” (C. Tilly,
Conflitto sociale, in Enciclopedia delle scienze sociali, vol. II,
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1992, p. 259).
Non sono poche le differenze tra Dahrendorf e Tilly, qui voglio sottolinearne
un paio. In primo luogo: per Dahrendorf qualunque forma di ‘competizione’
equivale a un qualche tipo di conflitto; per Tilly solo quelle relazioni nel corso
delle quali si minaccia o si ostacola l’altro. Primo commento: che cosa vuol
dire ‘ostacolare’? Probabilmente Tilly si riferisce a comportamenti
“fuorilegge”, quali ad esempio il colpire il pugile avversario sotto la cintola,
oppure non rispettare le leggi di guerra (delle quali si parlerà più avanti),
oppure comprare subdolamente i voti per l’elezione alla carica di presidente
della società bocciofila di Petralia Soprana. Se è così, il problema si sposta, o
meglio: chiama in causa, il “chi” fa le regole, e quindi il tipo di regime politico
di quella data situazione. Facciamo un esempio: uno sciopero in Cina oggi è un
tipo di conflitto sia per Dahrendorf sia per Tilly; uno sciopero in Italia è un
conflitto per Dahrendorf ma non per Tilly. Problema: una campagna elettorale
per la conquista del governo, condotta nel pieno rispetto delle regole, è un
conflitto o solo una competizione?
II.- Le teorie del conflitto
Premessa
Fin dall’antichità troviamo tracce di tentativi di teorizzare il conflitto (come
nasce, come si sviluppa, il peso che ha nelle trasformazioni delle società, ecc.).
Come è stato sottolineato se ne trovano tracce in Eraclito, nei sofisti, in Ibn
Khaldun e poi in Machiavelli, come vedremo, in Hobbes, e in tanto altri
studiosi delle varie discipline.
“Anche Hegel ha riconosciuto il carattere d’universalità del
conflitto, ne ha sottolineato la sostanziale positività e la sua
funzione determinante per il cambiamento e soprattutto per la
storia. L’assenza di conflitti genera l’immobilismo, elimina i
dinamismi sociali, distrugge la storicità dei gruppi sociali. Le
società sono dunque attraversate costantemente dai conflitti; ma
questi poi come si configurano?” (G. Busino, cit., p. 766).
Al di là di chi se ne è occupato, è necessario ricordare che, almeno in
occidente, il problema del conflitto è stato oggetto di analisi e di teorizzazioni
in due diversi momenti storici o, per meglio dire, in relazione a due tipi di
occasioni:
“ da una parte trattando dell’unità politica nello stato; dall’altra,
trattando della natura e del destino dei soggetti di azione
collettiva che hanno radici all’esterno dello stato. Nel primo
caso ci si è chiesti quale posto possa essere fatto ai conflitti tra
parti che nascono come portatrici di interessi privati, ma che
mirano al potere nello stato. Nel secondo ci si è interrogati sui
meccanismi che producono fini i quali si pongono come
superiori, o in ogni caso estranei, ai fini dello stato. I primi sono
stati detti conflitti politici; i secondi, conflitti sociali. Come si
formi, e come poi sembri chiudersi, nella tradizione, la risposta
al primo interrogativo, lo si può leggere in Machiavelli, Hobbes
e Carl Schmitt. La costruzione del secondo interrogativo
apparirà chiaramente nel passaggio da Machiavelli a Marx” (A.
Pizzorno, 1993, p. 188).
Una storia lineare, quella del pensiero politico sui conflitti? Oppure anche
questo tipo di elaborazione teorica ha risentito e risente (o riflette) l’andamento
della storia stessa? E’ ancora Pizzorno a chiarire bene il punto:
“L’interesse per i conflitti sociali e i loro problemi è passato,
nella sociologia moderna, attraverso una vicenda singolare.
Nella misura in cui il pensiero sociale dell’inizio del XIX secolo
si è ispirato, in maniera più o meno diretta, essenzialmente a
Marx o a Darwin, l’attenzione ai fenomeni di conflitto è
dominante. Se si dovessero fare i nomi dei sociologi che hanno
dedicato esplicite trattazioni a questo tipo di problemi,
ricorrerebbero i maggiori della sociologia di allora, da Simmel a
Small, da Ratzenhofer a Sumner a Oppenheimer e molti altri,
senza contare il filone dei marxisti di stretta osservanza (e si
pensi solo all’uso originale che del conflitto ha fatto Sorel). A
un certo punto, però, la nozione di conflitto passò in secondo
piano e finì per essere dimenticata. Nello stesso periodo si andò
elaborando, prima in maniera quasi inconsapevole, poi sempre
più formalmente e rigorosamente, la teoria dell’integrazione
sociale, consacrata alla fine nell’opera degli strutturalfunzionalisti ed essenzialmente di Talcott Parsons” (A.
Pizzorno, Introduzione a Dahrendorf, 1971, p. VII-VIII).
Quali le ragioni di questa “obsolescenza” dell’idea di conflitto? Pura casualità?
Manifesta incapacità delle teorie precedenti a dire alcunché di utile per la
comprensione dei fenomeni sociali? O che altro? Alcuni studiosi (in primo
luogo Lewis Coser)hanno cercato di spiegare questo andamento facendo
riferimento al pubblico al quale si rivolgevano sociologi e scienziati sociali in
genere: i grandi riformatori sociali degli anni pre primo conflitto mondiale, i
riformatori locali (soprattutto negli Stati Uniti) per il miglioramento delle
condizioni di vita nelle grandi metropoli, per l’abolizione degli slums negli
anni Venti e Trenta del Novecento, i grandi committenti pubblici e privati che
chiedevano ai sociologi risposte, o almeno indicazioni, per risolvere i loro
micro-problemi di politica “aziendale”. “A questo punto i sociologi non
parlarono più di conflitto, ma tutt’al più di anomia; non più di contraddizioni,
ma di tensioni, di inadattamenti, ecc.” (ivi).
Contro questa interpretazione, possiamo riferirci ai grandi avvenimenti storici
generali e in primo luogo alle guerre mondiali:
“che hanno rappresentato il conflitto calato sulla società in
misure impensate, non più origine di un regolato mutamento, ma
minaccia alla stessa esistenza sociale. E’ comprensibile che
dopo tali avvenimenti si potesse manifestare una abdicazione a
capire razionalmente e sistematicamente i grandi rivolgimenti
sociali e insieme un’esitazione ad evocare, con l’idea di
conflitto, una realtà incontrollabile e irrazionale. A portata di
mano stavano piuttosto le risoluzioni di problemi minori, e in
relazione ad essi ‘l’ordine’, ‘l’integrazione sociale’ potevano
porsi come fine cui mirare, oltre che come modello con cui
interpretare il funzionamento della società” (ibidem, p. IX).
Le domande per ogni teoria
Qualunque teoria del conflitto (così come le cosiddette metateorie) dovrebbe
essere in grado di rispondere ai seguenti quesiti: quali sono i processi sociali
che producono conflitto?; come e per quali ragioni si formano i gruppi che
danno vita a un conflitto?; come si spiegano le varie forme di conflitto?; quali
effetti producono su una data società i conflitti?
Prima di passare ad analizzare brevemente alcune delle principali teorie del
conflitto, diamo un’occhiata ad alcune primissime e generiche risposte a questi
interrogativi.
I processi che attivano conflitto. Charles Tilly ci ricorda che:
“Le spiegazioni generali del conflitto sociale si dividono
secondo due direttrici fondamentali. La prima concerne le
relazioni sociali implicate nel conflitto, e precisamente: a) quelle
relazioni che connettono gli individui alla società presa nel suo
insieme, e b) quelle relazioni che connettono un individuo o un
gruppo a un altri individuo o gruppo (…) La seconda distinzione
concerne i processi sociali che producono conflitto: a) il cattivo
funzionamento degli ordinari meccanismi di regolazione, o b)
l’attivazione di interessi contradditori” (C. Tilly, 1992, p. 260).
Per Tilly abbiamo quindi quattro diverse concezioni (che chiama metateorie
ossia insiemi di idee non verificabili in se stesse, ma che costituiscono tuttavia
una utile guida per la ricerca).
Relazione sociale tra
Gruppo-Società
Processo
sociale
Gruppo-Gruppo
Cattivo
funzionamento
dei meccanismi di
regolazione
Conflitto
Fisiologico
Conflitto per
pregiudizio
Attivazione di
interessi
contradditori
Conflitto
Patologico
Conflitto di
classe
Gli autori che ci possono aiutare a comprendere le diverse spiegazioni sono, a
titolo di esempio, Durkheim, Marx, Lorenz, gli “educatori”.
Relazione sociale tra
Gruppo-Società
Processo
sociale
Cattivo
funzionamento
dei meccanismi di
regolazione
Attivazione di
interessi
contradditori
Gruppo-Gruppo
Durkheim
Educatori
Lorenz
Marx
“Secondo Durkheim, se la divisione del lavoro supera la
capacità, propria di una determinata società, di mantenere
l’integrazione dei suoi membri, questi perdono il proprio
attaccamento alla società stessa, prevalgono l’anomia e uno stato
di disordine, che contiene in sé il conflitto (…).
Agli occhi di Marx tutti gli individui e i gruppi hanno degli
interessi determinati dalla posizione da essi occupata entro il
sistema produttivo; interessi contradditori sono inerenti a quasi
tutti i sistemi produttivi, e situazioni di aperto conflitto
scaturiscono prevalentemente da interessi contradditori (…)
Konrad Lorenz (1963) presenta l’aggressività come
profondamente radicata nella biologia umana e promossa da una
selezione genetica che affina la capacità di lottare. Brian Crozier
(1974) deriva la sua conclusione che il conflitto è inevitabile, e
tuttavia dev’essere represso, dai seguenti assiomi: l’uomo è per
natura invidioso e aggressivo; la sua natura non è soggetta a
modificazioni; il suo comportamento è comunque suscettibile di
cambiamenti in meglio o in peggio; l’uomo, infine, ha un
fortissimo bisogno di ordine (…)
La metateoria delle relazioni tra gruppi |che ho etichettato con il
termine: conflitto da pregiudizio| postula comunemente che i
conflitti nascano da pregiudizi, incomprensioni o errate
valuazioni, che l’informazione, l’educazione, la persuasione o
un prolungato contatto elimineranno |per certi aspetti si potrebbe
dire che questa è anche la posizione di Jurgen Habermas|”
(ibidem, p. 261).
I partecipanti. Anticipando quanto verrà più specificamente chiarito più avanti,
parlare di “partecipanti” vuol dire entrare già in una delle tante tipologie dei
conflitti che si possono enucleare. In breve, i conflitti possono avere come
attori: Stato contro Stato (guerra, conquista); Stato contro non-Stato (ribellione,
rivoluzione, guerra di indipendenza, repressione); Non-Stato contro non-Stato
(conflitto industriale, scontri tra gruppi etnici, tra gruppi religiosi, tra tifoserie).
Le forme. Anche per questo punto anticipo molto sommariamente quanto verrà
presentato più avanti. E’ ovvio ed è noto che il conflitto sociale assume una
molteplicità di forme a seconda, anche, della struttura sociale in cui si
presentano, degli attori, degli scopi che questi si prefiggono, ecc. Ma, è ancora
Tilly a sottolinearlo:
“In confronto alla molteplicità di attività conflittuali possibili
almeno in teoria, una qualsiasi coppia di attori che s’impegna in
un conflitto prolungato tende ad attuare una serie estremamente
limitata di comportamenti, adottando sempre gli stessi per più
volte, con variazioni di secondaria importanza. All’interno degli
Stati capitalisti contemporanei, i conflitti organizzati tra padroni
e operai assumono la forma di scioperi, serrate, consigli di
fabbrica, dimostrazioni, richieste d’intervento statale, sabotaggi
ecc. (…) Nei paesi occidentali, a partire dalla seconda guerra
mondiale, è diventata abbastanza comune una forma di conflitto
fino a quel momento piuttosto rara: un gruppo s’impadronisce di
un luogo, di una persona o di un oggetto importanti per il loro
valore simbolico, tenendoli in ostaggio nel corso delle trattative
con un altro gruppo. Rientrano in questo schema i dirottamenti
aerei, le occupazioni delle fabbriche e i sit-in negli uffici o nelle
pubbliche piazze (…) Una delle parole con cui si indica
l’insieme dei mezzi usati in un conflitto da una qualsiasi coppia
(o gruppo più ampio) di attori è ‘repertorio’. La metafora
teatrale suggerisce che si tratta di un numero limitato di
procedure relativamente differenziate e implicanti interazione tra
alleati e nemici, che sono messe in atto dai partecipanti in base a
norme negoziate, sono più o meno note a tutti i partecipanti,
variano di volta in volta e tendono ad essere manipolate dagli
attori a proprio esclusivo vantaggio (…) I repertori del conflitto
variano secondo la struttura e la storia delle relazioni sociali nel
cui contesto essi sono situati. Questo è uno dei motivi che sta
alla base delle differenze sussistenti tra i conflitti Stato/Stato,
Stato/non-Stato e non-Stato/non-Stato: nella loro interazione, gli
Stati creano una serie di modelli conflittuali standard, gli Stati e
i loro oppositori interni ne elaborano altri, gli avversari al di
fuori dello Stato altri ancora” (ibidem, pp. 266-267).
Gli effetti. A seconda degli studiosi del conflitto possiamo avere, in genere,
effetti di innovazione e progresso, oppure effetti devastanti per la struttura
sociale nella quale si verificano. Per alcuni il conflitto in sé è devastante, per
altri è sempre portatore di mutamento positivo. Ma di questo si parlerà più
diffusamente a proposito delle diverse teorie del conflitto. Qui preme solo
sottolineare come, a prescindere dalla valutazione positiva o negativa del
conflitto, l’idea di conflitto ci rimandi a quelle di consenso, di coercizione, di
equilibrio e di forza, di ‘politica’, in ultima istanza. Ovvero: “i sistemi sociali
sono fondati sulla coercizione di certi individui su altri, o sulla formazione di
un consenso su certi valori fra i membri della società? Se si assume che i
rapporti sociali, o una parte importante di essi, siano rapporti di coercizione, lo
studio del conflitto diventa fondamentale per ogni scienza sociale” (A.
Pizzorno, cit., p. X). Detto con altre parole:
“A prima vista, un paese in cui l’esercizio del potere avviene
senza attrito in nome e con l’appoggio dell’intera società,
potrebbe apparire senz’altro attraente. Le decisioni politiche
sono essenzialmente l’espressione di una volontà comune e
quindi generale. Il potere non è un concetto equivalente a una
somma di zeri, ma una moneta cui ogni cittadino ha una parte.
Un sistema universale di partecipazione, il flusso indisturbato
delle comunicazioni determina la realtà. Ma vale la pena
esaminare più da vicino questa piacevole immagine. Cosa
succede per esempio se un infelice non concorda con la presunta
volontà comune? Questo è un caso che non dovrebbe verificarsi,
ma che cosa succede se, tuttavia, esso si verifica? Se la teoria
(dell’equilibrio) viene elevata a dogma, il deviante deve essere
perseguitato; se non viene perseguitato, la teoria è respinta. Che
cosa succede se qualcuno sviluppa una sua idea con cui potrebbe
ordinare le cose meglio di come stanno, e se trova appoggi a tali
progetti?”. (Dahrendorf, 1971, p. 331).
disputando
Le teorie: Machiavelli e Hobbes
In Machiavelli, noi troviamo, secondo Pizzorno, una vera e propria teoria dei
conflitti (intendendo per conflitti: discordie, inimicizie, disunioni e tumulti e
levate di popolo): “cioè di un insieme di proposizioni indicanti perché i
conflitti nascano, quali effetti essi producano, e in quali circostanze essi siano
vantaggiosi alla cosa pubblica, e quando invece le nuocciano” (Pizzorno, 1993,
p. 188). In Machiavelli la teoria è questa:
“I conflitti giovano alla cosa pubblica quando sono volti a
conquistare in favore di una parte, fino allora esclusa, il diritto di
essere presente nel governo della città e non invece quando
mirano ad annientare la parte avversa. Quando si manifestano
disputando, non invece con violenza e all’ultimo sangue.
Quando sono volti a generare nuove leggi e, in genere,
innovazioni istituzionali, invece che esili della parte perdente
(Discorsi, I, 2-4, e Istorie Fiorentine, III, 1). In altre parole, lo
scopo delle parti, o ,piuttosto, di quella che muove alla lotta, è
concepito in questi casi come quello di farsi riconoscere e
accettare dalla parte avversa, e giungere a condividere i supremi
onori con essa – o almeno di stabilire con certezza i suoi diritti.
Stabiliti questi, il conflitto si quieta.
Tre vantaggi conseguono a questo tipo di conflitto. Anzitutto
esso tende a generare innovazioni istituzionali che allargano
l’accesso alla cosa pubblica. Secondo, garantisce la libertà dei
cittadini: infatti tutte le leggi che in una repubblica si fanno in
favore della libertà dei cittadini ‘nascono dalla disunione di
popoli e grandi’. Infine, il conflitto fomenta la partecipazione
alla cosa pubblica, mobilita quindi le energie della collettività,
che possono poi rivolgersi verso conquiste esterne.
Nuocciono invece alla cosa pubblica i conflitti i quali si
terminano con la parte vincente che resta unica al governo, che
legifera secondo le sue ambizioni private, e annienta o manda in
esilio il vinto. Sembra poi inevitabile che quando questo
succede, la parte vincente si divida a sua volta, e si riaccendano
così altre lotte. Simili conflitti nascono quando è in gioco non
l’onore del pubblico, bensì la ‘roba’, non riconoscimento di
diritti, bensì il possesso di ricchezze” (ibidem, p. 189).
In Hobbes abbiamo il ribaltamento del ragionamento di Machiavelli: lo stato
non può accettare l’esistenza di conflitti, in quanto questi portano alla guerra
civile; i conflitti non portano alla libertà dell’individuo in quanto questi diventa
prigioniero di una delle due parti in lotta e quindi perde la sua libertà.
“Rispetto a Machiavelli non siamo qui soltanto di fronte a
giudizi che sono diversi perché si valutano diversamente le
possibili conseguenze dei conflitti. La condanna di Hobbes
nasce da una nuova teoria dello stato e della funzione che esso
svolge per la sopravvivenza degli individui e per le relazioni che
si costituiscono tra questi. Affinché gli individui si accettino
l’uno l’altro pacificamente, si riconoscano cioè degni di
coesistere, lo stato deve mantenere per sé non soltanto il
monopolio della forza, ma, per dir così, il monopolio della
certezza. E’ infatti l’incertezza che rende impossibile la
coesistenza, e che va quindi abolita” (ibidem, p. 190).
