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Economia italiana: più sviluppo ed equità per uscire dal declino
di Antonino Andreotti (settembre 2004)
Sono in molti a chiedersi se il declino dell’economia italiana sia un fatto reale, o se abbia ragione il
Ministro Siniscalco a dire che non c’è. La risposta è nei numeri, di fonte nazionale e internazionale.
I numeri del declino
Il primo dato è la crescita lenta: da decenni l’Italia cresce più lentamente degli altri paesi
industrializzati e ormai non riesce neppure a tenere il passo dei partner europei.
Il secondo dato riguarda la diminuita competitività internazionale: tra1995 e il 2003 la quota di
prodotti italiani sul commercio internazionale è diminuita dal 4,5 al 3,0 per cento e nell’ultimo
quinquennio la caduta è stata rovinosa: dal 3,9 al 3,0 per cento.
A queste debolezze strutturali si aggiungono il ristagno dei redditi, la crisi del mondo del lavoro,
l'aumento delle disuguaglianze e della povertà, crac e scandali finanziari che vedono coinvolti
dirigenti d’azienda, revisori dei conti e banchieri, e su cui la sorveglianza non è stata efficace.
Negli ultimi due anni, poi, l’economia italiana si è fermata.
La produzione industriale è in picchiata, gli investimenti sono calati di oltre 2 punti percentuali nel
2003 e le esportazioni hanno subito un tracollo memorabile.
Il nostro export è debolissimo nell’alta tecnologia e perde terreno soprattutto in Europa.
Diciamo la verità: non ha alcun senso dare la colpa all’euro; le vere ragioni sono altre.
L’aumento dei costi di produzione, la modesta qualità dell’offerta, la bassa capacità d’innovazione e
di formazione delle risorse umane e la nostra specializzazione produttiva nei settori maturi che si
sviluppano meno degli altri e dove è più intensa la concorrenza dei paesi emergenti.
L’inflazione ha tagliato il potere d’acquisto delle famiglie e ha rallentato i consumi.
Da noi i prezzi corrono più veloci di quelli dell’area euro, con punte molto elevate per i servizi
bancari, le assicurazioni e i generi alimentari.
Non è vero che sia stato l’euro a scatenare il carovita; anzi, se avessimo conservato la lira, oggi
avremmo un’inflazione ben più alta con il prezzo della benzina alle stelle e i tassi d’interesse a
livello disastroso per i conti pubblici e per quanti hanno contratto un mutuo.
Grazie ai mancati controlli, alcuni operatori di mercato hanno sfruttato l’occasione del passaggio
alla moneta unica per alzare i prezzi e fare più soldi a spese dei consumatori.
Luci e ombre sul fronte dell’occupazione.
Il numero degli occupati è aumentato, la disoccupazione è diminuita ed è sotto la media dell’area
euro; ma non c’è ragione di cantare vittoria.
Non s’arresta, infatti, l’emorragia di posti di lavoro nelle grandi aziende, e più in generale nei settori
industriali, e molti posti di lavoro soppressi sono stati sostituiti da quelli cosiddetti flessibili, che
sono precari, peggio remunerati e meno produttivi.
Sale inoltre il numero di adulti privi di un lavoro: vale a dire che la disoccupazione tocca l’intera
popolazione, non solo i giovani.
Infine, la percentuale di occupati in Italia resta nettamente inferiore alla media europea e le
assunzioni sono per lo più effettuate attraverso i cosiddetti canali informali: per trovare un posto,
cioè, servono le conoscenze giuste.
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Le grandi aziende sono sempre di meno e il sistema delle imprese è molto polverizzato, poco
attento all’impatto ambientale, refrattario al rischio e all’ampliamento degli organici, non investe in
ricerca e sviluppo e fa poca formazione.
Nel complesso, il nostro apparato produttivo si dimostra incapace di competere nell’arena globale e
di generare un processo di sviluppo abbastanza robusto da creare buoni posti di lavoro in
abbondanza. E siccome la svalutazione non è più possibile e le esportazioni soffrono la concorrenza
dei paesi emergenti, il peso della competitività si scarica sul fattore lavoro.
