hUNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA LINGUAGGIO E FILOSOFIA IN WITTGENSTEIN Tesi di laurea di: Salvatore Marchese Relatore: Ch.mo Prof. Pietro Palumbo ANNO ACCADEMICO 2010/2011 1 INDICE 1 INTRODUZIONE ............................................................................................................ 4 2 IL MONDO ...................................................................................................................... 8 2.1 Elementi e struttura del mondo ................................................................................. 8 2.2 Proprietà degli oggetti ............................................................................................. 10 2.3 L’esistenza degli oggetti: un’esigenza di senso ...................................................... 14 2.4 Indipendenza dei fatti, fondamento delle previsioni e del procedimento induttivo ...... 18 2.5 Fatti semplici e fatti complessi ............................................................................... 20 3 “NOI CI FACCIAMO IMMAGINI DEI FATTI” .......................................................... 22 3.1 L’immagine ............................................................................................................. 22 3.2 La condivisione della forma logica come condizione di sensatezza delle immagini. .. 25 3.3 La forma logica non è raffigurabile ........................................................................ 28 3.4 Verità e determinatezza di senso dell’immagine .................................................... 29 4 IL LINGUAGGIO .......................................................................................................... 32 4.1 Immagine logica, pensiero e linguaggio ................................................................. 32 4.2 La proposizione come immagine logica della realtà............................................... 34 4.3 Proposizioni semplici e proposizioni complesse .................................................... 41 4.3.1 Le costanti logiche ..................................................................................................................... 44 4.4 Il problema della verità (e della falsità) e del senso (e del non senso) delle proposizioni.. 45 4.5 Le proposizioni della logica .................................................................................... 48 5 “CIO’ CHE NON PUO’ ESSERE DETTO” .................................................................. 52 5.1 Metafisica, Mistico, Scetticismo ............................................................................. 52 5.2 Impossibilità dell’etica ............................................................................................ 53 6 LA FILOSOFIA COME CRITICA DEL LINGUAGGIO ............................................. 61 7 “GETTAR VIA LA SCALA” ........................................................................................ 67 8 DIECI ANNI DI “SILENZIO” ....................................................................................... 70 2 9 IL RITORNO ALLA FILOSOFIA................................................................................. 73 9.1 Insufficienza dell’immagine agostiniana del linguaggio e significato come uso.... 73 9.2 Il linguaggio: un insieme di giochi linguistici ........................................................ 83 9.3 Molteplicità dei giochi linguistici e somiglianze di famiglia .................................. 84 9.4 La filosofia nel “secondo” Wittgenstein ................................................................. 87 9.5 Filosofia, malattia, psicanalisi................................................................................. 97 10 CONCLUSIONI........................................................................................................... 99 Riferimenti Bibliografici ................................................................................................. 103 3 1 INTRODUZIONE Ludwig Wittgenstein costituisce uno dei più grandi filosofi del Novecento. Il suo pensiero, infatti, ha influenzato e continua ad influenzare le ricerche di molti studiosi che continuano a cimentarsi con le sue opere e ad estrarre da queste seri motivi di riflessione sul linguaggio, sulla logica, sul mondo, sulla filosofia, etc. La figura di Wittgenstein, tuttavia, pone alcuni problemi quando si tratta di stabilire se la sua riflessione è andata avanti secondo linee di sviluppo continuo e coerente o se presenta al suo interno delle “spaccature”. Ma nonostante tutti gli studi critici condotti sul pensiero di Wittgenstein, non si è raggiunta ancora l’unanimità su un tema importante: è giusto parlare di un “primo” e di un “secondo” Wittgenstein o no? A tal proposito, molti studiosi considerano le idee presenti nel Tractatus, che costituisce l’unica opera che è stata pubblicata mentre Wittgenstein era ancora in vita, inconciliabili con quelle contenute negli scritti successivi. Altri studiosi invece propendono a favore di una tesi che vede nel percorso intellettuale di Wittgenstein una sostanziale unità, nonostante sia stato egli stesso ad avvertire i lettori dei “gravi errori” presenti nella sua prima grande opera. 4 In relazione a ciò, verrà mostrato che almeno per quanto riguarda la filosofia, la questione è più semplice perché la concezione che di essa Wittgenstein ha mantenuto lungo tutto il suo percorso di ricerca, non ha subito sostanziali modifiche. La filosofia infatti verrà sempre interpretata come un’attività da esercitare sul linguaggio con lo scopo di chiarificarlo e di evitare tutti i possibili fraintendimenti causati da un suo scorretto uso, anche se le vie che Wittgenstein percorrerà per giungere a questi obiettivi, come vedremo, saranno diverse. Inoltre, dal momento che le riflessioni sulla filosofia sono sempre consequenziali rispetto ai risultati dell’indagine condotta sulla logica e sul linguaggio, non poteva rimanere escluso da questo lavoro una trattazione, seppur introduttiva e per linee generali, di questi temi che, insieme alle considerazioni sulla natura e sul fine della filosofia, costituiscono il cuore della riflessione di Wittgenstein. Wittgenstein rappresenta uno dei filosofi che più mi ha colpito e affascinato in tutto il mio percorso di studio. La genialità con cui ha affrontato il tema del linguaggio e della filosofia, nonché le soluzioni proposte, anche se non tutte trovano la mia condivisione, specie per quanto concerne la natura e il fine della filosofia, mi hanno indotto a 5 scegliere proprio questi due aspetti della sua riflessione come argomento della mia tesi di laurea. 6 Parte prima • Mondo, Linguaggio e Filosofia nel Tractatus 7 2 IL MONDO 2.1 Elementi e struttura del mondo Le prime pagine del Tractatus sono dedicate alla spiegazione della struttura del mondo. Il mondo, per Wittgenstein, è dato da tutto ciò che accade. Solo ciò che accade, cioè, per Wittgenstein, ha il titolo per essere considerato una realtà mondana, mentre tutto ciò che non è nelle condizioni di accadere non può essere ritenuto tale. Ma in che cosa consiste il ciò che accade? Da cos’è costituito? Per Wittgenstein il ciò che accade è dato dai fatti, o meglio, dalla totalità dei fatti e non dei singoli oggetti o cose. Egli spiega che un fatto è il sussistere di uno stato di cose, ossia una combinazione o connessione di oggetti, entità, cose. Ciò vuol dire che la realtà, per Wittgenstein, non va pensata come una mera catalogazione o semplice ammasso di oggetti, entità, cose, ma da una loro connessione o combinazione. In altre parole, gli oggetti non esistono mai separatamente e isolatamente, ma sono sempre combinati con altri oggetti: “Il mondo è tutto ciò che accade”1; “Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose”2; 1 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Ed. Einaudi, Torino 1998, prop. 1. 2 Ivi, prop. 1.1. 8 “Il mondo è determinato dai fatti e dall’essere essi tutti i fatti”3; “Il mondo si divide in fatti”4; “Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”5; “Lo stato di cose è un nesso di oggetti (entità, cose)”6. Oltre a quella fattuale dunque non esiste un’altra realtà, in quanto essa si risolve completamente negli stati di cose sussistenti, nei fatti. Non esistono, vale a dire, fatti sovrasensibili che rimandano ad una realtà sovrasensibile7. Con la totalità di ciò che accade, che Wittgenstein definisce “fatti positivi”, è determinata anche la totalità di ciò che non accade, ossia di ciò che Wittgenstein definisce“fatti negativi”: “Che la totalità dei fatti determina ciò che accade, ed anche tutto ciò che non accade”8; “Il sussistere e non sussistere di stati di cose è la realtà. (Il sussistere di stati di cose lo chiamiamo anche un fatto positivo; il non sussistere, un fatti negativo.)9. Come già rilevato, il Tractatus nelle prime pagine presenta un’ontologia, il che potrebbe fare ritenere che il primo pensiero di 3 Ivi, prop. 1.11. Ivi, prop. 1.2. 5 Ivi, prop. 2. 6 Ivi, prop. 2.01. 7 Cfr. S. Soleri, Note al Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, Ed. Bibliopolis, Napoli 2003, p. 38. 8 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 1.12. 9 Ivi, prop. 2.06. 4 9 Wittgenstein sia stato quello di elaborare un’ontologia su cui impiantare e fare derivare le tesi logico-linguistiche presenti all’interno della stessa opera. In realtà le cose stanno proprio al contrario, in quanto l’ontologia che troviamo nel Tractatus è desunta, concepita a partire dai caratteri della logica e del linguaggio10. Per questo motivo, l’ordine con cui Wittgenstein affronta le questioni nel Tractatus non corrisponde all’ordine in cui esse sono presenti nella sua mente e nei suoi interessi: “Sì, il mio lavoro s’è esteso dai fondamenti della logica all’essenza del mondo”11. Per questo motivo, inoltre, le tesi ontologiche presenti nelle prime pagine del Tractatus, vanno sempre valutate come conseguenza delle tesi logico-linguistiche12, le quali verranno affrontate più avanti. 2.2 Proprietà degli oggetti Come appena mostrato, il fatto è il sussistere di uno stato di cose, ossia una connessione o combinazione di oggetti, i quali non si danno mai isolatamente e separatamente, ma sempre combinati ed in relazione tra loro. 10 Cfr. D. Marconi, Il Tractatus, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, a cura di Diego Marconi, Ed. Laterza, Roma-Bari 1997, p. 18. 11 L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916 , in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 225. 12 Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 37. 10 Ora, che gli oggetti si diano sempre in relazione con altri oggetti e mai separatamente, è una condizione che Wittgenstein presenta non come un’opzione o un’eventualità da cui gli oggetti si possono sottrarre, ma come una necessità: “E’ essenziale alla cosa il poter essere parte costitutiva d’uno stato di cose”13; “Come non possiamo affatto concepire oggetti spaziali fuori dallo spazio, oggetti temporali del tempo, così noi non possiamo concepire alcun oggetto fuori dalla possibilità del suo nesso con altri. Se posso concepire l’oggetto nel contesto dello stato di cose, io non posso concepirlo fuori della possibilità di questo contesto”14; “La macchia nel campo visivo può non essere rossa, ma un colore non può non averlo: Essa ha, per così dire, lo spazio cromatico intorno a sé. Il suono deve avere una altezza, l’oggetto del tatto una durezza, e così via”15. Gli oggetti quindi hanno la naturale vocazione a congiungersi con altri oggetti, ma non con tutti perché le loro possibilità combinatorie non sono infinite, ma sono determinate a priori dalle proprietà logiche degli stessi. In altri termini, in base alla sue proprietà logiche o interne, un oggetto potrà connettersi a certi oggetti e non ad altri. 13 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.011. 14 Ivi, prop. 2.0121. 15 Ivi, prop. 2.0131. 