( 1. Prova Scritta di Filosofia - Traccia n. l Di tale natura e di tal numero sono dunque le concezioni generalmente condivise intorno alla sapienza (ao<p1a) e intorno ai sapienti. Ora, il primo di questi caratteri - il conoscere ogni cosa ­ deve appartenere soprattutto a chi possiede la scienza (ÈTTlaT~IJT]) dell'universale: costui infatti sa, sotto un certo rispetto, tutte le cose <particolari, in quanto queste sono> soggette <all 'universale>. In secondo luogo, le cose più universali sono appunto le più difficili da conoscere per gli uomini: sono infatti le più lontane dalle sensazioni. Infine, le scienze più esatte sono quelle soprattutto che vertono intorno ai primi principi: infatti le scienze che presuppongono un minor numero di principi sono più esatte di quelle che presuppongono, altreSÌ, l'aggiunta <di ulteriori principi>, come ad esempio l'aritmetica rispetto alla geometria. Ma è anche maggiormente capace di insegnare la scienza che maggiormente indaga le cause: infatti insegnano coloro che dicono quali sono le cause di ciascuna cosa. Inoltre, il sapere e il conoscere che hanno come fine il sapere e il conoscere medesimi, si trovano soprattutto nella scienza che è in massimo grado conoscibile: infatti colui che desidera la scienza per se medesima, desidera soprattutto quella che è scienza in massimo grado, e tale è, appunto, la scienza di ciò che è in massimo grado conoscibile. Ora, conoscibili in massimo grado sono i primi principi e le cause; infatti mediante essi e muovendo da essi si conoscono tutte le altre cose, mentre viceversa essi non si conoscono mediante le cose che sono loro soggette. E la più elevata delle scienze, quella che più deve comandare sulle dipendenti, è la scienza che conosce il fine per cui viene fatta ogni cosa; e il fine, in ogni cosa, è il bene, e, in generale, nella natura tutta, il fine è il sommo bene. Da tutto ciò che si è detto, dunque, risulta che il nome che è oggetto della nostra indagine si riferisce ad una unica e medesima scienza: essa deve speculare intorno ai principi primi e alle cause; infatti anche il bene e il fine delle cose è una causa. Che poi essa non tenda a realizzare qualcosa, risulta chiaramente anche dalle affermazioni di coloro che per primi hanno coltivato la filosofia. Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come all 'inizio, a causa della meraviglia; mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell 'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito infatti è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono la conoscenza solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. E' evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, cosÌ questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa. ARISTOTELE, Metafisica Commentate il pensiero del! 'autore, cercando di inquadrarlo nel suo contesto storico e sviluppandone le implicazioni teoretiche. ... Prova Scritta di Filosofia - Traccia n. 2 La seguente trattazione spiega abbastanza il motivo per cui questa Critica non è intitolata Critica della ragion pura pratica, ma semplicemente Critica della ragion pratica in genere, benché il parallelismo di essa con la ragione speculativa sembri richiedere il primo titolo. Essa deve semplicemente dimostrare che vi è una ragion pura pratica, e a questo fine ne critica l'intera facoltà pratica. Se riesce in ciò, essa non ha bisogno di criticare la stessa facoltà pura, per vedere se la ragione non oltrepassi se stessa con questa facoltà, come con una semplice presunzione (come invero accade con la ragione speculativa). Poiché se essa, come ragion pura, è veramente pratica, dimostra la realtà propria e quella dei suoi concetti mediante il fatto, ed è vano ogni sofisticare contro la sua possibilità di essere tale. [ ... ] Il concetto della libertà, in quanto la realtà di essa è dimostrata mediante una legge apodittica della ragion pratica, costituisce ora la chiave di volta dell 'intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della speculativa, e tutti gli altri concetti (quelli di Dio e dell 'immortalità), i quali, come semplici idee, nella ragione speculativa rimangono senza sostegno, ora si riuniscono ad esso e ricevono con esso e per mezzo di esso la stabilità e la realtà oggettiva, ossia la loro possibilità è dimostrata dal fatto che la libertà è reale; poiché quest'idea si manifesta con la legge morale. Ma la libertà è anche l'unica fra tutte le idee della ragione speculativa di cui noi conosciamo a priori la possibilità senza tuttavia concepirla, perché