In sintesi, l'economia italiana è in affanno di fronte alla doppia sfida della concorrenza e della
moneta forte, paga le proprie debolezze strutturali e le dissennate scelte del governo Berlusconi che,
nel tentativo di nascondere le proprie responsabilità, addossa le cause del nostro declino all’euro,
alla Cina, al petrolio e più in generale alla crisi mondiale.
Indubbiamente la difficile congiuntura mondiale ha complicato le cose, ma è irresponsabile
sfruttarla per nascondere i problemi interni, a cominciare dal debito pubblico che inghiotte risorse
altrimenti destinabili a potenziare servizi pubblici e infrastrutture, ad accrescere le possibilità
d’impiego e a migliorare la qualità della vita dei cittadini.
Ed è demagogico strumentalizzarla per coprire gli errori commessi: dopo aver colpevolmente
alimentato un sogno fallace, è stata compromessa anche l’annosa opera di risanamento ed è stato
dissipato l’inestimabile patrimonio rappresentato dal consenso sociale.
Una politica scriteriata, iniqua e inefficace.
In più c’è il goffo tentativo di far credere che infondo l’Italia non va peggio dell’Europa e che anzi
siamo più bravi di francesi e tedeschi, ma sono ancora una volta i numeri a smentire i bugiardi: lo
stato di salute delle economie europee è precario, ma il nostro paese sta molto peggio.
L’Italia va indietro, l’Ocse la relega infondo alla classifica dei paesi G7 e i pronostici si tingono di
pessimismo.
Le cose vanno male per tutti?
Grazie a Trilussa sappiamo che nelle pieghe della statistica si nascondono realtà molto diverse.
E infatti, se scaviamo un po’ per appurare se le cose vanno ugualmente male per tutti, scopriamo
che le categorie più penalizzate sono le famiglie, i lavoratori dipendenti e i pensionati.
Sono oltre trent’anni, in realtà, che i redditi da lavoro salgono molto meno in Italia che nei
principali paesi europei e il gap si è ampliato negli anni Novanta, quando le retribuzioni reali sono
aumentate dell’8 per cento in Francia, di oltre il 9 per cento in Germania e da noi solo del 3,3 per
cento.
Questa tendenza ha subito addirittura un’accelerazione nello scorcio finale del decennio, con le
retribuzioni lorde in crescita media del 4,4 per cento l’anno nell’UE e dell’1,5 per cento in Italia.
Se immaginiamo il prodotto nazionale a forma di torta, ci accorgiamo che in poco più di trent’anni
la fetta dei profitti si è accresciuta di oltre 6 punti e quella del lavoro dipendente si è assottigliata di
ben 10 punti percentuali.
La conclusione è che circa 3 milioni di lavoratori hanno salari di fame (600-800 euro) e che
altrettanti a stento portano a casa un migliaio di euro al mese: siamo alle soglie della povertà.
La distribuzione del reddito è iniqua e inefficiente: si stima infatti che il 29 per cento circa delle
famiglie italiane racimoli ormai appena il 2 per cento del reddito prodotto nel nostro paese, mentre
una ristretta élite, che comprende poco più del 2 per cento delle famiglie, ne raccolga ben il 27-28
per cento.
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D’altra parte ognuno di noi può fare una semplice constatazione: da cinque anni a questa parte il Pil
italiano è cresciuto complessivamente del 7,4 per cento, ma il nostro potere d’acquisto non è certo
aumentato ed è anzi diminuito per molti di noi.
Questa nuova ricchezza non si è dissolta nel nulla, è certamente finita in altre tasche.
Nell’ultimo biennio la situazione economica ha subito un peggioramento generalizzato ma assai più
grave per le famiglie, per i pensionati e per i lavoratori dipendenti (le cui retribuzioni reali hanno
accusato addirittura una contrazione nel 2003): categorie lasciate indifese di fronte all’inflazione e
private tanto della restituzione del fiscal drag quanto della piccola rendita da Bot.
Sono invece stati premiati i produttori che operano nei settori con meno concorrenza e i percettori di
rendite, in particolare i proprietari d’immobili in affitto, che negli ultimi tempi hanno beneficiato di
una cospicua rivalutazione dei valori immobiliari e dei canoni d’affitto.
Si sa che le disuguaglianze provocano povertà e i dati Istat lo certificano.