In realtà, Hobbes si riferisce a conflitti sconosciuti all’epoca di Machiavelli,
Hobbes si riferisce ai conflitti della sua epoca, cioè prevalentemente a conflitti
religiosi, a conflitti tra contrapposte “verità” e che, quindi, producevano
incertezza quanto alla “vera” verità. Di qui il ruolo dello stato: definire la verità
delle persone, “cioè la loro identità sociale, il modo come esse debbono
identificarsi pubblicamente l’un l’altre, le opinioni che esse possono
pubblicamente manifestare. Qualunque divergenza o conflitto a questo
proposito va abolita. Costituirebbe una minaccia alla certezza dei rapporti”
(ibidem, p. 190). Ma questa idea hobbesiana presenta due difficoltà:
“Una emerge se distinguiamo fra le credenze (religiose,
ideologiche) che entrano in conflitto con la certezza dello stato
(del suo diritto), e quelle che invece vengono generate
all’interno dell’attività dello stato stesso. Hobbes prende in
considerazione solo le prime, le vede le une con le altre
inconciliabili, e le espelle. Lo sviluppo storico le mostra invece
permanere, ma uscire dalla cosa pubblica, i conflitti pubblici in
loro nome attenuarsi, circoscriversi nel foro interno della
persona. E il loro posto nella cosa pubblica esser preso da
credenze non più sulla verità eterna, bensì sulla natura delle
istituzioni. I conflitti, poi, provocati da questo secondo tipo di
credenze diventano istituzione stessa dello stato. Su questo
fondamento si forma la visione liberale del conflitto. La seconda
difficoltà si pone in un certo senso come uguale e contraria alla
prima. Come sarà possibile che i singoli cittadini arrivino a
sopportare sacrifici – anche della vita – che il conflitto tra gli
stati comporta, se il principio del conflitto in nome di credenze
riguardanti la verità è stato negato? I conflitti per la fede
potevano condurre sino alla perdita della vita, perché di quella
fede era fatta l’identità della persona. Perdendo le ragioni della
fede si perdeva l’identità della persona e senza identità
riconosciuta la vita non era vivibile. Come può lo stato, nato per
assicurare la sopravvivenza, generare la stessa solidarietà di
fronte alla morte quale genera una fede religiosa?” (ibidem, p.
191).
Due teorie decisamente contrapposte: ma si tratta di due teorie vere e proprie?
In realtà, sia Machiavelli che Hobbes lasciano insoluti diversi problemi e,
quindi, si è di fronte a “teorie” per lo meno incomplete. E’ ancora lo stesso
Pizzorno a enuclearle con chiarezza:
“Si ritorni per un momento alle differenze tra Machiavelli e
Hobbes. Per il primo i conflitti erano tra parti private, che
usavano risorse di origine privata (ricchezze, nessi di amicizia o
parentela, devozione a un capo). Dove venissero prodotte tali
risorse, e che conseguenze nascessero dal loro esser prodotte in
un certo modo, non veniva indagato. Per Hobbes, invece, ciò
che contava era una natura nuova dei conflitti, non più
d’interesse, di ‘roba’, come avrebbe detto il Fiorentino, bensì
portanti sulla verità. Di fronte alla minaccia rappresentata da
questo tipo di conflitti intestini, lo stato doveva essere tale che,
al di fuori di esso, contro il suo decreto, non doveva potersi dare
enunciazione pubblica di verità.
Né l’una né l’altra di queste due posizioni era, per esprimersi
così, in equilibrio. A chi avesse voluto completare il oro senso
si presentavano alcuni problemi ardui, e di portata assai radicale.
Il primo era il problema di indicare quali meccanismi
producessero le risorse oggetto e arma dei conflitti che avevano
radici al di fuori della cosa pubblica (problema per chi legga
Machiavelli). Il secondo era di esaminare la natura dei conflitti
che avevano per posta la verità. Il terzo consisteva nel
domandarsi che modi di teoria fossero possibili una volta che si
volesse spiegare la presenza di conflitti portanti sulla verità.
Ovverosia che rapporto potesse darsi in questi casi tra l’esser
parte di un conflitto, e l’esser osservatore e teorico di esso
(problemi, il secondo e il terzo, per chi legga Hobbes)” (ibidem,
pp. 194-195).
Le teorie: da Marx a Simmel
Una prima risposta ai tre problemi lasciati insoluti da Machiavelli e da Hobbes,
la troviamo in Marx. E’ nei rapporti di produzione che si producono le risorse
oggetto del conflitto; è il sistema dei rapporti di produzione che genera conflitti
sistematicamente a prescindere dalle singole volontà; e lo stato
“sta all’interno dei conflitti. Non è in grado, quindi, di risolverli
o sopprimerli, almeno non a lungo. Questi conflitti, poi, sono
connotati da quella componente che Hobbes per primo aveva
individuato: essi hanno per posta la verità. Le parti in conflitto
sono portatrici di verità contrapposte quanto all’interpretazione
della realtà sociale” (ibidem, p. 195).
Per dirla con altre parole (Simmel) la risposta di Marx “tiene conto delle
motivazioni intrapersonali ed interpersonali, delle cause esogene e di quelle
endogene, ma ha la particolarità di collegare l’analisi dei conflitti allo studio
complessivo dei sistemi sociali concepiti dinamicamente, nel senso che
l’analisi non fa mai astrazione dai rapporti di classe che caratterizzano i detti
sistemi” (G. Simmel, I conflitti della cultura moderna, Bulzoni, Roma, 1976
(1908), p. 134).
Simmel valuta positivamente i conflitti, in quanto ritiene che essi producano
effetti positivi per la collettività e per i singoli individui costituenti tale
collettività. Andiamo per ordine.
“Di fatto sono i fattori dissociativi – odio e invidia, bisogno e
desiderio – le cause del conflitto. Ma una volta esploso per
causa loro, esso è una forma di ausilio per risolvere i dualismi
divergenti; è un modo di raggiungere un qualche genere di unità,
anche se attraverso l’annullamento di una delle parti in conflitto
(…) Un gruppo che sia centripeto ed armonico in senso assoluto,
una pura ‘unificazione’, non solo è empiricamente irreale, ma
non potrebbe offrire alcun processo vitale vero e proprio. La
società dei santi che Dante vede nella Rosa del Paradiso può
comportarsi così, ma è anche sottratta ad ogni mutazione e
sviluppo; mentre già la santa assemblea dei Padri della Chiesa
nella ‘Disputa’ di Raffaello si presenta, se non come un vero e
proprio conflitto, almeno come una considerevole
differenziazione di opinioni e direzioni di pensiero, dalla qual
cosa fluisce tutta la vitalità e la reale struttura di quell’insieme.
Proprio come l’universo ha bisogno di ‘amore e odio’, cioè di
forze attrattive e repulsive, per avere una forma, così anche la
società, per ottenere una determinata configurazione, necessita
di un qualche rapporto quantitativo di armonia e disarmonia, di
associazione e concorrenza, di tendenze favorevoli e
sfavorevoli” (ibidem, pp. 87 e 89).
Per questo studioso, quindi, il conflitto non è solo necessario per il mutamento
di una società, ma è anche sempre presente, non potendosi dare una società
terrena totalmente armonica. Non tutti i conflitti, tuttavia, ed è chiaro già nella
citazione di sopra, hanno effetti positivi: a seconda del tipo di conflitto
prevalgono elementi coesivi o elementi distruttivi.
“Naturalmente ci sono conflitti che sembrano escludere tutti gli
altri elementi: per esempio tra il ladro, il delinquente e la sua
vittima. Se un tale conflitto tende all’annientamento, esso si
avvicina al caso limite dell’assassinio, in cui la partecipazione di
elementi coesivi è divenuta uguale a zero. Nei limiti in cui,
tuttavia, è presente un qualsiasi ritegno, un limite dell’atto
violento, esiste anche un momento socializzante, anche se
soltanto come determinazione della violenza. Kant ha osservato
che ogni guerra in cui i belligeranti non si impongono un
qualche limite nell’uso dei possibili mezzi di lotta,
necessariamente, già per ragioni psicologiche, deve diventare
guerra di sterminio. Infatti dove non ci si astiene almeno
dall’assassinio, dal venir meno alla parola data, e
dall’istigazione al tradimento, si distrugge quella fiducia nelle
intenzioni del nemico che rende possibile poi una qualche pace.
Dopo aver conquistato l’Italia nel VI secolo i Longobardi
imposero ai vinti il tributo di un terzo del raccolto, ed essi fecero
in modo che ogni singolo individuo tra i conquistatori dipendeva
dal tributo pagatogli da un ben determinato individuo trai vinti.
In questa situazione, l’odio dei vinti per i conquistatori sarà
altrettanto forte e forse più forte che durante la guerra stessa e si
rinnoverà con non minore intensità anche nei conquistatori: sia
perché l’odio contro chi ci odia è una misura istintiva di difesa,
sia perché, notoriamente, odiamo coloro ai quali abbiamo fatto
del male. Tuttavia la situazione aveva un elemento comunitario.
La stessa circostanze che aveva generato l’ostilità, cioè la
forzata partecipazione dei Longobardi alle attività degli indigeni
portò al tempo stesso ad un innegabile parallelismo di interessi.
Su questo punto divergenza e armonia si legarono strettamente
(…) Questo tipo formale di relazione si è realizzato nella
maniera più ampia col ridurre in schiavitù anziché uccidere il
nemico catturato. Anche se molto spesso la schiavitù
rappresenta il caso limite di una totale ostilità interna, la sua
realizzazione produce nondimeno un rapporto sociologico e con
ciò, molto spesso, la sua stessa attenuazione.
Così l’acuirsi delle contrapposizioni può essere provocato
direttamente dalla volontà di diminuirle, e non solo dal voler
accentuare la violenza, fiduciosi che l’antagonismo, una volta
che abbia raggiunto un certo limite, finirà per esaurimento o per
l’acquisita coscienza della sua insensatezza.
Ma può anche accadere un fatto simile a quello che talvolta nelle
monarchie porta i principi a capo dell’opposizione. Da ciò
l’opposizione ne esce rafforzata e questo nuovo contrappeso
porta ad essa elementi che altrimenti ne sarebbero rimasti fuori.
Ma al tempo stesso l’opposizione viene contenuta in questo
modo entro certi limiti. Nel momento in cui il governo
apparentemente di proposito rinforza l’opposizione, con questo
venirle incontro le spezza le punte”. (ibidem, pp. 100-102).
Le teorie: Carl Schmitt
Per Schmitt, situazioni di conflitto (effettive o potenziali) si hanno quando si
costituisce un’identità collettiva. “Un’identità collettiva si costituisce: a)
quando si danno altri da essa che la riconoscono; b) quando coloro che non la
riconoscono vengono trattati come nemici, e contro di essi non vale più
l’interdizione di uccidere; c) quando a loro volta gli individui che si
riconoscono appartenere a quel soggetto collettivo sono disposti a morire, se
ciò è necessario perché quel soggetto venga riconosciuto” (ibidem, p. 192).
Vediamo, in breve e per passaggi semplificati, il suo ragionamento sul conflitto
politico.
“La specifica distinzione politica alla quale è possibile
ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico e
nemico. Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio,
non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto.
Nella misura in cui non è derivabile da altri criteri, essa
corrisponde, per la politica, ai criteri relativamente autonomi
delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello
e gruppo per l’estetica e così via (…) Il significato della
distinzione di mico e nemico è di indicare l’estremo grado di
intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o
di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e
praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venir
impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche
o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia
moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve
necessariamente presentarsi come concorrente economico e
forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui.
Egli è semplicemente l’altro, lo straniero e basta alla sua essenza
che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente
intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso
estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir
decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante
l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’
(…) Nemico non è il concorrente o l’avversario privato che ci
odia in base a sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme
di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad
una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro
raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il
nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile
raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa
per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in
senso ampio (…) La contrapposizione politica è la più intensa
ed estrema di tutte, e ogni altra contrapposizione concreta è
tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello
del raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico (…)
Che l’essenza dei rapporti politici consista nel riferimento ad
una contrapposizione concreta è reso palese dallo stesso
linguaggio corrente, là dove è andata del tutto perduta la
coscienza del ‘dato estremo’. Ciò risulta quotidianamente in due
fenomeni che devono essere subito messi in luce. In primo
luogo: tutti i concetti, le espressioni e i termini politici hanno un
senso polemico; essi hanno presente una conflittualità concreta,
la cui conseguenza estrema è il raggruppamento in amiconemico e diventano astrazioni vuote e spente se questa
situazione viene meno. Termini come Stato, repubblica, società,
classe, e inoltre: sovranità, Stato di diritto, assolutismo, dittatura,
piano, Stato neutrale o totale e così via sono incomprensibili se
non si sa chi in concreto deve venir colpito, negato e contrastato
attraverso quei termini stessi. Il carattere polemico domina
soprattutto l’impiego linguistico dello stesso termine ‘politico’,
sia che si qualifichi l’avversario come ‘non politico’ (nel senso
di estraneo al mondo, carente sul piano concreto) sia invece che
lo si voglia al contrario denunciare e squalificare come
‘politico’, al fine di sollevare poi sé stessi sopra di lui come ‘non
politici’ (nel senso di puramente concreti, puramente scientifici,
puramente morali, puramente giuridici, puramente estetici,
puramente economici, o sulla base di analoghe purezze
polemiche). In secondo luogo: nell’uso della polemica
quotidiana all’interno dello Stato, ‘politico’ viene oggi spesso
usato nello stesso senso di ‘politico-di partito’; l’inevitabile
‘mancanza di obbiettività’ di tutte le decisioni politiche ch è solo
il riflesso della distinzione amico-nemico immanente ad ogni
comportamento politico, si manifesta nelle forme e negli
orizzonti meschini della conquista dei posti e delle prebende in
base alla politica di partito: la necessità che in tal modo sorge di
una ‘spoliticizzazione’ significa solo il superamento del
‘politico-di partito’, e così via” (C. Schmitt, Il concetto di
‘politico’, in Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna,
1972 (1932), pp. 109-115).
Chi si rifà, anni più tardi, a Carl Schmitt è un altro studioso tedesco: Julien
Freund. Vediamo la ricostruzione del suo pensiero nelle parole di Busino:
“Lo scopo della politica è il raggiungimento della concordia
all’interno e della sicurezza all’esterno. Ora, per imporre
l’ordine all’interno, per difendersi contro i nemici reali e virtuali
all’interno e all’esterno, la politica-potere deve necessariamente
possedere il monopolio della coercizione incondizionata. La
politica presuppone necessariamente: a) la relazione di comando
e di obbedienza; b) la relazione di privato e di pubblico; c) la
relazione di amico e di nemico. La relazione a) è unificatrice.
Comandare significa decidere e fare eseguire gli ordini in
maniera sovrana e assoluta. Poiché la politica non governa tutto
l’uomo (vi sono anche l’economia, la religione, la morale, la
scienza e l’arte), poiché governa una sola parte dell’attività
umana globale – quella del settore pubblico – tutto ciò che non
fa parte della protezione dei membri della collettività è dunque
di pertinenza della relazione b), costituisce in altri termini il
privato. E’ la specificità del privato che salva la libertà e
permette di sfuggire al totalitarismo. La relazione c) sta ad
indicare che c’è politica laddove c’è un nemico. Il caso più
tipico di questa relazione è il conflitto bellico e tutti gli altri tipi
di guerra. Violenza e inimicizia s’implicano reciprocamente. La
politica è il luogo privilegiato dell’abuso del dominio dell’uomo
sull’uomo. Il solo rimedio a queste situazioni di fatto è il
ribaltamento della violenza, la sua sottomissione alla ragione
mercé il diritto. Il conflitto è la rottura d’uno stato giuridico,
positivo o naturale, d’un diritto scritto o non-scritto. Rompendo
le regole e/o le convenzioni stabilite, il conflitto tenta di far
valere un diritto leso o misconosciuto. Al centro stesso del
conflitto c’è dunque un diritto. Per Freund il conflitto è un
affrontamento tra due volontà, individuali o collettive, le quali
manifestano l’una rispetto all’altra intenzioni ostili a causa d’un
diritto. Appunto allo scopo di proteggere o d’ottenere questo
diritto le parti in conflitto tentano di spezzare, eventualmente col
ricorso alla violenza, la resistenza dell’altro. Gli antagonisti non
sono degli avversari, bensì dei nemici; per questa ragione il
conflitto non è mai né un gioco né una disputa. Nelle società
moderne il diritto, per ragioni complesse, assolve sempre meno
le sue funzioni. Perciò le cause dei conflitti sono sempre più
numerose; perciò i conflitti sorgono simultaneamente in settori
fra loto molto diversi e distanti. Regolarmente i fattori esterni
d’ordine economico, sociale, ecc. si sovrappongono ai fattori
interni d’ordine psicologico, morale, ideologico, religioso. A
causa di queste confuse ed inestricabili sovrapposizioni, i
conflitti appaiono fluttuanti, imprecisi, indeterminati, non
suscettibili di specificazioni nette: poche sono le loro forme
specifiche; la loro autoperpetuazione e capacità di metamorfosi
sono invece notevolissime. La maggior parte delle crisi si
trasforma in conflitti; non tutti i conflitti però possono risolversi,
oppure essere superati e regolati mediante norme, convenzioni
ed istituzioni. La simultaneità dei conflitti, l’aumento delle
contraddizioni, delle discordie e delle incompatibilità, il fatto
stesso che la società sia oggi divenuta il punto focale e l’oggetto
stesso del conflitto, obbligano gli attori sociali a gestire la
conflittualità, che è ormai impossibile mediare, a vivere nei
conflitti e coi conflitti” (G. Busino, cit., pp. 773-774).
Le teorie: i funzionalisti
Con la teoria del conflitto come forza motrice del mutamento il filone
sociologico prevalente negli anni ’60, era rappresentato dai teorici
(funzionalisti) dell’equilibrio.
Per Elton Mayo (ad esempio), lo stato normale di una società è rappresentato
dall’equilibrato funzionamento del sistema, nel quale ogni attore (individuale o
collettivo) e ogni istituzione hanno il loro posto e la loro funzione. Il tutto con
modalità armoniche. E’ vero che nelle società industriali i vari gruppi che si
formano hanno frequentemente un atteggiamento ostile l’uno verso l’altro. Ma
ciò deriva da cause patologico-individuali (cioè da turbamenti psicologici di
coloro che fanno esplodere questi conflitti) e, inoltre, può avere conseguenze
negative, e portare quella società, se non riesce a trasformare l’ostilità in
cooperazione, alla rovina (Mayo, 1945).
