1 L`ILLUMINISMO DI NIETZSCHE Al venir meno dell`ideale di una

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L’ILLUMINISMO DI NIETZSCHE
Al venir meno dell’ideale di una rinascita della cultura tragica, nelle pagine di queste opere si
accompagna la fine di quella concezione “metafisica” dell’arte e del Genio artistico che avevamo
visto dominare la Nascita della tragedia. All’arte e alla religione, subentra ora, come via di accesso
alla comprensione del mondo, la scienza. Sono l’arte e la religione stesse, anzi, a essere chiamate in
giudizio e a non valere più come i modi fondamentali della verità, ma al contrario come quelle
illusioni che la critica scientifica deve smascherare. L’arte, in particolare, non viene più vista come
la forza che può fare uscire la civiltà moderna dalla sua decadenza: ciò che la rende una forma
“superata” dell’educazione dell’umanità (e qui Nietzsche pensa ormai anche all’arte wagneriana) è
il fatto che, al contrario dello scienziato, l’artista esprime “una moralità più debole” nei riguardi
della conoscenza e della verità. Egli agisce sugli animi solo in forza di un richiamo alle emozioni
più mutevoli, riferendosi per di più artificialmente al mondo del passato, ossia a un mondo che non
è più il nostro. La sua dunque è una concezione dell’esistenza puramente mitica. A fronte della
quale sta la spiritualità più matura espressa dalla cultura scientifica.
Per scienza, tuttavia, Nietzsche non intende né le scienze positive, ossia l’insieme delle
conoscenze e delle verità particolari sul mondo offerte dalle discipline specialistiche del suo tempo,
né tantomeno la sottile analisi dei concetti e delle procedure della ragione quale emerge dalla
tradizione del pensiero occidentale da Socrate a Hegel. Influenzato da Burckhardt, Nietzsche
continua a annoverare questa scienza, calcolistica e oggettivistica, insieme con la cattiva filosofia,
tra i “nemici della cultura”. Scienza è invece, per il filosofo di Rocken, essenzialmente analisi
critica, esercizio del dubbio, diffidenza metodica. Da essa, dunque, Nietzsche non si aspetta tanto
un’immagine del mondo più vera di quella offerta dall’arte, quanto un modello di pensiero più
spregiudicato e più libero. La scienza può aiutarci a rischiarare il mondo delle nostre
rappresentazioni, nonostante tutti gli errori di cui la sua storia, come anche la storia intera degli
uomini, è costellata. La lucida consapevolezza dell’ineliminabilità degli errori cui soggiace la
scienza marca la distanza tra la concezione nietzscheana della scienza e quella positivistica e fa di
Nietzsche un lucido anticipatore della tematica epistemologica novecentesca. Ciò che rende l’arte
diversa dalla scienza non è dunque la maggiore oggettività di quest’ultima. Sotto un certo rispetto,
anzi, come ha osservato Gianni Vattimo, arte e scienza sono intesi, nelle opere di questo periodo,
come «complementari nel definire un atteggiamento maturo dell’uomo nei confronti del mondo».
Delle figure che fino alle Considerazioni inattuali Nietzsche indicava come i “redentori”
rimane ora in primo piano solo quella del buon filosofo, il cui metodo — in analogia con quello
dello scienziato — è critico e storico. Critico perché egli assume il sospetto a criterio di analisi
anche delle verità apparentemente più certe; storico nel senso che egli non crede a “realtà eterne” e
“verità assolute”, ma concepisce l’uomo e i suoi valori come un risultato delle circostanze storiche
e del gioco delle forze che operano al suo interno. Nietzsche diventa così “illuminista”: dedica
perfino a Voltaire — «uno dei più grandi liberatori dello spirito» — la prima edizione di Umano
troppo umano. Della filosofia settecentesca egli apprezza l’elemento del disincanto e la riduzione
delle forme di vita alle loro basi sensistiche, più di tutte al piacere (tratto che ritrova in uno dei suoi
poeti preferiti, Leopardi); rifiuta invece l’enciclopedismo, che anticipa l’aborrito sistema positivistico del suo tempo. Si fa ora avanti in Nietzsche l’interesse per l’antropologia: tutti gli
interrogativi circa il mondo e l’essere si concentrano sull’uomo. Muta, di conseguenza, anche la
concezione della vita: non più la vita universale del cosmo, ma la vita dell’uomo, evento biologico
di questo mondo.
Di qui il violento attacco che Nietzsche rivolge al concetto di “trascendenza”: cattiva
filosofia è quella che “duplica” il mondo, immaginando idealisticamente una realtà in sé, dietro ai
fenomeni. Tutto si risolve al contrario nell’apparenza e nulla, neanche la scienza, può condurci alla
cosa in sé, di cui sognava Schopenhauer, che «è degna di un’omerica risata» (…). Il cosiddetto
“sovrumano” è in realtà solo un’illusione “troppo umana”; la credenza in una cosa in sé, al di là
della realtà fenomenica, è solo un errore della ragione, che non può avere pretese di verità. Le
ipotesi metafisiche, così come quelle religiose, sono il frutto di un inganno cui l’uomo
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volontariamente soggiace. Bugia cui l’uomo si appella per tollerare la propria caducità e la propria
debolezza, per vagheggiare un significato infinito della propria esistenza, la metafisica «tratta degli
errori fondamentali dell’uomo come se fossero verità fondamentali». Giustificabile forse nello
stato d’animo romantico tipico dell’età giovanile, che allevia lo scontento di sé riconoscendosi nel
“mistero del mondo”, essa ha un valore puramente consolatorio. L’esito di questa svolta
metodologica è l’analisi spietata della cultura dell’età moderna, di cui Nietzsche annuncia lo stato
di malattia. I grandi modelli culturali ottocenteschi, da questo punto di vista, non sono altro che
«raffinati imbrogli»: il Romanticismo, perché espressione di uno spirito pessimista, estetizzante e
decadente; l’idealismo, perché pretende assurdamente di realizzare una comprensione totalizzante
e definitiva della realtà; il positivismo, infine, in quanto ingenuo ottimismo che riduce la scienza a
sistema.
