Il Foglio - 30 Aprile 2008
L'edicola o la rete? NYT e WSJ, due strategie a confronto
I giornali di carta (sopratutto in America) perdono copie, ma il web non raccoglie
abbastanza pubblicità.
Quanto e come investire su internet? Far pagare o no i contenuti del giornale sulla rete? E
poi, la pubblicità on line funziona? Riuscirà il giornale cartaceo a sopravvivere nel lungo
periodo? Quale modello di business converrà adottare in futuro?
Queste e mille altre domande si ripresentano ciclicamente nelle riunioni delle redazioni di
giornale e nei consigli d’amministrazione dei gruppi editoriali. Difficile dare delle risposte
certe: non esiste, infatti, una formula vincente che funzioni per tutte le testate o un
modello di business che garantisca al contempo un’ampia readership, ricavi e margini.
Il fatto è che oggi il mondo integrato dell’editoria e del web è complesso, frastagliato e in
continuo mutamento.
Cerchiamo di capire meglio la scenario globale dei quotidiani iniziando dagli Stati Uniti,
laddove partono le tendenze grazie alle quali si possono preconizzare i prossimi passi dei
grossi gruppi editoriali europei.
La situazione, va detto, non è rosea: i primi venti quotidiani nordamericani hanno perso
complessivamente quasi 1 milione e mezzo di copie fra il 2003 e il 2007, oltre il 10 per
cento della diffusione complessiva. Secondo l’Audit Bureau of Circulations il calo maggiore
è stato registrato al San Francisco Chronicle che ha perso il 28,8 per cento, seguito dal Los
Angeles Times (meno 20,2 per cento) e dal Boston Globe (meno 19,9 per cento). In
generale, negli ultimi tre anni, si è drasticamente ridotto il valore di mercato dei giornali
americani. Il New York Times ha visto la sua capitalizzazione di mercato passare da 6,4 a
2,7 milioni di dollari e ciò ha portato ad un pesante piano di riorganizzazione del lavoro
con licenziamenti e pre-pensionamenti.
La crisi è legata principalmente alle edizioni cartacee dei giornali: solo il 19 per cento dei
cittadini americani dai 18 e i 34 anni dichiara di leggere il “giornale”, mentre la media del
lettore cartaceo si attesta sui 55 anni. In tutto ciò i costi della carta e della stampa negli
ultimi anni hanno subito aumenti a due cifre.
Tutti questi numeri fanno capire che, prima o poi, il web sostituirà la carta, come
pronosticato da Vittorio Sabadin nel suo “L’ultima copia del New York Times” (Sellerio)
che l’autore prevede sarà nel 2043. Proprio su quest’ultima questione gli esperti di editoria
si sono scontrati a colpi di provocazioni: Arthur Sulzberger, presidente ed editore del New
York Times, scommette che l’ultimo numero cartaceo del suo giornale sarà nel 2013,
dopodiché esisterà solo online. Di parere contrario invece Rupert Murdoch: il tycoon
australiano che possiede 175 testate in tutto il mondo ha comprato una serie di pagine
pubblicitarie su Press Gazzette, la rivista del giornalismo britannico, provando a
immaginare le prime pagine dei quotidiani nel 2048, come ad esempio la prima pagina del
Sun che riporta il titolo “L’Inghilterra ha vinto la Coppa del Mondo di calcio!”.
E’ difficile non pensare che internet sostituirà in fretta i giornali cartacei, basta fare una
semplicissima riflessione sui costi. Il web porterebbe alla definitiva scomparsa dei costi di
distribuzione e di stampa, ovvero non meno del 45 per cento delle uscite di un quotidiano.
Quale manager non sognerebbe di eliminare in un colpo solo il 45 per cento dei costi fissi
di un’azienda?
