Crisi ecologica e costruzione sociale della questione ambientale. Esplorazioni teoriche e concettuali di sociologia dell’ambiente Maria Laura Draetta 1 L’obiettivo di questo volume è di presentare un percorso sintetico di sociologia dell’ambiente attraverso alcune esplorazioni teoriche e concettuali tendenti a fare dell’ambiente un oggetto di studio pertinente per la sociologia. La sociologia dell’ambiente si distingue dagli altri campi disciplinari per fare dell’ambiente e della questione ambientale il suo oggetto scientifico, riconoscendo alle variabili ecologiche il valore di determinanti nella spiegazione di alcuni fenomeni sociali (Dunlap, Catton 1979), ma anche e soprattutto concettualizzando il rapporto uomo/natura in quanto fatto sociale (Picon 2002). Quali sono le sue caratteristiche principali e come è venuto costruendosi questo nuovo campo disciplinare che è la sociologia dell’ambiente? Quali sono i suoi quadri teorici, i suoi terreni di ricerca e le problematiche che costituiscono il punto di partenza delle sue analisi? Come si definisce il suo oggetto di studio? Il volume si compone di due parti. Nella prima verranno affrontate delle questioni concettuali, relative all’ambiente in quanto categoria del senso comune e del sapere scientifico. La seconda parte affronta invece il tema del rapporto tra sociologia e ambiente presentando, in particolare, la sociologia dell’ambiente come campo disciplinare emergente. Dopo un primo capitolo introduttivo sul processo di formazione e le principali caratteristiche della sociologia dell’ambiente, questa parte presenterà in modo più analitico i percorsi che hanno condotto questa sub-disciplina alla sua forma attuale. 2 Indice I. Quale ambiente per lo studio dell’ambiente? 1. Una nozione multidimensionale 2. Una categoria di preoccupazioni socio-istituzionali II. La sociologia dell’ambiente 1. Un campo disciplinare in formazione 2. Sociologia e Ambiente 3. La negazione e l’esclusione dell’ambiente naturale dal campo di studio della sociologia classica 4. Quadri teorici della Sociologia dell’ambiente 4.1 Lo strutturalismo ecologico 4.2 La struttura analitica della sociologia dell’ambiente: il “complesso ecologico” 4.3 Lo strutturalismo politico-economico 5. Dallo strutturalismo ecologico alle prospettive degli anni Novanta a. Il costruzionismo sociale b. La teoria della modernizzazione ecologica III. Per concludere 3 I. Quale ambiente per lo studio dell’ambiente ? L’ambiente fa parte di quelle categorie che, come la « qualità », non rilevano chiaramente né del senso comune, né di una costruzione come oggetto scientifico o politico, ma un pò di tutto contemporaneamente (Deverre 1998 : 12). 1. Una nozione multidimensionale « L’ambiente è l’insieme, ad un dato momento e in un determinato luogo, degli agenti e delle condizioni fisiche, chimiche e biologiche, suscettibili d’avere un effetto diretto o indiretto, immediato o a lungo termine, sugli esseri viventi e le loro attività ».1 « Per "ambiente" deve intendersi il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protette dall’ordinamento [giuridico] perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. L’ambiente è una nozione, oltre che unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali ».2 Risultato di una costruzione progressiva nell’interazione tra il campo del sociale e il campo scientifico, la nozione di “ambiente” si caratterizza, nell’uso corrente come in quello degli esperti, per una vasta polisemia (cfr. Guerrini, Muxart 1989 ; Godard 1992) ed è spesso percepita in modo contraddittorio. Questa polisemia deriva dall’etimologia del termine, che non designa una realtà ben specifica ma piuttosto il risultato di uno stato: quello di essere intorno (circondare). In effetti, quando si parla di “ambiente” si fa riferimento ad una nozione multidimensionale, tipicamente relativa, dipendente dal contesto in cui è utilizzata. Tale nozione porta con sé un certo imbarazzo interpretativo, 1 E’ questa la Definizione data dal Consiglio Internazionale della lingua francese, che è stata ripresa dal Ministero dell’Educazione Nazionale per designare l’istruzione degli studenti in materia di ambiente (cfr. B.O.E.N. del 8/9/77, circolare n°77-300 riguardante l’istruzione generale). 2 Secondo una sentenza della Cassazione Penale Italiana (sez III, 10 marzo 1993, n. 513). 4 generando spesso confusione e suggerendo ad alcuni la sua inesistenza o una certa inutilità empirica. Alcune sue definizioni teoriche (come quelle su riportate) ci permettono di constatare che il termine “ambiente” rinvia ad un’opposizione dicotomica tra ciò che è fisicamente intorno – l’ambiente fisico, bio-fisico, o la natura – e il contesto economicosociale e culturale, che serve da sfondo alle attività dell’attore o dei gruppi sociali. Nel linguaggio « non-sociologico », soprattutto nel senso comune, questo termine è oramai utilizzato quasi esclusivamente in un’accezione ecologica, per indicare il contesto bio-fisico all’interno o all’esterno del quale si realizzano le attività umane. Con o senza l’aggettivo naturale, il temine “ambiente” ha tendenza allora a coincidere con quello di “natura”, rinviando a dei concetti come quelli di spazio, di paesaggio, di insieme delle specie viventi non-umane. Questa concezione ecologica è comune ugualmente in numerosi ambiti scientifici, soprattutto “non-sociali”, dove il l’ambiente non è niente altro che una nuova denominazione per un oggetto di studi che non è nuovo e che è specifico delle scienze naturali (Godard 1992 : 342). Gli sviluppi storici della sociologia hanno condotto la maggior parte dei sociologi ad utilizzare il termine “ambiente” con un significato differente, facendo riferimento piuttosto all’ambiente sociale. In sociologia, l’ambiente è considerato come costituito da un insieme di condizioni e di fattori che rilevano del sociale e del culturale (Dunlap, Catton 1979 : 245) e che caratterizzano la vita degli individui, le loro interazioni e il funzionamento dei sistemi sociali. In questa ottica, se ci si rapporta ad un sistema sociale, l’ambiente designa un insieme di aspetti tipicamente socioculturali esterni a suddetto sistema, che sono contemporaneamente fattori di funzionamento di quest’ultimo e funzione dell’attività antropica. Questa assimilazione della categoria di ambiente a quella di ambiente sociale deriva dalla volontà della mainstream sociology d’andare al di là della visione positivista e di considerare i soli fattori socioculturali come pertinenti nella determinazione dei comportamenti sociali. La sociologia dell’ambiente, nel suo specifico, va nel senso opposto. Il termine “ambiente” è diventato, nel linguaggio di diversi sociologi ambientali, “contrazione 5 sinonimica di ambiente naturale” (Milanaccio 1990). E’ vero infatti che, fin dall’inizio, la sociologia ambientale ha definito il suo ambiente come un ambiente esclusivamente bio-fisico, rifiutando ogni approccio dell’ambiente sociale, con l’obiettivo di distinguersi dalla sociologia corrente. Per questa ragione, la sociologia ambientale – sul modello delle altre discipline scientifiche non-sociali - ha sempre impiegato il termine “ambiente” nel suo significato fisico, rivendicando per sé il compito di studiare le variabili ambientali come possibili determinanti di taluni comportamenti o fenomeni sociali3. Per questo filone sociologico, l’ambiente è dunque ciò che non è umano, che non fa riferimento né alla cultura, né alla società, né alla psicologia degli individui. Gli elementi che costituiscono il campo ambientale sono degli elementi bio-fisici, nonumani, sia naturali (l’aria, l’acqua, gli animali, le piante…) che non-naturali. Questi ultimi non sono totalmente indipendenti dall’intervento antropico, potendo pure esserne il risultato (per esempio: i paesaggi modificati, i laghi artificiali, i campi coltivati, l’aria e l’acqua degradate dalle attività umane, ma anche le abitazioni, gli edifici, i sistemi territoriali di comunicazione)4. Un esame della letteratura sociologico-ambientale permette di ritrovare, all’interno dei diversi scritti, il riferimento a tre sorte di categorie ambientali, individuando: un ambiente naturale, un ambiente modificato e un ambiente costruito. Queste tre categorie sono tutte riconducibili all’ordine del biofisico, ma si distinguono per essere caratterizzate rispettivamente da un livello via via più importante di antropizzazione. Raimondo Strassoldo, nel suo saggio di introduzione all’ecologia umana (1977), riassume queste tre posizioni intravedendo la possibilità di concettualizzare l’ambiente come l’insieme degli elementi bio-fisici (che siano naturali o costruiti) del sistema sociale. Egli include in questa concettualizzazione lo spazio e il territorio5. Nella prospettiva di Strassoldo, questi elementi – naturali e artificiali – che 3 Tra l’altro, la prima questione teorica che i sociologi dell’ambiente hanno dovuto affrontare è stata quella della moltitudine di significati che caratterizza la nozione di ambiente, nonché dell’ambiguità degli usi che sono fatti di questa nozione (Mela, Belloni, Davico 1998). 4 Per saperne di più sul modo in cui la sociologia ambientale affronta l’ambiente e le sue questioni, vedi R.E. Dunlap, W.R. Catton, « What Environmental Sociologists have in Common (whether Concerned with “Built” or “Natural” Environments) », Sociological Inquiry, vol. 53, n. 2-3, 1983, pp. 113-135. 5 Lo spazio è definito da Strassoldo come un concetto astratto, che fa riferimento non a degli elementi materiali ma piuttosto ad una serie di rapporti tra soggetti, oggetti, tra soggetto/i e oggetto/i (come i rapporti di distanza-allontanamento, di densità, di forma, di dimensione…). Il territorio, al contrario, è 6 costituiscono la dimensione ambiente rispetto all’uomo, possono essere considerati non solo come lo sfondo delle attività umane ma anche come risorse e vincoli di queste attività. Essi acquistano così un ruolo attivo nelle azioni e nelle relazioni umane. Un’interpretazione ulteriore della nozione di ambiente, che ingloba le diverse dimensioni individuate fino ad ora, è quella in cui il termine rinvia a tutto ciò che è esterno a un sistema. Questa interpretazione è ispirata da approcci di tipo sistemico in cui l’ambiente è pensato come un sistema globale, costituito dall’intreccio di una serie di sottosistemi in opposizione reciproca che costituiscono i presupposti e le determinanti dell’interazione sociale. In questo registro, Edgar Morin (1980) è il promotore di una « ecologia generalizzata », fondata sul postulato della reciprocità delle relazioni natura/società. Egli considera l’ecosistema come una vera e propria organizzazione e non come un semplice serbatoio di energia per i sistemi umani. La sua percezione della relazione uomo/ambiente rinvia ad un’idea di equilibrio tra mondo naturale e mondo sociale. In questo equilibrio, Morin riconosce alla natura un potere di interazione6 e ci invita a non sottovalutare l’effetto di retroazione che il suo asservimento da parte dell’uomo produce sull’uomo stesso (il proprio asservimento). Con questa prospettiva, Morin pensa l’ambiente come una “organizzazione complessa” che può essere capita soltanto attraverso la fusione delle sue componenti, quella naturale e quella culturale7. Sempre in un’ottica sistemica, Alfredo Mela, Maria Carmen Belloni e Luca Davico, nel loro manuale di sociologia dell’ambiente (1998), si distaccano dalla prospettiva dominante nel loro campo disciplinare. Costruiscono una teoria dell’interazione sociale nella quale l’ambiente è definito come un sistema globale che determina l’azione sociale. Nel loro modello esplicativo, l’interazione si sviluppa all’interno di uno spazio ambiente costituito da diverse dimensioni che appartengono allo stesso tempo al dominio del naturale e a quello del socio-culturale e sono definito come facente riferimento allo spazio materiale nel quale e grazie al quale il sistema vive e si nutre (Strassoldo 1977). 6 Anche se considera l’autonomia come una realtà ontologica fondamentale della vita umana. 7 Questa concezione è riassunta nella nozione ben nota di errore matematico : « L’uomo è allo stesso tempo 100% natura e 100% cultura ». Attraverso questa nozione, Morin presenta la necessità di integrare la visione e lo studio delle società umane con la visione e lo studio degli ecosistemi (cfr. Morin 1980). 7 fortemente interconnesse le une con le altre. Queste dimensioni, distinte sulla base di due criteri fondamentali – la distinzione naturale/culturale e la “gradualità dimensionale dei livelli di realtà della natura” – costituiscono, secondo questi autori, le determinanti e i presupposti dell’interazione sociale8. Il termine “ambiente” suscita dunque diverse immagini, secondo il contesto in cui è utilizzato. La maggior parte delle definizioni su riportate confluisce nondimeno su di una interpretazione di ambiente in quanto spazio – materiale o immateriale - in cui vive l’uomo (i francesi utilizzano a questo proposito il termine generico milieu), e tendono a prendere in conto i fattori capaci di influenzare questo milieu (Boullet 1999 : 20). Per sintetizzare, l’uso del termine rinvia generalmente a due opposizioni dicotomiche fondamentali: una prima opposizione è quella tra una dimensione naturale e una dimensione costruita, la prima facente riferimento ad un sistema biofisico dal quale l’uomo resta escluso, la seconda riferendosi allo spazio fisico costruito (questa seconda dimensione ci rinvia al territorio abitato, all’insieme dei luoghi della vita quotidiana dei soggetti, compresi gli spazi fortemente antropizzati come gli ambienti urbani e metropolitani). La seconda dicotomia oppone invece una dimensione materiale, comprensiva delle due precedenti (quella dello spazio naturale e quella dello spazio costruito), ad una dimensione socioculturale o “mentale”, che designa i diversi tipi di relazioni umane (tra l’individuo o il sistema sociale di riferimento e i gruppi, le organizzazioni, le società, le culture che influiscono sulla loro esistenza). 2. Una categoria di preoccupazioni socio-istituzionali L’economista francese Olivier Godard (1992), noto per le sue teorizzazioni sulla relazione tra sistemi ecologici e sistemi socio-economici, va al di là delle concettualizzazioni in termini di opposizione dicotomica. Egli dà dell’ambiente tre 8 Lo « spazio ambiente », come è definito da Mela, Belloni e Davico, è disaggregato in otto dimensioni, distinte dapprima secondo che rilevino del campo naturale o del campo socio-culturale e, in seguito, secondo le dimensioni delle entità considerate (andando dalla più piccola, l’individuo, fino alle più grandi aggregazioni, di soggetti umani, di ecosistemi, la natura inanimata). 8 significati principali basati sui diversi universi a cui questa nozione rinvia nei discorsi scientifici e in quelli prodotti dal senso comune. Per Godard, l’ambiente può essere allo stesso tempo un ambiente-natura, un ambiente-sistema e un ambiente-problema. Quest’ultimo significato, spiega Godard, è di formazione recente. Esso è legato all’emergenza della questione ambientale e, dunque, alla percezione sempre più diffusa della crisi ecologica in quanto problema sociale. Oggi, il termine “ambiente” rinvia ad un tema ideologico e ad un insieme di problemi specifici della nostra epoca. E’ sempre più utilizzato per designare delle problematiche che toccano l’ambiente naturale e che costituiscono delle categorie di preoccupazioni sociali e istituzionali (Godard 1992). Intorno a questa nozione di ambiente in quanto preoccupazione sociale, si è costruita una nuova prospettiva di studi sociologici dell’ambiente: il costruzionismo sociale9 (Hannigan 1995 ; Yearley 1992, 1996). Tale prospettiva nega il carattere oggettivo delle questioni ambientali e considera l’ambiente come un problema unicamente nella misura in cui gli individui o i gruppi lo costruiscono mentalmente e socialmente in quanto tale. Il costruzionismo sociale, come verrà meglio spiegato in seguito, è un nuovo approccio teorico-metodologico che si è sviluppato recentemente nell’ambito della sociologia ambientale, sull’influenza degli studi culturali. Attribuisce ai problemi ambientali una forte componente di soggettività, che conduce a considerarli in termini di attribuzioni di significati. Secondo tale approccio, la crisi ecologica diventa una preoccupazione sociale solo quando gli attori - sociali, individuali o collettivi - la percepiscono e la trattano come tale (Beato 1998). Questa prospettiva si distacca dall’approccio dominante in sociologia ambientale, che è invece di tipo oggettivista, strutturalista e che precede cronologicamente il costruzionismo sociale10. In quanto social-costruzionista, il canadese John A. Hannigan11 definisce l’ambiente come il sito in cui tutto un repertorio di attività definizionali, di 9 Dall’inglese social constructionism. La prospettiva strutturalista della sociologia ambientale si sofferma sulla materialità delle questioni dell’ambiente, considerandole come delle variabili determinanti di alcuni comportamenti e fenomeni sociali. Tuttavia, non nega il fatto che alla base della crisi ecologica vi siano delle cause sociali e, anzi, fa di queste cause un oggetto di riflessione e di ricerca. 11 J.A. Hannigan è l’autore di un’opera che costituisce fino ad oggi il contributo più importante all’approccio costruzionista della sociologia ambientale (Hannigan J.A., 1995, Environmental Sociology : A Social Constructionist Perspective, Routledge, London). 