Il campo nel quale Nietzsche mette alla prova la propria “filosofia critica” è ora quello della
morale, la quale assoggetta la vita a valori pretesi trascendenti, che hanno invece la loro radice
nella vita stessa. Mentre la vita è esplosione di forme, i valori morali bloccano l’esistenza,
iscrivendola nella cifra della trascendenza; quindi negano la vita. Ciò di cui vi è bisogno, a suo
parere, è una nuova «chimica delle idee e dei sentimenti», come suona il titolo del primo aforisma
di Umano troppo umano. Occorre ricondurre la filosofia «alla stessa forma interrogativa di duemila
anni fa», quando i filosofi greci delle origini, prima dell’avvento della metafisica, chiedendosi
come può nascere una cosa dal suo contrario, cercavano gli elementi semplici delle cose, e di
queste ultime scoprivano la natura analizzandone la composizione. La metafisica, affermatasi nella
tradizione occidentale, ha negato che le cose derivassero dal loro opposto e ha affermato che le
idee e i valori del mondo non potevano che avere un’origine “superiore”, ossia provenire
“dall’alto”, da Dio o da una misteriosa cosa in sé. Nietzsche, al contrario, disseziona i grandi
sentimenti dell’umanità, li smaschera come illusioni, ne riafferma la radice non alta e trascendente
ma “umana”, «bassa e perfino spregevole». Scriverà in Ecce homo: «Dove voi vedete le cose ideali,
io vedo cose umane, ahi troppo umane». Dietro a ogni ideale viene così scoperto il suo opposto:
l’altruismo maschera l’egoismo, la verità l’impulso alla falsificazione, la santità la bramosia di
vendetta. L’uomo agisce in quanto spinto dall’istinto di conservazione e dall’intenzione di
procurarsi il piacere e di evitare il dolore. Anche la volontà di sapere che lo anima, lungi
dall’essere pura e disinteressata, ha dietro di sé la vita stessa, che è per essenza scontro di forze,
lotta per la sopravvivenza.
A partire da questi principi semplici è possibile per Nietzsche ricostruire i molteplici processi
che hanno portato alla nascita del mondo morale, con tutti i suoi pregiudizi, tutte le sue astuzie, le
sue finzioni. Se nel suo periodo giovanile il sentimento esistenziale più alto era stato il sentimento
tragico, ora Nietzsche vagheggia un ideale di umanità libera dalle illusioni, in cui l’uomo abbia la
forza di riconoscersi in modo autentico. Protagonista di questa riforma morale non è più il Genio
artistico, bensì lo “spirito libero” (Freigeist). Lo spirito libero è superiore al libero pensatore del
Settecento, perché non crede ciecamente alla ragione, ma diffida e pone interrogativi. Egli è il
grande scettico: non ha soggezione né rispetto verso tutto ciò che gli “spiriti vincolati” accettano e
venerano; ha la gaiezza e l’audacia temeraria di chi non indietreggia davanti a nulla; è alla caccia
della verità, ma senza illusioni; ha la gelida freddezza del pensiero radicale che «penetra nelle carni
della vita». Il suo è un mondo organizzato sul principio della “gaia scienza”, libero dall’ignoranza
e dalla paura. La sua è l’etica del coraggio e della responsabilità, che appartiene agli uomini artefici
del proprio destino, i quali, come Cristoforo Colombo, sanno dire addio al vecchio continente e
farsi largo nel nuovo mare. Spiriti liberi sono stati i grandi retori dell’età sofistica, gli uomini forti
dell’Umanesimo e del Rinascimento, i “costruttori di storia” come Napoleone; i loro avversari sono
gli inventori delle grandi ipocrisie moralistiche: Socrate, Rousseau, e gli uomini asserviti alle
società massificate moderne, come Bismarck.
Liberato dai miti wagneriani e schopenhaueriani, attraverso la figura dello spirito libero,
Nietzsche mette a fuoco uno dei temi caratterizzanti l’intera sua produzione, la grandezza
dell’esistenza: la vita dell’uomo ha valore per i grandi progetti che è capace di esprimere. Tuttavia
il Freigeist è solo una figura di passaggio, un viandante verso una meta non ancora chiarita. Lo
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stesso stato d’animo di Nietzsche è quasi in inquieta e curiosa attesa degli sviluppi di un pensiero
ancora in movimento. Leggiamo in Aurora: «E dove dunque vogliamo arrivare? Al di là del mare?
Dove ci trascina questa possente avidità, che è più forte di qualsiasi altro desiderio? Perché proprio
in quella direzione, laggiù dove sono fino a oggi tramontati tutti i soli dell’umanità? Un giorno si
dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India,
ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito». Viandante e spirito libero egli stesso,
Nietzsche si trova all’«alba di un mondo disincantato non più coperto da nebbie mistiche e nuvole
metafisiche» (Fink), alla ricerca di una nuova filosofia del mattino.
LA FILOSOFIA DEL MATTINO
Con l’immagine della “filosofia del mattino” — che non può non ricordare, per contrasto,
quella hegeliana della filosofia come “nottola di Minerva” — Nietzsche abbozza una nuova
concezione della condizione umana che successivamente caratterizzerà più nitidamente attraverso
le nozioni di “morte di Dio” e di amor fati. Non abbiamo qui a che fare con una vera e propria
dottrina, segnata da contenuti teorici positivi. Nelle opere del periodo “illuministico”, più ancora
che nelle successive, la scrittura aforistica nietzscheana accumula in maniera disordinata materiali
e spunti che non si lasciano coordinare in un insieme sistematico. La stessa definizione di spirito
libero non è tale da conferire un contenuto dottrinario preciso alla “filosofia del mattino”, la quale
esprime soprattutto una temperie spirituale e uno stato d’animo rinnovati da cui è segnato, in primo
luogo, Nietzsche stesso, il quale attraversa nei mesi invernali del 1882 in cui compone la Gaia
scienza, forse per l’ultima volta, un momento di straordinaria serenità interiore.