11 Tuttavia, che sussistano certe combinazioni di oggetti e non altre, per Wittgenstein è un fatto sempre accidentale e non necessario, in quanto la logica determina solo le possibilità combinatorie degli oggetti, ma non quali configurazioni si registreranno concretamente. Riprendendo l’esempio della macchia nel campo visivo, va detto che, siccome non esiste alcuna necessità logica che lega una determinata macchia ad un determinato colore, essa può non essere rossa, ma un colore non può non averlo. Di conseguenza, afferma Wittgenstein, essa è indipendente dal rosso, ma non dal colore. A tal proposito Perissinotto chiarisce: “Ad una macchia nel campo visivo, insomma, non può semplicemente capitare o accadere di avere un colore, come le può capitare o accadere di essere rossa piuttosto che gialla; verde piuttosto che azzurra. In questo senso, essa è indipendente dal rosso (o dal verde o dal qualsiasi altro determinato colore), ma non è affatto indipendente dal colore”16. Wittgenstein dunque rileva una doppia caratteristica di dipendenza – indipendenza degli oggetti, i quali, da un lato, possono presentarsi in tutte le situazioni che le loro proprietà logiche gli permettono, dall’altro, devono presentarsi necessariamente in una qualche modalità: 16 L. Perissinotto, Wittgenstein. Una guida, Ed. Feltrinelli, Milano 2008, p. 39. 12 “La cosa è indipendente nella misura nella quale essa può ricorrere in tutte le situazioni possibili, ma questa forma d’indipendenza è una forma di connessione con lo stato di cose, una forma di nonindipendenza”17. Le proprietà logiche di un oggetto vengono anche definite da Wittgenstein proprietà interne, le quali vanno distinte dalle proprietà esterne. Le proprietà interne si riferiscono alle possibilità combinatorie degli oggetti, mentre le proprietà esterne rimandano alle effettive relazioni che gli oggetti intrattengono tra loro. Per cui, in base alle prime si possono fare affermazioni necessarie e a priori, mentre in base alle seconde si possono fare solo affermazioni a posteriori e contingenti. In tal senso Soleri spiega: “Si può dire che in base alle proprietà interne dell’oggetto posso fare affermazioni necessarie a priori, mentre le proprietà esterne sono contingenti e determinabili solo a posteriori”18. Ora, poiché conoscere un oggetto vuol dire conoscere tutte le possibilità in cui può ricorrere, ne consegue che possiamo dire di conoscere un oggetto solo quando ne conosciamo le proprietà interne: “Per conoscere un oggetto, non mi è necessario conoscere le sue proprietà esterne, - ma le sue proprietà interne io devo conoscerle tutte”19. 17 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.0122. 18 S. Soleri, op. cit., p. 43. 19 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.01231. 13 Abbiamo parlato, sino ad ora, degli oggetti come di ciò dalle cui possibili combinazioni ne conseguono gli stati di cose. Ma come sono gli oggetti presi per se stessi? Sono semplici o complessi? Per Wittgenstein, gli oggetti presi per se stessi sono semplici e costituiscono la sostanza o forma fissa del mondo. Come tali, non sono divisibili in ulteriori parti e sono immutabili: “L’oggetto è semplice”20; “Gli oggetti formano la sostanza. Perciò essi non possono essere composti”21. Ciò che cambia, invece, sono le loro diverse combinazioni: “L’oggetto è il fisso, il sussistente; la configurazione è il vario, l’incostante”22. 2.3 L’esistenza degli oggetti: un’esigenza di senso Si è parlato degli oggetti semplici. Ma come si può essere certi della loro esistenza e, per di più, con le caratteristiche sopra descritte? Per Wittgenstein, l’esistenza degli oggetti semplici è un fatto certo che si prova in virtù dell’esistenza di proposizioni sensate. In particolare, per il Wittgenstein del Tractatus, una proposizione ha un senso determinato e preciso, solo nella misura in cui si riferisce a 20 Ivi, prop. 2.02. Ivi, prop. 2.0211 22 Ivi, prop. 2.0271. 21 14 qualcosa di determinato, ovvero ad oggetti. Per questa ragione, se non esistessero oggetti semplici, non si potrebbe in alcun modo disporre di proposizioni sensate, della cui esistenza Wittgenstein è convinto: “L’esigenza delle cose semplici è l’esigenza della determinatezza del senso”23; “E sempre torna ad imporsi in noi l’idea che v’è qualcosa di semplice, d’indivisibile, un elemento dell’essere, in breve una cosa …noi sentiamo che il MONDO deve constare di elementi”.24 A tal proposito, Perissinotto chiarisce nel seguente modo: “Se il mondo non avesse una sostanza, se non vi fossero gli oggetti semplici, le nostre proposizioni non avrebbero alcun senso determinato, ossia non vi sarebbero, a rigore, proposizioni. Ne consegue che gli oggetti semplici vi debbono essere, affinché vi siano e poiché vi sono proposizioni”25; Se gli oggetti semplici non esistessero, spiega ulteriormente Wittgenstein, il senso di una proposizione verrebbe a dipendere da una proposizione precedente, questa da un’altra ancora e così via, senza poter giungere mai ad una proposizione capace di rendere sensate tutte le altre. Perissinotto, in tal senso: “Ma se l’aver senso di una proposizione dipendesse dalla verità di un’altra proposizione avremmo perlomeno due conseguenze, a dir 23 L. Wittgenstein, Quaderni 1914-16, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 206. Ivi., p. 204. 25 L. Perissinotto, op. cit., p. 40. 24 15 poco, indesiderabili. (a) Si produrrebbe una sorta di regresso all’infinito: infatti, il senso di una proposizione dipenderebbe dalla verità di un’altra proposizione, il cui senso dipenderebbe, a sua volta, dalla verità di una terza proposizione, e così via, all’infinito, per l’appunto”26. Ma è lo stesso Wittgenstein ad affermarlo: “Se il mondo non avesse una sostanza, l’avere un proposizione senso dipenderebbe allora dall’essere un’altra proposizione vera”27. Per Wittgenstein, le proposizioni hanno un senso compiuto, determinato, come dimostra il fatto che comprendiamo le situazioni che rappresentano senza bisogno che ci venga spiegato il senso, ovvero senza bisogno di ulteriori proposizioni. L’unica condizione che egli pone, affinché si possa comprendere ciò che la proposizione rappresenta, è data dalla conoscenza del significato delle parole in essa contenute: “Lo vediamo dal fatto che comprendiamo il senso del segno proposizionale senza che quel senso ci sia stato spiegato”28; “I significati dei segni semplici (delle parole) devono esserci spiegati affinché noi li comprendiamo. Con le proposizioni, tuttavia, noi ci intendiamo”29. 26 Ivi, p. 42. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.0211. 28 Ivi, prop. 4.02. 29 Ivi, prop. 4.026. 27 16 Il tema della determinatezza del senso delle proposizioni verrà in seguito rivisto. Come verrà mostrato in seguito, Wittgenstein porterà avanti l’idea secondo la quale un’espressione, anche se priva di un senso completamente determinato, non potrà per ciò dirsi insensata30. Ad ogni modo, il discorso sull’esistenza degli oggetti semplici costituisce uno degli aspetti più problematici dell’impianto teorico di Wittgenstein, in quanto di essi non solo non vengono mai dati esempi specifici, ma addirittura nel Tractatus Wittgenstein considera prive di senso tutte quelle proposizioni che intendono esprimersi intorno alle proprietà degli oggetti. Ciò, infatti, per Wittgenstein significherebbe esprimersi intorno sia alle proprietà esterne sia a quelle interne o logiche, il che è impossibile perché le proprietà logiche, in quanto necessarie, non possono mai essere oggetto di rappresentazione31. Ecco perché, spiega Wittgenstein, di un oggetto si può dire solamente come esso è non che cosa esso è: “Gli oggetti io li posso solo nominare. I segni ne sono rappresentanti. Io posso solo dirne, non dirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non che cosa è”32. 30 Cfr. D. Marconi, Il ‘Tractatus’, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, cit., p. 30. Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 56. 32 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 3.221. 31 17 2.4 Indipendenza dei fatti, fondamento delle previsioni e del procedimento induttivo Il mondo, abbiamo detto all’inizio, è dato dai fatti. Ma tra i fatti di cui è costituito il mondo vi è un rapporto di dipendenza, tale che l’uno può dipendere o essere causa dell’altro o, al contrario, essi sono assolutamente indipendenti l’uno dall’altro? A tal proposito, Wittgenstein fa rilevare che mentre gli oggetti sono sempre inseriti in un contesto, ossia combinati con altri oggetti, gli stati di cose sono assolutamente indipendenti gli uni dagli altri. Di conseguenza, è la più radicale accidentalità e casualità la cifra dell’accadere dei fatti nel mondo: “Nello stato di cose gli oggetti sono interconnessi, come le maglie d’una catena”33; “Gli stati di cose sono indipendenti l’uno dall’altro”34; “Dal sussistere o non sussistere d’uno stato di cose non può concludersi il sussistere o non sussistere d’un altro”35. Per fare un esempio noto nella storia della filosofia, dato il movimento della palla A non è possibile inferire che il movimento della palla B è causato dall’urto che questa ha avuto con la palla A, in 33 Ivi, prop. 2.03. Ivi, prop. 2.061. 35 Ivi, prop. 2.062. 34 18 quanto il movimento della palla B è un fatto assolutamente indipendente, nuovo rispetto al movimento della palla A. Ma se così stanno le cose, che valore e fondamento hanno tutte le inferenze, le congetture e le previsioni? Ed inoltre, che ve n’è del procedimento induttivo? Queste realtà, per Wittgenstein, esistono solo nella nostra mente ed il loro fondamento non è ontologico, ma solo ed esclusivamente psicologico, il che comporta che la realtà rimane sempre caratterizzata dalla più radicale accidentalità e casualità: “Il procedimento dell’induzione consiste nell’assumere la legge più semplice che possa essere accordata alle nostre esperienze”36; “Questo procedimento, tuttavia, ha un fondamento non logico, ma psicologico. E’ chiaro che non esiste ragione di credere che davvero avverrà il caso più semplice”37; “Che il sole domani sorgerà è un’ipotesi; e ciò vuol dire: Noi non sappiamo se esso sorgerà”38; Una necessità cogente, per la quale qualcosa debba avvenire poiché qualcos’altro è avvenuto non, v’è. V’è solo una necessità logica”39. Non solo, ma anche se tutto ciò che si vorrebbe realizzare accadesse, i termini della questione non si sposterebbero di un centimetro, perché 36 Ivi, prop. 6.363. Ivi, prop. 6.3631. 38 Ivi, prop. 6.36311. 39 Ivi, prop. 6.37. 37 19 la realtà continuerebbe ad essere impregnata dalla più radicale accidentalità: “Anche se tutto ciò che desideriamo avvenisse, tuttavia ciò sarebbe solo, per così dire, una grazia del fato, poiché non v’è tra volontà e mondo, una connessione logica che garantisca ciò, e la supposta connessione fisica non potremmo certo volerla a sua volta”40. 2.5 Fatti semplici e fatti complessi Orbene, i fatti di cui parla Wittgenstein possono essere semplici o complessi. Come ha fatto rilevare Russell, gli oggetti sono semplici (o atomici) quando non sono costituiti da altri fatti, mentre sono complessi (o molecolari) quando sono costituiti da due o più fatti: “I fatti il quale i quali non sono composti d’altri fatti sono, da Wittgenstein, chiamati Sachverhalte, mentre un fatto il quale possa consistere di due o più fatti è chiamato Tatsache. Ad esempio, «Socrate è saggio» è un Sachverhalt come pure una Tatsache, mentre «Socrate è saggio e Platone è il suo discepolo» è una Tatsache, ma non un Sachverhalt”41. L’espressione “Socrate è saggio” è sia una “Sachverhalt” sia “Tatsache” perché, così come ha spiegato lo stesso Russel, in realtà essa è costituita da due parti, ossia da Socrate e da saggio: 40 Ivi, prop. 6.374. B. Russel, Introduzione al Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 5. 41 20 “Un fatto atomico, pur non contenendo parti che siano dei fatti, tuttavia contiene delle parti. Se possiamo considerare «Socrate è saggio» un fatto atomico, noi percepiamo che esso contiene i costituenti «Socrate» e «saggio»”42. 42 Ivi, p. 8. 