Un secondo studioso (funzionalista) è Robert K. Merton, per il quale i conflitti
esistono necessariamente, non sono cioè il prodotto di soggetti “malati”, ma
sono “disfunzionali” al buon funzionamento armonico di una società in quanto
diminuiscono l’adattamento del sistema, la sua integrazione. Esistono per
Merton diversi modi o livelli di adattamento, alcuni dei quali sono “funzionali”
e altri “disfunzionali”:
“1. conformità, in quanto riconoscimento dei valori e mezzi
vigenti;
2. innovazione, in quanto rifiuto dei mezzi istituzionali vigenti
come norme culturali condivise, cioè ‘protestantesimo’ in senso
stretto;
3. ritualismo, come mero conformismo esteriore ai mezzi
socialmente prescritti, senza contemporaneo riconoscimento dei
valori vigenti;
4. rifiuto o rinuncia tanto dei valori vigenti quanto dei mezzi
istituzionali da parte di ‘veri e propri estranei’ della società
(visionari, paria, reietti, mendicanti, vagabondi, drogati cronici);
5. ribellione. Ribellione e rinuncia non si distinguono affatto per
la loro posizione rispetto al sistema dei fini e mezzi della
società; la loro unica diversità consiste nel carattere socialmente
attivo della ribellione”.
Si potrebbe affermare, con Merton (1962 ?), che il primo e il terzo favoriscono
l’equilibrio, il secondo l’adattamento del sistema ai mutamenti tecnologici o
sociali, il quarto è curabile (come per Mayo), il quinto implica l’uso legittimo
della forza e della violenza da parte delle istituzioni (politiche, cioè dello stato).
Un terzo autore funzionalista, che però si discosta notevolmente dagli altri, è
Lewis Coser, per il quale, rifacendosi a Simmel, i conflitti sociali possono
essere distruttivi (disfunzionali) ma non sempre lo sono:
“i conflitti possono servire a rimuovere gli elementi disgregatori
di un rapporto ristabilendone così l’unità. Nella misura in cui il
conflitto dissolve la tensione tra gli antagonisti, ha funzioni
stabilizzatrici e diviene così una componente integratrice del
rapporto. L’interdipendenza di gruppi antagonistici e
l’incrociarsi dei conflitti che provocandone la vicendevole
elisione contribuiscono a tenere insieme il sistema sociale,
impediscono di conseguenza che si verifichi una frattura lungo
un’unica linea di divisione” (L. Coser, 1967 (1956), p. 90).
Ovvero, semplificando al massimo: se Tizio è conflittuale con Caio su un dato
tema, e con Sempronio su un altro tema, e Caio è anch’esso conflittuale con
Sempronio, allora i conflitti possono (o sono) integranti. Se Tizio e Caio si
trovano sempre su fronti contrapposti allora si ha disfunzionalità. Ma vi è un
altro elemento che per Coser ‘fa la differenza’ tra i vari conflitti: la maggiore o
minore rigidità della struttura sociale nell’affrontare i conflitti:
“Non tutti i sistemi sociali nei quali gli individui partecipano in
modo non integrale alla vita dei gruppi permettono la libera
espressione di rivendicazioni antagonistiche. Infatti i sistemi
sociali tollerano o istituzionalizzano il conflitto in misura
differente, e non c’è d’altra parte alcuna società nella quale sia
consentita l’espressione immediata di ogni e qualsiasi
rivendicazione antagonistica. Le società dispongono di
meccanismi adatti a incanalare il malcontento e l’ostilità pur
conservando intatto il rapporto nel cui ambito l’antagonismo
sorge. Tali meccanismi di frequente operano per mezzo di
istituzioni che funzionano come valvole di sicurezza, fornendo
oggetti sostitutivi sui quali dirottare i sentimenti di ostilità, come
pure mezzi di ‘abreazione’ di tendenze aggressive (…) Il nostro
esame della distinzione fra tipi di conflitti, e fra tipi di strutture
sociali, ci porta a concludere che il conflitto tende ad essere
antifunzionale per una struttura sociale nella quale la tolleranza
e l’istituzionalizzazione dei fenomeni conflittuali manchino
completamente o siano insufficienti. L’intensità di un conflitto
che minacci di avere effetti disgregatori, e che attacchi la base
consensuale di un sistema sociale è in connessione con la
rigidità della struttura. Ciò che minaccia l’equilibrio di una tale
struttura non è il conflitto in quanto tale, ma la rigidità stessa la
quale fa sì che i sentimenti ostili si accumulino e, scoppiato il
conflitto, confluiscano a contrapporsi lungo una sola linea di
frattura” (L. Coser, cit., pp. 177-178)
Le teorie: Alain Touraine
Complessa e articolata, ma anche complicata, è la teoria dei conflitti di Alain
Touraine (1970 ?). Forse è più semplice e chiara la ricostruzione che ne fa
Busino:
“Nelle società d’oggi le cause e le ragioni dei conflitti sono
generali: esse non risparmiano né la scienza, né la tecnica, né la
vita privata. Certo, il conflitto primario è quello tra capitale e
lavoro, tra governanti e governati; ma, data la compenetrazione
fra Stato e mercato, date le nuove istituzioni ed i processi di
controllo, una serie d’altri scontri, d’altri affrontamenti, d’altri
conflitti agita lo spazio sociale. Il controllo sociale, senza il
quale non è possibile né lo sfruttamento delle risorse naturali, né
l’organizzazione stessa del lavoro, né, infine, l’accumulazioneinvestimento, è contestato globalmente da quegli attori che
rifiutano il campo attuale dei rapporti di forza e mirano a
procurarsi la padronanza delle funzioni sociali in senso lato,
pubbliche e private. I conflitti attraversano tutti i settori della
società; sono quindi multipli, simultanei ed addizionali, si
organizzano e si esprimono contro apparati di dominazione
sempre più integrati. La contestazione è fatta da attori che sono
essenzialmente delle minoranze. Devianza e contestazione
tendono a coincidere. Anzi, Touraine riduce i conflitti a
marginalità e interpreta poi la marginalità in termini di conflitti.,
di lotta per il controllo della direzione del processo storico. Il
conflitto è dappertutto, dal momento che ovunque esistono
contraddizioni incompatibili fra gli orientamenti di coloro che
dirigono e quelli di coloro che rifiutano questa direzione. La
società è conflitto, è lotta di classe, affrontamento fra classi
aventi orientamenti radicalmente opposti sugli investimenti, sui
consumi, sulla divisione del prodotto sociale, sull’informazione,
sulla nozione di bene comune, sulla vita quotidiana (…)
Conflitto come creazione del nuovo e come libertà; conflitto
come azione sociale creatrice di senso e di significati; conflitto
come emergenza di nuovi orientamenti normativi attraverso i
quali si costruisce e si costituisce l’esperienza creatrice e
s’afferma la relazione tra l’uomo e le sue opere; conflitto come
generatore di cambiamento e di mutamenti, di status nascenti e
di nuovi valori? Nella sociologia o filosofia sociale di Alain
Touraine il conflitto è tutto questo nello stesso tempo” (G.
Busino, cit., p. 772)
Le teorie: Ralf Dahrendorf
Nel fondare la sua teoria del mutamento sociale (in contrapposizione con i
funzionalisti teorici dell’equilibrio sociale), Dahrendorf sottolinea come
“La grande forza creativa che porta avanti il mutamento è il
conflitto sociale. Può essere sgradevole e conturbante il pensiero
che esiste un conflitto dovunque troviamo vita sociale: ciò
nondimeno è indispensabile per comprendere i problemi sociali
(…) E’ sorprendente e anormale non già la presenza ma
l’assenza di conflitti; e abbiamo buoni motivi di sospetto qundo
troviamo una società o organizzazione sociale che, stando alle
apparenze, non rivela nessun conflitto. Naturalmente, non
dobbiamo assumere che i conflitti siano sempre violenti e
incontrollati” (R. Dahrendorf, 1967, p. 221-222).
Abbiamo qui una prima differenziazione tra tipi di conflitti, sulla quale si
ritornerà più avanti: conflitti non violenti e conflitti violenti.
Poco più avanti, Dahrendorf puntualizza un altro aspetto relativo alla presenza
di conflitti nelle società:
“Può essere considerato empiricamente ovvio che le società non
siano affatto compagini armoniche ed equilibrate, ma rivelino
sempre anche contrasti tra gruppi, valori ed aspettative
inconciliabili. Il conflitto appare un dato sociale universale,
forse anzi è addirittura un elemento indispensabile di ogni vita
sociale” (ibidem, p. 227)
Il punto da chiarire non è dunque se esistono i conflitti, ma quali sono le
cause strutturali che fanno sì che i conflitti (sociali) siano dei fenomeni
permanenti.
Dahrendorf espone così la sua tesi:
“La mia tesi è che il compito permanente, il significato e la
conseguenza del conflitto sociale consistono nel mantenere e
stimolare il mutamento di intere società e delle loro parti. Se si
vuole, si potrebbe definire tutto ciò come la ‘funzione’ del
conflitto sociale. Ma allora il concetto della funzione viene usato
in un senso del tutto neutrale, vale a dire senza nessun
riferimento e un ‘sistema’ rappresentato come equilibrato (…) I
conflitti divengono comprensibili nelle loro ripercussioni e nel
loro significato soltanto se li rapportiamo al processo storico
delle società umane. Come fattore nel processo onnipresente del
mutamento sociale, i conflitti sono profondamente necessari. Là
dove essi mancano, e anche dove vengono soffocati o
apparentemente risolti, il mutamento viene rallentato ed
arrestato. Là dove i conflitti sono riconosciuti e regolati, il
processo del mutamento viene conservato come sviluppo
graduale. Ma nei conflitti sociali risiede sempre una notevole
forza creatrice di società. Proprio perché vanno al di là delle
condizioni ogni volta esistenti, i conflitti sono un elemento
vitale della società, come del resto il conflitto in generale è un
elemento della vita intera. Non è questa una tesi nuova. Marx e
Sorel, proprio come prima di essi Kant ed Hegel e dopo di essi
molti sociologi di tutti i paesi, fino ad Aron, Gluckman e Mills,
hanno riconosciuto la fecondità dei conflitti sociali e individuato
il loro riferimento al processo storico” (ibidem, p. 238).
Circa le cause dei conflitti sociali, Dahrendorf sottolinea che:
“L’esplosività di ruoli sociali contenenti aspettative
contradditore, l’inconciliabilità delle norme vigenti, le
differenze regionali e religiose, il sistema della disuguaglianza
sociale e la barriera universale tra dominanti e dominati sono
tutti elementi della struttura sociale che conducono di necessità a
conflitti. Ma da tali conflitti promanano sempre energici impulsi
sul ritmo, la radicalità e la direzione del mutamento sociale”.
(ibidem, p. 239).
Il contrasto con i funzionalisti non potrebbe essere più netto. E, infatti,
Dahrendorf prima di esporre la sua teoria del conflitto, presenta i punti
fondamentali della teoria del consenso. In questo modo:
“La teoria del consenso, dell’integrazione sociale, che domina
largamente la teoria sociologica funzionale, nella sua forma pura
poggia sulle quattro ipotesi seguenti circa l’essenza delle società
umane:
1)
Ogni società è una compagine (‘relativamente’) stabile e
duratura di elementi (ipotesi della stabilità).
2)
Ogni società è una compagine bene equilibrata di
elementi (ipotesi dell’equilibrio).
3)
Ogni elemento di una società ha una funzione, cioè
fornisce un contributo al suo funzionamento (ipotesi della
funzionalità).
4)
Ogni società si conserva grazie al consenso di tutti i suoi
membri su determinati valori comuni (ipotesi del consenso).
Contro tale orientamento, è pensabile una teoria della
coercizione dell’integrazione sociale che parta da ipotesi diverse
e magari opposte sulle società umane. Con una formulazione
altrettanto approssimativa, si possono delineare queste ipotesi
come segue:
1)
Ogni società e ognuno dei suoi elementi sono soggetti in
ogni periodo ad un processo di mutamento (ipotesi della
storicità).
2)
Ogni società è una compagine in sé contraddittoria ed
esplosiva di elementi (ipotesi dell’esplosività).
3)
Ogni elemento di una società fornisce un contributo al
suo mutamento (ipotesi della disfunzionalità o produttività).
4)
Ogni società si conserva mediante la coercizione
esercitata da alcuni suoi membri su altri membri (ipotesi della
costrizione).” (ibidem, pp. 256-257).
A questo punto si tratta di passare alla parte costruttiva del discorso e, quindi, a
precisare come arrivare a una teoria generale del conflitto:
“Una teoria generale del conflitto sociale dovrebbe rispondere ai
seguenti quesiti:
1)
Che cosa si deve intendere in particolare per conflitto
sociale, e quali tipi di conflitti possiamo distinguere nelle società
storiche?
2)
Con quale immagine della società i conflitti si rivelano
all’intervento razionalizzatore della teoria scientifica?
3)
Come possono essere determinate le situazioni strutturali
di partenza di dati tipi di conflitto sociale?
4)
In quale modo i conflitti sociali si sviluppano sullo
sfondo di determinate relazioni sociali di struttura? Questo è il
problema della formazione dei gruppi conflittuali e delle loro
norme e, più in generale, della manifestazione dei conflitti
sociali.
5)
Quali sono le dimensioni della variabilità di dati tipi di
conflitto sociale, e a quali condizioni le forme del conflitto
variano in queste dimensioni? La risposta consente di
comprendere la crescente e decrescente intensità e violenza dei
conflitti sociali e quindi di determinare i punti in cui, almeno in
linea di principio, sembra possibile intervenire per regolarli.
6)
In quale modo si possono regolare i conflitti sociali? ”.
(ibidem, pp. 247-248).
In chiusura 1: le società liberali e le società totalitarie di fronte al
conflitto
“Che la classe dominante delle società totalitarie non veda
affatto di buon occhio i conflitti sociali è comprensibile. Ogni
dissidio interno minaccia la sua posizione di potere e viene
perciò represso. Ma anche le società liberali di oggi non amano
più il conflitto. Ciò è dimostrato già dallo stesso cambiamento di
significato del termine ‘liberale’. Nell’era del primo capitalismo,
questo termine indicava il riconoscimento dell’esistenza di
interessi contrastanti nella società, mentre oggi anche i ‘liberali’
tollerano entro limiti assai ridotti le divergenze di opinione. Nel
mondo attuale eterodiretto, la lotta per realizzare i propri
interessi è considerata volgare. Nel conflitto, parecchi vedono
perciò di preferenza non la propria realtà, ma il male altrui. In
questo rifiuto dei conflitti sociali si cela quindi un doppio, fatale
errore: chi considera il conflitto una malattia, misconosce del
tutto la peculiarità delle società storiche; chi lo attribuisce in
primo luogo ‘agli altri’, rivelando così di ritenere possibili
società senza conflitti, consegna la realtà e la sua analisi a
fantasticherie utopistiche. Ogni società ‘sana’, sicura di sé e
dinamica conosce e ammette conflitti nella propria struttura;
infatti la loro negazione ha conseguenze altrettanto gravi per la
società quanto ne ha per il singolo la rimozione dei conflitti
interiori: non chi parla di conflitto ma chi cerca di tacerlo corre
il pericolo di perdere così la propria sicurezza”. (R. Dahrendorf,
Uscire dall’utopia, il Mulino, Bologna, 1971 (1967), p. 245).
Lo stesso Pizzorno tratta del problema del ruolo del conflitto nella concezione
liberale dello stato.
“La formazione di vaste unità statali centralizzate e l’erodersi
delle identità e distinzioni territoriali tradizionali comportano un
attenuarsi dei sentimenti di appartenenza collettiva. L’identià
nazionale, che può essere intesa durante i momenti di
formazione rivoluzionaria dello stato e durante i confronti col
nemico, è sostenuta, nella quotidianità, da una ritualità troppo
intermittente, poco intensa, facilmente disertabile, insufficiente
quindi a soddisfare bisogni più circoscritti e continui di
riconoscimento di identità e di costituzione di solidarietà.
Proprio nel conflitto tra parti politiche durare – che i fondatori
delle repubbliche democratiche avevano giudicato
negativamente – sembrano invece ricostituirsi possibilità di
riconoscimenti forti, quotidianamente ripetuti e quindi forme di
solidarietà attiva che pur non essere i limiti costituzionali della
solidarietà collettiva più ampia. Sembrerebbe quasi di poter
suggerire che per capire il meccanismo dei rapporti tra individuo
e collettività nelle società liberali, a quello che si rappresenta
come il paradosso dei ‘visi privati, pubbliche virtù’ generato
dalla concorrenza sul mercato, andrebbe aggiunto il paradosso
degli ‘odi privati, pubblica amistade’ generato dalla
competizione tra le parti politiche. Non quindi l’allargamento
delle basi della rappresentanza, bensì la risposta positiva al
bisogno di ricostituire solidarietà forti e vedere riconosciute le
corrispondenti identità collettive, sarebbe alla base della
dialettica associativo-competitiva nella concezione liberale dello
stato” (A. Pizzorno, cit., pp. 193-194).
In chiusura 2: La politica e i conflitti
In gran parte sulla scia di Carl Schmitt, netto è il pensiero di Mario Tronti sul
rapporto tra politica e conflitto:
“La grande politica è questa: organizzare il conflitto senza
scatenare la guerra. La piccola politica è quella: per amore di
pace, annullare, comprimere, mascherare i conflitti. La piccola
politica rende alla fine inutile, rende superflua, la politica. Senza
conflitto, niente politica” (M. Tronti, La politica al tramonto,
Einaudi, Torino, 1998, p. 47).
Più recentemente, Chantal Mouffe ha sostenuto una tesi analoga, affermando
che “le questioni squisitamente politiche comportano sempre decisioni che ci
impongono di scegliere tra alternative in conflitto” (C. Mouffe, Sul politico.
Democrazia e rappresentazione dei conflitti, Bruno Mondadori, Milano, 2007
(2005), p. 11). Ovvero: negare il carattere ineliminabile dell’antagonismo in
politica, nelle scelte, nelle valutazioni politiche, significa semplicemente
negare la politica. Significa negare la natura pluralistica delle società, negare il
pluralismo dei valori, delle prospettive: è impossibile pensare pluralismo senza
conflitto.
“Si può ritenere che la distinzione amico/nemico (di Carl
Schmitt) sia solo una delle possibili forme di espressione della
dimensione antagonistica costitutiva del politico. Pur
ammettendo che la possibilità dell’antagonismo è sempre
presente, possiamo anche immaginare altre modalità politiche di
costruzione della demarcazione noi/loro. Se seguiamo questa
strada, ci renderemo conto che per una politica democratica la
sfida consiste nel cercare di mantenere entro certi argini
l’emergere dell’antagonismo, istituendo in un modo diverso il
rapporto noi/loro. Da queste riflessioni possiamo trarre una
prima conclusione teorica. Possiamo affermare che la
distinzione noi/loro, che è la condizione perché si possa formare
un’identità politica, può sempre diventare il luogo
dell’antagonismo. Poiché tutte le forme di identità politica
implicano una distinzione noi/loro, ne consegue che la
possibilità che emerga l’antagonismo è ineliminabile. E’ perciò
un’illusione credere nell’avvento di una società dalla quale sia
stato sradicato l’antagonismo (…) Uno dei compiti principali
della politica democratica consiste nel disinnescare il potenziale
antagonismo insito nei rapporti sociali. Se assumiamo che non
lo si possa fare prescindendo dal rapporto noi/loro, ma solo
strutturandolo in un modo diverso, allora si tratta di capire come
si potrebbe configurare una forma ‘addomesticata’ di
antagonismo, quale forma di rapporto noi/loro implicherebbe.