L’umanità a venire” che egli ora vagheggia è caratterizzata dal “buon temperamento”, da
quello stato di convalescenza interiore che è proprio di uno spirito che ha resistito con pazienza
all’oppressione e ora giunge all’«esultanza dell’energia che ritorna, della fede nuovamente ridesta,
del presentire l’avvenire, con nuove avventure, nuovi mari aperti». Sottratto al dominio della
religione, della morale, della metafisica, lo spirito libero può ora intendere la vita come
esperimento. Se l’uomo occidentale si è perduto — perché ha posto la sua vita al servizio dei
precetti della morale, di un “dietromondo” metafisico, della volontà di Dio — lo spirito libero
giunge invece a conquistare la propria esistenza e a riconoscere se stesso come colui che crea e
impone i propri valori. Non più in ginocchio e sottomessa sotto “enormi pesi”, la sua vita diventa
libera: l’infinito a cui essa anela e tende non è più Dio o la legge morale, ma l’umanità stessa.
Se in Umano troppo umano la filosofia nietzscheana esprime ancora solo una scettica
liberazione dalle illusioni, in Aurora e più ancora nella Gaia scienza essa si trasforma in una nuova
e più lieta annunciazione. La figura dello spirito libero si allontana da quella del freddo e spietato
critico e trasmuta sempre più nel tipo d’uomo che rischia e fa esperimenti con la vita, che inventa
con coraggio la propria condotta, che gioca con l’incertezza. La sua scienza è “gaia” perché non ha
la solenne serietà del concetto; e il suo stato d’animo, come quello di un uomo consapevole
all’improvviso della propria libertà, si abbandona all’ebbrezza, alla danza dionisiaca, al gioco.
Diffidando delle concezioni generali del mondo, lo spirito libero vive piuttosto alla “superficie” del
mondo, volontariamente orfano di ogni metafisica. L’uomo dell’avvenire non smarrisce, tuttavia, il
«senso storico». Al contrario, nella sua spiritualità egli non esprime altro che l’intera storia passata
dell’umanità assunta «come la propria storia». Avere la forza di portare con sé il passato,
sentendosi erede delle conquiste e delle vittorie così come delle perdite e delle sconfitte, del dolore
dell’umanità così come della sua gioia: questa è la “felicità” che l’uomo finora non ha mai
conosciuto, «la felicità di un dio colmo di potenza e di amore, di lacrime e di riso». Con Aurora e
con Gaia scienza — gli scritti del «vomere» — è così seminato il terreno su cui germoglieranno, di
lì a poco, i pensieri fondamentali della filosofia di Nietzsche: la morte di Dio, il superuomo,
l’eterno ritorno dell’uguale, la volontà di potenza.
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INCIPIT TRAGOEDIA: L’ANNUNCIO DELLA MORTE DI DIO
Nell’aforisma 125 della Gaia scienza l’«uomo folle» annuncia per la prima volta la morte di
Dio. «Dove se ne è andato Dio? — gridò — ve lo voglio dire! Siamo stati noi a ucciderlo. [...] Dio
è morto!». Ecco dunque la verità tremenda che apre una nuova via alla filosofia nietzscheana. Che
cosa significa tuttavia che Dio è morto? E che senso ha annunciare agli uomini la sua morte? Il
motivo della morte di Dio non ha, per Nietzsche, alcun significato psicologico: non significa
dunque che gli uomini non credono più in Dio; né rappresenta una tesi metafisica circa la non
esistenza di Dio. Esso ha piuttosto il valore di una constatazione: non c’è più alcun Dio che ci può
salvare; oltre gli uomini sta solo il nulla. Alla lettera, si tratta dunque dell’annuncio di un evento,
ancorché terribile, di cui occorre prendere atto. Perché tuttavia Dio muore? Dio muore perché il
mondo moderno è investito da una crisi mortale, che ha sprofondato l’umanità nell’angoscia
dell’assurdo. Proclamando la morte di Dio, Nietzsche intende dunque riassumere in una formula
radicale l’irruzione del nichilismo nel mondo moderno, ossia il fatto che l’insieme degli ideali e dei
valori su cui, grazie al cristianesimo, la civiltà europea ha costruito per secoli la propria regola di
comportamento tradisce ora il nulla che ne era il fondamento nascosto. Agli occhi di un’umanità
che non crede più ai suoi fini e ai suoi valori, così come essi si sono storicamente affermati
nell’occidente cristiano, anche il Valore supremo si svalorizza: «Dio stesso si rivela come la nostra
più lunga menzogna».
La morte di Dio è dunque il segno della tragicità del tempo. Con essa la Terra si snatura e
l’umanità, orfana, priva del fondamento, corre verso la sua decadenza. Se Dio è morto non ha più
senso parlare di morale, di bene e di male, di giusto e di ingiusto. Non ha più senso domandarsi
dove l’uomo stia andando e da dove sia venuto. «Non è il nostro un eterno precipitare? — si chiede
1’«uomo folle» — Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo
spazio vuoto?»
La categoria chiave di questa “nuova scena” della filosofia nietzscheana è ora quella di
nichilismo, categoria cui Nietzsche dedicherà di qui in avanti un grande sforzo di analisi (…). In
prima istanza il termine “nichilismo” svolge una funzione diagnostica: esso serve a Nietzsche per
designare la condizione pessimistica e passiva di un’umanità per la quale nulla ha più senso.