21 3 “NOI CI FACCIAMO IMMAGINI DEI FATTI” 3.1 L’immagine Una volta ultimato lo studio condotto sulla struttura della realtà, Wittgenstein, nel Tractatus, passa ad analizzare le modalità con cui il soggetto se la rappresenta. A tal proposito, Wittgenstein ha elaborato la teoria raffigurativa del linguaggio, secondo la quale la rappresentazione della realtà da parte del soggetto avviene per mezzo di immagini: “Noi ci facciamo immagini dei fatti”43. Wittgenstein ha anche affermato che le proposizioni non sono altro che immagini dei fatti, per cui lo studio circa la natura dell’immagine è preliminare alla comprensione delle tesi riguardanti la proposizione. Lo studio della natura dell’immagine è anche importante perché, per Wittgenstein, una proposizione può essere vera o falsa, ossia può concordare o no con la realtà rappresentata, solo in quanto immagine di essa: “Solo così la proposizione può essere vera o falsa: essa può concordare o discordare con la realtà solo essendo un’immagine di uno stato di cose”44; 43 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.1. 44 L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 137. 22 “La proposizione può essere vera o falsa solo in quanto immagine della realtà”45. Ma cos’è un’immagine? Ed, inoltre, di che tipo di immagine si tratta? In relazione a ciò, Wittgenstein spiega che l’immagine è un fatto e che, come tale, è costituita da elementi che non sono disposti a caso, ma secondo un precisa relazione gli uni con gli altri. Tali elementi rimandano ad oggetti precisi nella realtà, in modo tale che agli elementi dell’immagine corrispondono gli elementi del fatto raffigurato. Affinché un immagine sia immagine di qualche cosa, inoltre, vi deve essere anche una precisa corrispondenza tra il nesso che “tiene” gli elementi costitutivi dell’immagine e quello degli elementi costitutivi del fatto raffigurato. Solo così, spiega Wittgenstein, un immagine può essere immagine di qualche cosa: “Agli oggetti corrispondono nell’immagine gli elementi dell’immagine”46; “Gli elementi dell’immagine sono rappresentanti degli oggetti nell’immagine”47; “L’immagine consiste nell’essere i suoi elementi in una determinata relazione l’uno con l’altro”48; “L’immagine è un fatto”49. 45 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.06. 46 Ivi, prop. 2.13. 47 Ivi, prop. 2.131. 48 Ivi, prop. 2.14. 49 Ivi, prop. 2.141. 23 Ogni immagine, in altre parole, deve raffigurare oltre che gli oggetti, anche le relazioni sussistenti tra di essi, così come Soleri ha mostrato con un esempio: “Se vogliamo rappresentare su una tela un determinato soggetto (ad es., una tavola su cui si trovano piatti e bicchieri), dovremo fare in modo che tra le immagini dipinte sussistano le medesime relazioni sussistenti tra gli oggetti reali (se i bicchieri sono a destra dei piatti, ciò dovrà valere anche per le figure dipinte sulla tela, etc.)”50. Questo discorso ha indotto alcuni studiosi ad affermare che per Wittgenstein tra immagine e fatto raffigurato vi è un relazione isomorfica. Non la pensa così Marco Carapezza, il quale, riferendosi alle proposizioni 2.1512, 2.15121 e 4.025 del Tractatus, ha spiegato che la relazione adatta a spiegare il rapporto tra il piano del linguaggio e quello del mondo, così come la presenta Wittgenstein, è quella omomorfica51. 50 S. Soleri, op. cit., p. 71. Cfr. M. Carapezza, Segno e simbolo in Wittgenstein, Ed. Bonanno, Acireale – Roma 2005, pp. 23-32. 51 24 3.2 La condivisione della forma logica come condizione di sensatezza delle immagini. Ma come può l’immagine raffigurare qualcosa, dal momento che immagine e fatto raffigurato sono, dal punto di vista qualitativo, due entità diverse? A tal proposito, Wittgenstein spiega che un’immagine può raffigurare qualsiasi altra cosa a patto di condividerne la forma di raffigurazione, mentre, senza questa condivisione, l’immagine non potrebbe raffigurare alcunché: “Ciò che l’immagine deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente – nel proprio modo, è la forma di raffigurazione propria dell’immagine”52; “L’immagine può raffigurare ogni realtà della quale ha la forma. L’immagine spaziale, tutto lo spaziale; la cromatica, tutto il cromatico; etc.”53; “La forma di raffigurazione è la possibilità che le cose siano l’una con l’altra nella stessa relazione che gli elementi dell’immagine”54; “E’ così che l’immagine è connessa con la realtà; giunge ad essa”55. Solo grazie alla relazione di raffigurazione dunque l’immagine riesce a coordinare i suoi elementi a quelli del fatto raffigurato. 52 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.17. 53 Ivi, 2.171. 54 Ivi, prop. 2.151. 55 Ivi, prop. 2.1511. 25 Il processo di coordinazione è stato da Wittgenstein paragonato al fenomeno della proiezione in geometria, in cui un qualsiasi oggetto può essere riprodotto per mezzo di linee di proiezione, in virtù delle quali è possibile riconoscere il modello di partenza nonostante le possibili deformazioni subite. A tal riguardo, Marco Carapezza tuttavia ha spiegato che non sempre è possibile risalire all’immagine di partenza perché “più immagini sono compatibili con un unico risultato”56. Ad ogni modo, essa può raffigurare qualsiasi altro fatto di diversa natura, in virtù della coordinazione degli elementi dell’immagine a quelli del fatto raffigurato, le quali vengono anche descritte da Wittgenstein come le antenne grazie a cui l’immagine “tocca” la realtà: “La relazione di raffigurazione consta delle coordinazioni degli elementi dell’immagine e delle cose”57; “Queste coordinazioni sono quasi le antenne degli elementi dell’immagine, con le quali l’immagine tocca la realtà” 58. Il processo di coordinazione indicato è una realtà che viene da Wittgenstein attribuita in toto all’immagine, ragion per cui anche la relazione di raffigurazione è una realtà che appartiene ad essa: 56 M. Carapezza, op. cit., p. 27. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.1514. 58 Ivi, prop. 2.1515. 57 26 “Secondo questa concezione, dunque, appartiene all’immagine anche quella relazione di raffigurazione che dell’immagine fa appunto immagine”59. Wittgenstein precisa che la forma di raffigurazione non è altro che la forma logica, la quale corrisponde alla forma della realtà. La forma logica dunque è ciò che l’immagine deve avere in comune con il fatto se vuole essere in condizione di raffigurarlo, viceversa l’immagine non potrebbe raffigurare alcunché: “Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare – correttamente o falsamente -, è la forma logica, ossia la forma della realtà”60. Per questa ragione, le immagini, prima di essere immagini spaziali, cromatiche o altro ancora, sono prima di tutto immagini logiche, ossia devono avere una struttura aderente alle leggi della logica. Al contrario, non tutte le immagini sono anche immagini spaziali, in quanto non tutte raffigurano lo spazio: “Ogni immagine è anche un’immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un’immagine spaziale.)”61. 59 Ivi, prop. 2.1513. Ivi, prop. 2.18. 61 Ivi, prop. 2.182. 60 27 3.3 La forma logica non è raffigurabile L’immagine, come è stato mostrato, può raffigurare la realtà tutta a patto di condividerne la forma logica. Essa tuttavia non può essere oggetto di raffigurazione da parte dell’immagine stessa, la quale può raffigurare solo situazioni possibili, la cui sensatezza dipende dalla comunanza della forma logica dell’immagine con la situazione raffigurata. La forma logica di raffigurazione dunque non è un fatto, ma la condizione formale che permette la rappresentazione e la conoscenza del mondo62. Per potere raffigurare la propria forma logica, l’immagine, dice Wittgenstein, dovrebbe cessare di essere immagine di situazioni possibili per diventare raffigurazione di se stessa, dovrebbe guardarsi dal di “fuori”, il che è impossibile: “La sua propria forma di raffigurazione, tuttavia, l’immagine non può raffigurarla; essa la esibisce”63; “L’immagine non può, tuttavia, porsi fuori dalla propria forma di rappresentazione”64. 62 Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 72. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 2.172. 64 Ivi, prop. 2.174. 63 28 3.4 Verità e determinatezza di senso dell’immagine L’immagine rappresenta sempre situazioni possibili e non attuali e dice quali stati di cose sussisteranno o meno, a seconda che essa sia vera o falsa. Questo discorso spinge Wittgenstein ad intendere l’immagine non come una semplice copia, ma come un modello della realtà : “L’immagine è un modello della realtà”65. Wittgenstein intende il concetto di modello così come impiegato in fisica, ovvero come un costrutto logico utilizzato dallo scienziato per ricondurre una determinata gamma di fenomeni naturali ad uno schema comune. Grazie ad esso è possibile determinare a priori una serie di possibili eventi, mentre la fondatezza del modello non è possibile determinarla a priori, ma solo dopo il confronto con la realtà, da cui potrebbe risultare che esso sia inadeguato rispetto ai fenomeni presi in considerazione e che vada sostituito con un altro modello. Ciò vale anche per l’immagine. Nello specifico, se il fatto raffigurato esiste nelle medesime condizioni descritte dalla relativa immagine, allora essa sarà vera, altrimenti sarà falsa: 65 Ivi, prop. 2.12. 29 “L’immagine concorda o non concorda con la realtà; essa è corretta o scorretta, vera o falsa”66; “Per riconoscere se l’immagine sia vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà”67; “Dall’immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa”68; “Un’immagine vera a priori non v’è”69. Ciò che invece si può conoscere a priori è quali stati di cose sussisteranno se l’immagine è vera e quali non sussisteranno se è falsa. Per far ciò, in altri termini, non abbiamo bisogno di confrontare l’immagine con la realtà, ma basta la sola analisi di essa. Ciò è reso possibile perché un’importante caratteristica delle immagini è quella di essere dotate di un senso determinato, compiuto, in virtù delle quali è possibile comprendere qualsiasi immagine senza bisogno di spiegazioni aggiuntive: “Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso”70. Ogni immagine, quindi, parla da sé, basta solamente fissare alcune convenzioni, come ha mostrato Soleri: “…(suonerebbe molto strano se, davanti alla raffigurazione di un albero in un prato, io avessi bisogno, per comprendere il senso di 66 Ivi, prop. 2.21. Ivi, prop. 2.223. 68 Ivi, prop. 2.224. 69 Ivi, prop. 2.225. 70 Ivi, prop. 2.221. 67 30 ciò che ho davanti gli occhi, che qualcuno mi dicesse: “Questo è un albero in un prato” – ciò si vede nell’immagine stessa)…E’ vero che bisogna stabilire alcune convenzioni per far sì che l’immagine sia compresa da tutti: ma una volta accettato che una certa figura bidimensionale denota un oggetto “reale” (tridimensionale), o che il simbolo “T” significa “torre”, ogni immagine che risulti dalla composizione di questi elementi “parla da sé” senza bisogno di ulteriori interventi esplicativi”71. 71 S. Soleri, op. cit., p. 80. 31 4 IL LINGUAGGIO 4.1 Immagine logica, pensiero e linguaggio Chiarita la natura e il ruolo dell’immagine, Wittgenstein, prima di affrontare il problema del linguaggio, si sofferma sul problema del pensiero e sul rapporto tra esso e il linguaggio. Il pensiero, nel Tractatus, viene descritto come un’immagine logica della realtà: pensare un fatto vuol dire solamente farsi un’immagine di esso. In quanto immagine della realtà, ne consegue che esso può raffigurare solo situazioni possibili, la cui verità o falsità può essere accertata solo dopo un confronto con la realtà pensata-raffigurata. Ciò vuol dire che non può esistere un pensiero vero a priori, perché in tal caso si dovrebbe poter conoscere la verità o falsità di esso solo dal pensiero stesso: “L’immagine logica dei fatti è il pensiero”72; “«Uno stato di cose è pensabile» vuol dire: Noi possiamo farci un’immagine di esso”73; “Noi potremmo sapere a priori che un pensiero è vero solo se dal pensiero stesso (senza la mediazione d’un termine di confronto) se ne potesse conoscere la verità”74. 72 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit.,prop. 3. Ivi, prop. 3.001. 74 Ivi, prop. 3.05. 