Per essere accettato come legittimo, il conflitto deve assumere
una forma che non distrugga l’associazione politica. Ciò
significa che deve esistere tra le parti in lotta qualche genere di
vincolo comune, in modo che gli oppositori non vengano trattati
cone nemici da annientare in quanto fautori di posizioni
illegittime, che è esattamente quello che accade nel rapporto
antagonistico amico/nemico. In ogni caso, gli oppositori non
possono essere visti come meri avversari i cui interessi possono
essere trattati mediante un negoziato o composti attraverso la
deliberazione, perché in questo caso l’elemento antagonistico
sarebbe stato semplicemente eliminato. Se vogliamo riconoscere
da un lato il permanere della dimensione antagonistica del
conflitto, e dall’altro ammettere la possibilità del suo
‘addomesticamento’, dobbiamo prospettare un terzo tipo di
relazione. Mentre l’antagonismo è una relazione noi/loro nella
quale le due parti sono nemici che non condividono nessun
terreno comune, l’agonismo è una relazione noi/loro nella quale
le parti in conflitto, pur consapevoli che non esiste una soluzione
razionale al loro conflitto, nondimeno riconoscono la legittimità
dei loro oppositori. Ciò significa che, benché in conflitto, si
considerano come appartenenti alla medesima associazione
politica, come parti che condividono uno spazio simbolico
comune entro il quale ha luogo il conflitto. Possiamo affermare
che il compito della democrazia è di trasformare l’antagonismo
in agonismo (…) La posta in gioco nella lotta agonistica è la
configurazione stessa dei rapporti di potere intorno a cui una
certa società è strutturata: è una lotta tra progetti egemonici che
si contrappongono e che non possono essere conciliati
razionalmente(…) L’approccio agonistico nega la possibilità di
una politica democratica senza lotta fra avversari e critica coloro
che, ignorando la dimensione del ‘politico’, riducono la politica
a una serie di procedure neutrali e di presunte mosse tecniche”
(C. Mouffe, cit., pp. 18, 22-24, 38).
III.- Tipologie dei conflitti
Innumerevoli sono le tipologie elaborate dai vari studiosi: a seconda delle
variabili prese in considerazione possiamo avere diverse tipologie o
classificazioni. In premessa: ogni tipologia costituisce una ‘semplificazione’
della realtà, e che, in ogni caso, i diversi conflitti ‘reali’ possono venire
incasellati solo privilegiando un elemento, una componente di essi anche se
altre componenti risultano presenti (in forma attenuata certo, ma pur tuttavia
presenti).
Una prima tipologia è stata fondata sul ‘perché’, inteso come scopo, dei
conflitti:
Conflitti di riconoscimento. “in essi una parte sociale ci appare
entrare in conflitto essenzialmente allo scopo di imporre il
riconoscimento di una sua identità distinta. Ci potrà essere
consapevolezza più o meno chiara che questo sia ciò che si
vuole. Sarà un conflitto che esclude, fino a che non sia
concluso, ogni negoziato, o lo ammette solo se è strumentale
alla conduzione della lotta. Per definizione l’identità non è
negoziabile. Del resto, se gli altri accettano di negoziare con
noi, già in qualche modo ci riconoscono, è già una vittoria.
L’osservazione che precede permette di distinguere, entro tali
ipi di conflitto, quelli in cui l’identità che si mira a fare
riconoscere poggia su riferimenti che sono distinguibili prima e
indipendentemente dal conflitto stesso: nazionali, etnici,
linguistici, culturali in genere. E quelli, invece, in cui la
comunanza fra gli appartenenti a un’unità collettiva è nata dal
conflitto stesso, o, in genere, nell’azione collettiva in vista di un
obiettivo.. In più di un caso, infatti, è attraverso il conflitto
stesso che si mira a costituire un’identità collettiva. Può essere
perché il movimento è ancora agli inizi e vuol farsi
(ri)conoscere; o perché l’obiettivo è stato conseguito, ma si vuol
capitalizzare la solidarietà formatasi nella lotta, e quindi far
durare l’unità collettiva, e farne quindi riconoscere l’identità in
quanto tale; oppure perché il movimento verso un un obiettivo
si sta indebolendo e rischia di estinguersi, e la solidarietà va
rinforzata con lotte fini a se stesse, cioè miranti a confermare e
ravvivare il riconoscimento dell’identità. Dev’essere infatti
chiaro che il riconoscimento di un’identità collettiva da parte
degli esterni a essa serve a rafforzare il riconoscimento
reciproco che gli appartenenti danno gli uni agli altri di essere
portatori della stessa identità. L’evocazione, da parte di un
governo, di minacce esterne, più o meno artificialmente
esagerate, risponde alla stessa logica” (Pizzorno, cit., pp. 196197).
Conflitti d’interesse. “In questi le parti appaiono mosse da
obiettivi determinati comportanti benefici per i loro membri.
Affinché tale tipo di conflitto sia possibile occorre ovviamente
che le parti valorizzino gli stessi obiettivi. In questo caso vorrà
dire che esse appartengono al medesimo sistema di relazioni
entro il quale quegli obiettivi ricevono valore. Il conflitto si
potrà quindi anche chiamare conflitto distributivo, e vittoria e
sconfitta consisteranno essenzialmente in conquista o perdita di
posizioni di potere relativo all’interno di un sistema. In questi
conflitti potranno star di fronte o parti che si formano ad hoc,
cioè in vista di un obiettivo specifico, e che si dissolvono una
volta che i loro membri hanno ottenuto i benefici attesi, oppure
ne hanno perso la speranza. O invece parti che hanno durata
propria. Conflitti di questo tipo, infine, faranno parte, almeno
potenzialmente di un universo pluralistico. Essi, cioè,non
saranno esclusivi, non coinvolgeranno globalmente la persona,
chi è parte in uno potrà essere anche parte in altri. I conflitti,
come le appartenenze, si intersecheranno” (ibidem, p. 198).
Conflitti ideologici. “Si tratta di una situazione conflittuale nella
quale una, o entrambe le parti si presentano, per così dire, con
presunzione universalistica. Si proclama, cioè, di avere di mira
una situazione in cui tutti gli appartenenti al genere umano – in
quanto persone spogliate dei loro ruoli e interessi singoli –
possano, conoscendola nella sua verità, desiderare di trovarsi.
Viene proposto un conflitto che è globalizzante, cioè
coinvolgente la persona nella sua interezza, e in cui chi
partecipa è convinto di essere portatore di una verità che deve
valere per tutti. Da qui il tratto proprio di tale conflitto, il
proselitismo. La volontà di proselitismo diventa connaturata con
l’esser parte in un conflitto, quando questa parte è guidata da
una teoria di come trasformare la realtà, e si fonda su tale teoria
per convertire chiunque sia possibile convertire” (ivi).
L’altra tipologia che vorrei qui ricordare è quella di Dahrendorf. Si tratta di una
serie di classificazioni dall’insieme delle quali si possono ricavare più tipologie
a seconda dell’intento dell’analista. Per Dahrendorf, i conflitti possono essere
distinti in base a:
- la loro evidenza, cioè in base al fatto che siano: solo latenti o
già manifesti;
- l’estensione: tra singoli ruoli sociali, all’interno di singoli gruppi, tra
gruppi settoriali regionali o istituzionali, tra gruppi che abbracciano
l’intera società, tra entità nazionali
- la gerarchia degli attori: tra pari rango, tra superiori e inferiori, tra una
parte e la totalità
- la dimensione: intesa come grado di intensità o di partecipazione con
una variazione da totalizzante a parziale; e come forme e grado di violenza
(dalla discussione fino alla guerra)
- la soluzione: soppressione, risoluzione, regolazione.
Vediamo in particolare gli ultimi due elementi distintivi: la dimensione e la
soluzione dei conflitti sociali.
In merito al grado di intensità e alle forme della violenza, Dahrendorf chiarisce
che:
“La dimensione della violenza si riferisce alle forme in
cui si manifestano i conflitti sociali. Vogliamo cioè alludere ai
mezzi scelti dai partiti in lotta per fare valere i propri interessi.
Delineiamo qui soltanto alcuni punti della scala della violenza
che è possibile costruire. La guerra, la guerra civile, lo scontro
generalmente armato con pericolo di vita per i partecipanti,
indicano presumibilmente uno degli estremi; la discussione, il
dibattito e la trattativa condotta pubblicamente con ogni
correttezza da parte dei partecipanti, caratterizzano l’altro
estremo. Nel mezzo troviamo un gran numero di forme più o
meno violente di scontri tra gruppi: lo sciopero, la competizione,
il dibattito aspro, il litigio, il tentativo di ingannarsi
reciprocamente, la minaccia, l’ultimatum etc. I rapporti
internazionali del dopoguerra offrono a sufficienza esempi di
differenziazione della violenza dei conflitti, dallo ‘spirito di
Ginevra’ alla ‘guerra fredda’ per Berlino fino alla ‘guerra calda’
in Corea. La dimensione dell’intensità si riferisce al grado di
partecipazione degli interessati a determinati conflitti.
L’intensità di un conflitto è grande se, per i partecipanti, molto
dipende dal suo esito, cioè se i costi della sconfitta sono alti.
Quanto maggiore importanza i partecipanti annettono ad uno
scontro, tanto più esso è intenso. Anche qui, alcuni esempi
possono meglio illustrare il concetto: lo scontro per la
presidenza di una società di calcio può rivelarsi vivace e perfino
violento; ma, di regola, per i partecipanti esso non ha la stessa
importanza del conflitto tra imprenditori e sindacati (dal cui
risultato dipende il livello del salario) o addirittura di quello tra
‘oriente’ e ‘occidente’ (dal cui risultato dipendono le possibilità
di sopravvivenza). L’intensità indica pertanto sempre l’energia
investita dai partecipanti, cioè il peso sociale di determinati
conflitti. Ora, quindi, ci si deve chiedere: a quali condizioni i
conflitti sociali acquistano una forma più o meno violenta, più o
meno intensa? Quali fattori sono in grado di influenzare la
violenza e l’intensità dei conflitti? Su che cosa si basa dunque la
variabilità dei conflitti sociali rispetto alle dimensioni qui
distinte?
Un primo gruppo di fattori risulta dalle condizioni di
organizzazione dei gruppi conflittuali e altresì dalla
manifestazione di conflitti. Il pieno manifestarsi dei conflitti (è)
già sempre un passo avanti per l’attenuazione delle loro forme.
Molti scontri raggiungono poi il massimo d’intensità e violenza
quando una delle parti interessate è capace di organizzarsi, cioè
quando esistono le condizioni sociali e tecniche, ma tale
organizzazione le è impedita, cioè quando mancano le
condizioni politiche. Se ne possono fornire esempi storici tanto
nel campo dei rapporti internazionali (guerra partigiana e di
guerriglia) quanto in quello di conflitti interni alla società
(scontri industriali prima del riconoscimento legale dei
sindacati). Il più pericoloso è sempre il conflitto non del tutto
individuabile, visibile solo a metà, che si esprime poi in
esplosioni rivoluzionarie o quasi rivoluzionarie.
Quanto all’intensità dei conflitti, più importante ancora sembra
essere l’insieme dei fattori della mobilità sociale. Nella misura
in cui la mobilità – e soprattutto tra le parti in lotta – è possibile,
i conflitti perdono d’intensità, e viceversa. I conflitti nazionali
acquistano d’intensità nella misura in cui le frontiere tra le
nazioni vengono sbarrate (e, all’inverso, i viaggi mitigano
l’intensità dei conflitti nazionali). Si può forse sostenere la tesi
che i conflitti basati su posizioni di età e di sesso saranno
sempre più intensi di quelli basati su posizioni occupazionali,
oppure che gli scontri a carattere confessionale sono di regola
più intensi di quelli a carattere regionale.
Uno dei più importanti gruppi di fattori che possono influenzare
l’intensità dei conflitti sta nella dimensione di ciò che si
potrebbe impropriamente definire pluralismo sociale, e più
esattamente sovrapposizione, oppure divisione di campi sociali
di struttura. Ogni società conosce un gran numero di conflitti
sociali. Questi – ad esempio quello tra confessioni, tra regioni,
tra governanti e governati - possono presentarsi separatamente,
cosicché le parti di ciascun conflitto singolo compaiono in
quanto tali soltanto in esso; ma possono anche sovrapporsi,
cosicché gli stessi fronti ricompaiono in conflitti diversi, vale a
dire la confessione A, la regione Q, e i gruppi dominanti si
fondono in un unico grande “partito”. In ogni società esiste una
pluralità di ordinamenti istituzionali: stato ed economia, diritto
ed esercito, scuola e chiesa. Questi ordinamenti possono del pari
essere relativamente indipendenti tra loro, cosicché i gruppi
dirigenti politici, economici, giuridici, militari, scolastici e
religiosi hanno ciascuno una propria identità; ma anche qui è
tuttavia possibile una certa sovrapposizione, grazie alla quale
uno stesso gruppo dà il tono in tutti i campi. Dunque, nella
misura in cui questi e analoghi fenomeni di sovrapposizione si
presentano in una società, cresce l’intensità dei conflitti. Con la
sovrapposizione di differenti settori sociali, ciascun conflitto
equivale a una lotta per il tutto; chi voglia attuare qui
un’esigenza in campo economico dovrà modificare nel
contempo i rapporti politici di autorità.
A questi tre fattori bisogna poi aggiungerne un altro, che si
riferisce alla violenza dei conflitti sociali: quello della
regolazione dei conflitti”. (R. Dahrendorf, cit., pp. 267-270).
Infine, in merito alle forme di “controllo” dei conflitti sociali, Dahrendorf
sottolinea come si abbiano, storicamente, tre posizioni:
1) La soppressione del conflitto. “La soppressione è un modo
non soltanto immorale ma inefficace di trattare i conflitti sociali.
Nella misura in cui si cerca di sopprimere i conflitti sociali, si
accresce la loro virulenza potenziale, rendendo così necessaria
una repressione ancor più violenta. Il metodo della soppressione
non può dominare i conflitti sociali.
2) Risoluzione del conflitto. Per “risoluzione” dei conflitti si
deve intendere qui ogni tentativo di eliminare i contrasti alle
radici. Ma anche questo tentativo è sempre fallito.
3) Regolazione dei conflitti. E’ il mezzo decisivo per
attenuare la violenza di quasi tutti i tipi di conflitti. Con la
regolazione i conflitti invero non scompaiono; neppure
divengono necessariamente meno intensi; ma nella misura in cui
si riesce a regolarli, diventano controllabili e la loro forza
creativa viene posta al servizio di un graduale sviluppo delle
strutture sociali. La regolazione efficace dei conflitti ha
comunque una serie di presupposti. Tra di essi vi sono:
a.
Il fatto che conflitti in generale come pure singoli
contrasti, vengano riconosciuti inevitabili, anzi legittimi e
opportuni da tutti i partecipanti;
b.
Che qualsiasi intervento nei conflitti si limita alla
regolazione delle sue forme e rinunzia al vano tentativo di
eliminarne le cause;
c.
Quando determinati scontri vengono canalizzati
secondo procedure obbligate;
d.
Che i partecipanti si accordino su determinate ‘regole
del gioco’, secondo le quali intendono decidere i loro conflitti.”
(R. Dahrendorf, 1971 (1967), pp. 271-273).
IV.- I conflitti violenti
Che cosa si intende per violenza: alcune definizioni
Secondo i vari studiosi che si sono occupati, nelle rispettive discipline, di
violenza, ci troviamo di fronte a un fenomeno e a un concetto estremamente
ambiguo e anch’esso da “storicizzare”, ovvero da inserire nel contesto storico
(o se si preferisce: nel periodo storico) al quale si applica. Vediamo
innanzitutto alcune definizioni.
“Come molte cose, la violenza è fondamentalmente ambigua in
tutti i suoi aspetti, e implica tendenze funzionali e disfunzionali,
suscettibili di risultati positivi e negativi. Dal punto di vista di
chi la commette, qualsiasi violenza è una reazione, una fuga; è il
desiderio di aprirsi combattendo la strada per uscire dalla
trappola. La violenza non è solamente l’estrema risorsa
disponibile nello spettro della contrattazione, ma è anche una
potenzialità o una minaccia che di fatto cambia la stessa
equazione di contrattazione. In un certo senso essa rappresenta
la prova ultima, senza appello, della vitalità dei valori e delle
forme di agire tradizionali. Le definizioni sono gli elementi
primi del ragionamento e della discussione. Esse contengono
sempre elementi di arbitrio e di tautologia. Per di più, in virtù di
un processo di limitazione e di selezione, le definizioni
predeterminano frequentemente la formulazione dei problemi e
quindi ne contengono in nuce tutta la discussione e le sue
conclusioni”. (H.L. Nieburg, La violenza politica, Guida,
Napoli, 1974 (1969), pp. 11-13).
“Chiameremo violenza ogni costrizione di natura fisica o
psichica che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la
sofferenza o la morte di un essere animato; o ancora qualunque
atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario
l’espropriazione dell’altro, il danno o la distruzione di oggetti
inanimati. Alcune violenze si presentano come legittime: sono
quelle della legge e delle pene communate a coloro che la
violano; a seconda della loro natura e diversità, queste violenze
pongono la questione delle condizioni di legittimità della
ribellione e della insubordinazione” (F. Heritier, Prefazione a
Sulla violenza, Meltemi, Roma, 1997 (1996), p. 13).
La violenza politica “contiene la distinzione tra forza autorizzata
e forza non autorizzata, la prima come violenza perpetrata
dall’autorità, la seconda come espressione della sfida rivolta
all’autorità. La forza autorizzata consiste in violenza innovativa,
legiferante, e può essere fondativi, quando per esempio
stabilisce nuobi sistemi e designa nuove autorità. Ma può anche
presentarsi come violenza di pura conservazione, quando
protegge la stabilità dei sistemi e rafforza l’autorità costituita.
Entrambi questi tipi di violenza verranno definiti violenza
istituzionale (o violenza dall’alto). Userò il termine violenza
antistituzionale (o violenza dal basso) per designare la forza non
autorizzata rivolta contro l’autorità” (V. Ruggiero, La violenza
politica, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. V).