Nel 2002 la povertà colpisce oltre dieci milioni di persone, a cui si sommano oltre quattro milioni e
mezzo di persone ai limiti della povertà. L’area del disagio sociale si sta espandendo anche fra i ceti
medi, perché peggiorano le condizioni di vita della popolazione, e comprende quasi un quinto degli
italiani.
Le scelte di politica economica e sociale del governo, però, premiano i ceti abbienti invece di
aiutare le famiglie e gli individui in difficoltà.
Sono cioè l’esatto contrario di quelle che la situazione richiederebbe.
Bisogna cambiare strada
È evidente che bisogna cambiare strada.
Non è facile individuare la nuova direzione di marcia e non ho certo io la pretesa di tracciare il
cammino, ma provo sinteticamente a dire cosa mi sembra sbagliato e cosa mi sembra giusto, senza
neppure toccare problemi di portata globale, quali per esempio la sostenibilità dell’attuale modello
di sviluppo, che pure sono d’importanza cruciale.
Va tuttavia ricordato che lo sviluppo non è semplicemente aumento dei consumi, ma un processo
che assicura una crescita economica durevole e un'equa distribuzione dei suoi benefici, che migliora
le condizioni di vita dell'insieme dei cittadini e garantisce a tutti beni e servizi essenziali.
Esso non si consegue inceppando i meccanismi di funzionamento del mercato, ma tanto meno
affidandosi ciecamente alle sue spontanee dinamiche.
Bisogna quindi abbandonare i dogmi del liberismo e le politiche monetariste, che fanno la fortuna
dei redditi da capitale a danno di quelli da lavoro e dell’occupazione, per passare a una gestione
macroeconomica attiva e con esplicite finalità redistributive.
Da sole, quelle politiche non bastano però a creare abbastanza occupazione e quindi si deve operare
anche su altri fronti, per aumentare i posti di lavoro ed evitare che i processi di privatizzazione e
liberalizzazione appesantiscano ulteriormente il fardello della disoccupazione.
Invece di limitarsi a comprimere costi, salari e condizioni di lavoro, per accrescere la competitività
del paese è necessario valorizzare l’ambiente e il lavoro, puntare sull’innovazione e sul sapere,
potenziare le infrastrutture, moltiplicare le risorse destinate a ricerca e formazione, sviluppare i
settori d’avanguardia avvalendosi tanto delle risorse del mercato quanto di politiche pubbliche,
migliorare l’efficienza della Pubblica Amministrazione e sgretolare le posizioni di rendita che
ancora si annidano in alcuni settori di attività economica.
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È urgente arrestare l’aumento delle disuguaglianze e ridurre la povertà ed è doveroso restituire a
tutti cittadini la loro dignità umana e il diritto di partecipare alla vita politica, economica e culturale.
C’è bisogno di un sostegno economico diretto alle persone in condizioni di grave disagio e di una
riforma del welfare socialmente inclusiva, capace di creare occupazione di qualità e solidarietà
sociale. L’esatto contrario del ridimensionamento dello stato sociale in atto nel nostro paese.
Per fare queste cose e le tante altre che sono necessarie a modernizzare il paese e migliorare il
livello di vita dei cittadini, occorrono le risorse.
Bisogna quindi evitare la trappola demagogica della riduzione a ogni costo della pressione fiscale,
perché il fisco deve reperire i mezzi per rendere concretamente fruibili i diritti sociali di
cittadinanza.
L’esperienza dimostra che l’equazione meno tasse uguale più sviluppo per tutti non funziona,
perché non è un’equazione ma un dogma; che il taglio delle tasse ai ricchi si traduce in investimenti
speculativi, aumento dei consumi di lusso, riduzione delle risorse per il welfare; e che elevati livelli
d’imposizione fiscale non sono affatto incompatibili con la creazione di posti di lavoro. La leva
fiscale può essere efficacemente impiegata per contrastare la finanza speculativa, per
ridimensionare le rendite e colpire le attività inquinanti, per sostenere il potere d’acquisto e dare
ossigeno alla domanda attenuando in primo luogo il carico sui redditi bassi e quelli da lavoro.
La via da imboccare è quella dell’emersione del lavoro nero, del recupero dell’evasione e
dell’ampliamento della base imponibile, coniugando le esigenze dell’economia con gli obiettivi di
equità sociale e di legalità.
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