73 32 Dal momento che il pensiero può raffigurare solo situazioni possibili, ne deriva che “tutto ciò che possiamo pensare (cioè raffigurare) è anche possibile. Ne segue che quanto è in disaccordo con le leggi del pensiero (ovvero, con le leggi logiche), è impensabile (quindi irrappresentabile) ed impossibile”75. Da ciò scaturisce, inoltre, che non si possono avere pensieri illogici, ma solo pensieri veri o falsi. La logica, infatti, per Wittgenstein è prima di ogni esperienza, e pensiero vi può essere solo nel caso in cui operino in esso leggi di natura logica: “Il pensiero contiene la possibilità della situazione che esso pensa. Ciò che è pensabile è anche possibile”76; “Noi non possiamo pensare nulla d’illogico, poiché altrimenti dovremmo pensare illogicamente”77; “Si diceva una volta: Dio può creare tutto, ma nulla che sia contro le leggi logiche. Infatti, d’un mondo illogico noi non potremmo dire quale aspetto avrebbe”78; “Che la logica sia a priori consiste nell’impossibilità di pensare illogicamente”79. L’altra identificazione che Wittgenstein pone è quella tra pensiero e linguaggio. In particolare, afferma Wittgenstein, il pensiero 75 S. Soleri, op. cit., p. 88. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 3.02. 77 Ivi, prop. 3.03. 78 Ivi, prop. 3.031. 79 Ivi, prop. 5.4731. 76 33 si esprime sensibilmente nella proposizione e coincide con la proposizione sensata: “Nella proposizione il pensiero s’esprime in modo percepibile mediante i sensi”80; “Il segno proposizionale applicato, pensato, è il pensiero”81; “Il pensiero è la proposizione munita di senso”82. L’equazione tra pensiero e proposizione sensata suggerisce l’idea secondo la quale tutto il pensabile è anche esprimibile, mentre ciò che non può essere pensato non è nemmeno esprimibile per mezzo di una proposizione83. 4.2 La proposizione come immagine logica della realtà Per quanto riguarda il linguaggio, va detto che esso è costituito dalla totalità delle proposizioni che Wittgenstein concepisce come fatti: “La totalità delle proposizioni è il linguaggio”84; “Le proposizioni, che sono simboli aventi riferimento ai fatti, sono fatti esse stesse”85. 80 Ivi, prop. 3.1. Ivi, prop. 3.5. 82 Ivi, prop. 4. 83 Cfr. S. Soleri, op. cit., pp. 145, 146. 84 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.001. 85 L. Wittgenstein, Note sulla Logica, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 251. 81 34 Come tali, le proposizioni non si configurano come un miscuglio di parole messe alla rinfusa, ma come una connessione o combinazione di elementi, o segni semplici: “Il segno proposizionale consiste nell’essere i suoi elementi (le parole) in una determinata relazione l’uno con l’altro”86; “La proposizione non è un miscuglio di parole. – (Come il tema musicale non è un miscuglio di suoni.) La proposizione è articolata”87; “Questi elementi io li chiamo «segni semplici»; la proposizione completamente analizzata”88. Per Wittgenstein, come abbiamo visto, la proposizione è un’immagine della realtà. Una prova di ciò è data dal fatto che è possibile comprendere la situazione rappresentata dalla proposizione senza bisogno di ulteriori spiegazioni in aggiunta a quanto già contenuto nella proposizione stessa. In altri termini, come le immagini, le proposizioni sono perfettamente autosufficienti nell’esprimere il senso di ciò che rappresentano: “La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti, io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la 86 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 3.14. 87 Ivi, prop. 3.141. 88 Ivi, prop. 3.201. 35 proposizione io la comprendo senza che mi sia spiegato il senso di essa”89; “La proposizione rappresenta lo stato di cose, direi quasi, di sua testa”90. Wittgenstein sa bene che a prima vista le proposizioni sembrerebbero non avere nulla in comune con l’immagine, ma basta considerare quanto appena detto e ciò sarà perfettamente chiaro: “A prima vista, la proposizione – quale, ad esempio, è stampata sulla carta – non sembra essere un’immagine della realtà della quale essa tratta. Ma, a prima vista, neppure la notazione musicale sembra essere un’immagine della musica, e neppure la nostra notazione grafica dei suoni (notazione fonetica mediante lettere dell’alfabeto) sembra essere un’immagine del nostro linguaggio fonico. Eppure questi linguaggi segnici si dimostrano immagini, anche nel senso consueto del termine, di ciò che rappresentano”91. Il perché lo abbiamo già visto. Come l’immagine, anche la proposizione per Wittgenstein raffigura possibili stati di cose, in quanto i suoi elementi costitutivi, i segni semplici o nomi, stanno per gli oggetti a cui si riferiscono. I nomi, cioè, significano e rappresentano nella proposizione gli oggetti 89 Ivi, prop. 4.021. L.Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 159. 91 L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.011. 90 36 per il quale stanno. È proprio dal riferimento dei nomi ad oggetti precisi che le proposizioni traggono il loro significato: “Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato. (“A è lo stesso segno che “A”)92; “Alla configurazione dei segni semplici nel segno proposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nella situazione”93; “Il nome è il rappresentante, nella proposizione, dell’oggetto”94; “Un nome sta per una cosa, un altro sta per un’altra cosa ed essi sono interconnessi tra lo: Così il tutto presenta – come un plastico – lo stato di cose”95. I nomi, in quanto elementi semplici, non sono ulteriormente divisibili in altre realtà più semplici poiché costituiscono quei segni primitivi, originari, il cui significato può essere spiegato solo mediante chiarificazioni. Ciò vuol dire, spiega Wittgenstein, che essi possono essere compresi solo se già si conoscono i significati di tali segni: “I significati dei segni primitivi si possono spiegare mediante chiarificazioni. Le chiarificazioni sono proposizioni che contengono i segni primitivi. Esse dunque possono essere comprese solo se già siano noti i significati di questi segni”96. 92 Ivi, prop. 3.203. Ivi, prop. 3.21. 94 Ivi, prop. 3.22. 95 Ivi, prop. 4.0311. 96 Ivi, prop. 3.263. 93 37 I nomi, conclude Wittgenstein, non hanno senso di per sé, ma solo nel contesto di una proposizione; la parola “azzurro”, ad esempio, non dice nulla intorno al mondo, non esprime una possibile situazione, mentre la proposizione “Questa mattina il cielo è azzurro” esprime una possibilità che può essere confermata o smentita dall’esperienza, ragion per cui si può concludere che essa è una proposizione sensata. Per esprimere una situazione possibile e avere un senso, dunque i nomi devono far parte di una proposizione: “Solo la proposizione ha senso; solo nel contesto della proposizione un nome ha un significato”97. La ragione di questa tesi, rileva Wittgenstein, sta nell’idea secondo cui i fatti sono qualcosa di intimamente complesso, per cui essi possono essere raffigurati solamente da segni complessi, articolati come lo sono le proposizioni, mentre i nomi, in quanto segni semplici, hanno solo la facoltà di indicare o denominare i singoli oggetti: “La proposizione non è un miscuglio di parole. – (Come il tema musicale non è un miscuglio di suoni.) La proposizione è articolata”98; “Solo i fatti possono esprimere un senso; una classe di nomi non può farlo”99; 97 Ivi, prop. 3.3. Ivi, prop. 3.141. 99 Ivi, prop. 3.142. 98 38 “Le situazioni si possono descrivere, non denominare. (I nomi somigliano a punti; le proposizioni, a frecce: Esse hanno un senso.)”100. Per raffigurare la realtà, tuttavia, la proposizione deve avere in comune con la realtà raffigurata la forma logica, ovvero il complesso delle sue possibilità combinatorie. Senza questa comunanza, la proposizione non potrebbe raffigurare alcunché. Ma la forma logica, come già abbiamo avuto modo di vedere a proposito dell’immagine, non può essere oggetto di raffigurazione da parte della proposizione, in quanto essa può raffigurare legittimamente solo possibili stati di cose, mentre la forma logica costituisce la condizione di rappresentabilità e corrispondenza di essi per mezzo di proposizioni101. Per rappresentare la forma logica, la proposizione dovrebbe snaturarsi e situarsi oltre ciò che le regole logiche impongono. In altre parole, essa dovrebbe porsi fuori dal mondo perché, per Wittgenstein, i limiti della logica sono anche i limiti del mondo. Ma ciò, per il filosofo austriaco è impossibile: “La proposizione può rappresentare la realtà tutta, ma non può rappresentare ciò che, con la realtà, essa deve avere in comune per 100 101 Ivi, prop. 3.144. Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 183. 39 poterla rappresentare – la forma logica. Per poter rappresentare la forma logica, noi dovremmo poter situare noi stessi con la proposizione fuori dalla logica, ossia fuori dal mondo”102; “La proposizione non può rappresentare la forma logica; questa si rispecchia in quella. Ciò, che nel linguaggio si rispecchia, il linguaggio non lo può rappresentare. Ciò, che nel linguaggio esprime sé, noi non lo possiamo esprimere mediante il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà. L’esibisce”103; “Ciò che può essere mostrato non può essere detto”104; “La logica pervade il mondo; i limiti del mondo sono anche i limiti di essa”105. Con l’impossibilità di dire la forma logica, Wittgenstein introduce una differenza molto importante, quella tra dicibilità e mostrabilità. Egli addirittura arriva a definire la distinzione tra ciò che può essere detto e ciò che può essere solo mostrato “la questione cardinale” della filosofia, perché è proprio su queste basi che si gioca il futuro della filosofia come forma di sapere fondato e cumulativo: 102 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.12. 103 Ivi, prop. 4.121. 104 Ivi, prop. 4.1212. 105 Ivi, prop. 5.61. 40 “Questo tocca la questione cardinale, che cosa possa essere espresso da una proposizione e che cosa non possa essere espresso, ma solo mostrato”106. 4.3 Proposizioni semplici e proposizioni complesse Wittgenstein distingue due tipi di proposizioni, quelle semplici (atomiche) e quelle complesse (molecolari). Le prime sono il corrispettivo dei fatti semplici, mentre le seconde dei fatti complessi. Ad esempio, la proposizione “Marco ha freddo” è una proposizione semplice, in quanto descrive il fatto semplice: “Marco ha freddo”. Per il Wittgenstein del Tractatus, le proposizioni elementari sono indipendenti dal punto di vista logico, e non esiste alcuna possibilità che si possano trovare in contraddizione tra loro “Da una proposizione elementare non può inferirsene un’altra”107; “Un nesso casuale, che giustifichi una tale conclusione, non v’è”108; “Una segno della proposizione elementare è che nessuna proposizione elementare può essere in contraddizione con essa”109. 106 L. Wittgenstein, Estratti di lettere a B. Russel, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 297. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 5.134. 108 Ivi, 5.136. 109 Ivi, 4.211. 107 41 Le proposizioni complesse, invece, per Wittgenstein, sono costituite da due o più fatti. Ad esempio, la proposizione “Marco ha freddo ed ha la febbre” è una proposizione complessa in quanto descrive due fatti: “Marco ha freddo” e “Marco ha la febbre”. Esse si possono scomporre in proposizioni semplici, le quali non si possono dividere in altre proposizioni, ragion per cui Wittgenstein considera le proposizioni semplici le più piccole unità linguistiche. Per tornare alle proposizioni complesse, di esse Wittgenstein spiega che sono funzioni di verità delle proposizioni che le compongono: “La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari”110. Descrivere le proposizioni in questo modo, significa dire che l’effettiva verità o falsità delle proposizioni dipende dalla verità o falsità delle proposizioni che le compongono111. Ad esempio, la proposizione “Luca ha l’influenza e Marco ha la febbre” è composta da due proposizioni semplici che descrivono rispettivamente lo stato di cose “Luca ha freddo” e lo stato di cose “Marco ha la febbre”. Questa proposizione è vera se sono vere entrambe le proposizioni semplici che la compongono, ovvero se sussiste sia lo stato di cose 110 111 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 5. Cfr. D. Marconi, Il “Tractatus”, in Guida a Wittgenstein, cit., p. 35. 