Alcune teorie sulla violenza
“Una prima corrente di pensiero è centrata sulla tematica
dell’ordine e della pacificazione sociale, sulla necessità di
garantire che la libertà individuale non sfoci in abusi e in forme
di violenza negative per la collettività, sulla fiducia o meno che
questo sia possibile senza introdurre nuove forme di violenza
legittimata e istituzionalizzata. Una seconda corrente orienta i
suoi interessi allo studio del legame tra il concetto di violenza e
quello di potere, rappresentando una visione forse più
pessimistica riguardo al ruolo della violenza nelle relazioni
umane e introducendo continuamente il sospetto che questa si
nasconda tra le pieghe delle interazioni sociali. Una terza
corrente di pensiero è legata soprattutto alle teorie
contemporanee centrate sull’etica, il rispetto dell’alterità e della
differenza come alternativa alla violenza, vicine quindi a una
prospettiva di rispetto dell’Altro nell’ambito della relazione,
specie di quella tra identità collettive differenti” (P. Rebughini,
cit., p. 9).
Ancora una volta si parte da Thomas Hobbes, per il quale:
“La violenza è una risorsa importante a disposizione degli esseri
umani nello stato di natura, uno stato dove ci si imbatte nelle ‘tre
principali cause di contesa’, competizione, diffidenza e gloria,
che motivano rispettivamente la ricerca di guadagno, sicurezza e
reputazione. La prospettiva del guadagno, secondo Hobbes,
spinge a impadronirsi delle mogli, dei bambini e del bestiame
degli altri; la diffidenza impone di difendere le proprie cose dal
prossimo; la reputazione, infine, scatena battaglie innescate da
un nulla, una parola, un sorriso, un’opinione diversa o qualsiasi
altro segnale irrispettoso diretto alla persona o a individui
contigui, agli amici, al proprio paese o alla propria professione
(V. Ruggiero, cit., pp. 5-6).
Per Bentham si tratta innanzitutto di distinguere tra violenza e violenza, ovvero è
necessario partire dai “reati” per arrivare ai diversi tipi di violenza:
“Nella sua suddivisione dei reati Bentham chiarisce come la
violenza politica vada classificata: vi sono crimini privati,
semipubblici, autocentrati e pubblici. I primi offendono, in
prima istanza, persone specifiche diverse da chi li commette.
Abbiamo un esempio del secondo tipo quando vi sono persone
che vengono danneggiate dal reato, ma che non sono
singolarmente individuabili; i crimini sono perciò semipubblici
quando colpiscono un vicinato o una comunità limitata. I crimini
autocentrati sono, in primo luogo, di detrimento a chi li
commette; infine, i crimini pubblici minacciano una
‘moltitudine indefinita’, una schiera di individui che
compongono una comunità, anche se nessuno di loro può dirsi
maggiormente colpito rispetto ad altri. Questi ultimi possono
anche definirsi ‘crimini contro lo Stato’. Bentham riesce a
estromettere la violenza di Stato da questa sua analisi, in
maniera da associare la violenza politica esclusivamente ai
‘crimini contro i governi’. Mentre Beccaria cerca di persuadere
le autorità a temperare il grado, o perlomeno la visibilità, della
violenza autorizzata. Bentham sembra suggerire che tale
violenza vada nascosta e allo stesso tempo che i criminali
vengano resi più visibili. Da qui la sua idea del Panopticon” (V.
Ruggiero, cit., p. 17).
Un terzo autore da prendere in considerazione è Durkheim che introduce il
problema del rapporto tra forza e diritto:
“la religione, il nazionalismo e le convinzioni politiche
particolarmente ferree generano violenza e omicidio. Più si ama
lo Stato meno si amano gli esseri umani. Certo, Durkheim
sottolinea anche che la forza è compagna inseparabile della
legge, la seconda avendo incorporato lentamente la prima e
originariamente, secondo questa ipotesi, la legge non è altro che
forza capace di limitarsi per il proprio stesso interesse. Nel
mondo fisico delle società arcaiche, allorché due forze
collidono, il conflitto si conclude soltanto quando la parte più
debole viene distrutta. ‘Ma non ci è voluto molto per rendersi
conto che era più economico rinunciare alla completa
distruzione dell’avversario’ (Durkheim, 1993: 85). Nelle società
moderne, al contrario, la forza è solo l’ausiliaria, la serva del
diritto; può accadere tuttavia che l’uso della forza, anziché
sottomettersi ai limiti imposti dal diritto, distrugga quest’ultimo
e ne crei uno totalmente nuovo: ‘Questo è quanto accade nei
colpi di stato o nelle rivoluzioni; e questo uso della forza non
può essere condannato sistematicamente, in nome di principi
astratti. La legge non è qualcosa di sacro in se stessa; è solo un
mezzo per raggiungere un fine. Ha valore solo se assolve alla
propria funzione, cioè se assicura la vita della società. Cosa
succede altrimenti? Diventa quasi naturale che la forza
intervenga e rioccupi il posto che occupava in passato’ (ivi: 8586)” (V. Ruggiero, cit., pp. 70-71).
Discorso più complesso e più ampio è quello svolto da Norbert Elias per il
quale la violenza è un sintomo (effetto? causa?) della crisi del processo di
civilizzazione:
“Il processo di civilizzazione consiste, da un lato, nel
progressivo emergere di uno Stato nazionale capace di garantire
l’ordine interno e il monopolio della violenza e, dall’altro,
nell’affermarsi delle ‘buone maniere’, ovvero di una generale
attenuazione della violenza istintiva, di un progressivo
nascondersi del lato oscuro dell’uomo. Elias si ricollega agli
autori classici per identificare la violenza nel risultato degli
istinti e delle passioni: civilizzazione e razionalizzazione
portano alla capacità di controllare le reazioni emozionali,
pulsionali e affettive, diminuendo le possibilità dell’esercizio
della violenza individuale, mentre la creazione di uno Stato
sovrano impedisce il verificarsi di una violenza anarchica di tutti
contro tutti. La socializzazione alle buone maniere è dunque il
principale antidoto alla violenza e garanzia per la pacificazione
della società, anche se il progressivo affermarsi della civiltà non
viene spiegato da Elias come un processo evolutivo limpido e
inesorabile, ma al contrario come un movimento costellato di
inversioni e retromarce” (P. Rebughini, cit., pp. 60-61).
Per chiudere questa breve e parzialissima carrellata su alcune analisi della
violenza, vediamo il contributo di Hannah Arendt innanzitutto ricordando che
Arendt “si dichiarò a più riprese nettamente contraria alle giustificazioni della
violenza rivendicativa, avanzate da altri autori suoi contemporanei, come ad
esempio Sartre e Fanon. Per Arendt la violenza, qualunque sia il suo scopo o la
sua giustificazione, segna il limite e la fine della politica” (P. Rebughini, cit., p.
57). Vediamo in modo più approfondito, quanto sosteneva la studiosa.
“Credo che sia piuttosto triste constatare che la nostra
terminologia non fa distinzione fra certe parole chiave come
‘potere’, ‘potenza’, ‘forza’, ‘autorità’ e, infine, ‘violenza’,
ciascuna delle quali si riferisce a fenomeni diversi e distinti.
Dietro la confusione apparente c’è un fermo convincimento alla
luce del quale tutte le distinzioni avrebbero, nel migliore dei
casi, un’importanza relativa. La convinzione che l’aspetto
politico più sostanziale è, ed è sempre stato, la domanda: chi
comanda a chi? Potere, potenza, forza, autorità, violenza non
sono altro che parole per indicare i mezzi attraverso i quali
l’uomo domina sull’uomo. E’ soltanto dopo che si sarà
rinunciato a ridurre gli affari pubblici all’esercizio del dominio
che i dati originali nel campo degli affari umani appariranno o,
piuttosto, riappariranno, nella loro autentica diversità. Questi
dati, nel nostro contesto, possono essere enumerati come segue:
- Potere corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di
agire di concerto. Il potere non è mai proprietà di un individuo;
appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il
gruppo rimane unito. Quando diciamo di qualcuno che è ‘al
potere’, in effetti ci riferiamo al fatto che è stato messo al potere
da un certo numero di persone per agire in loro nome. – Potenza
indica in modo inequivocabile qualcosa al singolare, un’entità
individuale; è una proprietà inerente a un oggetto o a una
persona e appartiene al suo carattere, che può dar prova di sé in
rapporto ad altre cose o persone, ma è sostanzialmente
indipendente da esse. – La forza, che spesso nel linguaggio
quotidiano usiamo come sinonimo di violenza, specialmente se
la violenza serve da strumento di coercizione, dovrebbe essere
riservata, a rigor di termini, per le ‘forze della natura’ o la ‘forza
delle circostanze’ (la force des choses), cioè per indicare
l’energia sprigionata da movimenti fisici o sociali. –
L’autorità, che si riferisce al più inafferrabile di questi
fenomeni e che quindi, in quanto termine, è quello più
frequentemente usato a sproposito, può risiedere nelle persone
– c’è una cosa come l’autorità personale, per esempio nel
rapporto fra genitore e figlio, fra insegnante e allievo – oppure
può risiedere in cariche, come, per esempio, nel Senato romano
(auctoritas in senatu) oppure nelle funzioni gerarchico della
Chiesa (un prete può impartire un’assoluzione valida anche se è
ubriaco). La sua caratteristica specifica è il riconoscimento
indiscusso da parte di coloro cui si chiede di obbedire; non ci
vuole né coercizione né persuasione. – La violenza, infine, si
distingue per il suo carattere strumentale.
Fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato che
gli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sono
creati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale finché,
nell’ultimo stadio del loro sviluppo, possono prendere il suo
posto (…) Bisogna ammettere che si è particolarmente tentati di
pensare al potere in termini di comando e obbedienza, e quindi
di mettere sullo stesso piano il potere e la violenza. Dato che nei
rapporti con l’estero come negli affari interni la violenza appare
come l’ultima risorsa per mantenere intatta la struttura di potere
(di governo) contro singoli sfidanti – il nemico straniero, il
criminale locale -, sembra in effetti che la violenza sia un
prerequisito del potere e il potere nient’altro che una facciata, il
guanto di velluto che o nasconde il pugno di ferro oppure si
rivela come appartenente a una tigre di carta. A un esame più
attento, però, questo concetto perde gran parte della sua
plausibilità (…) Un governo basato esclusivamente sui mezzi di
violenza non è mai esistito. Anche un dittatore totalitario, il cui
principale strumento di violenza è la tortura, ha bisogno di una
base di potere: la polizia segreta e la sua rete di informatori.
Perfino la dominazione più dispotica che conosciamo, il
dominio del padrone sugli schiavi, che erano sempre
numericamente superiori a lui, non si basava su superiori mezzi
di coercizione in quanto tali, ma su una superiore
organizzazione del potere, cioè sulla solidarietà organizzata dei
padroni. Gli uomini soli senza appoggio di altri non hanno mai
potere a sufficienza per usare la violenza con successo. Quindi,
negli affari interni, la violenza funge da ultima risorsa del potere
contro i criminali o i ribelli, cioè contro i singoli individui i
quali, in quanto tali, rifiutano di farsi sopraffare dal consenso
della maggioranza (…) Il potere non ha bisogno di
giustificazione, essendo inerente all’esistenza stessa delle
comunità politiche; quello che invece gli serve è la
legittimazione. Il fatto che comunemente queste due parole
siano trattate come sinonimi non è meno fuorviante e
ingannevole dell’equazione che si fa di solito fra obbedienza e
sostegno. Il potere emerge ogni volta che la gente si unisce e
agisce di concerto, ma deriva la sua legittimazione dal fatto
iniziale di trovarsi assieme piuttosto che da qualche azione che
ne può in seguito derivare. La legittimazione, quando è messa in
discussione, si basa su un appello al passato, mentre la
giustificazione è in rapporto con un fine che sta nel futuro. La
violenza può essere giustificabile, ma non sarà mai legittimata.
La sua giustificazione perde di plausibilità quanto più il fine
ricercato si allontana nel futuro. Nessuno mette in discussione
l’uso della violenza nell’autodifesa, perché il pericolo non solo è
chiaro ma è anche presente, e il fine che giustifica il mezzo è
immediato” (H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, Parma, 1996
(1969), pp. 39-47 passim).
Potere, autorità, forza, violenza
“In termini umani, al livello bruto degli interventi fisici, il potere
consiste nella capacità dell’uomo di imprigionare, deportare,
immobilizzare, ledere o distruggere un proprio simile. Il crudo
potere fisico diventa funzionale e legittimo nelle mani di una
qualche autorità centrale, trasformandosi in strumento per
assicurare la sicurezza interna ed esterna del gruppo. Possiamo
considerare la forza come la disponibilità di riserva e il mezzo
dell’esercizio del potere fisico. In una società stabile e ordinata,
il possesso e l’impiego della forza da parte dei privati devono
aver scopo puramente difensivo, così come il suo possesso e uso
da parte dello stato deve essere esplicitamente finalizzato al
sostegno dell’autorità di persuadere, prevenire e costringere di
cui il sistema dispone. La forza dunque equivale a una minaccia
di violenza o di contro-violenza. La violenza, se effettivamente
esercitata, può costituire tutt’al più una dimostrazione di forza,
un atto simbolico e limitato compiuto al fine di conferire
all’efficacia e alla risolutezza delle azioni successive abbastanza
credibilità da provocare dissuasione o conformità con costi e
rischi minimi e con un residuo di paura e di resistenza ridotto al
minimo. La violenza può essere definita senza mezzi termini
come la forma più diretta e brutale di potere fisico. E’ la forza in
azione. Esercitarla (sia lo stato a farlo, oppure gruppi di privati
cittadini, o individui singoli) significa proseguire una
contrattazione iniziata con strumenti di pressione diversi. Tutte
le forme ‘morbide’, indirette e politicamente socializzate di
potere vengono spazzate via. La minaccia della forza si fa
azione, prendendo gradualmente le distanze dai comportamenti
puramente dimostrativi (che sottintendono la volontà di
proseguire il rapporto di contrattazione), per giungere infine al
confronto diretto del rispettivo potere, attuato per mezzo di
aggressioni e difese reciproche. Le formulazioni (delle
definizioni di violenza e forza) che fanno leva sulla distinzione
tra capacità, minaccia e dimostrazione sono applicabili ad una
gamma di situazioni vasta e di conseguenza proficue. La forza
equivale alla capacità e alla minaccia di agire; la violenza
equivale a una dimostrazione di forza tendente ad una controdimostrazione e a nuovi atti di forza, o al contenimento e alla
composizione della crisi. In tal modo, forza e violenza si
mescolano impercettibilmente. La dimostrazione effettiva (forza
in azione) deve ripetersi di tanto in tanto per dare credibilità alla
minaccia del suo impiego; per questa via la minaccia acquista
efficacia come strumento di trasformazione o di controllo
sociale e politico. (Quindi) si può formulare la seguente
definizione di violenza politica: atti di disgregazione,
distruzione e offesa tali che il loro scopo, la loro scelta degli
obiettivi o delle vittime, la loro esecuzione e/o i loro effetti
abbiano rilevanza politica, cioè tendano a modificare il
comportamento di terzi in una situazione di contrattazione che
abbia conseguenze per il sistema sociale”. (H.L. Nieburg, cit.,
pp. 15-19).
Forza e violenza
“Nel linguaggio di tutti i giorni generalmente si intende con il
concetto di forza un attributo tendenzialmente neutro che può
essere utilizzato in modo negativo o in modo virtuoso; la
violenza, invece, si distingue solitamente dalla forza perché,
sebbene possa essere occasionalmente giustificata, non è mai
veramente legittima. Nel caso della forza che ‘si impone’,
questo termine è più volentieri utilizzato per definire chi
interviene in modo legittimo, o con uno scopo che si presenta
positivo, per esempio per ristabilire l’ordine. La violenza viene
invece percepita essenzialmente in modo negativo, come atto
arbitrario e non dialogico, come atto illegittimo di forza che si
impone sul più debole. L’accostamento tra forza e violenza
tende quindi a distinguere tra la legittimità della forza e
l’illegittimità della violenza, per definizione mai considerata
quest’ultima come un comportamento moralmente accettabile,
anche se in alcuni casi viene invocata quale male necessario” (P.
Rebughini, cit., pp. 13-14)
“Legge e Ordine”
“l’aspirazione al binomio ‘legge e ordine’, nella sua accezione
più popolare, rappresenta il desiderio di ritorno al passato.
L’ignoranza della normale dinamica della violenza politica ha
provocato in noi uno stato di trauma e di allarme che, se non è
giustificato dal reale pericolo, non è neppure giovevole per
stornarlo. La popolazione, nella grande maggioranza, approva
che si spari per strada sull’adolescente sorpreso a saccheggiare;
essa aborre gli agitatori, i comunisti, i criminali, e persino gli
individui che fanno realmente del loro meglio per curare alle
radici i mali della società. Essa aborre tutto e tutti, tranne se
stessa. Il motto ‘legge e ordine’ diventa uno slogan che incita a
reprimere l’estremismo acutizzando il conflitto, invece che
eliminandone le cause”. (H.L. Nieburg, cit., pp. 6-7).
Le forme della violenza
Abbiamo già visto come una delle principali distinzioni delle forme della
violenza si rifaccia al soggetto (attore) che la pone in essere, ovvero
all’esistenza di una legittimazione dell’uso della forza e anche della violenza.
Si è parlato di violenza istituzionale e di violenza anti-istituzionale a seconda
che questa sia posta in essere dallo Stato (unico soggetto, per la sua stessa
natura, legittimato all’uso della violenza “pubblica” al fine di ridurre o
annullare la violenza “privata”) oppure da soggetti “privati” (violenza tra
“privati”, violenza di privati contro l’attore pubblico).
Oltre alla violenza (decisa dall’alto) della guerra e del genocidio, alla violenza
del terrorismo, la violenza
“si può verificare anche a un livello sociale e politico diffuso
senza intenti strumentali di ampio raggio, ma al contrario miranti
al contesto di appartenenza o a scopi di tipo lucrativo. Rivolte
urbane, risse, banditismo, rapine, furti e, per alcuni aspetti, la
stessa criminalità organizzata costituiscono una costellazione di
comportamenti a cui viene implicitamente riconosciuta una
componente violenta” (P. Rebughini, cit., p. 38).
La violenza istituzionale o “pubblica” (o dello Stato) può essere utilizzata,
come abbiamo già visto, o a fini interni (al fine di far rispettare le regole, per il
mantenimento dell’ordine, per reprimere tentativi sovversivi dell’ordine
esistente o di singole parti di quest’ordine) oppure a fini esterni (per
consolidare o ampliare i confini di un dato sistema politico, per garantire la
“sicurezza” di quel dato sistema). In merito a quest’ultima Thomas Schelling
distingue tra forza bruta (ad esempio: la guerra) da un lato e violenza coercitiva
o diplomazia della violenza, dall’altro.
Per quanto riguarda la violenza anti-istituzionale una prima distinzione
estremamente semplice può essere la seguente: - protesta; - ribellione o rivolta;
- guerra (v. oltre).
Christopher Clapham (African Guerrillas, James Currey, Oxford, 1997, pp. 67) distingue, in base alle finalità, tra 4 tipi diversi di insurrezione:
- per ottenere l’indipendenza
- per ottenere il riconoscimento di una ‘identità’ (separatiste)
- per la riforma radicale del sistema
- per il cambio della leadership.