10 9 contestazione e di formulazione di interessi culturali si incrociano e entrano in competizione (Hannigan 1995 : 187). Senza negare l’affermazione di una società attuale più ecological friendly, questo autore ci mette in guardia contro il fatto che le tematiche e i problemi ambientali emergono e ricadono costantemente, come lo fanno le nostre definizioni e le nostre percezioni della natura, dell’ecologia, del rischio e di altri elementi della connessione ambiente-società. Suggerisce allora che l’obiettivo di una nuova sociologia dell’ambiente, social-costruzionista, sia quello di comprendere il modo in cui le rivendicazioni riguardanti le condizioni ambientali sono assemblate, presentate e contestate. Egli propone per questo un modello analitico che si focalizzi sulle forze sociali e politiche (attori e istanze) della costruzione sociale dei problemi ambientali, per rispondere alla domanda: perché soltanto determinati problemi si trasformano in politiche pubbliche efficaci? In definitiva, determinare ciò che è l’ambiente dipende in larga misura dall’osservatore concettualizzante, che può utilizzare questa nozione per riunire una serie di conoscenze sui rapporti tra uomo e natura, tra sistema sociale e sistemi (bio)fisici, tra attività umane e territorio, tra società e spazio. E’ questa una prospettiva sistemica che concepisce l’ambiente come l’insieme dei sistemi esterni a quello preso in considerazione. Quello di “ambiente” – è bene ripeterlo – è un concetto relativo, che mette tutte le scienze nella condizione di essere scienze dell’ambiente, nella misura in cui analizzano la realtà che circonda il loro oggetto di studi12. Raimondo Strassoldo (1989) ci invita a specificare le diverse dimensioni secondo le quali la nozione di ambiente è tematizzata, in relazione al tipo di problematica e all’orizzonte disciplinare, per evitare di tradurre l’ampiezza del concetto in indeterminazione e ambiguità. 12 R. Strassoldo afferma che « ogni scienza attribuisce all’ambiente tutto ciò che non è parte costitutiva dei suoi oggetti di analisi : così, la società è ambiente per l’individuo ; le piante, gli animali e il clima sono ambiente per l’uomo ; la società è ambiente per il sistema politico… » (Strassoldo 1989). 10 I. La sociologia dell’ambiente 1. Un campo disciplinare in formazione Per questioni legate alla sua storia e alla sua istituzione, oltre che per ragioni epistemologiche, specifiche del suo oggetto di ricerca (infra: capp. 2 e 3), la sociologia ha a lungo esitato prima di prendere in considerazione le tematiche ambientali come oggetto scientifico. E’ infatti solo nel corso degli anni Settanta, all’epoca dell’emergenza della crisi ambientale e dell’ecologismo come movimento sociale, che la disciplina si confronta con queste tematiche. Inizialmente, si tratta di affrontare le interazioni tra ambiente13 e società facendo ricorso agli strumenti teorici e metodologici tradizionali, visto che: […] gli studiosi fanno proprie nuove interrogazioni e nuovi concetti con un tempo di assimilazione piuttosto lungo [e perchè] il primo atteggiamento degli studiosi consiste in effetti nel ridurre le nuove questioni alle problematiche e alle categorie ben rodate che organizzano il loro universo delle rappresentazioni e i loro interventi professionali (Godard 1992 : 338)14. In seguito, quando l’ambiente si trasforma in categoria dell’azione pubblica (sociale e politica) propriamente detta, un processo di ricostruzione teorica fondato su un cambiamento paradigmatico diventa inevitabile per ripensare i rapporti dialettici tra società e ambiente naturale. Ai suoi inizi, la teoria sociale dell’ambiente è una teoria della crisi ambientale (Beato 1998 : 41). Tale crisi deve essere intesa non solo come l’alterazione degli equilibri ecosistemici da parte dell’attività umana, ma anche come il problema a partire dal quale un insieme di dispositivi sono pensati e messi in opera dalla società per denunciare il problema e fronteggiarlo. Per dirla nei termini dei francesi Michel Callon e Bruno Latour15, la crisi ambientale è un forum hybride16 (Callon, Rip 13 In questo caso inteso come ambiente naturale, milieu come dicono i francesi. Tradotto da me, M.L.D. 15 M. Callon e B. Latour sono all’origine della ormai famosa “sociologia della traduzione” a cui si ispirano anche alcuni sociologi neoistituzionalisti dell’organizzazione (per esempio, Barbara Czarniawska). 14 11 1992), all’interno del quale entrano in gioco dei problemi che sono allo stesso tempo umani e non-umani (Latour 1997/1991), come per esempio il global warming, la desertificazione, il buco dell’ozono, le maree nere... e i cui attori – tra cui i movimenti sociali e politici ambientalisti, ministeri e agenzie per l’ambiente – danno luogo a delle norme socio-tecniche, a delle politiche pubbliche ambientali, alle scienze sociali dell’ambiente... In questo modo, la teoria sociale dell’ambiente diventa “quel complesso organico di proposte riguardanti la relazione di crisi che si è stabilita tra l’ambiente naturale e le società umane, tra natura e cultura” (Beato 1998 : 42). In sociologia, due grandi opzioni teoriche sono scelte per affrontare questa relazione di crisi: da un lato e per prima, lo strutturalismo (ecologico e politicoeconomico), dall’altro e più recentemente, il costruzionismo sociale. Le due forme di strutturalismo – quello ecologico e quello politico-economico segnano la genesi storica e concettuale della sociologia dell’ambiente. Sviluppate, la prima da William Catton e Riley Dunlap, la seconda da Allan Schnaiberg, hanno una base concettuale comune: un approccio oggettivo strutturale, che è di tipo macroanalitico, istituzionale e naturalista. Dal canto suo, il costruzionismo sociale si presenta come un approccio soggettivo, costruzionista, di tipo microanalitico e azionalista17. Lo strutturalismo ecologico è fondato sul postulato che le strutture e i cambiamenti sociali sono in relazione reciproca con l’ambiente biofisico. Considera le variabili ecologiche come determinanti di taluni fatti sociali e pertanto le propone come oggetto di studio pertinente per la sociologia. Questo quadro teorico ha ispirato a coloro che sono considerati i fondatori della sociologia dell’ambiente – gli americani Wiliam Catton e Riley Dunlap - la costruzione di una struttura analitica per il loro campo disciplinare. Tale struttura, ci invita a prendere in considerazione l’impatto dei fatti sociali sull’ambiente naturale e/o l’impatto dei fatti ambientali sui fatti sociali. 16 Un “foro ibrido”. “Foro” è qui da intendersi nel senso latino del termine. Si precisa che queste caratteristiche definiscono il costruzionismo sociale in quanto quadro teorico della sociologia dell’ambiente. Nel caso più generale del costruzionismo sociale come approccio trasversale della disciplina sociologica in generale, tale avvicinamento col soggettivismo non è sempre possibile. 17 12 2. Sociologia e ambiente Luciano Gallino, nel suo Dizionario di sociologia (1988/1978) alla voce “ambiente naturale”, descrive il percorso che ha attraversato la riflessione sociologica sur rapporto società/ambiente (naturale) e ne mette in evidenza tre fasi distinte: quella della sociologia preclassica, quella della sociologia classica o moderna e quella della sociologia contemporanea. La prima fase di questo percorso, che secondo Gallino risale alle radici stesse del pensiero sociale e che è quella della sociologia preclassica18, si caratterizza per un interesse quasi esclusivo per l’influenza dei fattori ambientali sui fenomeni sociali; la seconda fase, quella della sociologia classica o moderna, cominciata negli ultimi decenni del 1800, si caratterizzerebbe invece per aver spostato il suo interesse scientifico verso l’organizzazione sociale e la cultura in quanto mediazioni del rapporto tra l’uomo e l’ambiente biofisico; infine, la terza fase, che sarebbe cominciata trenta anni fa, si è sviluppata e continua a svilupparsi oggi sotto il segno dell’ecologia. E’ solo nel corso di quest’ultima fase recentissima che la sociologia si è interessata alla funzione che i fattori culturali e i fattori strumentali assumono nell’alterazione dell’equilibrio dei biosistemi (Gallino 1988 : 21). Da un lato, l’ideologia di depredazione e la convinzione che le risorse naturali sono inesauribili (fattori culturali), dall’altro lo sviluppo del sistema industriale nelle sue variazioni capitalista e socialista, oltre che le esigenze della geopolitica (fattori strumentali), sono finalmente studiati in quanto responsabili degli squilibri ambientali. Tali aspetti sono ugualmente presi in conto per gli effetti che l’alterazione ecologica può produrre a sua volta su determinati fenomeni e comportamenti sociali (Dunlap, Catton 1979 : 255). Secondo un’immagine costantemente evocata dalla maggior parte dei sociologi ambientali19, la teoria sociologica contemporanea si è sviluppata rifiutando sistematicamente di incorporare le variabili ecologiche nell’analisi sociologica. Questo 18 Che potremmo datare dall’antichità fino al XIX° secolo (sempre secondo la periodizzazione proposta da Luciano Gallino). 19 Cfr. Dunlap, Catton 1979 ; Buttel 1986 ; Beato 1993 ; Strassoldo 1993 ; Benton 1994 ; Murphy 1996 ; Tessier, Vaillancourt 1996 ; Deverre 1998 ; Kalaora 1998 ; Foster 1999. 13 rifiuto è una conseguenza della storia e dell’istituzione della disciplina, in particolare di alcune barriere erette dalla sociologia classica tra società e natura, da un lato, e tra sociologia e scienze naturali, dall’altro. La negazione e l’esclusione deliberate dell’ambiente naturale dal suo campo di intervento, sono volute dalla sociologia classica nel nome della legittimazione dell’esercizio della professione e dell’autonomizzazione accademica (Kalaora 1998 : 14). La crisi ecologica, che si manifesta in tutta la sua gravità e la sua urgenza all’inizio degli anni Settanta, interviene come elemento di rottura nella trama delle relazioni complesse che i sistemi sociali storici avevano stabilito fino a quel momento con i sistemi naturali (Catton, Dunlap 1980). Già alla fine degli anni Sessanta, alcune problematiche ambientali relative al funzionamento “normale” del sistema sociale avevano cominciato ad emergere: inquinamento atmosferico e idrico, crisi ambientale urbana, ma soprattutto preoccupazioni legate alla sicurezza delle centrali nucleari (Strassoldo 1989, citato da Martinelli: 62) e ai rischi di incidenti tecnologici. « Ad una natura risorsa, utilitaria, ricreativa, si sostituisce una natura ecologica, minacciata e minacciosa, […] tappezzata di crisi, di catastrofi e di irreversibilità » (Kalaora 1998 : 14, 98). Nel contesto occidentale, soprattutto in quello nordamericano (il primo ad esser stato colpito dagli effetti perversi dell’industrializzazione e del consumismo), emerge l’esigenza di ristabilire un consistente numero di temi relativi al rapporto società/ambiente e uomo/natura20. Questa esigenza opera transversalmente, nelle attività economiche, politiche, giuridiche, come pure nel campo scientifico oltre che nelle opinioni degli attori sociali in gioco. I movimenti ecologisti trovano un terreno fertile, soprattutto e inizialmente negli Stati Uniti. Come le altre nuove scienze sociali dell’ambiente (economia, politica, storia, antropologia), la sociologia ambientale emerge, all’inizio degli anni Settanta, in quanto “figlia legittima di questa crisi-discontinuità” (Beato 1993 : 11). E’ il risultato dell’incorporazione della coscienza ecologica nel nucleo paradigmatico della disciplina20 E’ negli Stati Uniti che l’idea della protezione naturalistica nasce e si sviluppa per prima, già a partire dal XIX° secolo con la creazione dei primi parchi nazionali (in particolare Yellowstone nel 1872 e Yosemite nel 1890). 14 madre, in risposta alla crisi ambientale e alla sfida sollevata dall’ambientalismo. Il contenuto del dibattito politico e scientifico, ma anche le caratteristiche degli attori implicati (lo Stato, i movimenti ambientali e sociali, l’opinione pubblica), sono i suoi primi campi di ricerca. E’ vero che, prima dell’esplosione della crisi ecologica, la sociologia contemporanea aveva già mostrato un certo interesse – benché secondario – per alcune tematiche ambientali. Le ricerche della sociologia rurale sulla gestione degli spazi e delle risorse naturali e quelle della sociologia urbana sull’ambiente costruito (vedi quelle sviluppate dalla Scuola di Chicago) testimoniano su questo interesse. Tuttavia, i sociologi dell’ambiente sono unanimi sul fatto che la sociologia “ambientale”, in quanto campo disciplinare, si sia sviluppata in risposta all’emergenza dell’attenzione sociale per le tematiche ambientali21. Ecco perché la maggior parte della letteratura ambientalista di matrice sociologica si è concentrata sull’osservazione di fenomeni sociali legati all’emergenza della problematica ambientale, come il movimento ecologista e gli atteggiamenti del pubblico verso le questioni ecologiche, la traduzione della nozione di qualità ambientale in problema sociale, i rischi di catastrofi, lo sviluppo delle politiche ambientali. Gradatamente, si sviluppa una coalizione tra quei sociologi animati da un tale interesse per gli effetti sociali della crisi ambientale ed altri interessati a temi già affrontati, come l’ambiente “costruito”, i rischi naturali, la gestione degli spazi naturali. I sociologi detti “dell’ambiente” costituiscono un gruppo piuttosto eterogeneo che presenta, come unico elemento unificatore, l’interesse per le tematiche ambientali. I loro lavori si caratterizzano per applicare le prospettive sociologiche tradizionali all’analisi di queste tematiche, facendo ricorso ad approcci già verificati, come quelli del mutamento sociale, dei movimenti sociali, della stratificazione... Questo approccio, che riprende delle questioni già poste dall’opinione pubblica e che fanno già parte delle agende politiche, è quello di una “scienza normale”, che è stata etichettata come “sociologia delle tematiche ambientali” (Dunlap, Catton 1979). 21 Cfr. Dunlap, Catton 1979 ; Buttel 1987 ; Freudenburg, Gramling 1989 ; Beato 1993 ; Tessier, Vaillancourt 1996. 15 Nel frattempo, un altro gruppo di sociologi non resta indifferente davanti ai testi fondamentali della cultura ecologista moderna, come Silent Spring (Carson 1962), Population, Resources, Environment (Ehrlich, Ehrlich 1970), The Closing Circle (Commoner 1971) e I limiti dello sviluppo (Club di Roma 1972). Sull’influenza di tali letture, questi sociologi riconoscono la realtà dei vincoli ecologici (soprattutto la scarsità delle risorse naturali) come causa di problemi evidenti per le società umane (Catton, Dunlap 1980). A partire da questo momento, cominciano a focalizzare la loro attenzione sulle interazioni tra società umane e ambiente biofisico, un’attualità tradizionalmente ignorata in sociologia. La preoccupazione per gli impatti sociali del degrado ambientale si integra con un’attenzione per le cause sociali dell’inquinamento e della rarefazione delle risorse naturali (cfr. Catton 1972, citato da Dunlap 1997 : 22). Un’attenzione esplicita è rivolta ugualmente ai rapporti dialettici tra le società e i loro ambienti, ovvero alla dipendenza delle società moderne dagli ecosistemi (cfr. Burch 1971, citato da Dunlap 1997 : 23). Si apre così un dibattito sociologico sulla necessità di incorporare nel perimetro degli oggetti della disciplina i rapporti tra sistemi sociali e sistemi ambientali. I ruralisti americani Catton e Dunlap ne sono all’origine. Questi orientano in particolare la discussione sulla necessità di ricusare il presupposto antropocentrico implicito in tutta la sociologia. La loro proposta teorica, che comincia con una riflessione critica sulla tradizione sociologica europea e americana, verte sull’opportunità di una rottura epistemologica portando avanti un processo di ricostruzione teorica della disciplina, che accetti le variabili ambientali come determinanti nelle ricerche e speculazioni sociologiche. La seconda parte degli anni Settanta marca il passaggio da una sociologia delle tematiche ambientali ad una sociologia ambientale (Dunlap, Catton 1979), essendo l’una la tappa pre-paradigmatica dell’altra (Beato 1993 : 34). Se la prima si focalizzava sullo studio delle tematiche ambientali attraverso le prospettive della sociologia tradizionale, la seconda propone di “togliere i paraocchi disciplinari” (Catton, Dunlap 16 1980 : 22) e di ripensare la norma durkheimiana tradizionale della « purezza sociologica » (ibid.). Una diversità di paradigmi, temi e livelli di analisi caratterizza la sociologia ambientale. Tuttavia, un’identità minima è stabilita attraverso delle ricerche empiriche significative e dei contributi teorici “costruiti in quanto critica alla sociologia tradizionale corrente” (Buttel 1987 : 468). La sociologia ambientale si allontana esplicitamente da questa tradizione e affronta le tematiche ambientali facendo ricorso ad un nuovo paradigma ecologico – il New Ecological Paradigm22 - fondato sul riconoscimento delle variabili ambientali nella spiegazione di determinati fenomeni sociali. Questo paradigma, formalizzato da Catton e Dunlap (1978a), si propone come alternativa al Paradigma dell’Eccezionalismo ou dell’Esenzionalismo Umano, che aveva ispirato la sociologia tradizionale fino a quel momento (infra). Nel 1976, la sociologia ambientale