essa è la condizione della legge morale che noi conosciamo. Le idee di Dio e dell' immortalità, invece, non sono condizioni della legge morale, ma soltanto condizioni dell 'oggetto necessario di una volontà determinata mediante questa legge cioè dell 'uso semplicemente pratico della nostra ragion pura. Quindi noi possiamo affermare di non conoscere né percepire, non dico semplicemente la realtà, ma neanche la possibilità di queste idee. Nondimeno esse sono le condizioni dell'applicazione della volontà determinata moralmente all'oggetto che le è dato a priori (il sommo bene). Perciò si può e si deve ammettere la loro possibilità in questa relazione pratica, senza però conoscerla né percepirla teoreticamente. Per quest'ultima esigenza è sufficiente allo scopo pratico che esse non contengano impossibilità interna (contraddizione). Questo è il fondamento del consenso, semplicemente soggettivo in confronto con la ragione speculativa, ma di valore oggettivo per una ragione benSÌ pura, ma pratica, per quale alle idee di Dio e dell 'immortalità mediante il concetto della libertà son procurati la realtà oggettiva e il diritto, anzi la necessità soggettiva (bisogno della ragion pura) di ammetterle senza che perciò tuttavia la ragione sia estesa nella sua conoscenza teoretica; vien data soltanto la possibilità, che prima era solo un problema, e qui diventa asserzione, e cosÌ l'uso pratico della ragione è connesso con gli elementi dell 'uso teoretico. I. KANT, Critica della ragion pratica Commentate questo passo di Kant, inquadrandolo nel suo contesto storico e sviluppandone le implicazioni di carattere teoretico. ,. Prova scritta di Filosofia - Traccia D. 3 La storia della filosofia ci presenta la serie di quei nobili spiriti, di quegli eroi della ragione pensante, che per virtù appunto della ragione hanno saputo penetrare l'essenza delle cose, della natura e dello spirito, l'essenza di Dio, e ci hanno conquistato il supremo tesoro, il tesoro della conoscenza razionale. In un primo momento queste azioni del pensiero, in quanto appartengono alla storia, sembrano cosa del passato, al di là della realtà nostra. In verità, tutto ciò che noi siamo, lo siamo anche per opera della storia . .. 11 patrimonio di razionalità autocosciente, che godiamo noi oggi non è scaturito immediatamente, non è germogliato soltanto dal terreno del presente; esso è essenzialmente un'eredità, il risultato del lavoro di tutte le generazioni che furono ... Allo stesso modo che le arti della vita esteriore, la somma dei mezzi e delle capacità, le istituzioni e consuetudini della convivenza sociale e della vita politica, sono il risultato della riflessione, dello spirito inventivo, dei bisogno, delle angustie e delle sventure, dell'acume, della volontà, dell'attività della storia che ha preceduto il nostro presente; così pure tutto ciò che noi siamo in fatto di scienza e particolarmente di filosofia lo dobbiamo parimenti alla tradizione ... Senonché la tradizione non è soltanto una massaia, che si limita a custodire fedelmente quel che ha ricevuto e a conservarlo e trasmetterlo immutato ai posteri ... La tradizione non è una statua immobile, ma vive e rampolla come un fiume impetuoso che tanto più si ingrossa quanto più si allontana dalla sua origine. Il contenuto di essa è costituito da ciò che il mondo spirituale ha prodotto; e lo spirito universale non riposa mai ... In tal modo, ciò che si è ricevuto viene mutato, e la materia elaborata grazie appunto all' elaborazione si arricchisce e al tempo stesso si conserva. Questa è precisamente la posizione e la funzione dell'età nostra, come di ogni altra: impadronirsi della scienza già esistente, assimilarla, e in tal modo appunto svolgerla e portarla a grado più elevato. N eli' appropriarcela, noi ne facciamo qualche cosa di nostro in confronto a ciò che essa era precedentemente. Da questa natura del produrre, che si fonda su di un mondo spirituale già esistente e appropriandoselo lo trasforma, deriva la conseguenza che la nostra filosofia può nascere solo ricollegandosi alla precedente, dalla quale necessariamente scaturisce; e il corso della storia ci rappresenta non soltanto il divenire di cose estranee, ma questo nostro stesso divenire, il divenire della nostra scienza." G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia dellafilosofia Commentare i passi hegeliani, con particolare riferimento ai concetti di "tradizione ", "divenire storico" e "filosofia ", valutando inoltre la eventuale fondatezza ed attualità della prospettiva ivi delineata.