Guardando, invece, alle cause, Clapham ne individua 5:
- blocco delle aspirazioni (nessun spazio per la ‘voice’)
- disperazione
- resistenza nelle periferie alla centralizzazione (es. tasse)
- struttura dei valori della società
- debolezza dello stato
- tradizione antica localistica e violenta
Dalla potesta alla guerra
Una tipologia delle varie forme di violenza è quella proposta da HARVARD
che distingue tra 7 livelli o tipi in base a 10 variabili o indicatori: ampiezza dei
soggetti attivi, ampiezza del territorio interessato, durata del conflitto, tipi di
bersagli, finalità, risorse utilizzate, popolazione coinvolta, numero delle vittime
(morti), tecnologie usate, effetti prodotti. Semplificandola si può prendere in
considerazione quanto illustrato dalla tavola che segue.
Categorie Definizione
1
2
Violenza
politica
sporadica
Violenza
politica
limitata
Territorio
Durata
Luogo preciso Tempo definito
Persone
interessate
Vittime
(morti)
Tecnologie
Poche per
brevi periodi
meno di 2
mila
basso livello
da 3 mila e
10 mila
limitate
Aree precise
Brevi periodi
Poche o
numerose
3
Violenza
politica grave
Aree anche
vaste
A
intermittenza
Decine di
migliaia
da 10 mila a anche armi di
50 mila
distruzione
4
Guerra grave
Aree anche
estese
Limitata
più di 100
mila
armi di
da 50 mila a
distruzione di
100 mila
basso livello
5
Guerra
prolungata
Alcune
regioni
Lunga
più di 1
milione
6
Guerra estesa
Indenni solo
le aree
cruciali
Lunga
più di 2
milioni
7
Guerra
dilagante
Tutto
Lunga
più di 5
milioni
armi di
da 100 mila a distruzione
500 mila
anche di alto
livello
esteso uso di
armi di
da 500 mila a
distruzione 1 milione
aiuti esterni
limitati
esteso uso di
armi di
più di 1
distruzione milione
aiuti esterni
necessari e
non limitati
Per quanto riguarda le guerre, la individuazione più classica dei caratteri
distintivi di queste, è quella operata da Bouthoul:
“Siccome le forme di lotta e di competizione sono innumerevoli,
proprio per questo il concetto di guerra deve essere chiaramente
circoscritto e definito in confronto a tutte le forme di
antagonismo conosciute o concepibili. Quali dunque saranno le
principali caratteristiche che ci permetteranno di delimitare in
modo preciso il ‘fenomeno guerra’? Anzitutto, il carattere che
più ci colpisce è quello di essere un fenomeno collettivo. In
questo senso la guerra deve essere nettamente distinta e separata
da tutti gli altri atti di violenza individuale. Come possiamo
determinare con esattezza questo carattere collettivo della
guerra? Dovremo prendere in considerazione due elementi: uno
è la natura del gruppo e cioè, per essere più precisi, della
collettività che combatte, e l’altro è l’elemento soggettivo e cioè
l’intenzionalità o, in altre parole, le finalità e gli scopi che
perseguono quelli che hanno scatenato la guerra. Saremo
costretti ad attenerci a un criterio molto elastico per quel che
riguarda l’estensione dei gruppi che si affrontano in una guerra.
Possono essere gruppi giganteschi ma possono anche essere
gruppi minuscoli, senza che le loro lotte armate perdano perciò
il carattere di guerra propriamente detta. Saremo costretti a dare
una certa importanza anche al fattore soggettivo. Le finalità
della guerra si distinguono da quelle del delitto e della violenza
individuale. La guerra è a servizio degli interessi di un gruppo
politico, il delitto e la violenza individuale non hanno in vista
che l’interesse privato. Un altro carattere oggettivo della guerra
è che essa consiste in una lotta a mano armata. Il fatto che essa
sia molto o invece poco micidiale ha scarsa importanza. Un altro
carattere della guerra è quello giuridico. Si è potuto dire che la
guerra è un contratto. La guerra, non ci sono dubbi, è un atto di
violenza, di violenza però organizzata. Ogni guerra ha un
principio e una fine che in generale sono accompagnati da
cerimonie o da solennità che hanno lo scopo di dare risalto in
modo impressionante al passaggio dalla pace alla guerra o
viceversa. Come hanno messo in evidenza parecchi scrittori, la
guerra non è un combattimento perpetuo e una battaglia senza
interruzione, è semplicemente lo stato di guerra, cioè essa è, in
ultima analisi, un periodo durante il quale vengono applicate
alcune regole che hanno valore giuridico e che sono di natura
particolare. La seconda caratteristica giuridica della guerra è che
essa consiste in un vero processo destinato a metter fine a una
controversia, i cui motivi sono precedentemente indicati con
esattezza” (G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia,
Longanesi, Milano, 1961 (1951), pp. 37-45 passim).
Bonanate propone una ideale tavola classificatoria organizzata per genus e per
species
“ricorrendo alle forme che le guerre hanno assunto, alle
modalità con cui sono state combattute e agli obiettivi che
ciascuna di esse si pone: Tipi di guerre. La prima – e più
elementare – distinzione da operare riguarda i soggetti coinvolti
in un conflitto: può trattarsi di stati, ma anche di gruppi,
cosicché distingueremo la guerra internazionale da quella
interna (o civile, intestina). Entrambi i casi consentono una
duplice manifestazione. Nel primo, potremo infatti avere sia una
guerra diadica, cioè combattuta tra due stati, sia una guerra
coalizionale, e quindi combattuta da due insiemi di stati alleatisi
per la circostanza. Nel secondo caso, potremo avere una guerra
partigiana, quando delle fazioni si scontrino tra loro in una
condizione di totale assenza o dissoluzione di un’autorità
centrale; e una guerra internazionalizzata, quando le parti in lotta
mirino alla separazione e alla costituzione di nuove entità
sovrane. Modi di combattere una guerra. Anche da questo punto
di vista, alcune grandi distinzioni consentono di riassumere un
più ampio insieme di casi; distingueremo innanzi tutto guerre
regolari, ovvero combattute secondo comuni e condivise regole,
ricorrendo prevalentemente ad apparati militari specialistici, e
guerre irregolari, tra le quali rientreranno tutti quei casi che
vedono il ricorso a strumenti anomali, come la guerra di corsa o
per bande, o quella che più in generale chiamiamo “guerriglia”,
ma anche come la guerra chimica o batteriologica. Si daranno,
d’altro canto, guerre convenzionali, ovvero combattute con armi
e strumenti di comune conoscenza, e guerre non-convenzionali
(come quella atomica), in cui una o entrambe le parti ripongono
in una qualche grande scoperta (prevalentemente tecnologica) le
loro speranze di vittoria. Sia le une sia le altre potranno a loro
volta essere classificate anche in base alle modalità delle
operazioni militari, dando luogo alla guerra di movimento o a
quella di posizione. Fini di guerra. Entriamo in questo caso in un
ambito molto complesso e ricco, appartenendo a esso tanto la
guerra di conquista quanto quella di liberazione (o di
indipendenza); la guerra dinastica (o di successione) e la guerra
di religione, la guerra rivoluzionaria e la guerra di difesa.
Dimensioni della guerra. Ma anche una volta classificati quelli
che risultano essere i principali modelli storicamente
verificabili, la nostra capacità di dominare la complessità del
fenomeno non è ancora granché cresciuta. Grandi o piccole, le
guerre saranno tutte uguali? Quale, ad esempio, la differenza tra
una scaramuccia di truppe lungo un confine e un conflitto
protratto nel tempo? Potremo forse fare riferimento alle
dimensioni materiali delle guerre, per delimitarne più
specificamente il profilo? I criteri più intuitivi ai quali ricorrere
sembrano essere la violenza esercitata (misurata in base alla
mortalità determinatasi in ogni singolo conflitto), il numero
degli stati partecipanti, l’estensione geografica dei campi di
battaglia, nonché la durata (seppur quest’ultimo aspetto rischi di
deformare le nostre immagini: conflitti di breve durata ebbero
effetti ben più duraturi di altri, più lunghi, ma meno incisivi” (L.
Bonanate, La guerra, Laterza, Bari-Roma, 1998, pp. 5-8).
La tipologia delle guerre di Carl Schmitt si basa sui tipi di attori coinvolti
(regolari e/o irregolari):
Guerre combattute tra:
Regolari
vs. Regolari
cioé
gerarchia (responsabilità dei superiori anche verso terzi)
contrassegni fissi e visibili
armamento esibito apertamente
rispetto delle regole e degli usi del diritto di guerra
Regolari
vs. Irregolari
cioé
Partigiano =
senza divisa
con forte motivazione politica
con grande agilità
radicato nella propria terra
oppure =
oppure =
oppure =
combattente resistente
attivista clandestino
sabotatore
Equiparati ai regolari milizie
corpi volontari se (Aja 1907)
in unione con sollevazioni popolari spontanee
movimento di resistenza organizzato (Ginevra 1949)
V.- La “limitazione” della violenza
Nel corso dei secoli si è formalmente tentato di limitare l’uso della violenza
(vedi oltre). Per quanto riguarda la violenza interna (legittima) è facile
ricordare il passaggio dallo stato assoluto allo stato costituzionale, allo stato di
diritto, alla democrazia con la limitazione dei poteri del sovrano e la statuizione
di una serie di diritti dei cittadini che ampliavano il ruolo di questi ultimi e
riducevano gli ambiti di libertà del sovrano di turno (o del portatore di
legittimità).
Abbiamo intravisto come, nei secoli, si sia cercato di limitare la stessa guerra,
cioè la forma più violenta (forse) della violenza. Prima di entrare più in
dettaglio su questo punto, è necessario ricordare che in non pochi autori
troviamo invece un’esaltazione della guerra in sé e per sé. Ad esempio per
Hegel e Nietzsche la guerra favorisce il progresso morale in quanto nel corso di
questa si sviluppano virtù quali lo spirito di sacrificio, il coraggio, la
solidarietà. Per Carlo Cattaneo, invece, la guerra favorisce il progresso sociale
mediante la comunicazione fra gli uomini: le civiltà si combattono ma al
contempo imparano a conoscersi, si mescolano. Per Spencer la guerra è
portatrice di progresso tecnico in quanto è per la guerra che si sviluppano le
industria, è nel campo militare che si inventano in continuazione sempre nuovi
strumenti di offesa o di conoscenza, che poi possono anche diventare di uso
civile (vedi ad esempio internet).
La legittimazione della guerra
E’ innanzitutto necessario distinguere tra chi ha diritto (riconosciuto
internazionalmente) a condurre la guerra e quali sono le regole nella
conduzione di questa (in altre parole: legittimità e legalità della e nella guerra).
Occorre cioè partire dalla distinzione tra il ius ad bellum e il ius belli.
“In base al primo, la dottrina tradizionale della guerra ha distinto
le guerre giuste dalle guerre ingiuste, analizzando e discutendo i
vari casi in cui uno stato ha o non ha il diritto di intraprendere
una guerra; in conformità delle regole stabilite dal secondo, si
sono venute distinguendo le azioni belliche lecite da quelle
illecite. Via via che il diritto internazionale, prodotto dalle
potenze europee nell’età della formazione dei grandi stati, ha
riconosciuto come diritto sovrano il diritto alla guerra, così
eliminando ogni criterio di distinzione fra guerre giuste e
ingiuste, la funzione limitatrice del diritto si è spostata dalla
legittimità alla legalità della guerra, per usare la terminologia di
Carl Schmitt, dal bellum iustum all’hostis iustus. Il diritto
illimitato dello stato alla guerra trova il proprio limite nella
guerra stessa, in cui l’uso della violenza è limitato da regole che
hanno la funzione di definire chi è il nemico, vale a dire chi è
colui sul quale è lecito esercitare la violenza, e entro quali limiti
la violenza può essere esercitata”. (N. Bobbio, Guerra civile?, in
“Teoria Politica”, VIII, n. 1-2, 1992, pp. 297-307, p. 302).
Lo ius ad bellum nelle epoche pre moderne
Il dibattito degli ultimi anni sulle possibili distinzioni tra le diverse guerre, in
tema di maggiore o minore giustificazione di queste, ha solide radici nei secoli
passati. Giuristi, filosofi e altri studiosi hanno già ripercorso le tappe di questo
lunto discorso sulla guerra (per citarne solo alcuni: v. N. Bobbio, Il problema
della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna, 1997; J. Keegan, La
grande storia della guerra, Mondadori, Milano, 1994; C. Galli (a cura di),
Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004). Come è già stato scritto esistono in merito
tre grandi gruppi di teorie: quelle che giustificano tutte le guerre, quelle che
non giustificano nessuna guerra e quelle che ne giustificano alcune e ne
condannano altre sulla base di elementi i più diversi fra loro. Fermiamoci ad
analizzare queste ultime, anticipando che, come si vedrà, le teorie si
distinguono in base a due possibili criteri: il perché (il fine) della guerra e il chi
fa guerra.
Sant’Agostino e san Tommaso
E’ prassi consolidato, in Occidente, partire da Agostino (354-430 d. C.) per il
quale si poteva prendere parte alla guerra senza commettere peccato solo se: la
causa fosse giusta, se la guerra fosse condotta con l’intenzione di pervenire al
bene o di sconfiggere il male e, infine, se fosse condotta sotto l’autorità
costituita (il sovrano). Si tratta sia di una giustificazione di alcune guerre (in
contrasto con i dettami dei primi padri della chiesa per i quali la guerra era da
condannare in modo assoluto sulla base del Vangelo), ma, al contempo, era
anche un tentativo di limitare le tante guerre dei cristiani (anche fra di loro) e
quindi di legittimare non qualunque guerra condotta da cristiani ma solo quelle
che presentavano le caratteristiche sopra indicate.
Per Tommaso d’Aquino (1221-1274) la guerra deve avere una legittimazione
morale e giuridica che si ritrova nel diritto naturale razionale (inteso come
giustizia): la guerra è giusta solo se risponde a precise e impegnative esigenze
(la fede religiosa, ad esempio).
Machiavelli ed Erasmo da Rotterdam
Per Machiavelli (1469-1527) è intrinseca all’umanità e alla politica, nel senso
che:
“la coincidenza di ‘buone leggi’ e ‘buone arme’ implica la
doverosità dell’esercizio rischioso del potere politico, ossia
l’intrecciarsi di politica e guerra; e quest’ultima si legittima da
sé come naturale manifestazione della finalità della politica –
ossia la potenza e la gloria – tanto sulla base del modello
romano-repubblicano di virtù, ossia di libera cittadinanza in
armi, quanto, se le circostanze storiche e politiche lo richiedono,
nella forma ‘abbreviata’ del ‘principe nuovo’” (C. Galli, cit., p.
XII).
Per Erasmo (1466-1536), la guerra pur essendo sempre presente fin dalle
epoche primitive dell’uomo cacciatore nella storia dell’umanità, è contraria alla
natura umana (pacifica e amichevole ricorda Carlo Galli) e non è
assolutamente da collegare con la buona politica, ma al contrario è il suo netto
contrario
“nonché del cristianesimo (e qui c’è la condanna delle guerre
civili di religione); non è umana, ma peggio che bestiale, e non è
via alla gloria, ma è sempre degna di orrore e di ripulsa” (ivi).
L’età moderna: Hobbes
La conquista dell’America, da un lato, e la scissione del cristianesimo (la
Rofrma), dall’altro, creano nuove condizioni e necessità.
“La guerra di conquista spagnola del Messico comporta –
all’interno delle dispute sullo statuto politico e morale del
rapporto fra Vecchio e Nuovo Mondo, e sulle fonti di
legittimazione delle pretese europee – la ripresa delle posizioni
tomistiche. Queste – documentate attraverso pagine del
domenicano spagnolo Vitoria – ripropongono l’esigenza di una
legittimazione morale e giuridica della guerra, sulla base di un
cattolicesimo declinato in modo tale da accogliere in sé il diritto
naturale razionale (…) Da parte loro le guerre civili di religione
che hanno insanguinato l’Europa per più di un secolo, nascono
dall’affermazione unilaterale di una verità in nome della quale
ciascun contendente si reputa legittimato a disobbedire al potere
politico e a condurre una guerra interna contro il nemico, che è
anche eretico (i riformati per i cattolici) o tirannico (i cattolici
per i riformati). A questa situazione fanno fronte dapprima la
teoria della ‘ragion di Stato’, ossia una ripresa del pensiero di
Machiavelli, e poi la costruzione giuridica e teorica della
moderna forma politica statuale, che sancisce il passaggio della
guerra alla piena disponibilità dello Stato, il nuovo monopolista
della politica e quindi anche il nuovo signore della guerra e della
pace. Questo processo da una parte elimina tendenzialmente
dalla società le guerre private, le faide, e neutralizza le guerre
civili di religione, attirando la guerra interamente nell’orbita
dello Stato; dall’altra, però, svincola la guerra da ogni
legittimazione fondata su una giusta causa universalmente e
razionalmente conoscibile, facendone un atto di sovranità. La
guerra è quindi legittimata a partire non dalla causa che la
scatena o dal fine che si prefigge o dal disvalore del nemico
contro cui si combatte, ma dal soggetto che la muove, dal modo
in cui è combattuta e dal rango politico-istituzionale del nemico.
Su queste basi in età moderna si afferma progressivamente
l’idea che la guerra – potestà esclusiva dello Stato, unico titolare
dello ius ad bellum – è un evento possibile, che appartiene alla
realtà di una scena politica popolata da Stati sovrani in lotta
reciproca per la potenza, ma può essere rivolta solo all’esterno e
solo contro un altro Stato e va combattuta solo fra militari” (C.
Galli, cit., p. XIV).
E’ ancora una volta Thomas Hobbes (1588-1679) il grande sistematore e
teorizzatore della nuova situazione politica.
“Hobbes mostra che la guerra, vista come naturale (cioè come
espressione del disordine dell’essere) e sottratta a ogni
valutazione teologica o morale, viene integralmente risucchiata
– nell’ambito più generale della neutralizzazione delle guerre di
religione, perseguita tanto contro l’individualismo protestante
quanto contro l’auctoritas e la potestas indirecta del
cattolicesimo – all’interno delle logiche dello Stato e lì
sistematizzata e ridiretta verso l’esterno come azione di
pertinenza del sovrano (…) L’impianto teorico di Hobbes
ricapitola, sistematizza e radicalizza, spostandole a volte di
segno, alcune tendenze già in precedenza resesi evidenti in altri
autori: la prima è che la guerra ha a che fare con un’insuperabile
continegnza che affligge la politica, con una violenza
strutturalmente inerente l’esser-uomo, e può essere solo
organizzata e limitata, non eliminata. E’ così esclusa la guerra
eroica e nobiliare per la gloria e l’onore e rimane solo, come
normale possibilità della politica, la guerra prosaica e borghese
per autodifesa o per l’utilità dello Stato. La seconda tendenza è
che la ripresa del diritto naturale – e gli sforzi di farlo valere
come una sorta di diritto delle genti – non toglie che la
legittimazione della guerra sulla base della iusta causa ceda il
passo alla legittimazione fondata sullo iustus hostis” (C. Galli,
cit., p. XV).