42 “Luca ha freddo” sia lo stato di cose “Marco ha la febbre”, mentre è falsa per tutti gli altri casi (è falsa sia se è vera la proposizione Luca ha freddo, ma è falsa la proposizione Marco ha la febbre, sia se è vero che Luca ha l’influenza, ma non è vero che Marco ha la febbre, sia, infine, se non è vero che Luca ha l’influenza e non è vero che Marco ha la febbre). La proposizione “Marco è a casa o al bar”, invece, è vera sia se sono vere entrambe le proposizioni elementari che la compongono sia se è vera solo una delle due proposizioni, ossia se Marco è realmente a casa o al bar, mentre è falsa se sono false entrambe, ossia se Marco non è né a casa né al bar. Dall’analisi di questi due esempi di proposizioni si può constatare che la verità o falsità delle proposizioni complesse dipende e varia in funzione della verità o falsità delle proposizione semplici che le compongono. Inoltre, poiché la possibilità di una proposizione complessa di essere vera o falsa dipende dalla possibilità di essere vera o falsa delle proposizioni semplici che la compongono, ne consegue che le proposizioni semplici costituiscono, spiega Wittgenstein, le condizioni di verità o falsità delle proposizioni complesse: 43 “La possibilità di verità delle proposizioni elementari sono le condizioni della verità e falsità delle proposizioni”112. 4.3.1 Le costanti logiche La “e” della proposizione “Luca ha l’influenza e Marco ha la febbre”, e la “o” di “Marco è a casa o al bar”, costituiscono, insieme ad altre espressioni come ad esempio “non”, “se…allora”, se e solo se”, quelle che già Russel e Frege indicavano con l’espressione “costanti logiche”. A differenza di quanto ritenevano questi, per Wittgenstein, poiché non esistono oggetti logici, le costanti logiche non significano alcunché: “Il mio pensiero fondamentale è che le «costanti logiche» non siano rappresentanti; che la logica dei fatti deve non possa avere rappresentanti”113; “Oggetti logici non vi sono”114. Quelle che Russell e Frege chiamano costanti logiche, quindi, per Wittgenstein hanno il solo ruolo di mostrare “in quale modo le possibilità di verità delle proposizioni elementari condizionano le 112 L. Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.41. 113 Ivi, prop. 4.0312. 114 Ivi, prop. 4.441. 44 possibilità di verità delle proposizioni complesse. Questo esaurisce il loro ruolo” 115. 4.4 Il problema della verità (e della falsità) e del senso (e del non senso) delle proposizioni Le proposizioni, per Wittgenstein, possono essere vere o false. Ma cos’è che le rende tali? Per Wittgenstein, sono i fatti raffigurati a determinare la verità o la falsità delle proposizioni. In particolare, se il fatto esiste nelle stesse condizioni descritte dalla proposizione, allora la proposizione è vera, in caso contrario è falsa: “La proposizione più semplice, la proposizione elementare, asserisce il sussistere d’uno stato di cose”116; “Se la proposizione elementare è vera, lo stato di cose sussiste; se la proposizione elementare è falsa, lo stato di cose non sussiste”117. Per cui, la proposizione “Giorgio gioca in giardino” è vera solo se sussiste lo stato di cose descritto dalla proposizione in questione, ossia se Giorgio sta giocando realmente in giardino, mentre è falsa se, diversamente da ciò che la proposizione dice, Giorgio è tranquillo a casa a riposare. 115 L. Perissinotto, op. cit., p. 52. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.21. 117 Ivi, prop. 4.25. 116 45 Questo ragionamento induce Wittgenstein a concludere che un’importante caratteristica delle proposizioni è che nessuna di esse può essere considerata vera o falsa a priori, in quanto per appurare ciò è necessario confrontarla con la realtà. Invece, dalla sola analisi di una proposizione è possibile scoprire cosa accadrà o non accadrà, ovvero, quali stati di cose sussisteranno o non sussisteranno qualora essa sia vera o falsa, anche se non sarà mai possibile sapere se i fatti raffigurati dalla proposizione esistano realmente oppure no. Ad esempio, se consideriamo la proposizione “Paolo è caduto e si è rotto un braccio”, si può constatare che da nessuna analisi, per quanto accurata e approfondita, si potrà scoprire se di fatto essa sia vera o falsa. Ma nel momento stesso in cui la proposizione viene compresa, verrà anche inteso quale fatto sussisterà o meno, senza il bisogno di recarsi a casa di Paolo: “Comprendere una proposizione è sapere che cosa accade se essa è vera”118; “Ciò che conosciamo quando comprendiamo una proposizione è questo: noi conosciamo che accade se essa è vera, e che accade se essa è falsa. Ma non conosciamo necessariamente se essa poi è vera o falsa”119. 118 119 Ivi, prop. 4.024. L. Wittgenstein, Note sulla Logica, in Tractatus logico-philosophicus cit., pp. 245-246. 46 Per Wittgenstein, il poter essere vera o falsa corrisponde al senso di una proposizione, ossia, essa ha senso solo se esprime un possibile stato di cose. Di conseguenza, la proposizione “Paolo è caduto e si è rotto un braccio” può essere considerata un esempio di proposizione sensata, in quanto esprime una situazione possibile che, come tale, può essere confrontata con la realtà. Ecco le parole di Wittgenstein: “Ogni proposizione è essenzialmente vera-falsa. Pertanto una proposizione ha due poli (corrispondenti al caso della sua verità e al caso della sua falsità). Chiamiamo questo il senso di una proposizione”120. Per cui, tutte le proposizioni che non sono nelle condizioni di poter essere vere o false, come ad esempio quelle della filosofia tradizionale, non saranno che proposizioni prive di senso. Senso ed effettiva verità di una proposizione sono due questioni che Wittgenstein scinde, in quanto risulta possibile comprenderne il senso anche senza sapere se di fatto essa è vera o falsa. Per attribuire sensatezza ad una proposizione, basta solo riconoscere che essa rappresenti un possibile stato di cose. 120 Ivi, p. 246 47 4.5 Le proposizioni della logica Nel paragrafo precedente è stato mostrato da cosa dipende la verità o falsità delle proposizioni. In realtà, quanto detto va riferito solo ad un certo tipo di proposizioni: quelle delle scienze. Oltre a queste, afferma Wittgenstein, esiste anche un’altra gamma di proposizioni che hanno la particolarità di essere sempre vere o sempre false, quali che siano le possibilità di verità dei loro costituenti, nonché di poterne determinare la verità o falsità a priori. Si tratta delle tautologie e delle contraddizioni: “Tra i possibili gruppi di condizioni di verità vi sono due casi estremi. Nel primo caso, la proposizione è vera per tutte le possibilità di verità delle proposizioni elementari. Noi diciamo che le condizioni di verità sono tautologiche. Nel secondo caso, la proposizione è falsa per tutte le possibilità di verità: Le condizioni di verità sono contraddittorie. Nel primo caso noi chiamiamo la proposizione una tautologia; nel secondo caso, una contraddizione”121. Ad esempio, la proposizione “Paolo ride o non ride” è una tautologia perché è vera sia che Paolo rida sia che Paolo non rida, mentre la proposizione “Paolo ride e non ride” è una contraddizione, perché è falsa sia che Paolo rida sia che Paolo non rida. 121 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.46. 48 La conseguenza di quanto detto è che sia le tautologie che le contraddizioni non possono essere considerate immagini della realtà, perché le immagini, come abbiamo visto, raffigurano sempre situazioni possibili, mentre le tautologie e le contraddizioni rispettivamente le ammettono e le negano tutte: “Tautologia e contraddizione non sono immagini della realtà. Esse non rappresentano alcuna possibile situazione. Infatti, quella ammette ogni possibile situazione; questa, nessuna”122. Per il fatto di non poter essere considerate immagini della realtà, tautologie e contraddizioni sono anche da considerare prive di senso. Come già rilevato, secondo Wittgenstein, avere senso per una proposizione significa sapere con certezza cosa accadrà o non accadrà nel caso in cui essa sia vera o falsa, mentre nel caso delle tautologie e delle contraddizioni non è possibile sapere nulla: “Tautologia e contraddizione sono prive di senso… (Ad esempio, io non so nulla sul tempo se so che o piove o non piove)”123. Wittgenstein identifica le proposizioni della logica, o verità logiche, con le tautologie perché solo di queste è possibile determinarne la verità a priori, ovvero senza la necessità di doverle 122 123 Ivi, prop. 4.462. Ivi, prop. 4.461. 49 rapportare alla realtà. Esse possono essere riconosciute vere dal solo simbolo: “Le proposizioni della logica sono tautologie”124; “E’ il carattere particolare delle proposizioni logiche la possibilità di riconoscerle vere dal solo simbolo…”125. Oltre a ciò, le tautologie soddisfano altre due importanti caratteristiche che le proposizioni della logica devono possedere necessariamente, come il carattere puramente formale, ossia privo di qualsiasi contenuto materiale e il non essere né confermabili né confutabili dall’esperienza: “Teorie, che facciano apparire munita di contenuto una proposizione della logica, sono sempre false”126; “…le proposizioni logiche non possono essere confermate dall’esperienza, così come dall’esperienza non possono essere infirmate”127. Come già detto, le proposizioni della logica, in quanto non possono essere immagini della realtà, sono da considerare prive di senso. Ciò non vuol dire che esse siano da considerare completamente insensate, giacché appartengono al simbolismo e mostrano le proprietà 124 Ivi, prop. 6.1. Ivi, prop. 6.113. 126 Ivi, prop. 6.111. 127 Ivi, prop. 6.1222. 125 50 logiche o formali del linguaggio e del mondo, anche se di esso non consentono di scoprire nulla: “Che le proposizioni della logica siano tautologie mostra le proprietà formali – logiche – del linguaggio, del mondo”128. Definire quelle che sono le caratteristiche delle proposizioni logiche equivale a definire quelle della logica stessa. In linea generale, essa, spiega Wittgenstein, non può in alcun modo essere considerata una dottrina, una forma di sapere, una scienza, giacché del mondo non dice e non fa scoprire nulla, ma un’immagine speculare del mondo, nel senso che mostra le proprietà formali del linguaggio e del mondo stesso: “Le proposizioni della logica non dicono dunque nulla”129; “Le proposizioni della logica descrivono l’armatura del mondo, o, piuttosto, la rappresentano”130; “La logica è non una dottrina, ma un’immagine speculare del mondo. La logica è trascendentale”131. Dal momento che le proposizioni della logica, ovvero le tautologie, non possono essere false, in quanto non è possibile che dati empirici contrastino con quanto espresso da esse, ne consegue che in logica non può verificarsi alcuna sorpresa: “Ecco perché in logica non possono mai esservi sorprese”132. 128 Ivi, prop. 6.12. Ivi, prop. 6.11. 130 Ivi, prop. 6.124. 131 Ivi, prop. 6.13. 132 Ivi, prop. 6.1251. 129 51 5 “CIO’ CHE NON PUO’ ESSERE DETTO” 5.1 Metafisica, Mistico, Scetticismo La teoria raffigurativa del linguaggio comporta l’impossibilità per la metafisica di costituirsi come forma di sapere sensato. La natura del linguaggio, infatti, fa sì che si possono considerare sensate solo le proposizioni della scienze naturali, giacché esprimono situazioni possibili che, come tali, possono essere vere o false. Di conseguenza, la metafisica, con la sua pretesa di cogliere il mondo come totalità, di parlare di realtà non sensibili, è destinata al fallimento e all’insensatezza, perché del mondo si può dire solamente che esso è e non com’è. Il come del mondo, dice Wittgenstein, rappresenta quel mistico, quell’ineffabile, che può essere solo mostrato, ma non detto. Esso sfugge ad ogni possibilità di rappresentazione da parte del nostro linguaggio, ragion per cui esso deve sfuggire anche alla tentazione di produrre proposizioni da parte del soggetto, perché esse sarebbero solo proposizioni insensate: “Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è”.133 Di idee diverse riguardo all’interpretazione della metafisica è stato Popper, per il quale, come vedremo nelle parti dedicate alle conclusioni, la metafisica, anche se non può essere considerata una 133 Ivi, prop. 6.44. 