diventa, negli Stati Uniti, un campo disciplinare istituzionalmente riconosciuto negli ambienti scientifici e accademici23. William Catton, Riley Dunlap, Allan Schnaiberg e Frederick Buttel sono identificati come i suoi fondatori. Questi sociologi provengono tutti e quattro dalla sociologia rurale o dalla sociologia delle risorse naturali. I loro lavori nell’ambito del nuovo campo disciplinare sono abbastanza lontani dalla ricerca empirica. Sono piuttosto di tipo concettuale e speculativo, orientati verso la messa in discussione della posizione della sociologia di fronte alle questioni della natura e dell’ambiente, nonché verso la proposta di nuove prospettive teoriche. In particolare, Catton, Dunlap e Buttel si applicano alla decostruzione dell’approccio sociologico tradizionale dell’ambiente e alla costruzione dei quadri teorici di una sociologia dell’ambiente nascente. Il dibattito epistemologico che ne segue e che attraversa la sociologia dell’ambiente anche attualmente si costruisce 22 In acronimo : NEP. Nel 1976, l’Associazione Americana di Sociologia (ASA) istituisce la sociologia dell’ambiente come nuova sezione disciplinare, che prenderà in seguito la denominazione di « Ambiente e Tecnologia ». Ma già nel 1971 l’ambiente era stato ufficialmente riconosciuto come oggetto di studio della disciplina sociologica quando, nel corso di una conferenza internazionale nei Paesi Bassi, i sociologi europei avevano creato il Comitato di Ricerca in « Ecologia Sociale » all’interno dell’Associazione Internazionale di Sociologia (ISA). Questo comitato non ha mai avuto molto sucesso. E’ stato necessario attendre il 1990, perchè un gruppo di lavoro sulla sociologia dell’ambiente – il “Gruppo Tematico Ambiente e Società” – fosse creato all’interno dell’Associazione Internazionale di Sociologia (all’occasione del suo congresso a Madrid). Questo gruppo è diventato, nel 1992, il Comitato di Ricerca “Ambiente e Società”, attualmente diretto dall’olandese Arthur Mol. 23 17 a partire dai loro scritti. In quanto a Schnaiberg, questo autore resta estraneo al dibattito. Come Catton, Dunlap e Buttel, parte anche lui dal postulato che la struttura e il cambiamento sociale sono in relazione reciproca con l’ambiente biofisico. Ma non è interessato come gli altri dalle questioni di rottura paradigmatica o epistemologica. Il suo approccio è piuttosto orientato verso la spiegazione delle relazioni contraddittorie tra espansione economica e equilibrio ecologico. Si concentra in particolare sull’applicazione di alcune nozioni di sociologia e di economia politica ortodosse (neoweberiane e neomarxiste) a quest’analisi. La sua opera The Environment : From Surplus to Scarcity (1980) è considerata come la spiegazione sociologica più influente della relazione tra capitalismo, Stato e ambiente (Hannigan 1995 : 19). Per riassumere, la sociologia ambientale si caratterizza in base ai quattro elementi seguenti: la negazione di un possibile legame con la tradizione sociologica classica; la coscienza dell’ampiezza e dell’eterogeneità del gruppo di sociologi « dell’ambiente »24. Cio’ vuol dire che questi sociologi sarebbero uniti dal solo interesse per le relazioni tra società umana e ambiente biofisico, piuttosto che dalla condivisione di un paradigma teorico ben preciso (Buttel 1986); il riconoscimento della necessità di inserire una prospettiva ecologica nel pensiero e nella ricerca sociologica (Dunlap, Catton e Buttel), oltre che nella dinamica politicoeconomica (Schnaiberg), per capire e gestire meglio il fenomeno delle interazioni tra società e ambiente; un limite principale, riconosciuto dai suoi stessi teorici, che è quello di non aver ancora raggiunto un forte senso dell’orientamento comune o di identità professionale (Dunlap, Catton 1983 : 113). All’origine di questo limite vi sarebbero la separazione tra tradizione sociologica classica e sociologia ambientale, da un lato e, dall’altro, la varietà che caratterizza i sociologi dell’ambiente (ibid.). 24 Questo grande gruppo di ricercatori condivide degli oggetti di ricerca diversi, come la valutazione di impatto sociale, l’aménagement del territorio, i rischi ambientali, la gestione delle risorse naturali, i loisirs all’aperto, gli atteggiamenti e i comportamenti ambientali, ecc. (crf. Dunlap, Catton 1983). 18 Anche se alcuni teorici della sociologia ambientale hanno sentito il bisogno di trovare legittimazione nei classici procedendo ad una loro revisione con una griglia di lettura ecologica25, una delle caratteristiche fondamentali della sociologia dell’ambiente resta la proclamazione della sua novità radicale rispetto a tutta la tradizione sociologica precedente (Dunlap, Catton 1979). Il rifiuto dell’ottica antropocentrica, comune a tutte le prospettive teoriche in competizione nella sociologia contemporanea – funzionalismo, interazionismo simbolico, etnometodologia, marxismo e teorie del conflitto sociale – costituisce il punto di partenza della proposta teorica della sociologia dell’ambiente26. A causa del loro antropocentrismo, queste prospettive teoriche sarebbero in effetti limitate nella comprensione del cambiamento sociale che caratterizza il mondo moderno, sempre più vincolato dall’ecologia (Buttel 1987 : 468). Nonostante la loro diversità, esse condividono una visione del mondo anti-ecologica, fondata su un insieme di convinzioni antropocentriche e ottimiste riguardo alla relazione uomo/ambiente. Tale visione sarebbe un’eredità della cultura occidentale dominante nella quale la sociologia si è sviluppata. 3. La negazione e l’esclusione dell’ambiente naturale dal campo di studio della sociologia classica Un obiettivo fondamentale della sociologia classica è stato quello di allontanarsi dalle preoccupazioni biologiste e naturalistiche che invece avavano avuto un ruolo centrale nella sociologia preclassica dei darwinisti sociali. Al tentativo di spiegare i fenomeni sociali in termini di fattori biologici o fisici (tentativo piuttosto comune fino ai primi decenni del XIX° secolo), la sociologia classica, a modello delle altre scienze sociali, ha opposto infatti il rifiuto di ogni forma 25 Cfr. O’Connor 1988 ; Foster 1999 ; Dickens 1992, 1996, 2000, 2002. Il nucleo della formulazione di Catton e Dunlap della sociologia ambientale è la loro analisi, ad un largo livello paradigmatico, della similarità essenziale, in termini d’antropocentrismo, che caratterizza le teorie apparentemente differenti fondate sulla tradizione classica. Per Catton e Dunlap, le diversità di queste prospettive teoriche vengono meno quando queste ultime si trovano difronte ad un nuovo oggetto di studio come l’ambiente, condividendo al suo riguardo una posizione antropocentrica (cfr. Catton, Dunlap 1978a, pp. 41-42). 26 19 di determinismo ambientale o di biologismo. Ogni qualvolta si è trovata a dover spiegare il comportamento umano, la sociologia classica ha ignorato deliberatamente le classi di variabili considerate come le meno importanti (per prime le variabili biologiche e in seguito le variabili fisiche) e si è concentrata piuttosto sulla classe emergente delle variabili sociali (Dunlap, Catton 1983 : 117). La tradizione sociologica avrebbe dunque trasmesso alla sociologia corrente la convinzione che l’ambiente biofisico non è importante nel funzionamento e nella comprensione delle società umane. L’enfasi durkheimiana dei fatti sociali e dell’antiriduzionismo è alla base di questa trasmissione. Ma la tradizione classica ha avuto tendenza a trascurare l’ambiente naturale ugualmente per una esigenza di legittimazione epistemologica. In altri termini, per la sua preoccupazione di voler istituire, istituzionalizzare e professionalizzare la sociologia come una disciplina accademica autonoma, caratterizzata dall’unicità del suo oggetto e delle sue prospettive. Durkheim ha insistito molto sull’importanza di concentrarsi sulla dimensione sociale del comportamento umano, non solo per reagire contro il determinismo ambientale, ma anche per offrire un’area di competenza legittima al nuovo campo della sociologia. Max Weber, anche lui, ha escluso la natura dall’approccio sociologico. La sua posizione era radicale: la specializzazione della sociologia deve riguardare allo stesso tempo l’oggetto e il metodo. Ragion per cui Weber ha volontariamente epurato le sue opere da qualunque considerazione evoluzionista, oltre che da ogni ipotesi proveniente dai metodi delle scienze naturali (Buttel 1986 : 365)27. Il fatto che i classici della tradizione disciplinare – fonte di legittimità dell’agire sociologico – non abbiano trattato il rapporto ambiente (naturale)/società, che le concezioni metodologiche durkheimiane privilegiassero la spiegazione sociale dei fatti sociali e la volontà di escludere dal campo visivo della sociologia ogni elemento biofisico, costituiscono una prima serie di motivazioni che possono spiegare la 27 Quando Weber forza la separazione della sociologia dalle scienze naturali e dalle altre scienze sociali, lo fa con il solo scopo di legittimare la sociologia come una disciplina accademica autonoma. Weber non nega l’esistenza delle relazioni reciproche tra la società e la natura. Lui stesso prende in conto la dipendenza materiale della società, per esempio quando stabilisce che il capitalismo si fonda sulla disponibilità delle risorse fossili. Tuttavia, egli considera che queste relazioni debbano restare escluse dall’approccio sociologico, per poter garantire a quest’ultimo l’autonomia rispetto alle discipline delle altre scienze. 20 mancanza d’attenzione della sociologia moderna e contemporanea per l’ambiente naturale. A questi si aggiunge l’orientamento essenzialmente umanistico- antropocentrico della disciplina, dovuto al contesto socioculturale all’interno del quale si sono sviluppate le scienze sociali in generale. La sociologia moderna, nel suo periodo classico, si è sviluppata nell’ambito della cultura occidentale, che era fortemente antropocentrica e anti-ecologica28 (Catton, Dunlap 1978 ; 1979). Gli importanti successi scientifici e tecnologici della rivoluzione industriale, lo sviluppo dell’urbanizzazione (che ha ridotto il contatto con la natura), hanno alimentato considerevolmente la marginalizzazione della natura nella considerazione delle sue relazioni con la società29. Durante quasi un secolo e mezzo, fino ai “trenta gloriosi”, le società umane sembrano essere esenti dai vincoli ecologici e la sociologia si piazza interamente sotto il segno della cultura. I sociologi condividono una visione delle società umane, soprattutto di quelle industriali, fondata sul paradigma dell’eccezionalismo dell’essere umano e della sua cultura (Dunlap 1997). Secondo la sociologia classica, le caratteristiche eccezionali della specie umana – il linguaggio, la tecnologia, la scienza e la cultura moderna – avrebbero reso le società industrializzate “esenti” dai principi e dai vincoli ecologici che governano le altre specie della biosfera (ibid.)30. Questo « Paradigma dell’Eccezionalismo Umano » (in acronimo, dalla sua denominazione inglese, HEP)31, Catton e Dunlap lo rinominano più tardi come « Paradigma dell’Esenzionalismo Umano »32, per sottolineare appunto il fatto dell’esenzione delle società umane dai principi e dai vincoli ecologici. Se è vero che gli sforzi degli uomini di scienza sono spesso influenzati dall’ambiente socioculturale nel quale si sviluppano (Merton 1968), 28 Secondo questa cultura, l’uomo sarebbe separato e al di sopra della natura e quest’ultima esisterebbe essenzialmente per essere al servizio dell’uomo. 29 Lo sviluppo scientifico e tecnologico dei due ultimi secoli avrebbe in effetti contribuito a rinforzare la convinzione che gli uomini sono sempre più indipendenti dall’ambiente biofisico e che questo rappresenta una risorsa da manipolare e da sfruttare piuttosto che un vincolo per il comportamento umano (cfr. Dunlap, Catton 1983 : 116). 30 E’ riprendendo una definizione di Klausner (1971), che Catton et Dunlap riassumono questa prospettiva antropocentrica (caratterizzando implicitamente la sociologia tradizionale) nel « paradigma dell’eccezionalismo umano » (1978a). 31 Human Exceptionalism Paradigm. 32 Human Exemptionalism Paradigm, anche lui abbreviato con la sigla HEP. 21 non puo’ allora sorprendere il fatto che la sociologia abbia riflesso, fino agli anni Settanta, l’antropocentrismo ottimista di questa prospettiva occidentale dominante. 4. Quadri teorici della sociologia dell’ambiente Generalmente, si tende a far coincidere l’atto di nascita della sociologia ambientale con la pubblicazione del primo stato dell’arte della sub-disciplina in un’importante rivista sociologica internazionale (Beato 1994 : 321). Si tratta dell’articolo ben noto di Dunlap e Catton, « Environmental Sociology », apparso nel 1979 su Annual Review of Sociology. Quest’articolo, insieme ad un altro « Environmental Sociology : A New Paradigm » (Catton, Dunlap 1978a) – pubblicato un anno prima (1978) in un numero tematico della rivista The American Sociologist, costituiscono una fonte di ispirazione o di critica per ogni tentativo di teorizzazione condotto nell’ambito della sociologia dell’ambiente durante il decennio seguente. L’articolo del 1978, « Environmental Sociology : a New Paradigm », è dedicato alle “nuove prospettive teoriche della sociologia”. Gli autori vi trattano l’emergenza della sociologia ambientale, cercando di codificare i lavori sociologici realizzati fino ad allora su tematiche legate alle questioni ambientali. Catton e Dunlap vi danno una definizione esplicita della sociologia ambientale – come lo studio delle interazioni tra società e ambiente biofisico – e presentano le sue caratteristiche fondamentali che la qualificano come campo di ricerca distinto. Il rifiuto dell’antropocentrismo, che secondo Catton e Dunlap è comune a tutte le prospettive teoriche ricorrenti nel campo degli studi sociologici, è una di queste caratteristiche. In « Environmental Sociology » (Dunlap, Catton 1979), gli autori discutono in particolare delle tradizioni che hanno reso difficile, per la sociologia, il riconoscimento dell’importanza dei problemi ambientali e dei vincoli ecologici. In questo articolo, Dunlap e Catton lanciano una sfida esplicita al paradigma fondamentale della sociologia (quello che essi chiamano il Paradigma dell’Eccezionalismo Umano), proponendo un paradigma alternativo, il “Nuovo Paradigma Ecologico”, che mette l’accento sul 22 rapporto biologico dell’uomo col suo ambiente naturale e fa propria la tesi della dipendenza ecologica delle società umane dal loro ecosistema. Come già è stato accennato, insieme a Catton e Dunlap, altri due ruralisti sono all’origine della sociologia dell’ambiente come campo disciplinare: F. Buttel e A. Schnaiberg. L’apporto di Frederick Buttel alla costruzione di una sociologia ambientale non è un contributo teorico vero e proprio, nel senso di quelli di Catton e Dunlap o di Schnaiberg. Buttel ha piuttosto contribuito a far conoscere e a far avanzare la sociologia ambientale – che lui preferisce chiamare eco-sociologia - discutendo, criticando e paragonando le elaborazioni teoriche dei suoi tre colleghi. Due dei suoi articoli sono fondamentali a questo proposito: « Environmental Sociology: A New Paradigm? » (1978), apparso anche lui nel numero speciale della rivista The American Sociologist e consacrato alle “nuove prospettive teoriche della sociologia”, ed un altro, risalente al 1986, tradotto anche in francese col titolo « Sociologie et environnement : la lente maturation de l’écologie humaine ». In questi due articoli, Buttel manifesta anche lui, in accordo con Catton e Dunlap, la necessità e la difficoltà dell’incorporazione dei parametri ecologici nelle analisi della disciplina madre. Accetta e conferma la distinzione fatta da Catton e Dunlap tra il Paradigma dell’Eccezionalismo Umano (che caratterizza le correnti sociologiche dominanti) e il Nuovo Paradigma Ecologico, proposto da questi in alternativa. Tuttavia, Buttel avanza delle critiche e delle riserve riguardo a quest’ultimo paradigma. Da un lato, gli rimprovera il suo determinismo materiale troppo spinto e, dall’altro, dubita che le sue ipotesi – che si situerebbero ad un livello troppo astratto – possano promuovere una ricerca fruttuosa. Per Buttel, il dominio dei postulati del nuovo paradigma ecologico e della sociologia ambientale è materia di controversie. La sua interrogazione critica consiste nel cercare di capire se i sociologi dell’ambiente – che lui definisce come coloro che accettano la totalità o almeno la maggior parte dei postulati del NEP – rappresentano effettivamente l’uniformità teorica fondamentale che Catton e Dunlap gli attribuiscono (Buttel 1986). 