Kant
Contro le teorizzazioni della guerra come fatto inevitabile che è il pensiero di
Immanuel Kant (1724-1804). Egli definisce la guerra dei suoi tempi:
“un ‘crimine’ proprio perché la vede come un fatale
sottoprodotto della colpevole e ingiustificata restrizione della
ragione moderna begli angusti ambiti della sovranità statuale,
dell’universale nel particolare (…) L’obiettivo modesto di
neutralizzare la guerra interna e di limitare le guerra esterna è
sostituito, in Kant, dalla finalità di eliminare la guerra, secondo
la ragione universale. E ciò significa repubblica all’interno
(ossia uguaglianza, libertà, legalità e cittadinanza informata),
federazione di Stati, o di popoli all’esterno (ossia progressiva
dismissione degli aspetti violenti ed egoistici della sovranità, e
contemporanea trasformazione del diritto delle genti che deve
perdere il proprio carattere di diritto alla guerra), e infine
instaurazione del diritto cosmopolitico e quindi del divieto di
considerare i popoli extraeuropei come passibili di
colonizzazione (ossia critica dello ius publicum europaeum
come struttura epocale fondata sulla differenza fra Europa e
resto del mondo)” (C. Galli, cit., pp. XVII-XVIII).
Lo ius ad bellum in epoca contemporanea
Partiamo dal fondo: ovvero dalla legittimazione delle ultime guerre: quella
della primavera del 1999 del Kosovo, la guerra in Afghanistan post attentato
alle Torri gemelle dell’11 settembre del 2001 e la seconda guerra del golfo
contro l’Iraq della primavera del 2003.
“Nel primo caso, il ricorso alla forza fu legittimato in nome del
principio di ingerenza umanitaria e della sua superiorità rispetto
sia alle pretese alla sovranità della Federazione Jugoslava sia
alla necessità stabilita dalla Carta delle Nazioni Unite di
un’autorizzazione esplicita del Consiglio di Sicurezza
(contraddizione esplicita tra legalità e legittimità). La seconda
occasione, quella della guerra contro l’Afghanistan del 2001 si
presentò a prima vista come molto più semplice. Per legittimare
la guerra, gli Stati Uniti si guardarono bene dal richiamarsi a
qualche principio “universale” di ingerenza o, almeno, a
inscrivere la propria risposta in qualche contesto multilaterale,
per appellarsi invece al più tradizionale degli attributi della
sovranità, il diritto di autodifesa. In occasione della guerra
contro l’Iraq, l’Amministrazione statunitense scelse come noto
di invadere l’Iraq in nome di un presunto imperativo di
sicurezza nazionale (impedire all’Iraq di Saddam Hussein
l’acquisizione di armi di distruzione di massa e la continuazione
dei legami con i gruppi terroristici) e attraverso uno strumento,
quello della guerra preventiva, che la maggior parte degli altri
stati e delle organizzazioni internazionali non approvava o
condannava esplicitamente”. (A. Colombo, cit., pp. 8-9).
La Rivoluzione francese: da Constant a Hegel
Con le guerre della Rivoluzione francese si verifica una svolta profonda sia sul
piano della teorizzazione che della pratica. La “neutralizzazione” della guerra
entra in crisi profonda con l’ingresso dell’attore “popolo”.
“Le finalità ideologiche del conflitto, la pretesa che la guerra
realizzi una verità ideale, una libertà nuova, rendono la guerra
nuovamente ‘giusta’ tanto verso il nemico interno quanto verso
quello esterno. Che l’immane potenza della nazione in armi
faccia giustizia di avversari privi di legittimità, che non sono
iusti hostes ma ideologicamente squalificati, che la guerra da
faccenda di Stato divenga fatto sociale e di popolo, serve a
ridisegnare non le carte geografiche ma le carte costituzionali e
ideologiche d’Europa, dentro e fuori la Francia, conferisce a
questa nuova guerra un dinamismo, un’aggressività,
un’assolutezza, una coralità, che costituiscono i cardini della
‘guerra assoluta reale’.” (C. Galli, cit., pp. XVIII-XIX).
Se Benjamin Constant (1767-1830) contrappone alla guerra (caratteristica di
una fase storica arretrata) il doux commerce (che fa progredire, avanzare, che
produce benessere), per Hegel non vi è economia o politica senza conflitto. La
guerra è coessenziale (Galli) alla sovranità, che è di per se stessa, contingente,
instabile, esposta agli altri, così come accade per la sicurezza, i diritti dei
cittadini. E’ il limite della ragione che fa nascere i morire gli Stati.
Karl Marx
E’ nota la tesi di Karl Marx (1818-1883): la vera contraddizione non è della
politica, questa è solo il riflesso della contraddizione primaria: vale a dire il
conflitto fra capitale e lavoro.
“E’ questa contraddizione a produrre in primo luogo lo Stato
moderno, che si pretende universale, con le sue leggi, mentre in
realtà è frutto di una ‘parte’, della classe borghese, e che si
pretende internamente pacifico quando in realtà esprime, col suo
stesso esistere, il conflitto fra borghesi e proletari (…) la guerra
decisiva è una guerra interna che a volte resta solo implicita e
che altre volte invece divampa apertamente nella rivoluzione, la
sintesi in atto di guerra e politica (o anche nelle guerre civili fra
gruppi opposti di interessi capitalistici, com’è avvenuto nella
guerra civile americana); le guerre tradizionali fra Stati sono
solo il momento di conflitto fra borghesie nazionali. E infatti
l’esperienza della Comune di Parigi – insurrezione antiborghese
del popolo, alla cui repressione concorsero, in modi diversi,
tanto le forze tedesche vincitrici quanto quelle francesi sconfitte,
in un’alleanza antiproletaria che neutralizzava la pur cruenta
rivalità fra la Prussia e la Francia – dimostra, agli occhi di Marx,
che nella prospettiva futura ci sono meno le guerre tra Stati e più
la guerra civile mondiale fra proletari uniti, da una parte, e
capitalisti almeno momentaneamente uniti, dall’altra. Una
visione della politica come guerra non più esterna ma come
guerra civile interna allo Stato prima e a tutto il pianeta poi, che
travalica la cronaca degli ultimi decenni del XIX secolo –
caratterizzati dall’aspra competizione fra potenze capitalistiche
europee (e nord-americana) per la spartizione coloniale del
mondo, cioè all’andar di pari passo di ‘commercio’ e guerra,
contro l’’assunto liberale – e che sovrappone alle guerre
imperialistiche e interimperialistiche la prospettiva della guerra
rivoluzionaria mondiale” (C. Galli, cit., pp. XXI-XXII).
Il XIX secolo: le guerre coloniali
Quattro brevi citazioni per un tipo di guerre che ha caratterizzato (dopo la
conquista dell’America) l’età degli imperialismi (v: Hobsbawm).
“Gli europei giustificarono le loro azioni (massacri di africani,
distruzione dei loro raccolti e di ogni loro altro bene,
prelevamento da i villaggi, con la violenza, di grandi quantità di
‘portatori’ per rifornire le truppe europee) sostenendo che essi
stavano portando la civiltà nel continente e stavano estirpando i
demoni della schiavitù, delle razzie e del commercio degli
schiavi.
Leopoldo del Belgio in merito alla conquista del Congo nel
1876 parlava di penetrare attraverso le tenebre che avvolgevano
intere popolazioni. Una crociata degna di questo secolo di
progressi.
Per gli inglesi le guerre coloniali britanniche avevano il fine di
consentire alle classi industriali europee di guadagnare il
dovuto compenso per il contributo dei loro cervelli, capitali ed
energie allo sviluppo delle risorse dell’Africa e nello stesso
tempo aiutare le razze indigene nel loro progresso verso un più
alto livello. Le guerre (contro la resistenza delle popolazioni
autoctone) furono sentite non tanto come guerre, quanto come
azioni di ordine pubblico, di pacificazione.
La teoria francese dell’impero, invece, comprendeva la
convinzione che i sudditi coloniali erano cittadini (francesi)
potenziali, che potevano essere assimilati alla cultura
francese(delle rivoluzioni del 1789 e del 1848. L’autoritarismo
era giustificato dalla convinzione che l’assimilazione delle
masse africane alla cultura e alla civiltà francesi era
difficilmente attuabile nell’immediato futuro. Fintanto che gli
africani si mantenevano attaccati ai loro usi, ai loro stili di vita
e alle loro leggi civili, tradizionali o musulmane, difficilmente
potevano diventare cittadini francesi. E quindi: poiché la
cultura francese era superiore, era necessario procedere alla
demolizione dei vari sistemi di governo (e culturali, ed
economici) africani, non importa di quale tipo essi fossero”
(J.D. Fage, Storia dell’Africa, Società Editrice Internazionale,
Torino, 1995 (1988), pp. 383-385).
Il XX secolo: Kelsen
Con le guerre della prima metà del XX secolo il progetto di espellere
dall’interno delle società le guerre e di affidarle solo agli Stati (Galli) fallisce
miseramente. In queste guerre la società, le società sono tutte all’interno della
guerra, questa non riguarda più essenzialmente la popolazione in uniforme,
riguarda anche e in molti casi in primo luogo (v. più avanti) tutti i civili. Contro
questa realtà di fatto Hans Kelsen (1881-1973) riprende le teorizzazioni di
Kant nel tentativo di distinguere nuovamente fra tipi di guerre.
“Kelsen fa della guerra un crimine imputabile e sanzionabile,
non tanto con riferimento alla sovranità dello Stato, ma alle
persone fisiche dei governanti che la dichiarano: questi devono
essere sottoposti a un tribunale che trae la propria legittimità e la
propria fonte normativa dal diritto internazionale. E’ questa una
piena giuridificazione della guerra, che non è più solo limitata
dalla razionalità politica dello Stato, né è lasciata libera di
manifestarsi come essenza dell’epoca o come finalità
progressiva della storia, ma è ricondotta all’interno della
razionalità universale, non politica ma giuridica, del diritto
internazionale, e sulla base di questo giudicata un crimine. In
questo contesto, l’unica forma di sopravvivenza della guerra è,
logicamente, che essa valga come sanzione contro gli Stati che
vi ricorrono per primi, cioè che essa venga presentata come un
atto di polizia internazionale, guidata da istituzioni che si
legittimano nell’ideale universale della civitas maxima e non
nella sovranità statale. Questa abolizione della guerra come
diritto sovrano dello Stato, questa sua classificazione come
‘crimine’ e questa sua sopravvivenza come atto di polizia (come
guerra giusta che ripara un torto) a disposizione di un’istituzione
sopranazionale, significa che la pace è possibile come
affermazione del diritto, se lo Stato è privato del monopolio
della pace e della guerra” (C. Galli, cit., pp. XXVII-XXVIII).
Con Kelsen si introduce l’idea di un “terzo” attore, giudice arbitro delle
controversie internazionali. Ma chi è il “terzo” che può sanzionare una
eventuale illiceità? Siamo di fronte al “Terzo Introvabile”, come lo ha definito
Pier Paolo Portinaro in un libro di quasi vent’anni fa (Il Terzo. Una figura del
politico, Franco Angeli, Milano, 1986, p. 293). Un “Terzo” che abbia la forza
di coercizione nei confronti di tutti gli stati, che abbia il potere di trasformare i
rapporti di forza in obblighi giuridici, che abbia l’autorità (o la legittimazione)
per far rispettare i patti, i trattati, le regole della guerra. Un “terzo” quindi
superiore alle singole parti o, almeno, un primus inter pares. Ma “tra le
massime potenze di un sistema bipolare non esiste, per definizione, un tertius
inter pares che possa proporsi come autorevole mediatore: appartiene d’altro
canto alla natura stessa della sovranità di tali potenze non solo l’essere, di fatto
oltre che di diritto, superiorem recognoscentes, ma altresì la propensione ad
operare secondo una logica di negoziazione bilaterale – o di contratto scambio
– che non prevede il ricorso a mediatori”. Impossibile, quindi, avere il “terzo”
in un sistema bipolare. Inutile cercarlo, forse, in un sistema “imperiale” o
monopolare. Il sovrano unico deciderà quando è giusto fare una guerra e ciò
che è giusto fare in guerra.
Si potrebbe anche concludere questo punto con una citazione pessimistica:
“una qualsiasi procedura giudiziaria è istituita allo scopo di far vincere chi ha
ragione. Ma il risultato della guerra è proprio l’opposto: è quello di dar
ragione a chi vince (N. Bobbio, cit., p. 59).
Lo ius belli: tra forma e sostanza
Come si vedrà più avanti, da sempre l’essere umano ha cercato di limitare le
condotte di guerra, cioè ciò che è lecito fare nel corso di un conflitto bellico. Le
prime Convenzioni internazionali risalgono a metà del XIX secolo (Ginevra).
Con il trascorrere dei decenni l’elenco delle “cose che non si possono fare” in
guerra è diventato sempre più lungo, ma è anche vero che tutto ciò nella
stragrande maggioranza dei casi è rimasto lettera morta. In particolare si è
cercato di porre limiti rispetto a: 1) le persone coinvolgibili (distinzione tra
militari e civili o fra belligeranti e non belligeranti); 2) le cose (cioè la
distinzione fra obiettivi militari e non); 3) i mezzi (cioè le armi usabili e quelle
no, ad esempio il divieto di usare i vari tipi di gas); 4) i luoghi (delimitazione
delle zone di guerra). Ma vediamo più specificamente quali possono essere i
veri limiti alla conduzione della guerra.
“Occorre chiedersi quali sono, in generale, le condizioni che
rendono possibili le limitazioni della guerra e senza le quali, in
qualunque contesto storico, la loro tenuta diventa problematica o
impensabile. Tali condizioni possono essere raggruppate in due
grandi insiemi: il potere e le istituzioni.
Il potere
o
La soglia di accesso alla violenza: la guerra è limitata se e
in quanto non tutti coloro che vorrebbero difendersi da sé o
attaccare gli altri hanno concretamente la possibilità di farlo.
Questo continua a valere per il monopolio statuale sulla
violenza, che si impose a mano a mano che l’aumento dei costi e
della complessità delle operazioni militari condusse alla
“espropriazione dei detentori ‘privati’ indipendenti della potenza
amministrativa” (Weber), facendo degli stati gli unici soggetti
concretamente in grado di procurarsi le risorse necessarie a
combattere la guerra e finanziarla. “E’ il monopolio (il potere)
che produce la legittimità (il diritto) e non viceversa” (Miglio).
Se, sul piano del diritto, la soglia di accesso al gioco ha
stabilmente diviso gli stati dagli attori diversi dagli stati, sul
piano del potere essa ha continuato a dividere pochi (o
pochissimi) stati da tutti gli altri
o
La guerra è limitata se e in quanto le capacità dei
contendenti sono limitate (cioè relazione circolare tra economia,
tecnologia e guerra).
o
La guerra è limitata se e in quanto sono limitati gli obiettivi
dei contendenti (rapporto tra guerra e politica). Per Clausewitz:
si deve distinguere tra il sentimento ostile e l’intenzione ostile.
Mentre il primo, l’odio “anche più selvaggio, quello che si
avvicina all’istinto”, può essere separato dalla seconda,
“esistono spesso intenzioni ostili non accompagnate, o almeno
non essenzialmente accompagnate da inimicizia preconcetta”.
Questa differenza spiega per Clausewitz la differenza tra il
modo in cui la violenza viene impiegata presso “i popoli
barbari”, dove “predominano i progetti basati sull’istinto”, e
presso i “popoli civili” dove, al contrario, predominano quelli
“basati sulla riflessione”.
o
La guerra è limitata se e in quanto le capacità e la volontà
di ciascuno dei contendenti sono controbilanciate o trattenute
dalle capacità e dalla volontà dell’altro. Qui, quello che conta è
che le azioni dei contendenti sono trattenute dalla reciprocità o
dalla simmetria tra “la reazione viva dell’avversario e la
controreazione che ne risulta” (Clausewitz)
o
Le condizioni che facilitano o meno le limitazioni (v. pp.
100-115)
- Le istituzioni
o
In che cosa la guerra può essere e, storicamente, è stata
limitata da regole del gioco concordate implicitamente o
esplicitamente tra gli avversari. Nessuna convenzione può
evitare di rispondere ad almeno tre questioni elementari, senza
le quali nessun’altra forma anche più “avanzata” di
ritualizzazione della guerra si rivelerebbe possibile: chi ha
diritto e a quali condizioni di ricorrere alla forza; in quali modi e
contro chi ha diritto di impiegarla; in che cosa e attraverso quali
procedure lo stato di guerra si differenzia dallo stato di pace, da
un lato, e dalle altre forme di violenza dall’altro.
o
La prima preoccupazione di qualunque società
internazionale è quella di limitare il diritto stesso di ricorrere
alla guerra, vietando che chiunque possa farlo in qualunque
momento e fino a qualunque esito – come nella batteria di criteri
della dottrina tomista della guerra giusta: che la guerra sia
dichiarata dalla autorità legittima”; che abbia una “giusta
causa”; che sia combattuta con una “buona intenzione”; che
costituisca un “estremo ricorso”; che, una volta vinta, non venga
resa “ingiusta” dall’inflizione di una punizione eccessiva allo
sconfitto.
o
Il secondo grappolo di restrizioni può assumere e,
storicamente, ha assunto tanto una forma positiva quanto una
forma negativa. Nel primo senso, più ambizioso ma, non a caso,
anche più fragile, le regole della guerra possono giungere fino a
prescrivere dove, quando, con quali armi, contro chi e fino a
quale esito è lecito combattere. Le regole di contenuto negativo
prescrivono dove, quando, con quali armi e contro chi non è
lecito combattere La funzione di queste ultime è di stendere
intorno alla guerra una rete di immunità che riguardano

Il tempo: basti pensare al divieto, presente in molte
culture arcaiche, di combattere nel corso della notte; o di
muovere guerra durante la stagione dei raccolti nell’antica Cina;
oppure alla lunga teoria delle immunità di natura religiosa
(presenti anche in culture non occidentali come quella induista o
islamica)

I luoghi: tutti i tentativi di ritualizzazione della
guerra si sono proposti di risparmiare dalla violenza anche
determinati luoghi, perché dotati di un significato religioso,
economico o generalmente sociale, come le chiese, gli ospizi, i
beni culturali e le località sanitarie

I destinatari della violenza: esigere che solo certi
uomini e non altri possano essere legittimamente uccisi. Questa
discriminazione può assumere forme diverse, politiche (la
distinzione tra capi e seguito), morali (colpevoli e innocenti),
istituzionali (stato e società) o specificamente militari
(combattenti e non combattenti). (A. Colombo, cit., pp. 74 e pp.