Nell’epoca della crisi dei valori, l’uomo riconosce l’insensatezza del mondo e sviluppa un
sentimento di perdita e di dolore, di risentimento e di odio nei confronti della vita. Attraverso
questa nozione, Nietzsche matura dunque una nuova posizione che è ontologica e storica al
contempo: nel corso della civilizzazione umana la metafisica e la morale hanno via via perduto la
loro necessità vitale; dunque l’essere stesso si avvicina al nulla. Se questa è la vita — si chiede
tuttavia Nietzsche — quale compito rimane ancora all’uomo, quale senso è concesso al suo abitare
la Terra? Nella Gaia scienza, vi si fa solo un cenno: «Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per
apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo
di noi apparterranno in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto siano mai state tutte
le storie fino a oggi». E il primo accenno a un nichilismo “attivo”, di cui tuttavia può essere
protagonista solo un uomo superiore, il quale non si accontenta più di assistere alla rovina degli
antichi ideali, ma se ne fa personalmente il promotore, preparando così, in modo distruttivo,
l’avvento di una nuova umanità, lo schiudersi di una nuova storia. Si esaurisce, con questo motivo,
la “fase illuminista” della ricerca nietzscheana. Il terreno è seminato per la filosofia di Zarathustra.
Annunciata dagli ultimi aforismi della Gaia scienza, la filosofia di Così parlò Zarathustra
comincia là dove si era conclusa la “filosofia del mattino”. Con quest’opera il pensiero di
Nietzsche trova il suo compimento, giunge al suo «grande meriggio». Con essa il filosofo di
Rocken trova il linguaggio per i propri pensieri più radicali e percorre senza esitazioni il grande
mutamento della sua vita. I tre insegnamenti fondamentali che Zarathustra intende donare agli
uomini, la dottrina del Superuomo, quella dell’Eterno ritorno dell’uguale, la Volontà di potenza
non giungono tuttavia inaspettati. Non si tratta di un’eruzione improvvisa. Nello Zarathustra
prorompe con violenza solo ciò che scorreva già come una corrente sotterranea in Aurora e in Gaia
scienza: se lo spirito libero era l’uomo della vita libera e coraggiosa, del rischio e dell’esperimento,
il superuomo, l’uomo dell’eterno ritorno e della volontà di potenza, è la realizzazione estrema dello
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spirito libero. Analizziamo i tre motivi fondamentali dello Zarathustra.
IL SUPERUOMO
Alla folla raccolta sulla piazza del mercato Zarathustra dice: «Io vi insegno il superuomo.
L’uomo è qualcosa che deve essere superato. [...] Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra
di sé: e voi volete [...I retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo?». E aggiunge:
«L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo» (…). Il superuomo nietzscheano, dunque, sta
al di là dell’uomo del presente, come quest’ultimo sta attualmente al di là della scimmia. L’uomo
superiore è la tappa successiva che l’umanità deve compiere dopo essersi lasciata alle spalle la
condizione animale. Queste formule “evoluzionistiche” hanno fatto lungamente discutere. Esse
hanno dato luogo, soprattutto nei primi decenni del nostro secolo, a interpretazioni fuorvianti che
hanno trasformato il superuomo in una sorta di supereroe darwinianamente privilegiato, secondo
una lettura quantomeno semplicistica. Questa lettura, storicamente avviata dalla sorella di
Nietzsche Elisabeth e poi ripresa dal nazismo, interessato a fare del filosofo tedesco un anticipatore
della dottrina del primato della razza ariana, è oggi abbandonata. Si fraintenderebbe dunque il
significato che in Nietzsche assume l’idea di superuomo se la si prendesse come il cardine di una
concezione scientifico-naturalistica di tipo lamarckiano o darwiniano. Allo scopo di fugare errate
interpretazioni viziate da precomprensioni di origine ideologica, lo studioso italiano Gianni
Vattimo ha utilmente proposto di tradurre il termine tedesco Uebermensch (in cui il prefisso
avverbiale ueber significa sia “sopra” sia “oltre”) con “oltreuomo”, neologismo che consente di
marcare con nettezza la differenza tra il tipo di umanità nuova vagheggiata da Nietzsche e una
concezione della medesima come puro e semplice soggetto di potenza e di forza.
Il passaggio dall’uomo al superuomo non è dunque da intendere come un’evoluzione in cui
dall’homo sapiens si sviluppa una nuova razza di individui superiori. Ciò trova una conferma nelle
obiezioni assai aspre che Nietzsche muove in moltissimi frammenti all’evoluzionismo del suo
tempo, inficiato, a suo parere, da una concezione del progresso ingenua e fideistica. Innanzitutto,
obietta Nietzsche, sono spesso i deboli, più che i forti, a prevalere nella lotta per la vita; inoltre il
lamarckismo esagera l’influenza dell’ambiente nella selezione delle specie. A queste obiezioni
Nietzsche unisce la considerazione che, nella società umana, non si è affatto costituita una élite
stabile, che costituisca un progresso rispetto alla massa: anzi l’umanità oggi sembra aver subito un
processo di regressione, se la si confronta con gli uomini del Rinascimento o con gli antichi Greci.
Responsabile di questa ingiustificata fede nel progresso non è tuttavia solo la scienza, ma anche il
cristianesimo, con la sua nefasta concezione di Provvidenza, e l’idealismo, specie quello hegeliano,
la cui idolatria della storia porta erroneamente a concepire la storia stessa come lo sviluppo
vittorioso dei valori moralmente migliori, come la realizzazione razionale del bene e del giusto.
Nietzsche constata, al contrario, che ciò che è forte e nobile deve spesso farsi largo e aprirsi un
passaggio forzoso nelle maglie della storia. Pur preoccupato di trovare nel passato i precursori
individuali o collettivi del superuomo (il popolo greco, l’aristocrazia antico-indiana, lo stesso
Napoleone) Nietzsche non intende dunque mai il superuomo come il risultato di una presunta
“logica immanente” alla Storia.