23 4.1 Lo strutturalismo ecologico: il Nuovo Paradigma Ecologico Catton e Dunlap applicano l’etichetta di « Paradigma dell’Eccezionalismo Umano » all’insieme delle convinzioni antropocentriche e anti-ecologiche che percorrono trasversalmente le diverse prospettive teoriche della sociologia tradizionale, classica e contemporanea (1978a). Un paradigma, secondo Catton e Dunlap, è un’immagine condivisa dai membri di una comunità scientifica a proposito della natura dell’oggetto-soggetto della loro scienza (Catton, Dunlap 1978a : 256). Il “paradigma dell’eccezionalismo umano” non è dunque una teoria, ma una prospettiva (o una visione del mondo), comune tra i sociologi classici e contemporanei, che ha reso difficile la presa in conto dei problemi e dei vincoli ambientali con i quali le società contemporanee devono confrontarsi. Il Paradigma dell’Eccezionalismo Umano si declina, a detta di Catton e Dunlap, in quattro postulati principali, che mettono in evidenza: (a)- l’eredità culturale degli esseri umani, distinta dal bagaglio genetico e che differenzia l’uomo dalle altre specie animali ; (b)- la predominanza dei fattori sociali e culturali nella determinazione delle questioni umane; (c)- la supremazia degli ambienti sociali e culturali sull’ambiente biofisico in quanto contesti dell’azione sociale; (d)- la fede nella tecnologia e nel progresso per risolvere i problemi sociali. La tesi di fondo di questo paradigma si riassume dunque in un radicale antropocentrismo. Eccezionalismo vuol dire che l’uomo è un’eccezione nella sfera degli esseri viventi e nella sfera naturale in generale. E’ una specie unica. Ereditati dalla prospettiva occidentale dominante (vedi tab. 1) e dalle tradizioni disciplinari, i postulati dell’HEP sono talmente dati per scontati che non sono mai esplicitati. Ciò nonostante, influenzano chiaramente la pratica della sociologia (Catton, Dunlap 1980 : 24). Catton e Dunlap tengono tuttavia a sottolineare il fatto che non è l’immagine della natura eccezionale dell’essere umano rispetto alle altre specie viventi che vogliono criticare e negare. Ma è piuttosto il fatto che questa natura eccezionale - veicolata dal linguaggio, dall’organizzazione sociale e dalla tecnologia - possa rendere l’uomo esente dai principi e dai vincoli ecologici che influenzano la biosfera. Per questo motivo, 24 Catton e Dunlap ribattezzano il Paradigma dell’Eccezionalismo Umano come « Paradigma dell’Esenzionalismo Umano » (Dunlap, Catton 1979)33. Accettando le variabili ambientali come determinanti nella comprensione dei comportamenti umani e delle organizzazioni sociali, i sociologi dell’ambiente, almeno implicitamente, sfidano il paradigma dell’esenzionalismo (o dell’eccezionalismo) umano, particolarmente in quelli che sono il secondo e il terzo postulato. Da un’analisi della prima letteratura sociologica ambientale34, quella che si mostra sensibile all’importanza crescente dei vincoli ecologici sulle società umane, Catton e Dunlap vi trovano « i semi di un’alternativa al paradima dell’esenzionalismo umano » (Catton, Dunlap 1980). Essi arrivano alla conclusione che le diverse ricerche sociologiche sull’ambiente, soprattutto le elaborazioni teoriche, hanno in comune una critica che è vicina a quella ambientalista e che deriva da una nuova visione del mondo, sempre più sensibile alle questioni dell’ambiente. E’ a partire da queste analisi che Catton e Dunlap formulano un nuovo paradigma, secondo cui le società umane non possono essere studiate indipendentemente dai condizionamenti naturali. Questo paradigma è etichettato come “Nuovo Paradigma Ecologico” (NEP). Esso dà per scontata la “dipendenza ecologica” delle società umane dall’ecosistema e presenta dei postulati che sono esattamente speculari rispetto a quelli del paradigma che vuole rimpiazzare. Questi postulati si definiscono attraverso le quattro proposizioni seguenti: a. Anche se gli umani possiedono delle caratteristiche eccezionali (cultura, tecnologia, ecc.), continuano ad essere una specie tra le numerose altre che sono implicate in modo interdipendente nell’ecosistema globale; b. Le questioni umane sono influenzate non solo da fattori sociali e culturali, ma anche da legami complessi di causa-effetto e di retroazione nel tessuto della natura. Ragion per cui le azioni sociali deliberate comportano numerosi effetti inattesi; 33 Questa modificazione dell’etichetta HEP, effettuata – dietro consiglio di Schnaiberg – rimpiazzando il termine eccezionalismo col termine esenzionalismo, permette di contrastare in modo più preciso la prospettiva sociologica tradizionale all’occasione della proposta di un paradigma alternativo (infra). Cfr. Dunlap, Catton 1979. 34 Vedere i testi citati da Catton e Dunlap : Burch 1971 ; Schnaiberg 1975 ; Buttel 1976. 25 c. Gli uomini vivono nel e sono dipendenti da un ambiente biofisico finito che impone severi limiti fisici e biologici alle attività umane; d. Benché la capacità inventiva degli umani e i poteri che ne derivano possano far credere che è possibile estendere i limiti della capacità di carico ambientale, le leggi ecologiche non possono essere abrogate. L’immagine fondamentale delle società umane fornita dal NEP si differenzia considerevolmente da l’antropocentrismo, il quella NEP fornita sottolinea dall’HEP. la In forte contrasto dipendenza delle società con umane dall’ecosistema, l’importanza di considerare il contesto biofisico delle società e il fatto che, malgrado abbiano caratteristiche eccezionali, i fatti sociali non sono esenti dai vincoli ecologici. I postulati del NEP si allineano sulla posizione della ricerca ecologico-umana moderna, secondo cui l’uomo presenta due caratteri, uno sociale e uno naturale: è allo stesso tempo essere biologico e essere culturale. Da questa premessa teorica deriva l’oggetto della sociologia dell’ambiente35. Questa, nel suo programma, assume l’ipotesi che esista una condizionalità dei fatti fisici e biologici sull’organizzazione della società. La convinzione che : « […] la sociologia deve prendere sul serio un dilemma tradizionalmente trascurato, secondo cui le società umane sfruttano gli ecosistemi per sopravvivere e le società, che approfittano dell’esasperazione di questo sovra-sfruttamento, possono distruggere le basi della propria sopravvivenza » (Burch 1971, citato da Dunlap, Catton 1979 : 250). Il cambiamento paradigmatico, cioè il passaggio dallo schema HEP allo schema NEP, costituisce il primo vero e proprio tentativo di costruzione delle basi teoriche della sociologia dell’ambiente. Quando Catton e Dulap parlano di “cambiamento paradigmatico”, intendono cambiamento di prospettiva, differenza di visione del mondo tra i sociologi orientati verso l’HEP e sociologi orientati verso il NEP. Questi ultimi infrangerebbero la pratica sociologica tradizionale di escludere dalla loro attenzione le variabili non-sociali (Catton, Dunlap 1980 : 35). Catton et Dunlap sottolineano fino all’esagerazione il vuoto che separa gli aderenti dell’HEP dagli aderenti del NEP. 35 Fulvio Beato, « La sociologia e l’analisi ambientale », Seminario tenuto all’ Università di Cagliari Facoltà di Scienze Politiche, Cagliari, 13/05/1993. 26 Sostengono il primato di questa scissione rispetto a quelle che differenziano le numerose prospettive teoriche fondate sull’HEP (funzionalismo, interazionismo simbolico, marxismo, ecc.). Infatti, questa distinzione tra HEP e NEP separerebbe le prospettive teoriche proprie della sociologia tradizionale dalle prospettive ecologiche proprie dei sociologi dell’ambiente. Frederick Buttel (1986) rimette in questione il primato di questa distinzione tra i due paradigmi operata da Catton e Dunlap. Senza contestare la sua validità, Buttel si oppone al modo in cui questa distinzione opporrebbe da una parte le corrrenti sociologiche dominanti (che condividono il HEP) e dall’altra l’eco-sociologia che condivide il NEP. I raggruppamenti teorici che, secondo Catton e Dunlap si osservano unicamente nel quadro dell’HEP, si osservano ugualmente – sostiene Buttel – nel quadro del NEP. Ciò vorrebbe dire che si può essere marxista, o funzionalista, o altro, ed essere orientati indifferentemente sia verso l’HEP che verso il NEP. Di conseguenza, i sociologi dell’ambiente avrebbero come solo tratto comune la condivisione, esplicita o implicita, del nuovo paradigma ecologico, cioè l’interesse per le interazioni tra la società e l’ambiente. In effetti, essi costituiscono un gruppo molto eterogeneo, in cui ciascuno può situarsi all’interno di prospettive teoriche e di sottocampi di investigazione differenti (Catton, Dunlap 1978b : 258). Bisogna riconoscere che tutti i sociologi dell’ambiente non si accordano sulla validità assoluta della distinzione tra il NEP e l’HEP. Per Buttel (1986), i grandi assiomi paradigmatici del NEP (che si riassumono nella dipendenza ecologica delle società umane dal loro ecosistema) sarebbero stati relativamente poco sviluppati e non sarebbero riusciti ad enunciare dei principi teorici precisi nè delle ipotesi verificabili (Buttel 1986 : 369). Questi fondamenti si situerebbero infatti ad un livello troppo astratto per poter promuovere una ricerca empirica fruttuosa (ibid.). Frederick Buttel è convinto che la distinzione tra l’HEP et il NEP – di cui non nega la validità – non conduce necessariamente alla costruzione di una nuova teoria sociologica, cioè una teoria sociologica dell’ambiente. I due sociologi italiani Alfredo Milanaccio e Fulvio Beato si sono espressi a proposito della validità del NEP. Alfredo Milanaccio (1990), basandosi sulle asserzioni 27 di Kuhn (1970/1962) a proposito della nozione di paradigma36, non considera il NEP come un vero e proprio paradigma. Per questo autore, il NEP non è condiviso dalla totalità dei sociologi e non esiste una “comunità sociologica scientificamente e istituzionalmente visibile” che condivida pienamente le sue quattro asserzioni (1990 : 53). Allo stesso tempo, il NEP non comporterebbe una “rottura epistemologica” all’interno della disciplina sociologica, in quanto nato all’esterno di quest’ultima. Per Milanaccio, il paradigma ecologico non è nient’altro che una “riscrittura di una parte delle tesi esposte […] in testi ben noti pubblicati all’inizio degli anni Settanta, come I limiti dello sviluppo” (ibid.). Per questa ragione avrebbe una validità culturale, senza per questo poter pretendere la scientificità (ibid.). Dal canto suo, Fulvio Beato (1993) considera che, anche se Catton e Dunlap utilizzano il concetto di paradigma prendendo in prestito il termine a Kuhn, in realtà rifiutano la definizione che quest’ultimo ne dà. In effetti, secondo Beato, il senso attribuito a questo termine proviene, nella definizione data da Kuhn, da significati ristretti e interni alla filosofia della scienza, mentre nell’uso di Catton e Dunlap rinvia alle credenze e ai valori che compongono una visione del mondo e della cultura occidentale e finiscono per penetrare anche all’interno della sociologia. La soluzione consisterebbe allora, secondo Beato, nel considerare il NEP come un paradigma culturale e non scientifico. Anche se i suoi presupposti possono sembrare semplicisti, certuni riconoscono alla sociologia dell’ambiente, e in particolare al nuovo paradigma ecologico, il merito d’aver esplicitato i termini di un dibattito che attraversa la società civile e le scienze sociali anche in Europa (Mormont 1993). Questo dibattito concerne, da un lato, il condizionamento ecologico dell’azione sociale e, dall’altro, il rapporto tra scienze sociali e questioni ambientali (ibid.). 36 Secondo la definizione di Kuhn, un paradigma è « … cio’ che è condiviso dai membri di una comunità scientifica. Inversamente, una comunità scientifica consiste in coloro che condividono un certo paradigma» (Kuhn 1970 : 213). 28 Tab. 1 I postulati della prospettiva occidentale dominante, del paradigma sociologico dell’esenzionalismo umano e della proposta del un nuovo paradigma ecologico (fonte : Catton, Dunlap 1980 : 34) Prospettiva Occidentale Dominante (POD) Paradigma dell’Esenzionalismo Umano (HEP) Nuovo Paradigma Ecologico (NEP) Postulato della natura degli esseri umani (POD1) Gli esseri umani sono fondamentalmente diversi dalle altre creature della Terra, sulle quali sono dominanti. (HEP1) Gli umani hanno un’eredità culturale in più (e distinta) rispetto al loro bagaglio genetico, perciò sono diversi dalle altre specie animali. (NEP1) Anche se gli umani hanno delle caratteristiche eccezionali (la cultura, la tecnologia, ecc.), restano una delle numerose specie implicate in modo interdipendente nell’ecosistema globale. Postulato della causalità sociale (POD2) Gli esseri umani sono maestri del loro destino ; possono scegliere i loro obiettivi e imparare a fare il necessario per realizzarli. (HEP2) I fattori sociali e culturali (inclusa la tecnologia) sono le determinanti principali delle questioni umane. (NEP2) Le questioni umane sono influenzate non solo da fattori sociali e culturali, ma anche da intricati legami di causa-effetto e di retroazione nell’ambito della natura; per questo, le azioni umane intenzionali hanno numerose conseguenze involontarie. Postulato sul contesto delle società umane (POD3) Il mondo è vasto e per questo fornisce delle opportunità illimitate agli umani. (HEP3) L’ambiente sociale e l’ambiente culturale costituiscono il contesto cruciale delle questioni umane e l’ambiente biofisico è largamente insignificante. (NEP3) Gli umani vivono e sono dipendenti da un ambiente biofisico finito, che impone delle potenti restrizioni fisiche e biologiche alle questioni umane. Postulato dei vincoli ecologici sulle società umane (POD4) La storia dell’umanità è una storia del progresso ; esiste una soluzione per ogni problema e perciò il progresso è senza fine. (HEP4) La cultura è cumulativa; di conseguenza, la tecnologia e il progresso sociale possono continuare all’infinito, rendendo i problemi sociali infine risolvibili. (NEP4) Malgrado la capacità inventiva degli umani e i poteri che ne derivano possano far credere per un istante alla possibilità di estendere i limiti della capacità di carico, le leggi ecologiche non sono abrogabili. 29 4.2 La struttura analitica della sociologia ambientale : il « complesso ecologico » Insieme alla formulazione di un paradigma ecologico, attraverso cui Dunlap e Catton propongono alla sociologia di abbandonare il “cieco” antropocentrismo per attribuire alle variabili ambientali un valore causale nella spiegazione di determinati fatti sociali, un altro importante contributo teorico per la sociologia dell’ambiente è fornito dall’elaborazione di una struttura analitica, la cui finalità è di definire il campo di intervento della subdisciplina e di organizzare le categorie dei fenomeni studiati. Questa struttura, proposta dagli stessi Dunlap e Catton (1979), si fonda sul modello del “complesso ecologico” sviluppato dall’ecologo umano O. D. Duncan (1959 ; 1961) come dispositivo concettuale per osservare le interazioni tra le società umane e i loro ambienti37. Per Catton e Dunlap, come per Duncan, il complesso ecologico costituisce dunque il luogo virtuale in cui le società umane dovrebbero essere situate per poter essere studiate e comprese correttamente (schema 1). Tuttavia, una forte differenza distingue il modello di Duncan da quello di Catton e Dunlap: in quanto ecologo umano “sociologico”, Duncan attribuisce un ruolo di centralità all’organizzazione sociale e si focalizza sul carattere di unicità degli esseri umani; mentre invece Catton e Dunlap, in quanto sociologi dell’ambiente, attribuiscono un’importanza cruciale all’ambiente come fattore suscettibile di influenzare il comportamento umano e, a sua volta, di esserne influenzato. Tanto più che l’ambiente preso in considerazione dai sociologi ambientali – affermano Catton e Dunlap - è di tipo fisico, contrariamente a quello dell’ecologia umana sociologica che è piuttosto un ambiente sociale (Dunlap, Catton 1979 : 252). I due schemi riportati nelle pagine seguenti riassumo le due opzioni di complesso ecologico che presentano i campi tematici rispettivamente per l’ecologia umana sociologica e per la sociologia dell’ambiente. 37 Nel suo tentativo di applicare le intuizioni dell’ecologia generale all’ecologia sociologica umana, Duncan ha elaborato il suo modello di « complesso ecologico » a partire dal concetto di ecosistema. Il « complesso ecologico » si compone, nel modello di Duncan, di quattro concetti di riferimento, definibili anche come macrovariabili o sub-sistemi : la Popolazione, l’Organizzazione sociale, l’Ambiente e la Tecnologia (in acronimo POET). Questi sub-sistemi circoscrivono, nell’approccio di Duncan, il campo tematico dell’ecologia umana in quanto disciplina sociologica. 30 Schema 1 – Il « complesso ecologico »: il modello POET di Duncan O P E T Fonte : Dunlap, Catton 1983 Come già è stato accennato nella nota 36, il modello di “complesso ecologico” proposto da Duncan è composto da quattro concetti di riferimento, ciascuno in relazione reciproca con gli altri. Questi concetti di riferimento, che non sono altro che macrovariabili o sub-sistemi, sono: la Popolazione, l’Organizzazione sociale, l’Ambiente e la Tecnologia; il modello prende il nome dalle iniziali (in inglese) di queste macrovariabili: POET. Si constata facilmente che nel POET l’Ambiente ha un peso specifico né inferiore né superiore a quello delle macrovariabili sociali prese singolarmente (il che vuol dire che, secondo l’ecologia umana sociologica, il ruolo dell’ambiente deve essere ponderato col numero di macrovariabili che compongono il sistema sociale). E’ proprio per ovviare a questo difetto di centralità dell’ambiente nel funzionamento del sistema sociale, che Catton e Dunlap decostruiscono e in seguito ricostruiscono l’elaborazione teorica di Duncan, sviluppandone una versione più precisa. Anche loro propongono un modello in cui la Popolazione, l’Organizzazione sociale, l’Ambiente e la Tecnologia, in quanto macrovariabili o subsistemi, sono ciascuna in relazione reciproca con le altre. Ma, al contrario di Duncan, che ha comunque una visione antropocentrica del sistema, Catton e Dunlap attribuiscono una posizione centrale all’ambiente e una posizione periferica alle tre altre macrovariabili. La sequenza causale riassunta dal modello POET di Duncan è allora sdoppiata da Catton e Dunlap in due sequenze distinte mettenti in evidenza, l’una, l’influenza delle macrovariabili sociali sull’ambiente (modello POET), l’altra, l’influenza dell’ambiente sulle macrovariabili sociali (modello EPTO). Lo scopo è di isolare la variabile Ambiente che diventa, da un lato, funzione e, dall’altro, determinante delle tre macrovariabili sociali (schema 2). 