52 scienza, non per questo va considerata priva di senso. Oltre ad avere il carattere della sensatezza, inoltre, per Popper, la metafisica si dimostra essere utile per la ricerca scientifica. Ad ogni modo, per Wittgenstein rimane il fatto che la metafisica, in quanto non esprime fatti possibili, sia insensata e che insensato è anche lo scetticismo riferito ai temi metafisici. L’atteggiamento del revocare tutto in dubbio può sussistere solo laddove vi è la possibilità di porre delle domande e di avere delle risposte, ma ciò, spiega Wittgenstein, è il campo esclusivo delle scienze naturali. Allo scetticismo “metafisico”, quindi, tocca la stessa sorte della metafisica: “Lo scetticismo è non inconfutabile, ma apertamente insensato, se vuol mettere in dubbio ove non si può domandare. Che dubbio può sussistere solo ove sussista una domanda; domanda, solo ove sussista una risposta; risposta, solo ove qualcosa possa essere detto”134. 5.2 Impossibilità dell’etica L’analisi del linguaggio sin qui condotta, comporta il confinamento nel terreno dell’indicibile di importanti argomenti su 134 Ivi, prop. 6.51. 53 cui la filosofia si è sempre confrontata, come ad esempio le questioni etiche. Abbiamo visto, infatti, che per Wittgenstein il mondo è caratterizzato dalla più radicale accidentalità, in quanto gli stati di cose, i fatti, sono assolutamente indipendenti gli uni dagli altri. Ciò vuol dire che hanno tutti il medesimo valore e che non esistono fatti più importanti degli altri, fatti buoni o fatti cattivi, ma solo fatti135. Lo stesso discorso può essere fatto a proposito delle proposizioni, in quanto esse hanno l’esclusivo compito di raffigurare i fatti, il che comporta che le proposizioni non hanno alcuna possibilità di afferrare il senso del mondo e della vita. Il senso del mondo, dice Wittgenstein, se esiste, deve essere necessariamente fuori dal mondo, in quanto in esso è data solo ed esclusivamente la pura accidentalità. La conseguenza di queste considerazioni è che non possono assolutamente esistere proposizioni etiche: l’etica è impossibile da formulare. Essa dice Wittgenstein, è “trascendentale”: “Tutte le proposizioni sono di pari valore”136; “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso. Nel mondo tutto è come è, e tutto avviene come avviene; non v’è in esso alcun valore – né, se vi fosse, avrebbe un valore. Se un valore che abbia valore 135 Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 395. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 6.4. 136 54 v’è, esso dev’essere fuori d’ogni avvenire ed essere-così. Infatti, ogni avvenire ed essere-così è accidentale. Ciò che li rende nonaccidentali non può essere nel mondo, ché altrimenti sarebbe, a sua volta, accidentale. Dev’essere fuori dal mondo”137; “Né, quindi, vi possono essere proposizioni dell’etica. Le proposizioni non possono esprimere nulla di ciò che è più alto”138; “E’ chiaro che l’etica non può formularsi. L’etica è trascendentale”139. Ma se è vero che l’etica non è formulabile, è altrettanto vero che capita di esprimere giudizi di valore su uno o un altro fatto o, più in generale, di porre interrogativi circa una possibile presenza del bene o del male nel mondo. Com’è possibile ciò? A tal proposito, Wittgenstein spiega che tutto ciò entra nel mondo con il soggetto. Il soggetto, infatti, è il portatore della volontà nel mondo e, di conseguenza, anche del valore e dell’etica. Il soggetto, però, non è un fatto, ma un limite del mondo, il che comporta che di bene e di male si può parlare, ma solo a proposito del soggetto e non del mondo che, invece, considerato in se stesso non è né buono né cattivo: “Il mondo è allora, in sé, né buono né cattivo”140; 137 Ivi, prop. 6.41. Ivi, prop. 6.42. 139 Ivi, prop. 6.421. 140 L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 224. 138 55 “Bene e male non interviene che attraverso il soggetto. Ed il soggetto non appartiene al mondo, ma è un limite del mondo”141; “…ad essere buono o cattivo è il soggetto che vuole”142. Le conclusioni per l’etica sono sempre le stesse. La volontà, invero, non può in alcun modo alterare i fatti perché non c’è nessuna connessione necessaria che lega volontà e mondo, ma solo i limiti del mondo, il quale è indipendente dalla volontà. Per cui, anche se accadesse tutto ciò che vorremmo si realizzasse, ciò si verificherebbe, dice Wittgenstein, per sola ed esclusiva casualità: “Il mondo è indipendente dalla mia volontà. Anche se tutto ciò che noi desideriamo avvenisse, tuttavia, ciò sarebbe solo, per così dire, una grazia del fato, poiché non v’è, tra volontà e mondo, una connessione logica che garantisca ciò, e la supposta connessione fisica non potremmo certo volerla a sua volta. Se il volere buono o cattivo ha effetto sul mondo, lo ha solo sui limiti del mondo, non sui fatti, su ciò che non può essere raffigurato dal linguaggio ma solo mostrato nel linguaggio”143. Questo discorso comporta che tutte le questioni etiche sono destinate a rimanere insolute, insensate. Ad esempio, non si può parlare sensatamente né di Dio né dell’esistenza di valori assoluti e 141 Ivi, p. 224. Ivi, p. 224. 143 Ivi, p. 217. 142 56 necessari, in quanto Dio e i valori non si danno nel mondo come fatti. Parlare di queste cose dunque vuol dire solo proferire non sensi. Credere in Dio vuol dire credere che la vita abbia un senso, ma in un mondo dove vige la casualità e dove ciò che può essere raffigurato sono solamente i fatti, l’esistenza di un Dio non può assolutamente essere esperita: “Credere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita”144; “Dio non rivela sé nel mondo”145. Questa interpretazione del linguaggio e del mondo fa sì che anche le scienze naturali si ritrovano del tutto impotenti di fronte a tali questioni. Queste si possono occupare legittimamente solo dei fatti del mondo e, per questa ragione, non potranno mai giungere a soluzioni riguardo ad una materia che trascende il mondo dei fatti com’è l’etica. Dice Wittgenstein, inoltre, che “…persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati”146. Abbiamo parlato di questioni etiche. In realtà, quelle etiche non possono essere considerate nemmeno in questo modo. Questioni, 144 Ivi, p. 218. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 6.432. 146 Ivi, prop. 6.52. 145 57 domande e problemi vi possono essere, come già mostrato a proposito dello scetticismo, solo laddove vi è la possibilità di giungere a delle risposte, quindi, a delle soluzioni, come avviene nel campo delle scienze naturali. Per quanto detto sin qui, risulta chiaro che per Wittgenstein l’etica non può in alcun modo essere considerata una dottrina, un corpus di conoscenza acquisibili e tramandabili. Come interpretare, quindi, l’etica? Essa va intesa solo come una inclinazione, una tendenza naturale dell’animo umano che spinge l’uomo oltre i limiti posti dal linguaggio. Si tratta, tuttavia, di una tendenza che Wittgenstein non denigra, ma rispetta perché mostra una caratteristica fondamentale dell’animo umano: “La mia tendenza e, io ritengo, la tendenza di tutti coloro che hanno mai cercato di scrivere o di parlare di etica o di religione, è stata di avventarsi contro i limiti del linguaggio. Quest’avventarsi contro le pareti della nostra gabbia è perfettamente, assolutamente disperato. L’etica, in quanto sorge dal desiderio di dire qualcosa sul significato ultimo della vita, il bene assoluto, l’assoluto valore, non può essere una scienza. Ciò che dice, non aggiunge nulla, in nessun senso, alla nostra conoscenza. Ma è un documento di una tendenza nell’animo umano che io personalmente non posso non rispettare 58 profondamente e che non vorrei davvero mai, a costo della vita, porre in ridicolo”147. “L’uomo ha l’impulso ad avventarsi contro i limiti del linguaggio. (…). Quest’avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica”148. Ma l’impossibilità di elaborare dottrine etiche non preclude la via per la felicità. L’uomo, spiega Wittgenstein, può essere felice a patto di rinunciare a porre e a porsi tutti quegli interrogativi destinati a rimanere nel dubbio e ad accettare la realtà qual è. Solo così sarà possibile raggiungere la felicità, perché solo per questa via è possibile vivere una vita retta e in “armonia col mondo”: “Per vivere felice devo essere in armonia con il mondo. E questo vuol dire «essere felice»149. Lo stesso problema della morte è in realtà, per Wittgenstein, un falso problema perché la morte non è un fatto del mondo e non è un evento della vita: “La morte non è evento della vita. La morte non si vive”150. L’unica cosa da fare, quindi, è non farsi intimorire da false paure, cessare di porsi domande sul “poi” e vivere nel presente. Solo 147 L.Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di Michele Ranchetti, Ed. Adelphi, Milano 1967, pp. 18, 19. 148 Ivi, pp. 23,24. 149 L.Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 219. 150 L.Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 6.4311. 59 in questo modo la vita cesserà di rappresentare un problema, ma potrà essere vissuta con gioia e si potrà raggiungere la felicità: “Solo chi vive non nel tempo, ma nel presente, è felice. Per la vita nel presente non v’è morte”151. 151 L. Wittgenstein, Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 219. 60 6 LA FILOSOFIA COME CRITICA DEL LINGUAGGIO L’analisi condotta sulla natura del linguaggio ha mostrato che le proposizioni sono essenzialmente raffigurazioni di possibili stati di cose e che in ciò risiede il loro senso. Una proposizione, cioè, è sensata solo nella misura in cui può essere vera o falsa; ma per poter essere vera o falsa, deve essere raffigurazione di possibili stati di cose. Ciò vuol dire che tutte le proposizioni che non raffigurano nulla sono proposizioni insensate, in quanto questo genere di proposizioni mancano della possibilità del confronto con la realtà. Per questo motivo, Wittgenstein riconosce sensatezza solo alle proposizioni delle scienze naturali perché sono le uniche in grado di esprimere possibili stati di cose. Rispetto a queste, inoltre, Wittgenstein dice anche che esse coincidono con l’ambito delle proposizioni vere: “La proposizione rappresenta il sussistere e non sussistere degli stati di cose”152; “La totalità delle proposizioni vere è la scienza naturale tutta (o la totalità delle scienze naturali)153. In modo completamente diverso stanno le cose per quanto riguarda la filosofia, la quale non dà immagini della realtà, “non è una 152 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.1. 153 Ivi, prop. 4.111. 61 delle scienza naturali”154, ma è un ginepraio di proposizioni senza senso. In particolare, ciò di cui la filosofia si è sempre occupata, come Dio, l’anima, i valori, etc., non si danno nel mondo come fatti, ragion per cui essi sfuggono alla presa raffigurativa del linguaggio e, per questa ragione, le proposizioni che tentano di entrare in questi territori sono condannate all’insensatezza. Le proposizioni della filosofia tradizionale, per Wittgenstein, non hanno nemmeno lo statuto per essere considerate false, ma solo per essere considerate proposizioni insensate: “Le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono per la maggior parte non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo affatto rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza”155. Wittgenstein è convinto che i problemi elaborati nell’ambito della filosofia tradizionale si fondano su un fraintendimento della logica del linguaggio: “Il libro tratta i problemi filosofici e mostra - credo - che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio”156. 154 Ivi, prop. 4.111. Ivi, prop. 4.003. 156 Ivi, p. 24. 