Chi è dunque il superuomo? Nello Zarathustra e nelle opere successive, la figura del
superuomo oscilla tra quella della “bella individualità” di origine umanistica (gli spiriti forti e
liberi) e quella dell’avventuriero, che è spinto da un impulso più distruttivo che costruttivo. Il
superuomo dei discorsi di Zarathustra è spesso figura “luminosa”: è l’uomo che «dona la virtù»,
che redime, che vive il meriggio come l’ora della felicità e della compiutezza del mondo. Egli è
l’“eroe affermatore” per eccellenza: c’è in lui una disposizione dionisiaca verso la vita che lo pone
al centro del mondo animato da un “fatalismo” gioioso e fiducioso; disposizione che è tuttavia
temperata da una sorta di pessimismo coraggioso che lo rende in grado di assumere su di sé il peso
delle contraddizioni della vita e di non chiudere gli occhi anche di fronte alle verità più orribili. Il
superuomo è tuttavia anche colui che pecca di hybris, che ha la tracotanza, l’indifferenza di chi è al
di là del bene e del male. E l’uomo insieme del grande amore e del grande disprezzo, spirito
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creatore, uomo della “grande decisione” che salverà l’umanità dal nichilismo. Del barbaro conserva il vigore e l’intensità degli istinti, che integra tuttavia in un ordine superiore risultato
dell’educazione greca alla libertà. Il superuomo, dunque, è senza morale, in quanto “precristiano”:
contrapposto al crocefisso (simbolo per Nietzsche di sconfitta e di rassegnazione) sta per Nietzsche
ancora «Dioniso» che rappresenta, come già nella Nascita della tragedia, l’energia tumultuosa che
tutto tramuta in affermazione. Nietzsche sa che il superuomo verrà tacciato di immoralismo; non
dubita che «i buoni e i giusti chiamerebbero diavolo il superuomo». Questi virtuosi sono tuttavia
incapaci di capire, egli commenta, come all’uomo superiore possano essere concesse la malvagità e
l’azione terribile se esse servono a fare del deserto della vita una contrada ubertosa e fertile.
Da queste caratterizzazioni (che abbiamo qui trascelto all’interno delle numerose note che
Nietzsche dedica al tema non solo nello Zarathustra ma anche nelle opere successive e nei
Frammenti postumi) il superuomo risulta essenzialmente disegnato come una figura mitica,
protagonista letterario di un archetipo del pensiero «per tutti e per nessuno» — come recita il
sottotitolo dello Zarathustra — che Nietzsche stesso esita a identificare in questo e quel
personaggio del passato o del presente e che ha più il tratto dell’individuo cosmico-storico della
prosa romantica che i caratteri individuati dell’uomo concretamente possibile.
Su un piano più strettamente filosofico, il superuomo si caratterizza per la sua “fedeltà alla
terra” (…). Poiché Dio è morto, l’unica realtà è ora la vita terrena. Alla terra dunque la nuova
umanità deve far ritorno ed esservi fedele, rifiutando l’estrema illusione in una speranza
sovraterrena: non essendoci più Dio infatti non esiste più un «mondo dietro il mondo» in cui
trovare consolazione al pensiero della morte. Consapevole della perdita dell’al di là, il superuomo
riconosce in questo al di là solo l’utopica immagine riflessa della terra: e alla terra egli si volge con
quel fervore e con quel senso di appartenenza che l’uomo riservava in precedenza al mondo divino.
Il legame con la terra è dunque per l’uomo dell’età del nichilismo la grande occasione di
guarigione; nella terra, la Grande Madre da cui ebbero origine tutte le cose, egli ritrova la sua
natura più propria e originaria. Non dunque il superuomo, al posto di Dio, bensì la terra: dove per
l’umanità imprigionata dalla sua alienazione stava Dio, ora sta la terra: «Un tempo il sacrilegio
contro Dio era il massimo sacrilegio – dice Zarathustra – peccare contro la terra, questa è oggi la
cosa più orribile». Siamo ora in grado di definire meglio i tratti del superuomo nietzscheano: egli è
innanzitutto uomo di questo mondo, che sa dire di sì alla vita, sapendo che non c’è nulla al di là di
essa. Si rivela una volta di più il fondo dionisiaco, mai abbandonato, della filosofia nietzscheana: la
grandezza del superuomo sta nel saper accettare la vita come “transizione e tramonto”.
L’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE
La concezione del superuomo trova nella dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale («il più
abissale dei miei pensieri») il suo orizzonte definitivo di comprensione. Si tratta del concetto di
maggiore difficoltà interpretativa dell’intero pensiero nietzscheano. Nietzsche stesso vi si accostò
con timore ed eccitazione, tanto da dare all’esposizione della dottrina, qui più ancora che altrove,
un carattere fortemente allusivo e allegorico, quasi iniziatico (…). La prima folgorante intuizione
dell’eterno ritorno è dell’agosto del 1881. Lo stesso Nietzsche lo racconta in un passo di Ecce
homo: «Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana (nella valle svizzera dell’Engadina)
attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlej,
mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero [...]. L’inverno seguente vivevo vicino a Genova, in
quell’insenatura graziosa e quieta di Rapallo [...] la mattina andavo verso sud, salendo per la
splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l’ampia distesa del mare sotto di me; il
pomeriggio facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando fin dietro Portofino [...].
Su queste due strade mi venne incontro il tipo di Zarathustra; più esattamente mi assalì». Il primo
testo in cui Nietzsche annuncia l’idea del ritorno è l’aforisma 341 della Gaia scienza. Solo tre anni
dopo tuttavia, nel terzo libro dello Zarathustra, Nietzsche riesce a dare della dottrina
un’esposizione compiuta.
Com’è tipico del filosofare nietzscheano, il concetto di eterno ritorno viene presentato come
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il risultato di un’intuizione improvvisa: il tempo non ha fine; il divenire non ha scopo. Il corso del
mondo non è retto da alcun piano provvidenziale teso a inaugurare il regno di Dio o della morale.
Il tempo non procede in modo rettilineo né verso un fine trascendente (come ha preteso la
tradizione ebraico-cristiana), né verso una finalità immanente (come ha creduto lo storicismo).