31 Schema 2 – Il « complesso ecologico » nella sociologia dell’ambiente : i modelli POET e EPTO di Dunlap et Catton O P O E T e P E T Fonte : Dunlap, Catton 1983 Questi due modelli di Catton e Dunlap sintetizzano la struttura analitica della sociologia dell’ambiente. La relazione-interazione tra ambiente biofisico e società (quest’ultima intesa come costituita dagli altri tre elementi del complesso ecologico) costituisce l’oggetto di studio della sociologia dell’ambiente. (Beato 1993 : 60). Questa relazione è di tipo circolare, nella misura in cui l’ambiente è allo stesso tempo funzione e determinante dei subsistemi sociali. Tradotto in termini di campi di intervento, ciò equivale ad includere in quello della sociologia dell’ambiente sia lo studio delle variabili sociali che sono alla base dei cambiamenti o fenomeni ambientali, sia le variabili ambientali che possono spiegare i fatti sociali. Nella loro struttura analitica, Catton e Dunlap tendono ad attribuire all’ambiente uno spazio teorico privilegiato, separandolo dai tre elementi sociali (popolazione, organizzazione sociale e tecnologia), che raggruppano sotto il nome di “Complesso Sociale”38. Così, il complesso ecologico di Catton e Dunlap (e, per estensione, della sociologia dell’ambiente), piuttosto che essere costituito da una rete di interdipendenze tra le quattro macrovariabili (PO-E-T), rende conto di una relazione reciproca che esisterebbe tra il Complesso sociale da una parte e l’Ambiente (nel suo senso biofisico), dall’altra. Non si tratta qui di una semplice versione sdoppiata del modello di “complesso ecologico” proposto dall’ecologia umana sociologica. Catton e Dunlap ritengono infatti il concetto di “organizzazione” inadeguato a render conto delle interazioni (in termini d’adattamento reciproco) tra società umane e ambiente biofisico. Tale concetto non terrebbe conto nè dei valori condivisi nè dei sistemi di personalità. Ecco perché i due autori decidono di allargare il complesso ecologico 38 Questa riunione delle tre macrovariabili (Popolazione, Organizzazione sociale e Tecnologia nel Complesso sociale è derivata dall’ecologo umano R.E. Park (1936). 32 rimpiazzando l’Organizzazione con una configurazione tripartitica, costituita dal “Sistema culturale”, dal “Sistema sociale” e dal “Sistema della personalità” (Beato 1993 : 61). Catton e Dunlap arrivano così a definire un nuovo complesso ecologico, formato da sei macrovariabili : da un lato, quelle che compongono il “Complesso sociale” (Popolazione, Tecnologia, Sistema culturale, Sistema sociale, Sistema della personalità) e, dall’altro, l’Ambiente. In questo nuovo modello, il Complesso sociale e l’Ambiente sono in relazione reciproca e bidirezionale (schema 3). Il che vuol dire che ogni elemento del Complesso sociale può influenzare l’ambiente biofisico ed esserne influenzato, in un processo che non ha soluzione di continuità (Dunlap, Catton 1983 : 122). Schema 3 – Il Nuovo Complesso Ecologico di Dunlap e Catton Popolazione Popolazione Tecnologia Tecnologia Sistema culturale Ambiente Sistema culturale Sistema sociale Sistema sociale Sistema della personalità Sistema della personalità Fonte : Dunlap, Catton 1979b. In questo nuovo Complesso ecologico di Dunlap e Catton, ritroviamo due condizionalità o causalità : una sociale sull’ambiente, con impatti sul cambiamento ecologico, e l’altra ambientale sulle società umane. I cambiamenti dell’ambiente globale (come il global warming, la riduzione della biodiversità, ecc.), ma anche quelli dell’ambiente locale (come l’inquinamento urbano) sono determinati dal complesso sociale e hanno a loro volta degli effetti sullo sviluppo della tecnologia, sul cambiamento culturale, istituzionale, dei valori condivisi, ecc. E’ attraverso questo schema che Dunlap e Catton forniscono la loro spiegazione della crisi ecologica. Si tratta di una spiegazione pluricausale. Con quest’elaborazione di complesso ecologico, Catton e Dunlap propongono una struttura analitica per la sociologia dell’ambiente, i cui obiettivi principali sono: 33 osservare come le variazioni della Popolazione, della Tecnologia, del Sistema culturale, sociale e della personalità influenzano l’ambiente biofisico; osservare come i cambiamenti e le altre variazioni dell’ambiente biofisico modificano la Popolazione, la Tecnologia, il Sistema culturale, sociale e della personalità, nonchè le loro relazioni reciproche. La circolarità del processo di causalità permette a tale proposta teorica di respingere eventuali accuse di determinismo ambientale. Attraverso questa teorizzazione, la sociologia dell’ambiente si qualifica come campo disciplinare che studia le relazioni reciproche tra ambiente biofisico e complesso sociale. E’ evidente che la ricerca non è obbligata a considerare il processo per intero. Il più delle volte prende in conto solo un lato della relazione: o il condizionamento delle società umane sull’ambiente, oppure il condizionamento dell’ambiente sulle società umane. A partire da questo modello di “complesso ecologico”, la sociologia dell’ambiente si è progressivamente costituita in capitolo specifico di ricerca e di dibattito. Prima Dunlap e Catton (1979) e, in seguito, Buttel (1987) hanno così elencato le aree di ricerca della sociologia dell’ambiente nel suo primo decennio di esistenza (1976-1986): (1)- il suo nucleo teorico; (2)- i valori; (3)- gli atteggiamenti e i comportamenti del pubblico verso l’ambiente (naturale e costruito); (4)- la risposta delle organizzazioni, dell’industria e delle istituzioni governative ai problemi ambientali; (5)- i movimenti ambientali come movimenti collettivi e i partiti “verdi” come movimenti politici e organizzazioni; (6)- il rischio tecnologico e la valutazione dei rischi; (7)- le dimensioni sociali della valutazione di impatto ambientale; (8)- economia politica dell’ambiente e politiche economiche dell’ambiente. Queste aree di ricerca non presentano una linea teorica comune. Gli atteggiamenti e i valori sviluppati nei confronti dell’ambiente, così come il movimento ecologico, erano già abbondantemente studiati prima che la sociologia ambientale fosse riconosciuta come una subdisciplina distinta e continuano ad essere tra le sue principali aree di ricerca attuali. E’ evidente che queste tematiche possono essere ricondotte in gran parte alle tematiche tradizionali di altre specializzazioni sociologiche. E’ questa una delle critiche più frequentemente indirizzate alla sociologia dell’ambiente in quanto nuovo campo disciplinare. 34 4.3 Lo strutturalismo politico-economico Lo strutturalismo politico-economico è un approccio sociologico della crisi ambientale, proposto dall’americano Allan Schnaiberg a partire dal 1975 (Schnaiberg 1975, 1980)39. Schnaiberg elabora un modello macrostrutturale concentrando la sua attenzione sulle istituzioni economiche, politiche e sociali come cause e come soluzioni dei problemi ambientali. Per costruire il suo modello, quest’autore parte dalla constatazione che la crisi ecologica è all’origine di pesanti conseguenze sociali e politiche e si impegna dunque a determinare le cause di questa crisi. In un tale lavoro, Schnaiberg non può ignorare il dibattito socio-politico e scientifico in corso sulle cause e le conseguenze della crisi ecologica. In effetti, gli anni Settanta sono quelli della larga diffusione di una letteratura ecologista sulla materia40 e questa letteratura spiega la crisi ambientale in modo monocausale, attribuendola di volta in volta alle evoluzioni di quattro macrovariabili: la popolazione, la tecnologia, il consumo e l’economia. In risposta a tale spiegazione, Schnaiberg propone piuttosto una lettura intercausale (causalità sincronica) di queste quattro macrovariabili, considerando che l’aumento della popolazione e dei consumi, nonché lo sviluppo economico e tecnologico, sinergicamente, fanno pressione sui sistemi ecologici, producendo così la crisi ambientale. Queste quattro macrovariabili, afferma Schnaiberg, si caratterizzano per avere una radice comune che le sostiene tutte : la struttura sociale. Questa struttura sociale sarebbe data – secondo Schnaiberg - dalla dinamica di ciò che egli denomina il “meccanismo di produzione” (treadmill of production). L’evoluzione del treadmill of production sarebbe all’origine delle variazioni che si riscontrano nella popolazione, nei consumi, nell’economia e nella tecnologia, attraverso i tempi e le società. Il meccanismo di produzione costituisce, per Schnaiberg, il sistema politico-economico proprio di ogni società. Nel suo modello interpretativo, Schnaiberg fa riferimento al sistema politico-economico (ovvero al meccanismo di produzione) che si è affermato nelle società industriali moderne, soprattutto negli Stati Uniti. Egli descrive questo sistema come una forma sociale capitalista avanzata, in conflitto permanente con i valori della giustizia sociale e 39 Allan Schnaiberg è il primo sociologo americano dell’ambiente. Le sue analisi sono ampiamente riconosciute all’interno del suo campo disciplinare (cfr. Buttel 1986 e 1987), soprattutto per il loro contributo alla comprensione delle grandi politiche pubbliche ambientali degli Stati Uniti, nel corso degli anni Settanta. “Se Catton e Dunlap sono stati gli autori più influenti della sociologia ambientale, l’influenza di Schnaiberg è stata più importante al livello della disciplina madre in sè. Il suo lavoro è pure stato fondamentale nella stimolazione delle ricerche in economia politica dell’ambiente” (Buttel 1987: 472; tradotto da me, M.L.D.). 40 Cfr. tra gli altri : Ehrlich 1968 ; White 1967 ; Commoner 1971 ; Ehrlich and Ehrlich 1972. 35 le strutture biofisiche dell’ambiente globale. In questa forma sociale, l’ambiente non sarebbe che una fonte di sussistenza, una risorsa economica da sfruttare. Secondo Schnaiberg, il meccanismo di produzione è in continuo sviluppo (senza potersi arrestare) ed è proprio attraverso questo sviluppo che porterebbe pregiudizio alle strutture ecologiche. I problemi ambientali causati in questo modo produrrebbero, a loro volta, una restrizione potenziale dell’espansione della produzione successiva. Il treadmill of production è dunque in opposizione dialettica con l’equilibrio ambientale ovvero la disponibilità di risorse naturali. Infatti, se l’equilibrio economico – afferma Schnaiberg – è un desiderio sociale, la crisi ecologica è una conseguenza « socialmente non desiderata » dell’espansione economica. In questo modo, se la crisi ecologica è considerata come nociva per le società umane, si può parlare dell’emergenza di una “dialettica societale- ambientale”. Di conseguenza, l’interrogazione di Schnaiberg verte sulle ragioni che possono condurre una società a privilegiare la crescita economica, oppure la gestione degli squilibri ecologici o, ancora, la minimizzazione di questi ultimi. Quest’autore trova la risposta nei tipi di struttura economica e politica di ogni società. Sarebbe la struttura economica di base di una società a determinare le scelte di quest’ultima rispetto all’ambiente. Per questo motivo, Schnaiberg ci invita a studiare le strutture economiche e politiche per capire i comportamenti delle società nei riguardi dell’ambiente, ma anche per individuare i modelli tipico-ideali di soluzione politica delle tensioni ambientali41. Il modello di Schnaiberg del meccanismo della produzione spiega le variazioni che si possono riscontrare nella diversità dei problemi ambientali e dei loro approcci, attraverso i diversi periodi storici e le diverse società. Nella sua osservazione della forma sociale capitalista degli anni Settanta, quest’autore si pone come questione di fondo quella della compatibilità o dell’incompatibilità tra razionalità economica e razionalità ecologica. Oggi, la tesi della dialettica ambientale-societale è – a mio avviso – superata, almeno teoricamente. La nuova teoria della modernizzazione ecologica (infra) sostiene infatti che la conflittualità tra i sistemi sociali attuali e i sistemi ambientali può essere surmontata. Questa forma di ottimismo politico e tecnologico trova tra l’altro applicazione nella nozione di sviluppo sostenibile, proposta dal famoso Rapport Brundtland (WCDE 1988/1987). Non 41 Per Schnaiberg, tre sintesi alternative di questa dialettica sono possibili : 1)- una sintesi economica, che ignora gli squilibri ecologici e cerca di massimizzare la crescita; 2)- una sintesi della rarità “controllata”, che gestisce il consumo delle risorse naturali imponendo dei controlli sulle industrie e sulle risorse; 3)- una sintesi ecologica, in cui si tenta di minimizzare lo squilibrio ecologico e di mantenere una produzione costante delle risorse attraverso il controllo della produzione e della domanda effettiva di beni. La sintesi adottata da una società ad un dato momento sarà influenzata – secondo Schnaiberg – dalla sua struttura economica di base (1975 : 10). Schnaiberg pensa alla sintesi ecologica come soluzione. 36 bisogna dimenticare che Schnaiberg scrive negli anni Settanta e che la sua analisi della dinamica del meccanismo di produzione è un’analisi della società industriale quale è fino a quegli anni. L’analisi di Schnaiberg non può dunque tener conto delle trasformazioni materiali e culturali portate dalla società post-industriale o post-moderna42. Oggi, in questo nuovo tipo di società, l’ambiente biofisico è e potrebbe in effetti essere considerato non solo per il suo potenziale economico ma anche come risorsa da preservare mediante lo sviluppo della tecnica o della tecnologia. In questo caso, la tecnica e la tecnologia sarebbero o potrebbero essere orientate verso la riduzione delle pressioni sull’ambiente piuttosto che verso il suo sfruttamento a oltranza. 5. Dallo strutturalismo ecologico alle prospettive degli anni Novanta La sociologia dell’ambiente non deve identificarsi interamente con lo strutturalismo ecologico e politico-economico, né unicamente con gli autori che ne sono all’origine. Altri nuclei tematico-problematici e altre prospettive teoriche meritano d’essere considerati. Per altro, la presenza attiva di numerosi sociologi ha contribuito in modo determinante allo sviluppo di questo nuovo campo di studi, in America del Nord come in Europa. Affianco a personaggi-chiave come Dunlap, Catton, Buttel e Schnaiberg, che hanno gettato le fondamenta della sociologia dell’ambiente, ritroviamo altri sociologi contemporanei particolarmente attivi, come gli americani Michelson, Freudenburg, Dietz e Rosa, i canadesi Hannigan, Murphy e Vaillancourt, gli inglesi Benton, Dickens, Redclift e Woodgate, il tedesco Ulrich Beck, gli olandesi Mol e Spaargaren, i belgi Pieter Leroy e Marc Mormont, i francesi Denis Duclos, Marcel Jollivet, Bernard Kalaora, Bernard Picon, Pierre Lascoumes e Jacques Theys, nonché gli italiani Fulvio Beato, Raimondo Strassoldo, Franco Martinelli, Alfredo Mela, Giorgio Osti e Luigi Pellizzoni. Questi sociologi hanno in comune il fatto d’aver tutti studiato le questioni ambientali, anche se la loro appartenenza disciplinare ad un campo specifico può non essere quella della sociologia dell’ambiente. Per quanto riguarda i campi di intervento, alcuni di questi sociologi hanno lavorato sul versante teorico, ricostruendo la genesi e il percorso della sociologia dell’ambiente, cercando di dare a quest’ultima una collocazione disciplinare e codificando i principali contributi. La 42 Per una descrizione dettagliata e critica di tale società vedi le note opere del francese Alain Touraine (cfr. Touraine 1968 ; 1969 ; 1973). 