155 62 In particolare, nel linguaggio ordinario è facile confondere il segno, ovvero il termine considerato nella sua materialità, e il simbolo, che Wittgenstein intende come il segno accompagnato dal suo impiego logico-sintattico. Wittgenstein mostra che vi sono segni che possono appartenere a diversi simboli. E’ il caso, ad esempio, della parola “è”, la quale può essere usata sia come copula sia come segno d’eguaglianza sia come segno d’identità sia come segno d’esistenza: “Il segno è ciò che nel simbolo è percepibile mediante i sensi”157; “Per riconoscere il simbolo nel segno se ne deve considerare l’uso munito di senso”158; “Nel linguaggio comune avviene molto di frequente che la stessa parola designi in modo differente – dunque appartenga a simboli differenti -, o che due parole, che designano in modo differente, esteriormente siano applicate nella proposizione allo stesso modo. Così la parola «è» appare quale copula, quale segno d’eguaglianza e quale espressione dell’esistenza”159. Per ovviare a questo tipo di fraintendimenti occorrerebbe elaborare un linguaggio diverso, un linguaggio in cui i segni non siano mai applicati per simboli differenti, ed in cui non accada che uno stesso segno abbia simboli diversi. In tal senso, Wittgenstein ha riconosciuto sia a Frege che a Russell il merito di avere elaborato un 157 Ivi, 3.32. Ivi, 3.326. 159 Ivi, 3.323. 158 63 simbolismo, l’ideografia, in grado di limitare le confusioni prodotte dalle lingue tradizionali, anche se non è tale da prevenire ed escludere tutti i possibili errori: “Per evitare questi errori dobbiamo impiegare un linguaggio segnico, il quale li escluda non impiegando, in simboli differenti, lo stesso segno, e non impiegando, apparentemente nello stesso modo, segni designano in modo differente. Un linguaggio segnico, dunque, il quale si conformi alla grammatica logica – alla sintassi logica -. (Un linguaggio così è l’ideografia di Frege e di Russell, che tuttavia ancora non esclude tutti gli errori)”160 Al fine di evitare ogni possibile fraintendimento, occorrerebbe un linguaggio in cui i segni non siano né superiori né inferiori ai simboli, perché nel primo caso avremmo più parole per indicare lo stesso simbolo, mentre nel secondo avremmo parole con più funzioni simboliche161. Sopra abbiamo parlato di problemi filosofici, ma, in realtà, anche per questi vale lo stesso discorso già fatto per l’etica. Non possono esistere problemi filosofici perché problemi si danno solo laddove è possibile prevedere soluzioni, risposte al problema; ovvero nel campo delle scienze. 160 161 Ivi, 3.325. Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 116. 64 La filosofia, di conseguenza, non può essere considerata una dottrina, un corpus di conoscenza stabilmente fondate, e se vuole avere un ruolo fecondo deve costituirsi come qualcosa di diverso rispetto al passato. Per la precisione, la filosofia deve costituirsi come attività critica del linguaggio, il cui obiettivo deve essere il raggiungimento della chiarificazione e della delimitazione di quanto può essere detto e pensato, ovvero di ciò che coincide con l’ambito delle scienze naturali: “Tutta la filosofia e «critica del linguaggio»”162; “La filosofia è non una dottrina, ma un’attività…La filosofia deve chiarire e delimitare nettamente i pensieri che altrimenti sarebbero torbidi e indistinti”163; “La filosofia delimita il campo disputabile della scienza naturale”164. Si tratta, una volta chiarito il funzionamento e le condizioni alle quali il linguaggio deve sottostare per essere dotato di senso, di tracciare nel linguaggio un limite oltre il quale vi saranno solo proposizioni insensate. Tale delimitazione deve essere effettuata dall’interno del linguaggio sensato e senza mai oltrepassare tale 162 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., prop. 4.0031. 163 Ivi, prop. 4.112. 164 Ivi, prop. 4.113. 65 limite; in caso contrario, si dovrebbe poter pensare e dire l’impensabile e l’indicibile, il che è assurdo. Il risultato dell’attività filosofica, in virtù del nuovo significato che Wittgenstein attribuisce alla filosofia, non sono più proposizioni filosofiche nel senso tradizionale, in quanto non vi sono contenuti filosofici da proporre, ma è “il chiarificarsi di proposizioni”165. Inoltre, il metodo corretto del filosofare sarà quello di mostrare a colui che si lancia in affermazioni metafisiche che non sta dando senso alle proposizioni, in quanto sta usando il linguaggio in modo assolutamente illegittimo: “Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: Nulla dire se non ciò che può dirsi; dunque, proposizioni della scienza naturale – dunque, qualcosa che con la filosofia non ha nulla a che fare -, e poi, ogni volta che un altro voglia dire qualcosa di metafisico, mostrargli che, a certi segni nelle sue proposizioni, egli non ha dato significato alcuno”166. 165 166 Ivi, prop. 4.112. Ivi, prop. 6.53. 66 7 “GETTAR VIA LA SCALA” “Le mie proposizioni illuminano così: Colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è asceso per esse – su esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via scala dopo essere asceso su essa.) Egli deve trascendere queste proposizioni; è allora che egli vede rettamente il mondo”167. Dopo aver spiegato la struttura del mondo, del linguaggio, cosa può essere detto e cosa può essere solo mostrato, Wittgenstein invita a considerare le sue stesse proposizioni insensate e, una volta comprese, a gettarle via, così come si getta via la scala una volta che si è raggiunto un determinato punto e non serve più. Ciò nonostante, Wittgenstein spiega che se ci comportiamo nei confronti di esse come lui stesso suggerisce saremo in grado di interpretare il mondo nel modo corretto. L’insensatezza delle proposizioni espresse nel Tractatus deriva, in primo luogo, dalla tesi secondo la quale le proprietà formali del linguaggio possono essere solo mostrate e non possono essere oggetto di rappresentazione mediante una proposizione-immagine, come, invece, egli ha fatto a proposito del linguaggio. 167 Ivi, prop. 6.54. 67 Ma come può una proposizione insensata guidarci in una interpretazione retta del mondo? Si tratta di un aspetto della riflessione di Wittgenstein molto dibattuto dagli studiosi. Alcuni, vedono l’impossibilità di sfuggire al paradosso, perché se consideriamo le proposizioni del Tractatus insensate, esse devono avere un senso perché è proprio grazie ad esse che possiamo distinguere ciò che ha senso da ciò che non lo ha; mentre se le riconosciamo sensate, dobbiamo intenderle come insensate, visto quello che insegnano168. Altri studiosi, riconoscono alle proposizioni del Tractatus le stesse caratteristiche delle proposizioni della logica, considerandole, da un lato, prive di senso in quanto del mondo non ci dicono niente, ma, dall’altro, non del tutto insensate, perché hanno la funzione di impedire di cadere nei non sensi tipici della metafisica169. Ad ogni modo, le proposizioni del Tractatus, in quanto trascendono i limiti che lo stesso Wittgenstein pone al linguaggio, devono essere considerate proposizioni insensate, così come lo sono le proposizioni della filosofia e della metafisica tradizionale. A differenza di queste, tuttavia, esse dovrebbero impedire la costruzione di nuove teorie metafisiche e, di conseguenza, che il 168 Cfr. S. Soleri, op. cit., p. 412. Cfr. H.O. Mounce, Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, Ed. Marietti, Genova 2000, p. 118. 169 68 linguaggio continui a cadere nell’insensatezza. Ed è proprio in ciò, come ha rilevato Gargani, che per Wittgenstein dovrebbe risiedere la diversità delle proposizioni del Tractatus da quelle della metafisica tradizionale: “Le proposizioni del Tractatus, infatti, trascendono i limiti del linguaggio significante e pertanto cadono nel non senso, ma esse hanno il sorprendente destino – che le dovrebbe distinguere dai cosiddetti non-sensi della filosofia tradizionale – di trascendere i confini del discorso significante, del linguaggio positivo delle scienze naturali, non per costruire nella regione del non-senso una nuova fortezza metafisica, ma per esercitare una vigorosa proibizione ad entrarvi”170. Come possano proposizioni insensate essere capaci di guidarci, di non farci entrare “nella regione del non-senso”, tuttavia, continua a costituire un punto problematico della riflessione del filosofo austriaco. 170 A. G. Gargani, Introduzione a Wittgenstein, Ed. Laterza, Roma - Bari 2005, p. 42. 69 8 DIECI ANNI DI “SILENZIO” “…la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile ed irreversibile. Io ritengo, dunque, d’avere definitivamente risolto nell’essenziale i problemi”171. Con queste parole Wittgenstein ha chiuso la prefazione del Tractatus logico-philosophicus. In virtù di questa convinzione, Wittgenstein ha deciso di rimanere per un periodo, dal 1918 al 1928, lontano da qualsiasi lavoro filosofico ed impegnato in attività di varia natura. Infatti, dal 1920 al 1926, troviamo Wittgenstein impegnato nel lavoro di insegnante di scuola elementare. Ma rassegnate le dimissioni da questo genere d’impiego, Wittgenstein ha svolto, per un breve periodo di tempo, l’attività di aiuto giardiniere nel convento di Hutteldorf. Dalla fine del 1926 alla fine del 1928, infine, troviamo Wittgenstein impegnato nella progettazione, prima, e nella direzione dei lavori, dopo, della casa di sua sorella Margarete. Ciò non vuol dire che Wittgenstein in questo decennio sia rimasto completamente estraneo ad occasioni di riflessioni filosofiche. Frequenti, infatti, sono stati gli incontri con il logico ed economista Frank P. Ramsey che nel 1923 e nel 1924 si era recato in Austria per incontrarsi con Wittgenstein. Nel 1925, invece, fu Wittgenstein stesso 171 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus cit., p. 24. 70 a recarsi in Inghilterra per incontrare Ramsey, a cui Wittgenstein ha attribuito il merito di averlo portato ad individuare quelli che egli stesso ha definito nella Prefazione delle Ricerche Filosofiche i “gravi errori” contenuti nel Tractatus. Nel 1927 vanno registrati gli incontri avuti con alcuni tra i più autorevoli esponenti del Circolo di Vienna (costituitosi nel 1929), come Schlick, Waismann, Carnap e Feigl. A tal proposito, comunque, va detto che Wittgenstein non fece mai parte del suddetto Circolo e che le sedute con questi studiosi, quindi, non coincidevano con le sedute del Circolo stesso. Nel marzo del 1928, inoltre, Wittgenstein ha partecipato ad una conferenza tenutasi a Vienna dal matematico L. E. J. Brouwer, la quale ebbe una notevole importanza perché ha contribuito al ritorno di Wittgenstein alla filosofia. L’assenza di lavori filosofici, ma, nello stesso tempo, la frequenza di occasioni in cui discutere di filosofia, quindi, va forse interpretata come un atto di coerenza con le conclusioni del Tractatus172. 172 Cfr. L. Perissinotto, op. cit., p. 64. 71 Parte seconda • Dopo il Tractatus 72 9 IL RITORNO ALLA FILOSOFIA 9.1 Insufficienza dell’immagine agostiniana del linguaggio e significato come uso Nella prefazione delle Ricerche Filosofiche Wittgenstein ha spiegato di avere commesso nel Tractatus “gravi errori”: “Riprendendo ad occuparmi di nuovo di filosofia, sedici anni fa, dovetti infatti riconoscere i gravi errori che avevo commesso in quel primo libro”173. Ma quali sono gli errori di cui parla Wittgenstein? Di sicuro Wittgenstein considerava erronea la teoria del linguaggio contenuta nel Tractatus, secondo la quale l’unica funzione del linguaggio, si ricorda, era quella di denominare oggetti. Negli scritti successivi, infatti, Wittgenstein spiega che questa non costituiva l’unica forma possibile del linguaggio e neppure quella fondamentale. Per mostrarci la nuova prospettiva, Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche, che costituisce l’opera in cui egli espone la nuova idea del linguaggio in una forma più compiuta, parte da una citazione di Sant’Agostino, la cui tesi linguistica è quella di avere imparato a parlare osservando il comportamento degli adulti, i quali quando nominavano un oggetto e proferivano una determinata voce 173 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Ed. Einaudi, Torino 1999, p. 4. 