L’uomo della cultura occidentale è dunque prigioniero di una errata concezione lineare del tempo
secondo cui ogni cosa ha un inizio e una fine, un principio e uno scopo; e tutto tende a una meta,
ossia a una stabilizzazione definitiva delle forze agenti nel mondo, rispetto alla quale i momenti del
processo sono iscritti in una “grande logica” che li rende transitori e quindi irrilevanti. In questa
visione, il passato ci condiziona in quanto irreversibile e il futuro si impone come un evento
sempre incombente che ci impedisce di godere del presente. A questa concezione ebraico-cristiana
— che intende il tempo scandito da istanti irripetibili: creazione, peccato, redenzione, fine dei
tempi — Nietzsche oppone invece una concezione ciclica, ripresa dalla tradizione antica,
presocratica e orientale, secondo la quale gli eventi sono destinati eternamente a ripetersi in un
tempo circolare. Il mondo risulta dominato, in questa visione, dalla necessità della ripetizione:
«tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con
noi». Ogni istante vissuto, ogni piacere e ogni dolore, sono già esistiti infinite volte e infinite volte,
in eterno, esisteranno. Se tutto ritorna, ogni istante non è né un passo in avanti, né uno indietro, in
quanto non vi sono più direzioni prescritte: cade la possibilità di orientarsi nel tempo rispetto a
scopi o princìpi assoluti; si svela così il fondamento ontologico fallace di ogni progetto etico,
religioso o metafisico.
Vi è tuttavia il pericolo di interpretare l’eterno ritorno in un senso fatalistico: se ogni istante è
destinato a ripetersi, se il tempo non è altro che il fatale ricorrere degli stessi eventi, dobbiamo
allora concludere che nella vita nulla accade di nuovo, che la vita stessa, imprigionata nella
circolarità del tempo, è inutile così come inutili e vani si rivelano gli atti di volontà degli uomini,
che infine anche l’avvento del superuomo è un’illusione priva di senso? La risposta di Nietzsche è
negativa. Non basta abbandonarsi alla ciclicità del tempo per sottrarsi al nichilismo e all’angoscia.
L’amor fati nietzscheano non è l’accettazione rassegnata delle cose così come esse accadono. Al
contrario, l’uomo superiore è proprio colui che volontariamente vuole per sé quella legge
universale che gli altri enti (gli animali, le piante, gli stessi uomini inconsapevoli) si limitano a
seguire ciecamente; così facendo egli trasforma il caso in una necessità consapevolmente assunta e
voluta: «così io volli che fu, così io voglio che sia, così io vorrò che sia». La dottrina nietzscheana
dell’eterno ritorno mette capo, in questo modo, a una nuova concezione dell’agire umano. Nella
visione lineare del tempo ogni istante acquista significato solo se legato agli altri, che lo precedono
e lo seguono; il corso del tempo muove dunque verso un fine che trascende i singoli momenti di
cui è costituito. Nella visione nietzscheana invece, ogni momento del tempo, e dunque ogni
esistenza singola in ogni suo attimo di vita, possiede tutto intero il suo senso. L’attimo presente
può e merita perciò di essere vissuto per se stesso, come se fosse eterno. Quanto nella Nascita della
tragedia era compreso sotto la categoria del primato della vita, ora viene espresso in modo più
esaustivo sotto la categoria del primato dell’attimo: la vita vince ogni morte, poiché non muore in
nessun morire, ma nel morire anzi eternamente torna a vivere; allo stesso modo l’unità dell’attimo
riassume e comprende in sé la totalità del tempo, poiché in essa eternamente ritorna la totalità del
divenire.
Ecco dunque la prima massima nietzscheana: muovi sempre dall’attimo, dal presente vissuto
pienamente, in quanto affidato né al destino, né alla casualità, ma alla decisione, al coraggio, alla
volontà. Da cui la seconda massima: vivi questo attimo in modo tale che tu debba desiderare di
riviverlo. E chiaro tuttavia che solo un uomo perfettamente felice potrebbe volere l’eterna
ripetizione di ogni attimo della propria vita. Ed è altrettanto chiaro che solo in un mondo pensato
nella cornice di una temporalità ciclica è possibile una tale piena felicità, giacché in una struttura
del tempo rettilinea nessun istante vissuto può realmente avere in sé una pienezza di senso, in
quanto tale istante ha senso, come abbiamo visto, solo in funzione degli altri istanti che lo
precedono e lo seguono sulla linea del tempo. Non si tratta allora solo di essere capaci di costruire
attimi di esistenza così intensi da meritare di essere voluti come eternamente ritornanti, ma anche
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del fatto che attimi di questo tipo sono possibili solo se l’uomo felice che ne è il protagonista, il
superuomo, aderisce alla legge suprema dell’eterno ritorno. L’eterno ritorno può essere voluto solo
dal superuomo; ma il superuomo può darsi solo in un mondo ordinato secondo l’eterno ritorno.
Diventa in questo modo per la prima volta possibile l’avvento di una nuova e felice umanità, libera
di dispiegare la propria creativa volontà di potenza sul mondo.
LA VOLONTÀ DI POTENZA
Viene così ora in primo piano la nozione di volontà di potenza, come tratto distintivo della
nuova condizione di felicità del superuomo. Il termine, che appartiene soprattutto alla produzione
posteriore allo Zarathustra, è stato a lungo interpretato sulla base dei significati più immediati di
cui si fa portatore, ossia nella sua accezione di potere e quindi di dominio e di violenza sugli altri.
Sarebbe errato misconoscere la presenza in Nietzsche di questi significati. Parimenti, attraverso
questo concetto, Nietzsche intende designare però anche quel dominio di sé che già nella “fase
illuministica” aveva contrapposto alla violenza barbara, tipica dell’individuo volgare e mediocre.
Nietzsche cita, a questo proposito, il brahmanesimo come essenza di un potere nobile fondato sulla
padronanza della potenza. “Volontà di potenza” dunque non è la semplice volontà di dominio, pura
affermazione sull’altro, né la giustificazione metafisica di un’ideologia di potenza. Come dirà
Martin Heidegger, essa è la volontà che vuole se stessa. Di fronte al nulla dei valori, all’assurdità
del mondo, alla realtà della sofferenza, essa è la volontà dell’individuo di affermarsi come volontà.