37 pubblicazione di numerosi manuali testimonia su questi lavori (Redclift, Benton, 1994; Redclift, Woodgate 1995, 2000/1997 ; Dunlap, Michelson 2002; Strassoldo 1977, 1989; Martinelli 1989; Beato 1993; Mela, Belloni, Davico 1998; Osti, Pellizzoni 2004; Tessier, Vaillancourt 1996). Altri di questi sociologi, sempre sul versante teorico, hanno sottoposto ad analisi critica le prime teorizzazioni della sociologia dell’ambiente, proponendo sia la loro versione della nuova disciplina (Buttel 1978, 1986, 1987), sia un ravvicinamento di questa alla disciplina madre attraverso una rilettura dei classici (Dickens 1992, 1997, 2002 ; Gramling, Freudenburg 1996 ; Murphy 1997). A partire dagli anni Novanta, dei nuovi campi di ricerca sono definiti e delle nuove prospettive teoriche sono elaborate. Redclift, Beck, Mol e Spaargaren, Hannigan, Beato, sono all’origine di questo rinnovamento. Redclift opera nel campo dello sviluppo sostenibile (1992, 1997, 1999) e del mutamento ambientale globale (Redclift, Benton 1994 ; Redclift, Sage 1998) ; Beck elabora la sua teoria della “modernità riflessiva” in una società del rischio (Beck 2001/1986); Mol e Spaargaren elaborano quella della « modernizzazione ecologica » (Mol 1995, 1997, 2000 ; Spaargaren, Mol 1992 ; Spaargaren, Mol, Buttel 2000) ; Hannigan (1995) sviluppa una prospettiva social-costruzionista, in opposizione allo strutturalismo ecologico dei primi sociologi dell’ambiente; infine, Fulvio Beato propone dapprima una sociologia dell’ambiente globale, in cui mette in relazione i cambiamenti ambientali planetari con i diversi fenomeni di globalizzazione (1993) e, in seguito, suggerisce di iscrivere le relazioni di potere all’interno degli schemi teorici della sociologia dell’ambiente (2002). Ma la caratteristica fondamentale della sociologia ambientale resta quella di avere un’orientamento fortemente empirico, le cui radici si trovano negli studi sulle risorse e gli spazi naturali nonché sull’emergenza dell’ambientalismo come movimento sociale. La maggior parte dei sociologi citati si sono ugualmente dedicati alla ricerca empirica, lavorando sia sugli impatti dell’organizzazione e dell’azione sociale sugli spazi e le risorse naturali, sia sull’impatto dell’ambiente – compreso l’ambiente socialmente costruito – sull’organizzazione e l’azione sociale. Per quel che riguarda la sociologia europea, essa si distingue per aver cercato dei percorsi di ricerca e per aver realizzato delle accentuazioni tematiche e teoriche autonome mutuamente distinte. In Francia, le ricerche sull’ambiente, spesso stimolate – almeno agli inizi – da forme di incitazione e programmi pubblici, si sviluppano a partire da approcci interdisciplinari tra le scienze sociali e le scienze naturali, come lo dimostrano i lavori pionieristici di Marcel Jollivet (1978 ; 1992 ; Mathieu, Jollivet 1989) e quelli di Bernard Picon (1992b ; 2002). Inoltre, gli approcci della natura e dell’ambiente sono spesso ruralisti: 38 si interrogano sulle funzioni sociali della natura, situandosi in una prospettiva di decostruzione dell’ambiente piuttosto che in un processo di presa in conto dell’ambiente in quanto problema (Mormont 1993 : 25). Questi approcci ricusano la nozione stessa di ambiente (Kalaora 1998 : 89) e rifiutano l’etichetta di « sociologia ambientale », a cui preferiscono quella di “sociologia delle risorse e degli spazi naturali” o, addirittura, quella di “sociologia dei mondi naturali” (Fabiani 1998)43. Ma la sociologia dell’ambiente non è solo appannaggio dei ruralisti. Sociologi dell’organizzazione, delle tecniche e delle scienze, sociologi politici, trattano di ambiente nel senso “moderno” del termine (Kalaora 1998 : 101), ovvero come problematica emergente nei differenti settori della vita pubblica e privata. Tra questi sociologi, alcuni sono particolarmente conosciuti, come per esempio : Denis Duclos, Pierre Lascoumes e Jacques Theys, Philippe Roqueplo, Michel Callon e Bruno Latour, Jean-Guy Vaillancourt44. Costoro focalizzano la loro attenzione rispettivamente sui temi del rischio ambientale, industriale e tecnologico (Duclos 1987, 1991 ; Lascoumes 1995, 1998; Fabiani et Theys 1987); sull’emergenza delle politiche ambientali (Lascoumes 1994, 1999) e delle organizzazioni sociali ambientaliste (Vaillancourt 1981, 1996); sulle piogge acide e i cambiamenti climatici (Roqueplo 1988, 1993); sulle condizioni della nascita delle norme socio-tecniche ovvero quelle che regolano i rapporti tra umani e non-umani (Callon et Rip 1992); sulla necessità di ripensare la modernità e l’approccio socio-politico della natura (Latour 1991). Se la disciplina madre europea ha accumulato ritardo nella presa in conto delle tematiche e delle variabili ambientali, se la sociologia dell’ambiente ha avuto e ha ancora oggi delle difficoltà a svilupparsi in quanto campo di ricerca autonomo, è anche vero che attualmente la comunità dei sociologi europei attribuisce alle tematiche ambientali un’importanza considerevole ed è diventata particolarmente attiva sul piano del dibattito teorico. Nel corso degli anni Ottanta, alcuni dei principali teorici europei - come Giddens, Luhmann, Beck e Touraine - riconoscono il ruolo vitale delle tematiche e dei problemi ambientali, cominciando ad attribuire loro degli spazi precisi all’interno dei propri schemi teorici. I temi ambientali sono diventati così un aspetto centrale della teorizzazione europea, in particolare sulla natura della modernizzazione. 43 E’ importante sottolineare a questo proposito che la sociologia dell’ambiente come disciplina accademica non è ancora completamente istituzionalizzata in Francia. Le cattedre di sociologia dell’ambiente sono piuttosto rare e tale disciplina si insegna molto spesso nell’ambito di corsi di sociologia generale o di altre sociologie formalmente istituite (sociologia rurale, sociologia politica, sociologia dell’organizzazione). 44 Precisiamo che Jean-Guy Vaillancourt è québequois (ossia del Canada francofono) e non francese. E’ pur vero che la sociologia québequoise risente della duplice influenza degli Stati Uniti e della Francia. 39 Contrariamente a quanto si produce negli Stati Uniti, la presa in conto della dimensione ecologica nella sociologia europea non viene direttamente e per forza da sociologi “dell’ambiente” o che si occupano specificamente di tematiche ambientali. In Germania, l’autore de La Società del rischio - Ulrich Beck - è un sociologo delle istituzioni, che affronta il tema dei rischi ambientali più secondo la prospettiva di una macrosociologia del mutamento sociale che secondo un paradigma specificamente fondato sulla sociologia dell’ambiente. In Francia, già Edgar Morin (1980 ; 1992), Serge Moscovici (1977/1968 ; 1994/1972), Alain Touraine (1981) e, più recentemente, Bruno Latour (1991) avevano prospettato un cambiamento paradigmatico per pensare la relazione società/natura, pur non essendo etichettati come « sociologi dell’ambiente ». In particolare Serge Moscovici, già dall’inizio degli anni Settanta, aveva annunciato il carattere ineluttabile della questione naturale definendo la relazione uomo/natura come una relazione totalmente « naturale », attraversata da un processo continuo di adattamento reciproco (Moscovici 1972). Quanto a Bruno Latour, egli ha adottato una posizione di partenza radicale, volontariamente provocatoria, in rottura con la tradizione sociologica francese, optando per una dissoluzione della frontiera che oppone natura e società e orientandosi piuttosto verso un’analisi simmetrica degli esseri umani e non-umani (1997/1991). Il passaggio dagli anni Ottanta agli anni Novanta segna l’entrata in una nuova era della sociologia ambientale, che oltrepassa gli avanzamenti sostanziali della sociologia dell’ambiente del decennio precedente. A partire dalla fine degli anni Ottanta, la sociologia ambientale, meno concentrata sui suoi fondamenti teorici, diventa più differenziata e frammentata. Le dispute territoriali tra sociologia dell’ambiente e altre sociologie sono infine oltrepassate e rimpiazzate piuttosto dall’emergenza di numerose nuove prospettive teoriche che si impongono nell’ambito della sociologia ambientale e costituiscono le nuove tendenze per gli anni a venire. Nel corso degli anni Novanta, non si parla più di sociologia dell’ambiente, ma piuttosto di costruzionismo sociale, di consumo e stili di vita, di sviluppo sostenibile, di rischio ambientale globale, di società del rischio e di modernizzazione ecologica. La ricerca empirica lascia da parte alcuni temi tradizionalmente affrontati, per concentrarsi su tre questioni principali e cioè : le cause della crisi ecologica, l’emergenza di una coscienza ambientale e lo sviluppo di politiche ambientali come nuova categoria 40 dell’azione pubblica. Diversi approcci teorici sono utilizzati per rispondere a queste tre questioni45. 5.1 Il Costruzionismo sociale46 Se l’approccio teorico-metodologico della sociologia dell’ambiente, come è stato fin qui presentato (nella sua versione strutturalista), riesce a spiegare alcune questioni fondamentali come le cause della crisi ecologica e l’emergenza di una coscienza ambientale, non arriva tuttavia a render dovutamente conto del modo in cui i problemi ambientali sono definiti, espressi e praticati dagli attori sociali (Hannigan 1995 : 30). Ci si può domandare perché e come le rappresentazioni della natura si sono trasformate considerevolmente nel corso di questi ultimi decenni, perché e come l’ambientalismo è emerso e si è sviluppato in modo discontinuo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Novanta, o perché e come solo alcuni problemi dell’ambiente sono diventati più di altri delle priorità per i principali movimenti ecologisti, per i mass media e per i governi. Il costruzionismo sociale risponde a questo genere di domande. Il suo approccio consiste nell’assimilare i problemi ambientali a dei problemi sociali e, pertanto, a considerarli come delle entità socialmente costruite piuttosto che come dei fatti supportati da una realtà completamente oggettiva. La prospettiva social-costruzionista è una costruzione teorica che si pone esplicitamente in opposizione critica rispetto allo strutturalismo ecologico di Catton e Dunlap (supra). Contrariamente alla maggior parte degli scritti della letteratura sociologica sull’ambiente, particolarmente quelli della corrente nord-americana ispirata dai lavori di Catton e Dunlap, la produzione social-costruzionista non accetta, senza criticarla, l’emergenza di una crisi ambientale direttamente ed esclusivamente determinata da una crescita demografica incontrollata, da una sovrapproduzione e un sovraconsumo, da nuove tecnologie pericolose. Essa focalizza la sua attenzione piuttosto sui processi sociali, politici e culturali attraverso cui certe condizioni ambientali sono definite come inaccettabili e, per questo, da gestire. 45 Per una panoramica di questi approcci, si veda il manuale di sociologia ambientale del canadese J.A. Hannigan (1995). Nelle pagine 13-31, Hannigan classifica la letteratura relativa alla sociologia ambientale secondo gli approcci teorici che questa ha utilizzato per spiegare, da una parte, le cause della crisi ecologica e, dall’altra, l’emergenza della coscienza ambientale. 46 L’espressione « costruzionismo sociale », come è utilizzata in questa sede, traduce l’espressione inglese social constructionism della sociologia dell’ambiente americana. 41 La premessa comune delle teorie costruzioniste è che i problemi ambientali non si materializzano da soli, ma sono i prodotti finali di un processo dinamico sociale di definizione, negoziazione e legittimazione di istanze pubbliche e private (Hannigan 1995 : 31). Questi problemi sono quindi costruiti dagli individui e/o dalle organizzazioni. Nel suo approccio della relazione società/ambiente o uomo/natura, questa costruzione teorica si concentra sulla descrizione dei processi. Tale approccio comprende l’ascolto delle ragioni dell’attore sociale, un attore che è libero di manipolare simbolicamente l’ambiente naturale senza per questo non subirne i condizionamenti (Beato 1999 : 1). L’origine dell’approccio social-costruzionista dell’ambiente risale agli inizi degli anni Settanta, quando i ragionamenti convenzionali della disciplina madre volti a spiegare la produzione dei problemi sociali furono per la prima volta seriamente rimessi in causa (Hannigan 1995 : 32). Queste spiegazioni erano quelle dello struttural-funzionalismo (cfr. Merton, Nisbet 1971), che facevano dei problemi sociali i prodotti diretti dei condizionamenti oggettivi visibili e facilmente identificabili. La prospettiva social-costruzionista sfidò queste spiegazioni e propose di considerare i problemi sociali non come delle condizioni statiche ma piuttosto come delle “sequenze di avvenimenti” che si sviluppano sulla base di definizioni collettive (cfr. Spector, Kitsuse 1973, citato da Hannigan 1995 : 32). Per quel che riguarda la sociologia dell’ambiente, occorre fare una distinzione tra quella della prima generazione (anni ’70-inizio anni ’80, rappresentata da Catton e Dunlap) e quella della seconda generazione (fine anni ’80-anni ’90). La prima tendeva a rifiutare questa prospettiva; la considerava infatti come antitetica rispetto al suo sforzo fondamentale, che era quello di riuscire a far riconoscere dalla comunità sociologica la dimensione ecologica di certi fenomeni sociali. Mentre invece i sociologi dell’ambiente della seconda generazione si identificano meglio con tale prospettiva, arrivando alla conclusione comune che l’ambiente e i suoi rapporti con la società, “…essendo i prodotti del linguaggio, di discorsi e di giochi di potere” (Dickens 1996 : 71), sono una costruzione puramente sociale. Il ricorso ad una prospettiva social-costruzionista ha permesso alla sociologia ambientale di far fronte al pericolo di essere accusata di determinismo ambientale (come forma specifica di riduzionismo). Un percorso metodologico accettato e condiviso da numerosi sociologi dell’ambiente propone infatti dei modelli di interazione in cui le influenze dell’ambiente biofisico sul comportamento umano e sociale non sono dirette. In questo caso, i fatti ambientali sono tradotti in fatti sociali attraverso la mediazione della cultura e della 42 percezione “trovando così una legittimazione scientifica in quanto oggetti di analisi sociologica” (Beato 1993 : 69). Per esempio, una “marea nera” – fenomeno di degrado ambientale – diventa un oggetto sociologico nella misura in cui deriva da un problema che è immediatamente sociale: quello dell’accettazione o del rifiuto dei suoi effetti negativi, sia sulla salute dell’uomo che sulla stabilità dell’ecosistema. Il sociologo dell’ambiente belga Marc Mormont, nel suo lavoro di analisi critica sulle scienze sociali e l’ambiente (1993), mette in evidenza l’esistenza di due assi di ricerca che si sono costituiti nella prospettiva social-costruzionista in Europa: quello della definizione sociale della natura nei contesti delle società rurali e quello dell’istituzionalizzazione dell’ambiente. Il primo, caratteristico della sociologia rurale (che in Francia ha sempre avuto un ruolo di rilievo nell’approccio delle questioni ambientali) si sviluppa in una prospettiva secondo cui: « […] la natura è vista come un costrutto sociale, un prodotto della cultura e, al di là di ciò, come il luogo di confronto e di opposizione tra gruppi sociali che si costruiscono ciascuno i propri rapporti pratici (usi) e simbolici (rappresentazioni dell’ambiente naturale)47 » (Mormont 1993 : 8). L’altro asse di ricerca, quello dell’istituzionalizzazione dell’ambiente, si orienta invece verso la spiegazione di questioni come la costruzione collettiva della minaccia ambientale, l’emergenza della coscienza e dei movimenti ecologici, le politiche ambientali (cfr. Mormont 1993 : 17-27). Due forme di costruzionismo sociale sono utilizzate nell’analisi sociologica delle tematiche ambientali: un costruzionismo forte o estremo (“strict”) e un costruzionismo debole o moderato (“cautious”, secondo la definizione data da Riley Dunlap [1997 : 31])48. Il costruzionismo estremo si fonda sulla negazione della natura in quanto oggetto esterno all’esperienza umana (Dickens 1996 : 73). Così facendo, esclude l’esistenza e la presa in conto dei problemi ambientali in quanto tali. Riley Dunlap, come la maggior parte dei sociologi dell’ambiente americani, si posiziona contro questa prospettiva, considerandola 47 Tradotto da me, MLD. Queste due categorie di « forte » e « debole » sono proposte da Hannigan (1995) e mantenute dalla maggior parte degli altri teorici della sociologia dell’ambiente (come Dickens [1996], Dunlap [1997], Beato [1998]…). Mi sembra che l’uso, in alternativa, delle categorie « stretto » (nel senso di estremo ) e « prudente » (nel senso di moderato) – che rinviano l’una ad un carattere antirealista e relativista (Benton 1994) e l’altra ad una carattere più relazionale – permetterebbe di ovviare il rischio di una falsa interpretazione normativa di questa dualità, secondo cui la modalità « forte » del costruzionismo potrebbe essere considerata come superiore alla modalità « debole ». 48 43 come tendente a negare la realtà dei problemi ambientali. In Europa, al contrario, questa prospettiva è piuttosto influente, soprattutto nell’Europa francofona. La sociologa dell’ambiente francese Florence Rudolf intitola il suo libro sulle rappresentazioni savantes e professionali dell’ambiente in Germania e in Francia: L’Environnement, une construction sociale (1998)49; il politologo Pierre Lascoumes intitola un capitolo dell’introduzione del suo libro l’Eco-pouvoir (1994) : « L’environnement, ça n’existe pas »50 e scrive : « L’ambiente, come lo viviamo, lo concepiamo, lo rivendichiamo è innanzitutto una costruzione sociale » (Lascoumes 1994 : 9)51. In questo capitolo, Lascoumes spiega come una natura unica per tutti, che non sia dapprima vissuta e praticata, mediata dall’esperienza, non esiste (ibid. : 11). Dal canto loro, anche le forme più moderate (o deboli) del costruzionismo sociale considerano i rischi e i problemi ambientali come delle costruzioni sociali52. Ma allo stesso tempo, riconoscono l’esistenza oggettiva di tali rischi e problemi, non negando alla natura il possesso di poteri causali indipendenti. L’antropologa inglese Mary Douglas si situa all’interno di questo filone. Nella sua analisi delle relazioni culturali ai rischi, la Douglas si concentra sul ruolo della coscienza collettiva nella definizione delle “colpe” (blames) e delle responsabilità (1992 ; Douglas, Wildavsky 1982). Ma le forme deboli di costruzionismo sociale sono state utilizzate soprattutto nell’America del nord. Le analisi basate su quest’approccio vertono essenzialmente sul ruolo di diversi attori sociali – come attivisti, savants e policy-makers – nel riconoscimento sociale e nella definizione delle condizioni ambientali in quanto “problemi”. Il canadese John. A. Hannigan (1995), sociologo dell’ambiente noto teorico della corrente social-costruzionista, prende le distanze da una eventuale posizione estrema, negando esplicitamente il fatto che l’insieme dei problemi dell’ambiente possa essere una pura costruzione dei media, della scienza o degli attivisti ecologici, senza alcun ancoraggio a delle condizioni oggettive. Pur in una tale dissociazione, Hannigan non omette una certa relatività o contestualizzazione, invitandoci a tener presente che i problemi e le preoccupazioni aumentano e diminuiscono costantemente, secondo gli attori che li costruiscono e secondo i contesti in cui tali attori operano (1995 : 185). Nella prospettiva di questo autore, l’ambiente è dunque concepito come 49 L’ambiente, una costruzione sociale. « L’ambiente, non esiste ». 