Insomma, il web è il futuro ed è lì che le testate devono investire. Anche se al momento è
difficile intravedere un ritorno economico da parte della rete. La pubblicità online non
rappresenta oggi una vera e propria opportunità, al contrario delle inserzioni sulla carta
stampata. Gli investimenti pubblicitari online costituiscono solo il 7,5 per cento dei ricavi
pubblicitari complessivi dei giornali nel 2007 e i tassi di crescita stanno progressivamente
calando.
Negli Usa, secondo alcune stime, un lettore online viene valutato “interessante per gli
inserzionisti” solo per il 45 per cento, contro il 100 per cento del lettore cartaceo. C’è poi da
dire che su internet le grosse testate editoriali sono ben lontane dall’essere le protagoniste
dominanti. Circa il 40 per cento degli investimenti in pubblicità online è veicolata dai
motori di ricerca, che ospitano le inserzioni legandole ai loro risultati. Il mercato
pubblicitario online, quindi, è molto particolare, sfaccettato ed estremamente segmentato.
Poi c’è la questione dei contenuti web: farli o non farli pagare? Anche qui le due grosse
scuole sono quelle del New York Times e del Wall Street Journal. La prima ha deciso di
mettere tutti gli articoli gratis sul sito, previa registrazione al sito con un’accurata
profilazione, vale a dire una descrizione dettagliata dei gusti e dei bisogni del lettore. Da
settembre 2007 l’intero archivio del NYT, gli editoriali e i commenti (Times Select, che
pure aveva ottenuto risultati discreti - 10 milioni di dollari di entrate l’anno per 227mila
sottoscrizioni) sono completamente gratuiti. La testata newyorchese ha preferito quindi
sfruttare il circolo virtuoso dell’ecosistema internet che, soprattutto grazie agli archivi,
permette una moltiplicazione degli accessi (e quindi più pubblicità e più guadagni), senza
passare obbligatoriamente dalle home page della testata, ma dai motori di ricerca e dai link
dei vari blog.
Il WSJ di Murdoch, dopo vari tentennamenti, ha deciso di aumentare i contenuti
disponibili gratuitamente, senza però abbandonare il servizio di consultazione del sito a
pagamento, che oggi è limitato ai “contenuti a valore aggiunto” della testata,
principalmente di natura finanziaria (contenuti che peraltro con la nuova gestione
Murdoch sono meno centrali nella versione cartacea). La nuova politica del WSJ punta
quindi a servire la stragrande maggioranza dei visitatori con contenuti gratuiti (si prevede
un aumento del traffico pari a 12 volte), ed una piccola nicchia di professionisti e aziende
con un servizio a pagamento relativamente costoso. L’abbonamento al wsj.com passa
infatti da 79$ a 120$.
Oggi la questione centrale verte sul modello di business da scegliere, cioè quale cura
adottare per guarire il malato. L’Online Journalism blog schematizza il business model
editoriale originario in tre punti.
Primo: Pubblicizzare, o meglio, vendere lettori agli inserzionisti. Secondo: vendere
contenuti ai lettori e, terzo, vendere la piattaforma per la distribuzione dei contenuti (ad
esempio, il giornale cartaceo).
Come si è visto, la tecnologia, la contingenza e altri fattori endogeni ed esogeni hanno
portato a una situazione di crisi. Alcune testate USA hanno cercato quindi di diversificare il
proprio business per frammentare il rischio e tenere alto il valore del proprio brand. Il
Washington Post, ad esempio, per evitare i tagli di personale e il deprezzamento sul
mercato – come è successo al NY Times - si è reinventato come azienda di istruzione: la
Kaplan, casa editrice che pubblica libri didattici creata da pochi anni, oggi porta in cassa
almeno la metà dei ricavi all’interno della holding WP.