125-133)
La violenza senza limiti: i terrorismi
In parte lo si è già visto: vi sono tanti modi di portare “violenza”. Una di queste
modalità va sotto il nome, oggi piuttosto abusato, di “terrorismo”. Siamo di
fronte a un concetto non condiviso. Vale a dire che sul piano internazionale,
nonostante i vari tentativi fatti, non vi è ancora una definizione accettata da
tutti (cioè giuridicamente vincolante) di azione terroristica, di “terrorista”.
Guardando ai giorni nostri: in Iraq oggi siamo di fronte a una guerra di
resistenza o di “partigiani” oppure solo ad azioni terroristiche? Quali sono i
soggetti che perseguono il “terrore”? che creano “terrore”?
E’ già stato scritto che tentativi per definire il terrorismo si sono avuti a più
riprese a partire dal XIX secolo:
“in particolare in occasione di: l’offensiva anarchica e nichilista
degli ultimi vent’anni dell’Ottocento e dei primi dieci anni del
Novecento; l’attentato di Marsiglia del 1934 costato la vita al re
di Jugoslavia Alessandro e al primo ministro francese Barthou;
la strage delle Olimpiadi di Monaco del 1972; l’attacco
all’America dell’11 settembre 2001. Tutti i tentativi si sono
arenati di fronte allo stesso problema: persino fra gli stati c’è
sempre stato qualcuno che ha riconosciuto scusanti all’impiego
della violenza da parte di soggetti diversi da loro. Tali scusanti
sono cambiate profondamente nel corso del tempo, ispirandosi
di volta in volta a principi diversi e spesso opposti – dal diritto
di resistere e insorgere contro regimi oppressivi o tirannici,
riconosciuto già nella seconda metà dell’Ottocento da paesi
come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, al rifiuto di includere
nella definizione di terrorismo gli atti di violenza commessi nel
corso delle guerre di liberazione nazionale. Sebbene
profondamente diverse tra loro, tutte queste eccezioni si sono
appoggiate al comune convincimento che, a certe condizioni, il
monopolio dello stato sulla guerra potesse essere superato. Nella
stessa epoca storica in cui la parola veniva coniata, cominciava
anche ad erodersi la condizione normale da cui, come ogni
eccezione, avrebbe dovuto ricavare il proprio significato.
Qualora fosse rimasta viva l’idea che l’unica guerra legittima è
la guerra tra stati, qualunque discussione su chi fosse partigiano
e chi fosse terrorista avrebbe potuto essere facilmente
accantonata: gli unici soggetti autorizzati a impiegare la
violenza sarebbero rimasti gli stati e tanto sarebbe bastato a
bollare come illegittimi tutti gli altri. L’emergere di differenze
tra questi ultimi segnala già, invece, un indebolimento della
distinzione principale. Se alcuni irregolari – i partigiani –
possono figurare come più legittimi di altri – i terroristi – è
perché la separazione tra regolari e irregolari si è già indebolita.
Il monopolio statuale sull’uso della violenza organizzata ha
perso in maniera apparentemente inarrestabile la propria
effettività e, nella crescente incertezza sui principi costitutivi
della convivenza internazionale, è stato sfidato sempre più
spesso anche sul terremo della legittimità; le chiare distinzioni
della guerra interstatale (combattenti/non combattenti,
militari/civili, neutrali/non neutrali) hanno cessato di separare e,
quindi, di preservare; la pace e la guerra sono andate
confondendosi in un intrico sempre più imprendibile di
esperienze e di metafore (guerra fredda, peace enforcing,
“guerra infinita”)”. (A. Colombo, La guerra ineguale, il Mulino,
Bologna, 2006, pp. 66-70).
-
Il terrore fuori della battaglia
“La minaccia e l’uso del terrore possono travalicare e,
periodicamente, travalicano anche i limiti (della battaglia) per
trascinare in guerra chi non può essere chiamato – perché non è
“abile” a combattere – e chi non vuole esserlo, perché non vuole
-
-
-
-
-
-
che la guerra sia combattuta o perché non vuole essere lui a
combatterla
La minaccia e l’uso del terrore costituiscono una delle modalità
più ricorrenti nella conduzione delle guerre.
E’ nella natura della violenza potere essere impiegata tanto per
indebolire o sconfiggere il nemico in battaglia quanto per
intimidirlo al di fuori di essa
Questa “violenza intesa a costringere il nemico invece che
indebolirlo militarmente” è ciò che Schelling definisce, come
forma caratteristica di guerra, “terrorismo”. A differenza della
violenza bruta, la cui efficacia si misura da quanto riesce a
sopravanzare direttamente la volontà del nemico (fino
all’estremo dell’annientamento), il successo del terrorismo
dipende da quanto riesce a modificare i suoi interessi e, con essi,
il suo comportamento
(Nella minaccia o uso del terrore) ciò che conta non è la
sofferenza inflitta, bensì quella latente – la violenza che può
ancora essere trattenuta o inflitta. E’ la minaccia del danno, o di
un danno maggiore in futuro, che può indurre l’altro a cedere o a
piegarsi al nostro potere – nella stessa accezione delle scienze
sociali e politiche, comportandosi diversamente da come si
comporterebbe qualora non fosse sottoposto alla nostra
influenza”. (A. Colombo, pp. 20-22)
Il terrore nella modernità
“Ben prima di essere riscoperto dai “gruppi terroristici”, il
terrore è stato impiegato e teorizzato dagli stati – e, prima che
tra loro, proprio contro individui e gruppi non statuali da
disciplinare al proprio interno e combattere al proprio esterno
Il tipo di guerra che in modo più sistematico e storicamente
continuo ha visto il ricorso da parte degli stati alla minaccia e
all’uso del terrore (sono state) le guerre contro le popolazioni
senza stato e, in particolare, quelle condotte contro le
popolazioni non occidentali, nell’ambito delle conquiste
coloniali. Tali guerre hanno sempre avuto a che fare più con
“spedizioni punitive” che con “genuini scontri militari”
(Schelling)
Anche nella fase discendente della vicenda coloniale, questo fu
il modo in cui vennero impiegate l’aviazione britannica contro le
tribù ribelli dell’Iraq negli anni Venti e Trenta, quella francese
contro l’insurrezione araba in Siria, in Marocco e in Algeria e
quella italiana nella conquista della Libia e dell’Etiopia. Mentre,
tra il 1860 e il 1890, questo era stato anche il modo in cui gli
Stati Uniti avevano combattuto le cosiddette guerre indiane.
Ma se la minaccia e l’uso del terrore erano stati almeno
progressivamente banditi dalle guerre interstatali dalla seconda
metà del Settecento fino alla Prima guerra mondiale, anche tra
gli stati essi ricomparvero stabilmente nelle guerre successive
fino a diventare uno degli strumenti più comuni, sebbene non
necessariamente più efficaci, di aggressione e contenimento del
nemico.
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Le origini di questo duplice sconfinamento del terrore – dal
campo di battaglia, da un lato, e dalla violenza senza regole
delle avventure coloniali dall’altro – sono fatte comunemente
risalire alla marcia del generale Sherman attraverso la Georgia,
nel pieno della guerra di secessione americana.
Ma fu solo nel corso della Seconda guerra mondiale che la
minaccia e l’uso del terrore contro i non combattenti vennero
impiegati in modo sistematico da tutti i principali stati e in tutti i
principali teatri della guerra. Tra il 1940 e il 1945, circa 60.000
cittadini inglesi morirono sotto i bombardamenti tedeschi, così
come all’incirca 600.000 cittadini tedeschi e 900.000 giapponesi
morirono sotto i bombardamenti angloamericani.
‘L’obiettivo politico della bomba non erano i morti di Hiroshima
o le fabbriche nelle quali lavoravano, ma i sopravvissuti di
Tokyo. Le due bombe erano nella tradizione di Sheridan contro i
Comanches e di Sherman in Georgia’ (Schelling 1966)”. (A.
Colombo, cit., pp. 24-28)
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Il terrorismo come metodo
“I tratti distintivi del terrorismo come metodo sono tre.
Il primo è l’impersonalità o l’astrattezza. Diversamente dal
fanatismo religioso o ideologico, il metodo terroristico aggira
l’oggetto della sua ostilità politica; non lo colpisce direttamente,
ma lo indebolisce colpendo altri oggetti. La sua struttura è
triangolare invece che lineare: ogni atto terroristico comprende
un soggetto che lo compie, un secondo vittima dell’attacco e un
terzo destinatario dell’intimidazione
Il secondo elemento è la parsimonia. La minaccia e l’uso del
terrore si propongono (e si legittimano) come un metodo
“economico”, capace di alterare a proprio vantaggio l’equilibrio
tra i costi e i benefici della violenza (ottenendo il massimo con il
minimo). Innanzitutto, in quanto forma particolare della guerra
psicologica, la minaccia e l’uso del terrore promettono una
sproporzione tra il risultato immediato delle azioni e le loro
conseguenze psicologiche. In secondo luogo, essi introducono
una seconda sproporzione, altrettanto vantaggiosa, tra i costi
dell’attacco e i costi della difesa: l’attacco terroristico costa poco
e, comunque, meno di ciò che costa cercare di prevenirlo o di
pararlo, senza potere sapere dove e contro chi o che cosa sarà
rivolto. Infine, l’economicità del metodo terroristico consente di
compensare (almeno i parte) la sproporzione tra forti e deboli.
Il terzo elemento, più comune ma anche più ambiguo, è la
casualità o l’indiscriminatezza. Perché possa raggiungere lo
scopo di diffondere la paura e intensificarle nel tempo, il metodo
terroristico non può concentrarsi su categorie di individui o di
luoghi specifiche, identificabili in anticipo con un regime, un
partito o una politica. ‘Se nessuno è preso di mira, nessuno è al
riparo’ (Aron)”. (A. Colombo, cit., pp. 40-42)
Il terrorismo per la guerra o per la pace
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“1) Il terrorismo, oltre che per vincere, è stato e, dunque, può
essere impiegato per provocare la guerra (in contesti interni
come in contesti internazionali)
2) la minaccia e l’uso del terrore sono diretti non a provocare,
ma a denunciare la guerra – una guerra già in corso, dunque, ma
invisibile ai suoi possibili testimoni e, addirittura, a qualcuno dei
contendenti (diretti o indiretti) (esempio: le imprese terroristiche
di movimenti che agiscono in nome di una miriade di popoli e
minoranze oppresse ma prive di riconoscimento internazionale)
3) la minaccia e l’uso del terrore sono stati e possono essere
concretamente impiegati per l’obiettivo di limitare la guerra. In
questo possibile uso sta anche la parentela tra metodo
terroristico e rappresaglia (le minacce di Hamas a Israele per
cercare di dissuaderlo dal proseguire certe operazioni militari; le
incursioni di Israele contro i villaggi in Giordania per frenare le
incursioni dei gruppi armati palestinesi).
4) La minaccia del terrore è stata e può essere impiegata per
prevenire la guerra. “La pace di terrore è quella che regna tra le
unità politiche, se ciascuna di esse ha la capacità di colpire
mortalmente l’altra” (Aron).
5) Il potere di infliggere sofferenze alla popolazione civile può
diventare un modo non di prevenire ma di sostituire la guerra,
nel senso più compiuto della “diplomazia della violenza” (di
Schelling): costringendo il nemico a scegliere tra
l’accomodamento e la vita”. (A. Colombo, cit., pp. 47-51)
Terrore e derivati: l’uso politico del termine
“I tratti più significativi dell’uso politico della parola sono:
1) il primo e più fondamentale è già contenuto nel fatto che, a un
certo punto della storia, la continuità del metodo terroristico
abbia potuto finalmente essere trattenuta in una parola. Nella
storia quando pratiche immemorabili diventano oggetto di
acquisizione consapevole è perché diventano coerenti con i
concetti, le metafore e le analogie dello stile di pensiero
dominante. Se l’acquisizione consapevole del metodo
terroristico poté finalmente avvenire alla fine del XVIII e
diffondersi per tutto il XX secolo fu proprio perché, a
quell’epoca, erano più o meno comunemente disponibili una
nozione di pace e di guerra “normali”, nella quale il
“terrorismo” e i suoi derivati trovarono la propria antitesi e, per
ciò stesso, anche la propria definizione. Fu proprio la presenza
di una nozione forte di che cosa avrebbe dovuto essere e
normalmente era la convivenza “civile” (interna e
internazionale) che consentì di concepire il terrorismo come
l’esatto opposto di tale condizione.
o Nella convivenza politica interna, questo ruolo di norma venne
svolto sin dalla fine del Settecento dalla diffusione di pratiche
disciplinate e sobrie di esercizio del monopolio statuale sulla
violenza legittima, in antitesi alle quali potevano apparire
“terroristici” sia l’uso improprio, abnorme del potere
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sanzionatorio dello stato, sia l’uso extralegale della violenza da
parte di soggetti “privati” del diritto di impiegarla.
o Nella convivenza politica internazionale, invece, l’uso della
parola “terrorismo” e dei suoi derivati rimase marginale fino a
tutta la Prima guerra mondiale per diffondersi solo più tardi, a
mano a mano che le offensive aeree contro le città, da un lato, e
la diffusione e il rafforzamento della guerra partigiana dall’altro,
misero apertamente in questione anche il modo in cui, fino
allora, gli stati europei avevano normalmente praticato e
concepito la guerra fra di loro: come uno scontro tra eserciti,
egualmente impegnati a escludere tutti gli altri soggetti (sia
come portatori, sia come vittime della violenza) da quel “centro
di gravitazione della guerra” che era la battaglia.
- 2) il secondo e più importante carattere della parola terrorismo
mischia due eccezioni diverse. La prima è quella del progressivo
superamento dell’hortus clausus dei combattenti, con l’impiego
da parte di questi ultimi di strumenti “terroristici” contro il
territorio e la popolazione dei propri nemici. La seconda, più
radicale, è quella del progressivo indebolimento della “presa”
degli stati sulla politica internazionale, con l’irruzione di
portatori alternativi di violenza organizzata. Tutte e due le
eccezioni hanno a che fare con la rottura dei limiti della guerra.
Ma la prima presuppone un accordo su come e contro chi la
guerra dovrebbe essere e normalmente è combattuta, mentre la
seconda ne presuppone uno su chi dovrebbe essere e
normalmente è a combatterla. Oltre che tardiva, la parola
terrorismo si rivela costitutivamente e non casualmente
ambigua. Mettendo sotto la stessa etichetta un metodo e dei
soggetti, essa rischia di nascondere o deliberatamente nasconde
il fatto che il primo non è necessariamente associato ai secondi
mentre i secondi non sono necessariamente destinati al primo
- A disinnescare sul nascere tale ambiguità ha provveduto la
capacità normalizzatrice dello stato – il “Grande Definitore”
della politica e del diritto moderni e, quindi, il produttore
pubblico della coerenza tra le parole e le cose.
- La nozione di terrorismo ha finito per designare non una
generica eccezione alle “buone regole” della guerra, bensì
un’eccezione più specifica e giuridicamente definibile alla
guerra interstatale come modello esclusivo della competizione
internazionale. Terrorismo, dal punto di vista dello stato e delle
sue categorie politiche e giuridiche, è solo ciò che non rientra
nella guerra “legale” tra gli stati: perché è perpetrato da soggetti
che non sono autorizzati a impiegare la violenza e perché, anche
quando tali soggetti si sentono in guerra, essi non hanno diritto
di sospendere lo stato giuridico della pace
- 3) Questo rapporto essenziale con l’equiparazione tra politica
internazionale e politica interstatale è il terzo elemento della
nozione corrente di terrorismo. Le conseguenze sul rapporto tra
norma ed eccezione:
o Se per il solo fatto di vedere trasgredito il proprio monopolio
sulla guerra, gli stati tenderebbero già a considerare irrilevanti o,
almeno, secondarie le differenze tra guerriglieri e terroristi, tale
tendenza risulta rafforzata ogni volta che gli stessi soggetti
ricorrono periodicamente sia all’uno che all’altro metodo – cioè
concretamente quasi sempre. Non è possibile ricorrere a metodi
terroristici senza assurgere, automaticamente, a “terroristi”; e
non è possibile assurgere a terroristi senza che, da questo
momento, anche tutti i pripri atti figurino coerentemente come
“terroristici”. Di questa confusione, la nozione attuale di
“terrorismo internazionale” costituisce la vera e propria
apoteosi.
o La seconda conseguenza tocca il fragile equilibrio tra legittimità
e innocenza. Nello stesso momento in cui si definisce
“terroristica” qualunque azione di guerra compiuta da soggetti
non autorizzati, che sia rivolta contro militari o contro civili, si
apre per i soggetti autorizzati uno sterminato spazio di
innocenza, all’interno del quale può tornare ad apparire
legittimo qualunque atto di guerra – compresi, in situazioni
estreme, quelli diretti contro i civili.
o Gli stessi atti sono definiti terroristici oppure no a seconda che
siano commessi da attori non statuali o da stati. Più che
distinguere troppo poco tra combattenti legittimi e illegittimi –
tra partigiani e terroristi – essa distingue anche troppo tra
regolari e irregolari. In un caso le violazioni sono racchiuse, se
riconosciute, sotto l’etichetta di “crimini di guerra” e trattate dal
diritto internazionale umanitario. Nell’altro caso sono definite
come terrorismo e affidate al diritto penale”. (A. Colombo, cit.,
pp. 56-63).
In breve: si possono avere 4 tipi di “terrorismo”:
chi lo fa
contro chi
civili
militari
stati
A
B
non stati
C
D
VI.- I conflitti violenti dal 1946
In premessa: uno sguardo ai conflitti 1800-1945
Tipi di guerre post 1991
“Già a un primo sguardo, è facile constatare come le ostilità
militari dell’ultimo quindicennio abbiano avuto forme
eccezionalmente eterogenee, da guerre di impianto ancora
tradizionale come quella del Golfo del 1991 a operazioni militari
“chirurgiche”, cioè a costo zero per l’attaccante, come i
bombardamenti sull’Iraq nel 1996 e nel 1998 e quelli sulla
Jugoslavia nel 1999, da manifestazioni al massimo grado della
sovranità del paese più forte a manifestazioni di collasso della
sovranità (come le guerre di disgregazione territoriale nell’ex
Unione Sovietica, nella ex Jugoslavia e in Africa centrale) fino
alla riappropriazione di capacità militari e politiche da parte di
soggetti non sovrani, come le imprese più recenti delle
organizzazioni terroristiche. Ma quello che è più significativo è
che a questa varietà di forme si è accompagnata una incertezza
crescente sulla legittimità del ricorso alla guerra”. (A. Colombo,
La guerra ineguale, il Mulino, Bologna, 2006, pp. 7-8).