51 Tradotto da me, M:LD. 52 Degli artefatti semantici, direbbero gli etnometodologi. 50 44 il “luogo” di un insieme di attività definizionali e contestatrici, di cui una gran parte sta prendendo sempre più posto in un contesto globale (1995 : 186). Per Hannigan, il nucleo della nuova sociologia ambientale dovrebbe consistere principalmente nella comprensione del modo in cui le istanze relative alle condizioni ambientali sono costruite, presentate e contestate. Dal canto suo, anche Riley Dunlap (1997) – che è uno strutturalista - prospetta la possibilità di una forma di costruzionismo moderato, che egli preferisce definire “prudente”. Dunlap accetta la trasformazione dei fatti ambientali in fatti sociali, attraverso la cultura e la percezione. Egli accetta quindi che l’ambiente possa avere delle influenze non dirette sul comportamento sociale; ma allo stesso tempo, ci invita a non negare il fatto che queste influenze esistono, anche quando gli attori sociali non ne sono coscienti o non le riconoscono. Alcuni problemi, soprattutto quelli dell’ambiente globale – sostiene Dunlap – possono essere pericolosi anche se non sono riconosciuti in quanto tali (è il caso del buco dell’ozono). Dunlap accetta il fatto che questi problemi siano costruiti socialmente (anche se parzialmente), ma non rinuncia alla convinzione che restano dei fenomeni reali piuttosto che delle pure costruzioni mentali e sociali. La prospettiva social-costruzionista attira un certo numero di critiche. Non solo gli strutturalisti ecologici si oppongono a questa prospettiva, ma anche e soprattutto la scuola “realista” della sociologia ambientale inglese (Benton, Dickens). Ted Benton (1994), in particolare, attacca l’approccio social-costruzionista dell’ambiente, soprattutto nella sua versione forte, considerandola “sovra-socializzata” e troppo relativista. Il canadese Raymond Murphy (1997) l’accusa di sviluppare una teoria dell’azione creativa, che sottovaluta gli aspetti strutturali dell’azione le cu dimensioni naturali sono un esempio (Murphy 1997 : 18). Con questa prospettiva, afferma Murphy, la sociologia spoglia l’azione sociale della natura, che è invece considerata dagli anti-costruzionisti come il suo vero contesto. In pratica, la sociologia dell’ambiente social-costruzionista distoglierebbe l’attenzione dai problemi reali (ibid.). Infine, secondo Fulvio Beato (1993), il costruzionismo sociale, nella sua versione forte, potrebbe condurre la sociologia dell’ambiente ad un errore speculare rispetto a quello del determinismo ambientale. Il che vorrebbe dire che questa forma di costruzionismo rischia di cadere in un determinismo socio-culturale postulando l’esistenza dell’ambiente esterno solo in quanto atto di costruzione da parte dell’uomo. Questa forma di determinismo, in cui il costruzionismo sociale forte rischia di cadere, Beato la qualifica come “determinismo 45 costruzionista” (Beato 1993 : 69). Egli la definisce come non riproducente, sul piano metodologico e epistemologico, niente altro che una « forma raffinata e aggiornata di antropocentrismo » (ibid.). Nell’ambito dell’approccio social-costruzionista della sociologia dell’ambiente, una teoria in particolare sta attualmente riscontrando molto successo per le sue implicazioni e applicazioni politiche e si trova anche al centro di un dibattito scientifico interno alla disciplina. Si tratta della Teoria della Modernizzazione Ecologica. 5.2 La Teoria della Modernizzazione Ecologica « Modernizzazione ecologica »: è un’espressione che durante gli ultimi dieci anni è diventata molto corrente nei campi dell’analisi delle pratiche sociali e delle politiche (pubbliche e private) dell’ambiente nelle regioni industrializzate contemporanee. Diversi attori – scienziati sociali, attivisti dell’ambiente, partiti politici – hanno utilizzato questa nozione di modernizzazione ecologica, ma non tutti lo hanno fatto nello stesso senso. Le interpretazioni differiscono secondo i gruppi di attori che la praticano e gli autori che l’analizzano o la propongono. Ciò conduce spesso a confusioni sul suo significato esatto. Una categorizzazione di queste distinzioni può aiutare à chiarire il concetto. L’australiano Peter Christoff ha messo in evidenza tre usi principali dell’espressione « modernizzazione ecologica » : a)- come cambiamento tecnologico ecologicamente sensibile ; b)- come stile di discorso politico; c)- come insieme di credenze sul cambiamento sistemico in funzione dell’equilibrio ambientale (cfr. Christoff 1996, 2000)53. L’olandese Arthur Mol, che è di tutta evidenza il teorico più influente della modernizzazione ecologica ai giorni nostri54, suggerisce una distinzione tra: (1)modernizzazione ecologica in quanto teoria sul rapporto tra modernità e ambiente; (2)modernizzazione ecologica in quanto programma politico-normativo, prescrittivo di cambiamenti in vista di una riforma ambientale della società industriale contemporanea (un 53 Questa distinzione è proposta da Peter Christoff con lo scopo di stabilire una tipologia degli usi del termine « modernizzazione ecologica » prendendo in conto il grado di modernizzazione ecologica quale è percepito dagli attori considerati, dal più debole al più forte (vedi P. Christoff 2000, « Ecological modernisation, ecological modernities » in S. Young (ed.), The emergence of ecological modernisation, London, Routledge, pp. 209-231). 54 Cfr. Mol 1995, 1997 ; Spaargaren, Mol 1992 ; Spaargaren, Mol, Buttel 2000. 46 nuovo paradigma delle politiche ambientali) ; (3)- modernizzazione ecologica come nuovo discorso ambientale dominante, orientato politicamente, che rimpiazzerebbe l’ambientalismo radicale e la visione stretta della politica ambientale dominante negli anni Settanta (Mol 1997). Per concludere, Frederick Buttel, nelle sue riflessioni sulla modernizzazione ecologica in quanto teoria sociale (2000), aggiunge un ulteriore utilizzo di questo concetto, come sinonimo di gestione ambientale in quanto strategia imprenditoriale, cioè come sinonimo di ecologia industriale. L’espressione modernizzazione ecologica può far così riferimento allo stesso tempo ad una pratica sociale e ad una teoria sociologica del mutamento sociale (Mol 1997). Queste due designazioni sono interdipendenti, afferma Mol, poiché la pratica sociale (della modernizzazione ecologica) è guidata e interpretata dalla teoria. Riguardo alla pratica sociale, Udo Simonis (1989), Maarten Jänicke (1985, 1992, 1993 ; Jänicke, Weidner 1995), Albert Weale (1992, 2000), Mikael Andersen (1994) e Maarten Hajer (1995, 1996) hanno focalizzato la loro attenzione principalmente sulle strategie di politica ambientale. Questi hanno apportato dei contributi significativi alla definizione e alla promozione di un programma politico di modernizzazione ecologica come nuova agenda per le politiche ambientali dell’Europa occidentale55 (cfr. Mol, Sonnenfeld 2000). Per quel che riguarda la modernizzazione ecologica in quanto teoria, essa è stata costruita da alcuni scienziati sociali, in particolare il tedesco Joseph Huber (1982, 1985, 1991), considerato come il fondatore della teoria della modernizzazione ecologica, nonché gli olandesi Arthur Mol e Gert Spaargaren che hanno sviluppato e affinato questa teoria nel corso degli ultimi dieci anni56. Partendo dall’analisi della trasformazione delle politiche e dei discorsi ambientali, ma anche delle pratiche sociali nella produzione (industriale) e nei consumi (di massa), questi sociologi hanno costruito un approccio teorico per la comprensione e la spiegazione delle trasformazioni che attraversano le società industriali contemporanee di fronte alle sfide ecologiche. Ci soffermeremo in questa sede sulla modernizzazione ecologica in questa sua seconda designazione, in quanto cioè teoria sociale dell’ambiente. Questa teoria costituisce un approccio analitico e prescrittivo di riforme 55 L’obiettivo del programma è la risoluzione del problema dell’uso indiscriminato di risorse e di energia, nonché della sovraproduzione di emissioni inquinanti e di rifiuti. A questo scopo, si basa principalmente su proposte quali l’innovazione tecnologica, la regolazione attraverso l’economia e il cambiamento del ruolo tradizionale dello Stato-nazione nel policy-making, in funzione di forme più importanti di decentralizzazione e di partecipazione. 56 Cfr. Mol 1995, 1997 ; Mol, Sonnenfeld 2000 ; Spaargaren, Mol 1992 ; Spaargaren 2000a, 2000b. 47 ambientali contemporanee, sia nei discorsi societari e politici e nei programmi istituzionali (relativi alla protezione delle basi di sussistenza della società), sia nelle pratiche sociali (comprese quelle all’interno delle aziende). Considerato come una teoria del mutamento sociale (Mol 1997 ; Buttel 2000), l’approccio della modernizzazione ecologica è emerso in Europa occidentale (Germania, Paesi Bassi e Regno Unito), nel corso degli anni ’80-’90 in seno alla sociologia politica e alla sociologia ambientale. Tale approccio si è diffuso nel resto del mondo verso la fine degli anni Novanta, soprattutto con la moltiplicazione di una serie di studi a carattere empirico (principalmente in Finlandia, in Danimarca, in Canada e negli Stati Uniti)57. Come già è stato detto, questa teoria si è costruita a partire dai lavori del tedesco Joseph Hubert (1982 e seguenti) che, per primo, ha analizzato la modernizzazione ecologica come una fase storica della società moderna. In seguito, si è arricchita e strutturata grazie ai contributi teorici e empirici di autori come Arthur Mol e Gert Spaargaren (cit.) in primo luogo, ma anche Albert Weale (cit.), Joseph Murphy (2000), Maurie Cohen (1997, 2000), Maarten Jänicke (cit). e Maarten Hajer (cit.), nel corso degli anni Novanta58. La modernizzazione ecologica costituisce una seconda teoria sociale della riforma ecologica59, dopo quella della modernità riflessiva o della società del rischio sviluppata da Ulrich Beck (1986/2001, 1994a, 1994b), Anthony Giddens (1987a, 1994/1990) e Brian Wynne (1992). E’ in particolare nella relazione tra ambiente e modernità, teorizzata da questi autori, che la costruzione teorica della modernizzazione ecologica trova le sua fondamenta. Anche se i primi lavori risalgono all’inizio degli anni Ottanta (con Hubert 1982), è infatti attraverso il dibattito costante con la prospettiva della società del rischio che la modernizzazione ecologica si è strutturata in quanto teoria. I concetti di modernizzazione e di modernità riflessiva sviluppati nell’ambito della prospettiva della società del rischio60 (cfr. 57 Questi studi sono citati e commentati da Mol e Sonnenfeld (2000) in un volume monografico della rivista Environmental Politics, che essi hanno diretto e dedicato alla modernizzazione ecologica nel mondo. 58 Al XIV° Congresso Mondiale di Sociologia (Montréal, 26 Luglio – 1° Agosto 1998), il Comitato di Ricerca 24 « Environment and Society » ha consacrato una sezione intera - la n° 6 – alla teoria e alla pratica della modernizzazione ecologica. 59 O, secondo i punti di vista, una seconda teoria ambientale della recente modernità. 60 Anthony Giddens e Ulrich Beck hanno sviluppato una sociologia « riflessiva » in cui le relazioni societaliambientali non sono fisse ma in interazione reciproca. I nuovi rischi, ecologici e tecnologici, che caratterizzano le società capitaliste attuali, sono percepiti, in questa sociologia, come una conseguenza non voluta di alcuni aspetti della modernità quali l’industrializzazione, la divisione del lavoro, lo sviluppo della scienza e dell’innovazione tecnologica. Questi processi, messi in opera per organizzare la produzione in funzione dei bisogni umani, sono in effetti fondati – secondo Beck e Giddens – sullo sfruttamento industriale della natura. E’ in questo sfruttamento che i nuovi rischi trovano radice. Ciò che distingue i rischi “moderni” dai pericoli premoderni, sostengono Beck e Giddens, non è solo il fatto che i primi oltrepassano le frontiere e le barriere sociali 48 anche Beck, Giddens and Lash 1994) costituiscono i suoi punti di partenza. Talvolta se ne ispira, talvolta se ne dissocia e li critica. Soprattutto Mol e Spaargaren sono particolarmente vicini alla scuola della modernizzazione riflessiva riprendendone alcune conclusioni, quali il riconoscimento del fatto che i rischi globali contemporanei hanno perso le loro delimitazioni spazio-temporali, che il rapporto tra gli attori non competenti e i sistemi esperti ha cambiato connotazione, o ancora, l’impossibilità per gli scienziati di quest’epoca (quella dell’ultima modernità) di stabilire delle certezze a proposito dei rischi ambientali e di non condividere i loro dubbi col pubblico (Spaargaren, Mol 1992). Allo stesso tempo, il pessimismo della modernizzazione riflessiva è oggetto di critica ed è a partire da questa critica che la nuova teorizzazione della modernità si sviluppa61. E’ opportuno sottolineare che l’approccio della modernizzazione ecologica si fonda sull’analisi di esperienze di alcuni Paesi che hanno dimostrato che le istituzioni moderne possono incorporare gli interessi ambientali nelle loro pratiche quotidiane, contrariamente a quanto avviene in altre società dove gli interessi economici e politici dominano le traiettorie dello sviluppo e dove il degrado ambientale si amplifica (Mol, Sonnenfeld 2000 : 3). Dall’inizio, l’obiettivo dell’approccio sociologico della modernizzazione ecologica è stato quello di analizzare i modi in cui le società contemporanee industrializzate affrontano le crisi ambientali. Al centro della teoria vi è l’ipotesi della capacità, per le società contemporanee, di far fronte alle crisi ecologiche e di articolare la crescita economica con degli obiettivi ambientali. Un certo ottimismo tecnologico è alla base di questo approccio, che tenta di analizzare e di individuare le chiavi del passaggio da una società industriale del passato che inquina ad una nuova società del futuro superindustrializzata rispettosa dell’ambiente. Declinare i postulati principali di questa teoria può aiutarci a capirla meglio. Per questo, mi baserò su un’analisi effettuata da Arthur Mol che è stata pubblicata su di un manuale (gli ultimi episodi di “maree nere” ne sono un esempio eloquente). La differenza principale risiede nella coscienza sociale di questi rischi, nella onnipresenza nell’immaginario collettivo, come conseguenza di un sapere sviluppato e applicato dagli uomini nelle loro società. La modernità riflessiva teorizzata da Giddens et Beck si caratterizza allora non per una presenza più elevata del rischio come dato oggettivo, ma piuttosto per la costruzione sociale di tale rischio. E’ attraverso l’integrazione sociale di nuove norme specifiche, stabilite da esperti o da giudici per determinare delle responsabilità, che il rischio “moderno” si costruisce (ibid.). La società del rischio è, secondo Beck, una « società autocritica » (Beck 2001/1986). La modernità riflessiva è la fase in cui, nella società capitalista, la ragione applica il suo scetticismo metodico a essa stessa. La riflessività diventa così una fonte principale di incertezza ecologica. La modernizzazione ecologica è considerata allora come un processo di autocritica e di autotrasformazione della società facente seguito alla riflessività. E’ evidente che la riflessività e la modernizzazione non possono coesistere. La modernizzazione ecologica critica il pessimismo della modernità riflessiva. E’ attraversata, al contrario, da un senso calmo di ottimismo tecnologico (Hannigan 1995 : 184). 61 Come si sa, U. Beck (2001/1986) ha assunto una posizione estremamente pessimista sullo sviluppo tecnologico e fa appello ad una ristrutturazione radicale delle istituzioni di base della società « postindustriale ». 