Secondo un articolo di Matteo Bosco Bortolaso pubblicato su Lsdi.it - il blog partecipativo
creato dalla Federazione nazionale della stampa - le possibili soluzioni possono essere o
ricercate negli aiuti governativi - che negli USA, a differenza dell’Italia, sono stati soppressi
anni fa - o in una maggiore iniezione di pubblicità nella versione cartacea (come ad
esempio inserire le inserzioni sulla prima pagina, pratica recentemente utilizzata e finora
tabù per le autorevoli testate americane) oppure cavalcando l’onda del web. Chiaramente
quest’ultima è la strada che stanno percorrendo tutti ma i cui risultati si vedranno solo nel
lungo periodo.
E in Italia che succede?
La crisi dell’editoria quotidiana non è così drammatica come negli Stati Uniti. Qui siamo
più indietro rispetto agli USA e alla media dell’Europa Iin materia di integrazione editoriaweb e soprattutto nella quantità e nella qualità dell’utilizzo di internet.
Come scriveva giorni fa Luca De Biase in un suo editoriale su Il Sole 24 ore, “il pezzo di
carta resta lo strumento di controllo fondamentale”: dalla fattura, ai moduli bancari ai
giornali. In Italia oggi si naviga poco e male. Di conseguenza anche gli sviluppi e le
politiche delle testate sul web procedono a rilento o con il freno amano tirato.
Recentemente il Corriere e Repubblica hanno reso disponibili a tutti gli archivi del giornale
rispettivamente dal 1992 e dal 1984. Questa forse è la prima vera mossa strategica operata
dalle principali testate nazionali nei confronti della rete che, fino a pochi anni fa, era vista
come un concorrente piuttosto che un mezzo complementare alla versione su carta. Per
quanto riguarda la versione quotidiana, i principali quotidiani pubblicano sul sito circa la
metà degli articoli della versione cartacea.
Nel frattempo all’interno del mercato dell’editoria mondiale nuovi formati e fenomeni sono
emersi. La free press, ad esempio. Solo in Europa il numero di testate di giornali in Europa
è cresciuto da 2 a 125 fra il 1995 e il 2008. Recentemente questa forte concorrenza non ha
giovato a Metro International, il primo editore di free press al mondo (23 milioni di copie
in 23 paesi) che nel primo quadrimestre del 2008 registra un calo dei ricavi del 6 per
cento. Ma, nonostante questo, la “gratuità” rimane una modalità da tenere d’occhio: alcune
settimane fa il quotidiano Libération ha distribuito gratuitamente al sua intera tiratura di
500mila copie, finanziandolo unicamente dalla pubblicità.
Ma ciò che realmente sta accadendo in questi anni è quella che Benoit Raphael, illuminato
studioso francese di media, chiama la “nomadizzazione dell’informazione”, cioè
un’informazione che abbandona progressivamente non solo la nozione di supporto fisico
esclusivo (carta, web, tv etc..) ma soprattutto quella di un supporto mediatico immaginato
come un tutto confezionato (un sito di informazione, ad esempio). Quella di oggi - e,
sempre più, di domani - è un informazione segmentata che tocca e interagisce
direttamente con il lettore. Oggi solo il 20 per cento dei lettori arriva su un sito di
informazione attraverso la home page; il resto dei lettori arrivano sugli articoli attraverso i
motori di ricerca, i flussi di RSS, i link dei blog, gli aggregatori di news etc… Quindi ogni
contenuto diventa una prima pagina, un spazio autonomo di distribuzione: per questo oggi
la questione non è tanto costruire dei punti di concentrazione (come erano in passato i
“portali”), bensì nel piazzare l’informazione per intercettare il lettore, ovunque si trovi. In
futuro la problematica dei media - controllati da gruppi editoriali multimediali - non sarà
più quello di capire quale supporto funziona di più e quale di meno, quanto quello di
trovare il supporto e il formato migliore per connettersi al lettore.
Perfetta integrazione dei media, targetizzazione e innovazione nelle tecniche pubblicitarie
saranno i prossimi diktat per l’editoria prossima ventura.
MICHELE BORONI