La morte di Dio diventa la resurrezione dell’uomo responsabile e padrone del proprio destino, la
cui volontà è ora libera di affermare se stessa. Soggetto di volontà di potenza, di conseguenza, è
colui che ha la forza per affermare la propria prospettiva del mondo.
La radice del concetto è, ancora una volta, greca. Uno dei temi di cui esso si compone —
tema già elaborato nel saggio giovanile del 1871 su L’agone omerico — è quello della
“competizione” come principio di organizzazione della vita. Nietzsche contesta l’immagine
sbiadita che la tradizione accademica ha dato dell’umanesimo greco. La sua vera natura non sta
nell’ottimismo razionalistico di Socrate, né nella omologhia platonica, ossia nella ricerca della
convergenza delle vedute tramite il ragionamento dialettico. La bella umanità greca, da tutti
ammirata, è segnata per Nietzsche al contrario dal tratto della crudeltà, dal gusto per la distruzione,
dalla gioia di vincere. La lezione dei greci è che non esiste vita senza un istinto alla potenza, istinto
che l’uomo greco ha imparato a dominare e a rendere creativo. La competizione greca, di cui
Omero ha fissato il modello ed Eraclito ha tessuto l’elogio, è la “spiritualizzazione” della lotta
primitiva, che nella vita pubblica assume le forme delle gare sportive, dei concorsi di tragedie, dei
certami oratori, delle dispute filosofiche.
Una delle determinazioni che più di altre aiuta a delimitare il concetto di volontà di potenza è
quella che la intende come tendenza affermativa ed espansiva, come impulso continuo a
“oltrepassare se stessi”. Si tratta tuttavia di qualcosa di più di una semplice tendenza vitalistica; né
va peraltro confusa con il “voler-vivere” di ispirazione schopenhaueriana. Quest’ultimo, per
Nietzsche, è una pseudo-volontà, un volere «sospeso nell’aria». Basata su un’interpretazione
pessimistica del mondo, sintomo decadente di malattia dello spirito, la volontà di Schopenhauer ha
rinnegato il principio del piacere e cancellato la propria capacità creativa, cercando illusoriamente
la libertà dal dolore nell’ascesi. L’esempio più frequente cui Nietzsche ricorre per evocare il
protagonista della volontà di potenza è quello dell’artista creatore che costruisce e dà forma alla
materia. Ritorna il tema giovanile della “giustificazione estetica” dell’esistenza: qual è l’arte sana,
modello di volontà di potenza? Non certo l’arte come catarsi, che ha solo lo scopo di placare le
passioni (come accade con la musica wagneriana), né l’arte romantica che crea solo per
scontentezza e si dissolve- nel sentimentalismo esasperato, nello sfogo momentaneo; bensì, di
nuovo, l’arte tragica, che esalta i valori di chi accetta di vivere nell’orizzonte dell’eterno ritorno.
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LA FILOSOFIA DEL “MARTELLO”: LA DISTRUZIONE DELLA TRADIZIONE
OCCIDENTALE
Con lo Zarathustra il cammino filosofico di Nietzsche è giunto alla sua meta: il filosofo ha
consegnato ai posteri la parte “costruttiva” del suo pensiero. Negli ultimi tre anni prima della
follia, egli si dedica febbrilmente a svolgere la parte negativa, distruttiva. Nietzsche ormai
intende il proprio compito come una vera e propria missione epocale. Egli si sente chiamato a
determinare un mutamento radicale di civiltà, a gettare le fondamenta di una nuova umanità. Il
filosofo, scrive in questi anni, deve essere prima di tutto un legislatore, un costruttore di valori,
un edificatore di una nuova storia.
La preoccupazione ossessiva con cui egli ora segue la ricezione pubblica dei suoi ‘ scritti, la
sollecitudine quasi penosa con la quale chiede pareri e recensioni, l’impegno inusitato nelle
polemiche, la sofferenza con cui affronta la solitudine in cui ormai vive: tutto ciò si spiega, almeno
in parte, con la convinzione — come scrive in un frammento del 1883 — che «non basta annunciare
una dottrina: bisogna anche trasformare con la forza gli uomini, in modo che la ricevano». L’assillo
di dover assolvere una decisiva funzione pubblica spiega la nuova attenzione che egli ora pone ai
temi politici, a lui fin qui sommamente estranei, attenzione che caratterizzerà perfino gli ultimi suoi
appunti torinesi immediatamente precedenti la catastrofe. Ritornano due tematiche degli scritti
giovanili: l’antistoricismo, che avevamo trovato nella seconda Inattuale, e l’utopia di un
rinnovamento generale della civiltà che aveva permeato le pagine della Nascita della tragedia.
Nuova è invece la violenza distruttiva della sua critica: se il superuomo deve essere il futuro
dell’uomo, allora è necessaria la distruzione inesorabile dell’umanità forgiata dalla tradizione
occidentale. La “filosofia del martello” nietzscheana lancia ora l’ultimo e più violento atto d’accusa
contro quelli che erano stati già i bersagli delle opere precedenti lo Zarathustra: le «menzogne di
vari millenni», la morale, le religioni.
Il XIX secolo appare a Nietzsche come un «XVIII assottigliato, istupidito, tirato
terribilmente in lungo»: un “deserto” in cui l’uomo si è definitivamente perduto. Dominati dal
militarismo e dal nazionalismo prussiani, dalla prudérie vittoriana, dalla logica perversa della
merce e dello scambio, dagli stati forti e burocratizzati, gli uomini dell’Ottocento vivono isteriliti
in comportamenti anonimi e ripetitivi. La loro vita risulta preordinata secondo valori individuali e
collettivi statici e opprimenti; imprigionati in ambiti di eticità “oggettivi” (la famiglia, la società, lo
stato) essi obbediscono in «gregge» al motto del secolo: “compiere il proprio dovere”. Incantati dai
predicatori del progresso e dell’uguaglianza essi sono vittime del sistema di certezze
dell’intelligenza occidentale che induce in loro la paura della responsabilità individuale, il senso di
colpa per la propria mancanza di volontà, l’illusione di una redenzione nell’al di là. Con Kant,
Rousseau ed Hegel, essi hanno creduto che «il concetto possa prendere il posto della natura»; e di
qui hanno imparato ad agire solo «in base a ragionamenti, non a istinti». Per questo motivo il
paesaggio della loro vita interiore è abitato solo da dicotomie astratte: virtù-vizio, premio-colpa,
altruismo-egoismo. Che ne è della vita in questo vivere? Per Nietzsche, nulla.