49 internazionale di sociologia ambientale (Redclift, Woodgate 1997) e, più recentemente, in un numero monografico della rivista Environmental Politics dedicato alla modernizzazione ecologica (cfr. Mol, Sonnenfeld 2000). In quanto teoria del mutamento sociale, afferma Mol, la modernizzazione ecologica si focalizza sulle trasformazioni sociali e istituzionali che sono alla base del processo di riforma ambientale o ecologica. Queste trasformazioni figurano come dei temi centrali di tale approccio, nelle regioni industrializzate occidentali. Esse possono essere riunite in quattro punti principali: Trasformazione del ruolo della scienza e della tecnologia. La scienza e la tecnologia sono riconosciute come istituzioni centrali della riforma ambientale piuttosto che come responsabili di disordine sociale ed ecologico. Il loro ruolo attuale è relativo non solo all’emergenza dei problemi ambientali ma anche alla gestione e alla prevenzione di questi problemi. I regimi tecnologici tradizionali, fondati principalmente sulla riparazione, e per questo fortemente criticati durante gli anni Settanta, hanno lasciato progressivamente il posto a degli approcci socio-tecnologici preventivi che includono le considerazioni ambientali nei processi di produzione e nei prodotti già a partire dal loro stadio iniziale (di progetto). Trasformazioni nel ruolo dello Stato-nazione. La teoria della modernizzazione ecologica si focalizza sul ruolo da attribuire allo Stato nell’ambito della riforma ambientale. Tale teoria descrive e postula l’emergenza di stili di governance più decentralizzati, più flessibili e consensuali. Questa teoria, pur non risparmiando critiche per gli Stati burocratici fortemente centralizzati, ammette comunque che la gestione ambientale preventiva possa essere regolata dallo Stato, attraverso, tuttavia, una politica decentrata e partecipativa. La modernizzazione ecologica prende atto del fatto che, nella politica ambientale, lo Stato sta abbandonando o dovrebbe abbandonare il suo carattere reattivo, la sua policy-making chiusa, il suo centralismo e dirigismo, per passare ad un carattere preventivo, ad una policy-making partecipativa, alla decentralizzazione e al guidage contestualizzato (un ruolo che gli osservatori delle politiche ambientali qualificano come governance). E’ in questo spirito che emergono delle istituzioni sovra-nazionali che riducono il ruolo tradizionale dello Stato-nazione nella riforma ambientale. E’ in questo stesso spirito che gli attori non-statali assumono sempre più le funzioni di amministrazioni tradizionali, manageriali, regolatrici degli Stati-nazione e che gli attori economici, tra cui gli imprenditori, sono più direttamente implicati nella riforma ambientale. 50 Aumento dell’importanza delle dinamiche di mercato e degli agenti economici. L’approccio della modernizzazione ecologica attribuisce un ruolo determinante alle dinamiche economiche e di mercato cosi come agli agenti economici (tra cui gli imprenditori industriali) nella messa in opera della riforma ecologica. Questi agenti, tra cui possiamo facilmente situare i produttori, i doganieri, le istituzioni di credito, le compagnie d’assicurazione, ecc. vengono ad aggiungersi alle categorie più convenzionali delle amministrazioni statali ad hoc e dei movimenti sociali che dominano il campo della maggior parte delle teorie sull’ambiente. Lo sviluppo economico e la qualità ambientale sono considerati come interdipendenti senza essere per forza opposti e incompatibili, come invece era stato proclamato durante gli anni Settanta. La loro compatibilità è resa possibile dall’« ecologizzazione » dell’economia ma anche dall’« economizzazione » dell’ecologia. L’una si realizza attraverso l’internalizzazione delle esternalità della produzione; l’altra attraverso l’articolazione degli standards ambientali con i processi economici, attraverso l’intervento d’attori quali le compagnie d’assicurazione, le banche, gli organismi di certificazione ecc. Nel caso specifico delle aziende industriali, è per rispondere ai vincoli imposti dal mercato che le operazioni di certificazione (dei prodotti e dei processi di produzione) sono portate avanti, che sono domandati degli audit ambientali e che sono rese pubbliche le valutazioni della performance ambientale, al fine di crearsi delle nicchie di mercato. La creazione dei due referenziali del management ambientale – la norma internazionale ISO 14001 e il regolamento europeo Eco-audit (o Emas) – risponde a questa volontà di conciliare gli obiettivi ecologici e gli obiettivi economici in dispositivi che possano soddisfare le parti interessate: gli attori economici (principalmente gli industriali, obiettivo di questa regolamentazione) e i poteri pubblici, che sono all’origine delle politiche ambientali e delle norme legali che le traducono. Modifiche della posizione, del ruolo e dell’ideologia dei movimenti sociali. Infine, la modernizzazione ecologica osserva e prevede ugualmente una trasformazione del ruolo dei movimenti sociali nel processo di miglioramento ecologico. Inizialmente, nel corso degli anni Settanta e Ottanta, questi movimenti erano dei commentatori esterni e critici dei sistemi di sviluppo tecnico-economico. Ad un’epoca in cui l’idea della “demodernizzazione” o dell’antimodernità era il denominatore comune dei movimenti ambientalisti attraverso il mondo, il ruolo di questi movimenti si limitava a far inserire l’ambiente, attraverso le loro azioni di protesta, nelle agende pubbliche e politiche. A partire dagli anni Novanta, questi movimenti sono diventati degli agenti – che continuano ad essere indipendenti e critici – delle istituzioni pubbliche e private e del processo di decision-making nel campo delle riforme ambientali. Questa trasformazione è direttamente legata ad un altro cambiamento che si è prodotto più a 51 monte nella coscienza collettiva e che si è concretizzato con il cambiamento delle pratiche discorsive e con l’emergenza di nuove ideologie. La solidarietà intergenerazionale nella questione della gestione delle risorse naturali è diventata un punto centrale non controverso (cfr. anche Lafaye, Thévenot 1993 : 504 e 514-515). Gli estremismi utilitaristici economici e ambientalisti non sono più accettati come posizioni legittime. Su queste basi, la teoria della modernizzazione ecologica rifiuta l’opposizione classica tra economia e ecologia e preconizza la possibilità di combattere la crisi ambientale senza abbandonare la via della modernizzazione. Per questo fatto, la tesi della modernizzazione ecologica è una negazione dell’ideologia ispirata da opere come Limits to growth (Club di Roma 1972) o Small is beautiful (Schumacher 1973). Essa prende piuttosto posizione in favore di una ristrutturazione a larga scala dei cicli di produzione/consumo da realizzarsi con l’uso di nuove tecnologie più sofisticate e più pulite (Spaargaren, Mol 1992 : 340). Gli studi condotti sulle economie delle nazioni dell’Europa occidentale preconizzano l’ecologizzazione di queste economie, attraverso la sostituzione delle obsolete tecnologie utilizzate dalle industrie chimiche e altre manifatture con dei processi di produzione “puliti” come quelli della microelettronica o della tecnologia genetica. Ritroviamo in questa posizione un allineamento col concetto di sviluppo sostenibile portato avanti dal Rapporto Brundtland (WCED 1988/1987). Questo rapporto, è bene ricordarlo, presentava la protezione dell’ambiente come una pre-condizione di una crescita futura sostenibile piuttosto che come un vincolo a carico dell’economia. La modernizzazione ecologica per di più amplifica questa concezione. Sostiene infatti che il degrado ambientale non debba più essere considerato come una produzione accidentale dell’attività economica, dal momento che può essere risolto con lo sviluppo delle tecniche, quelle di controllo dell’inquinamento per esempio. A questo punto, una distinzione analitica ulteriore può essere effettuata a proposito della modernizzazione ecologica, se la si considera in quanto teoria ambientale della modernità. Gli studi realizzati in questo ambito talvolta analizzano il processo, talvolta lo prescrivono. Nel primo caso, le premesse della teoria sono utilizzate come strumenti analitici per capire il modo in cui le società industriali contemporanee reagiscono alle crisi ambientali. Alcuni autori utilizzano l’insieme dei concetti e delle idee esposte qui sopra per descrivere i mutamenti che sono avvenuti nei diversi campi della riforma ambientale (cfr. Weale 1992 ; Mol 1995 ; Spaargaren 2000a, 2000b). Nel secondo caso, queste premesse sono piuttosto utilizzate per teorizzare un progetto normativo di riforma ambientale. Esse hanno un valore prescrittivo più che analitico e partecipano alla costruzione di una teoria dei percorsi 52 desiderabili e fattibili per la realizzazione della riforma ambientale (cfr. Christoff 1996 ; Dryzek 1978, 1997). Malgrado la sua giovane età, la teoria della modernizzazione ecologica si è già sviluppata in modo piuttosto diversificato. Essa è oggi una scuola di pensiero in piena crescita. Nonostante questa teoria abbia iniziato a svilupparsi nel contesto dei dibattiti politici dell’Europa nord-occidentale, a partire dalla fine degli anni Novanta la sua produzione intellettuale è diventata più eterogenea e la sua influenza e il suo campo di applicazione si sono estesi. Attualmente, la modernizzazione ecologica è considerata come una delle idee e delle prospettive più durevoli e influenti della sociologia ambientale62 (Buttel 2000). Essendo ancora una teoria in formazione, non deve sorprendere il fatto che numerosi campi restano ancora da elaborare e da studiare. Non deve sorprendere nemmeno che abbia sollevato un dibattito scientifico considerevole, diventando l’oggetto di numerose critiche. La maggior parte di queste si indirizzano principalmente verso i suoi toni prescrittivi e verso il fatto che essa possa avere la pretesa di fornire una soluzione alla crisi ambientale63 (Blühdorn 1998). Altre critiche mettono in questione la fattibilità e la desiderabilità del suo progetto normativo di riforma ambientale (O’Neill 1998). Altre ancora le rimproverano di utilizzare una categoria analitica o prescrittiva (quella della modernizzazione ecologica) che, come quella della sostenibilità, sarebbe puramente formale o empiricamente vuota (Blühdorn 1998). E, pure, che secondo le interpretazioni che possono esserne date, il termine rischia di essere utilizzato “per legittimare la continuazione della dominazione strumentale e la distruzione dell’ambiente, oltre che la promozione di forme di governo meno democratiche” (Christoff 1996 : 497)64. Contrariamente allo sviluppo sostenibile, la modernizzazione ecologica è stata elaborata in quanto paradigma ambientale delle società industrializzate. Secondo tale paradigma, lo ripeto, le regioni industrializzate avanzate dovrebbero essere capaci di riconciliare la crescita economica con l’equilibrio ecologico. Il campo della modernizzazione ecologica è così circoscritto al mondo occidentale e, più particolarmente, al suo interno, al mondo 62 Il numero e la dimensione delle sessioni dedicate a questa prospettiva nel corso degli incontri ufficiali dei sociologi dell’ambiente, ma anche dei politologi, stanno a testimoniare l’influenza crescente di quest’approccio, oltre che il suo riconoscimento scientifico. 63 Il fatto che le percezioni del problema ecologico siano varie, che ogni società dà priorità a certi obiettivi politici piuttosto che ad altri, fa sì che le razionalità ecologiche siano multiple. E’ dunque evidente che la modernizzazione ecologica delle « società moderne avanzate » sia un processo multidirezionale del mutamento sociale in corso, e che essa non possa dunque essere concettualizzata in maniera univoca. 64 Tradotto da me, M.L.D. 53 industriale65. Pertanto, anziché progressista, il paradigma della modernizzazione ecologica potrebbe essere considerato come partigiano del capitalismo industriale (Buttel 2000), da un lato, e come conservatore66, dall’altro (Christoff 1996). Tanto più che la forte fiducia che accorda alle innovazioni eco-tecnologiche potrebbe farlo etichettare ugualmente come tecnocratico (ibid.). Le considerazioni qui presentate sulla teoria della modernizzazione ecologica hanno avuto l’obiettivo di fornire una rapida panoramica senza voler ambire all’esaustività. Il discorso sui punti forti e le debolezze di questa teoria emergente meriterebbe d’essere sviluppato ulteriormente e potrebbe costituire una pista di ricerca interessante. Ma ciò che meriterebbe ancor più tutta la nostra attenzione è il nesso che potremmo individuare tra questa teoria e l’approccio sociologico ortodosso dell’industria in quanto attore economico ecologicamente “impattante”. Non bisogna dimenticare che una buona parte della letteratura sulla modernizzazione ecologica si è focalizzata sui miglioramenti delle performances ambientali realizzati nel settore privato, in particolare all’interno dell’industria manifatturiera (cfr. per esempio Mol 1995, 1997 ; Andersen 1994 ; Ayres, Weaver 1998). L’aumento dell’efficienza e la minimizzazione dell’inquinamento e della produzione di rifiuti ultimi sono delle pratiche “tradizionalmente” studiate da questa scuola, che rivendica la sua filiazione disciplinare alla sociologia dell’ambiente; ma è evidente che potrebbero costituire un oggetto di analisi pertinente anche per la sociologia industriale e dell’organizzazione. D’altra parte, è bene puntualizzare che in questa sua attenzione per le performances ambientali realizzate nell’ambito industriale, l’approccio della modernizzazione ecologica oltrepassa uno dei limiti più evidenti della sociologia ambientale americana, concentrata piuttosto sulle ragioni della crisi ambientale e sul ruolo dei movimenti ecologici e ecologisti nella protezione dell’ambiente (Buttel 2000). Forti critiche pesano sulla capacità delle aziende industriali a regolarsi in modo autonomo, oltre che sulle motivazioni67 che animano la loro azione in materia ambientale. L’approccio della modernizzazione ecologica non si è soffermato su questi aspetti. La sua teoria non fornisce gli strumenti per capire quali sono e come funzionano gli agenti specifici o 65 I problemi dei Paesi in via di sviluppo non hanno costituito oggetto di interesse per la prospettiva della modernizzazione ecologica. 66 Visto che non problematizza le tematiche della giustizia sociale e della distribuzione della ricchezza. 67 Il termine « motivazione » specifico della rete della semantica naturale dell’azione individuale (cfr. Quéré 1994), è qui utilizzato a proposito dell’azione delle imprese. Ora, ci si può chiedere se delle imprese, delle aziende in quanto tali, possano avere delle motivazioni. Si può parlare dell’attore-impresa con gli stessi termini impiegati per gli attori individuali? Non sarebbe più appropriato parlare di motivazioni degli attori individuali o sociali che decidono e parlano nel nome delle loro imprese? 54 le driving forces del mutamento. Tale comprensione, tra l’altro, potrebbe aiutarci a sapere perché certe idee sono o possono essere scelte e adottate dai policy-makers e, soprattutto, come queste sono trasmesse, e con quali vincoli, dal globale al locale, dal livello più astratto e generale del policy-making a quello più concreto dell’impresa per esempio. Un contributo all’insieme degli studi già esistenti potrebbe allora orientarsi in questo senso68. 6. Per concludere Ci si potrebbe interrogare sull’utilità di questa presentazione della sociologia dell’ambiente e delle sue principali correnti teoriche. La batteria di concetti e di strumenti forniti da questo campo disciplinare è in effetti utile per affrontare praticamente delle questioni o degli oggetti di ricerca di tipo empirico. Il suo “Nuovo Paradigma Ecologico”, la struttura analitica, il treadmill of production (con l’invito a focalizzarsi sulle strutture politiche, sociali e economiche per lo studio dei problemi ecologici), la dialettica societaleambientale, la costruzione sociale della crisi ecologica, il concetto di modernizzazione ecologica con la teoria che lo accompagna, sono dei punti fermi a cui si può far riferimento quando si affrontano sul campo questioni importanti come quelle dello sviluppo locale, del mutamento sociale, della riforma politica, della modernizzazione industriale… Un partito è stato preso qui per la teoria della modernizzazione ecologica e, in modo più generale, per la prospettiva social-costruzionista. La prima sostiene una posizione in favore di uno sviluppo della politica e dell’industria come agenti “probabili” della modernizzazione ecologica della società in senso lato e rinvia anche al problema delle driving forces del mutamento. Per quanto riguarda la prospettiva social-costruzionista, essa ci può orientare nella presa in conto della dimensione socialmente costruita della problematica ambientale e nel ridurre l’enfasi che è data alla sua materialità. L’emergenza delle preoccupazioni ecologiche non è infatti una funzione diretta e proporzionale del livello del degrado ambientale. Questo non vuol dire negare che una correlazione tra le due esista, che la crisi ecologica sia un dato oggettivo e che le pratiche socio-economiche debbano essere contate tra le cause di questa crisi. Al contrario. Tuttavia, si può formulare l’ipotesi che la prospettiva social-costruzionista permette di considerare l’emergenza della preoccupazione o questione 68 Uno studio delle condizioni di possibilità fondato su un’analisi micro di un numero limitato di imprese piuttosto che un’analisi macro di un settore economico produttivo (come per altro ne esistono già) potrebbe portare degli elementi di valutazione supplementari nella dinamica della modernizzazione ecologica del mondo imprenditoriale in particolare. 55 ambientale come il risultato di un processo di istituzionalizzazione di rivendicazioni sociali che si mette in opera non per effetto meccanico della diffusione di queste rivendicazioni, ma come il risultato di azioni e interazioni, di processi di traduzione e di enrôlement tra attori umani e non umani69. 69 Quali sono descritti da Michel Callon, Bruno Latour e Barbara Czarniawska (cit.) 56 BIBLIOGRAFIA ANDERSEN M.S. (1994), Governance by Green Taxes. 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