L’uomo vive tuttavia protetto dalla morale e dalla religione. Innalzando l’umiltà a valore
sommo, la morale è la consolazione dei deboli. Facendo dell’uomo forte l’immorale, essa segna il
trionfo della cultura servile. «Circe di tutti i filosofi», la morale è il «sonno della vita» in cui
l’uomo vive senza coscienza di sé, prigioniero delle illusioni e dimentico della propria natura libera
e creativa. Il sentimento che ne è il fondamento nascosto è il risentimento, che è lo stato d’animo di
malafede proprio dell’uomo “schiavo” che non sa accettare la propria impotenza, che non ha la
forza di affermarsi trionfante sulle sofferenze della vita. Espressione del risentimento, la morale è
pura volontà di vendetta dei sofferenti contro i felici, dei mediocri contro le eccezioni, vendetta che
conduce alla negazione della volontà di potenza, cioè al rifiuto della vita stessa: è la degradazione
nichilistica del mondo (…). Gli esempi della morale del risentimento Nietzsche li trova sia nella
cultura dell’occidente, da Socrate a Wagner, sia nelle grandi religioni, nel buddhismo,
nell’ebraismo e soprattutto nel cristianesimo. Se attraverso la morale i deboli si vendicano dei forti
e “fanno i padroni”, attraverso la religione cristiana viene loro promesso il premio nel regno dei
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cieli. La violenta requisitoria antireligiosa, avviata da Nietzsche sin dalle opere giovanili, culmina
nell’Anticristo, l’opera degli ultimi mesi dalla sua vita consapevole, in cui il cristianesimo, in
quanto fondato sulla repressione degli istinti e sull’aumento del senso di colpa tramite l’angoscia
del peccato, viene inteso come la più raffinata tecnica di annientamento della vita che la civiltà
abbia saputo produrre. Il cristiano è un «animale malato»: fa della propria debolezza una virtù,
proiettando in una illusoria vita oltre la morte il premio per le proprie sofferenze e frustrazioni.
In antitesi alla morale e alla religione, la trasvalutazione dei valori è invece la liberazione
della qualità attiva della vita, l’invenzione di nuove forme di esistenza, di nuovi valori. Il suo
protagonista — come sappiamo — è il superuomo, che esercita il culto dell’umanità come natura
vittoriosa, al di fuori di ogni schema normativo. Alla collettivizzazione della paura, egli risponde
con l’individualità del coraggio, propria di chi soffre e resiste, ben lungi dal rimproverare alla vita
il suo carattere doloroso. Alla grande ipocrisia, affermatasi con Socrate e Cristo, la quale afferma
che non si vive per vincere, ma per far trionfare il bene e la verità, il superuomo risponde che
valori e verità nascono solo in base a uno scontro di forze: il mondo è simpatetico se si vince,
astioso se si perde. Non ci sono dunque essenze nei valori; essi esistono perché esistono forme di
vita vincenti. La morale ha per secoli inventato e imposto valori, come se fossero fondati sulla
verità: ha così nascosto il loro essere fondati sulla volontà di potenza di singoli e gruppi.
Quella di Nietzsche è una concezione individualistica e gerarchica, fondata sul culto della
“differenza”, della distanza aristocratica dalla massa. Nietzsche detesta la moderna ideologia
egualitaria, che gli sembra l’ostacolo più pericoloso per l’affermazione del superuomo («Tutti
molto uguali, molto piccoli, molto tolleranti, molto noiosi»). L’attacco alle dottrine socialiste è
esplicito (anche se viene ignorato il nome di Marx che probabilmente Nietzsche non lesse mai). Al
socialismo, in particolare, rimprovera l’ottimismo, retaggio del moralismo razionalistico: è questo
ottimismo, su cui storicamente si è innestato il provvidenzialismo cristiano, che ispira, a suo
parere, le pretese “scientifiche” del socialismo e dà vita agli ideali illusori della giustizia e della
felicità di massa, variante moderna della morale del “gregge”. Per parte sua, si dichiara invece
favorevole a una organizzazione sociale aristocratica, antistatalista, antinazionalista, “europea”, il
cui compito sia quello di formare una nuova “casta dominante” educata agli ideali del superuomo.
L’aristocrazia a cui egli si riferisce non è tuttavia né quella del sangue, né quella del denaro. Non vi
è traccia, nel pensiero di. Nietzsche, di alcuna delle nozioni razziste, antisemite e pangermaniste,
che saranno invece esaltate nel secolo seguente dal nazismo e che già nei suoi anni animavano la
condotta politica dei gruppi nazionalisti tedeschi. Il disprezzo per la politica come professione lo
conduce a immaginare una “grande politica” i cui artefici sappiano farsi carico dell’avvenire
dell’uomo e preparare il regno del superuomo. Sarebbe tuttavia inutile cercare in Nietzsche
referenti socio-politici concreti per la realizzazione di tale “grande politica”. Non è una classe
sociale a essere in grado di rispondere alle sue attese: la borghesia gli ripugna, il proletariato lo
lascia indifferente, gli intellettuali lo disturbano, il mondo contadino gli è sconosciuto. Nietzsche
non si spinge più in là del puro vagheggiamento di una élite di uomini nobili che sappia farsi
carico dell’educazione dionisiaca del pianeta.
Tratto da Cioffi, Gallo, Luppi et Al. Il testo filosofico, B. Mondadori, vol. 3.1
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