73 compivano un gesto verso di esso. Tale comportamento l’ha indotto a pensare che la cosa si chiamava con il nome proferito ed indicato. Inoltre, udite le stesse parole ricorrere in diverse proposizioni, egli si è reso conto che a determinati oggetti corrispondevano determinati segni, per cui una volta imparato a parlare, egli ha ritenuto di essere in grado di esprimere la sua volontà.174 Alla base di questa immagine del linguaggio, rileva Wittgenstein, sta l’idea secondo cui le parole che usiamo nel linguaggio sono nomi che si riferiscono ad oggetti e che le proposizioni non sono altro che connessioni di tali nomi. Legata a questa idea, inoltre, vi è l’altra idea, quella per cui una parola è dotata di un preciso significato che le deriva dal riferirsi ad un determinato oggetto; in caso contrario, ossia, se alla parola non è associato alcun oggetto, quella parola è da considerare priva di significato. Entro questo quadro, l’atto fondamentale del linguaggio è dato dall’atto del nominare, mentre i processi di apprendimento e di spiegazione del rispettivamente significato delle all’insegnamento parole ostensivo e sono consegnati alle definizioni ostensive. 174 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 1. 74 Ora, Wittgenstein mostra di avere molte perplessità nei confronti di questa immagine del linguaggio, il che non vuol dire che sia sbagliata, ma solo che non è l’unica forma possibile che il linguaggio può assumere. In particolare, l’immagine del linguaggio fornita da Agostino funziona solo se ristretta entro un determinato impiego del linguaggio, di cui lo stesso Wittgenstein fornisce un esempio: “Immaginiamo un linguaggio per il quale valga la descrizione dataci da Agostino: Questo linguaggio deve servire alla comunicazione tra un muratore, A, e un suo aiutante, B. A esegue una costruzione in muratura; ci sono mattoni, pilastri, lastre e travi. B deve porgere ad a le pietre da costruzione, e precisamente nell’ordine in cui A ne ha bisogno. A questo scopo i due si servono di un linguaggio consistente delle parole: «mattone», «pilastro», «lastra», «trave». A grida queste parole; - B gli porge il pezzo che ha imparato a portargli quanto sente questo grido. – Considera questo come un linguaggio primitivo completo”175. Rinchiuso entro questo preciso impiego, il modello agostiniano del linguaggio funziona, ma, per Wittgenstein, il punto è che questa non è l’unica possibilità comunicativa che il linguaggio offre. Si consideri un ulteriore esempio di vita quotidiana: 175 Ivi, § 2. 75 “Mando uno a fare la spesa. Gli do un bigliettino su cui stanno i segni: «cinque mele rosse». Quello porta il bigliettino al fruttivendolo; questi apre il cassetto su cui c’è il segno «mele»; quindi cerca in una tabella la parola «rosso» e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore; poi recita la successione di numeri cardinali – supponiamo che li sappia a memoria – fino alla parola «cinque» e ad ogni numero tira fuori dal cassetto una mela che ha il colore del campione. – Così pressappoco così, si opera con le parole. – «Ma come fa a sapere dove e come cercare la parola ‘rosso’, e cosa deve fare con la parola ‘cinque’?» - Bene, suppongo che agisca nel modo che ho descritto. A un certo punto le spiegazioni hanno termine. - Ma cos’è il significato della parola «cinque»? – Qui non si faceva parola di un tale significato; ma solo del modo in cui si usa la parola «cinque»176. Se l’immagine del linguaggio proposta da Agostino fosse l’unica possibile, le parole “cinque”, “mele”, “rosse”, dovrebbero ricondurre il fruttivendolo ad una definizione ostensiva in grado di mostrare che cinque è il nome di un numero, che mele è il nome di un frutto e che rosso è il nome di un colore. Ed, invece, Wittgenstein rileva il comportamento diverso del fruttivendolo allorché legge ognuna di quelle parole; infatti, quando 176 Ivi, § 1. 76 legge la parola mele, apre il cassetto su cui c’è scritto quel segno, quando legge la parola rosse, va a cercare in una tabella la parola rosso, trovando in corrispondenza ad essa un campione di colori, mentre quando legge la parola cinque, recita la successione dei numeri cardinali sino a cinque, e ad ognuno di essi tirerà fuori una mela corrispondente al colore rosso. La diversità delle reazioni del fruttivendolo è la prova, per Wittgenstein, che le parole non si usano tutte allo stesso modo, ma che si prestano a diversi impieghi ed hanno diverse funzioni. Le parole, dice Wittgenstein, possono essere paragonate agli strumenti che conserviamo nella cassetta degli attrezzi, ognuno dei quali assolve ad una differente funzioni. Alcuni strumenti, infatti, servono per avvitare, altri per incollare, altri per limare. Allo stesso modo, le parole servono per nominare cose, per descrivere stati d’animo, per indicare luoghi, e così via: “Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili: c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi, viti. – Quante differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qua e là) Naturalmente, quello che ci confonde è l’uniformità nel modo di presentarsi delle parole che ci vengono dette, io che troviamo scritte e stampate. Infatti il loro 77 impiego non ci sta davanti in modo altrettanto evidente. Specialmente quando facciamo filosofia”177. La similitudine mostra anche che la diversità dei possibili impieghi delle parole è celata dietro l’uniformità del modo di presentarsi delle parole, ma tale supposta uniformità svanisce proprio quando ci immettiamo nel terreno effettivo dell’impiego delle parole, in virtù del quale scopriamo che le parole si prestano a diverse funzioni, proprio come diverse sono le funzioni delle leve della locomotiva, sebbene abbiano tutte la stessa impugnatura: “Come quando guardiamo nella cabina di una locomotiva: ci sono impugnature che hanno tutte, più o meno, lo stesso aspetto (Ciò è comprensibile, dato che tutte debbono venire afferrate con la mano). Ma una è l’impugnatura di una manovella che può venir spostata in modo continuo (regola l’apertura di una valvola); un’altra è l’impugnatura di un interruttore che ammette solo due posizioni utili: su e giù; una terza fa parte della leva del freno: più forte si tira più energicamente si frena. Una quarta è l’impugnatura di una pompa: funziona solo fin quando la muoviamo in qua e in là”178. L’idea che le parole non servano solo per denominare oggetti è stata espressa molto bene anche in un’altra opera di Wittgenstein, in 177 178 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 11. Ivi, § 12. 78 cui questi invita a considerare il caso di alcune esclamazioni, le quali non denominano alcunché: «Denominiamo le cose, e così possiamo parlarne. Riferirci ad esse nel discorso». – Come se nell’atto con l’atto del denominare fosse già dato ciò che faremo in seguito. Come se ci fosse una sola cosa che si chiama: «parlare delle cose». Invece, con le nostre proposizioni, facciamo le cose più diverse. Si pensi soltanto alle esclamazioni. Con le loro funzioni diversissime. Acqua! Via! Ahi! Aiuto! Bello! No! Adesso sei ancora disposto a chiamare queste parole «denominazione di oggetti»?179. Nell’immagine agostiniana del linguaggio, un ruolo fondamentale ai fini della comprensione del significato di una parola era assegnato alle definizioni ostensive, ossia a quel dire e mostrare insieme, che permettono a chi ascolta di legare un determinato suono vocale ad una cosa. Un esempio di definizione ostensiva può essere la 179 Ivi, § 27. 79 proposizione “Questa è una macchina”, e nel frattempo che dico ciò indico con un gesto la macchina stessa. In realtà, per Wittgenstein, le definizioni ostensive non possiedono tutta questa capacità di far comprendere il senso di una parola, ma possono essere fraintese se non è già chiara la funzione che essa svolge nel linguaggio. Dice infatti Wittgenstein: “Spieghiamo allora la parola «tovo» indicando una matita e dicendo: «Questo è tovo»… Ora, la definizione ostensiva: «Questo è tovo» può interpretarsi in molti modi. Ecco alcune di tali interpretazioni (…): «Questo è un lapis», «Questo è rotondo», «Questo è legno», «Questo è uno», «Questo è duro», etc. etc.180; “Si potrebbe dunque dire: La definizione ostensiva spiega l’uso – il significato – della parola, quando sia già chiaro quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio. Così, la definizione ostensiva: «Questo si chiama ‘seppia’» aiuterà a comprendere la parola se so già che mi si vuol definire il nome di un colore”181. 180 L. Wittgenstein, Libro blu, in Libro blu e Libro marrone, a cura di Amedeo G. Conte, Ed. Einaudi, Torino 2000, p. 6. 181 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 30. 80 La diversità delle possibili interpretazioni a cui danno luogo le definizioni ostensive, mostra che queste quasi mai possono da sole spiegare il significato di una parola, ma che vi deve essere qualcosa prima che deve essere già chiara perché si possano intendere in modo corretto le espressioni linguistiche, e questo qualcosa è dato dalla funzione che attribuiamo alla parola, dall’uso che ne facciamo: “Per una grande classe di casi – anche se non per tutti i casi – in cui ne serviamo, la parola «significato» si può definire così: Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio”182. Il passaggio dalla teoria raffigurativa del linguaggio, ad un’idea secondo la quale raffigurare fatti è solo uno dei possibili impieghi del linguaggio e che il significato di una parola risiede nel suo uso, per alcuni interpreti di Wittgenstein non costituisce una prova della presenza nel suo pensiero di due fasi, perché già nel Tractatus, per Wittgenstein, “il significato di una parola si manifesta nel suo uso”183. Per altri interpreti, invece, come ad esempio per Voltolini, l’idea di linguaggio che troviamo nelle Ricerche filosofiche non è conciliabile con le posizioni del Tractatus: “Così…l’idea di pubblicare una sorta di integrazione del Tractatus si trasformò in un progetto completamente diverso, ossia in quello 182 183 Ivi, § 42. D. Marconi, Transizione, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, cit., p.101. 81 di licenziare un’opera in cui alla prospettiva logicizzante del Tractatus, tesa a fornire ‘dall’alto’ una teoria generale sulle condizioni di possibilità del linguaggio e delle significazione, si sostituisse un punto di vista antropologico, rivolto ‘dal basso’ sugli stessi temi e frutto di un’analisi dettagliata del funzionamento del linguaggio nelle condizioni di utilizzazione da parte di soggetti inseriti entro comunità linguistiche”184. In effetti, come si è mostrato, Wittgenstein passa da una da una teoria secondo la quale gli enunciati linguistici sono raffigurazioni di fatti possibili e che in ciò risiede il loro senso, ad un’idea secondo la quale questa è solo una delle possibilità di considerare il funzionamento del linguaggio. Ed inoltre, da una visione in cui una proposizione ha senso solo se si riferisce ad oggetti determinati, ad un’idea secondo la quale il significato dei “fatti linguistici” risiede a come di fatto vengono usati nel linguaggio. E’ questa è una tesi che dice qualcosa di nuovo rispetto a quanto contenuto nel Tractatus logico-philosophicus. 184 A. Voltolini, Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, Ed. Laterza, Roma – Bari 1998, p. 4. 82 9.2 Il linguaggio: un insieme di giochi linguistici Detto questo, il linguaggio, dice Wittgenstein, considerato nel suo complesso può essere visto come un insieme di giochi linguistici. Con questa espressione, Wittgenstein vuole mettere in evidenza l’idea secondo cui il linguaggio fa parte di un’attività o forma di vita: “Inoltre chiamerò «giuoco linguistico» anche tutto l’insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto”185; “Qui la parola giuoco linguistico è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività, o di una forma di vita”186. Ora, così come ogni gioco si “gioca” secondo delle regole, allo stesso modo il linguaggio è sottoposto a determinate regole grammaticali che ne disciplinano l’utilizzo. Va precisato, però, che le regole di utilizzo del linguaggio non vanno interpretate in senso restrittivo e rigoroso, ossia come qualcosa di fisso o già dato una volta e per tutte. Per Wittgenstein, infatti, il linguaggio non solo non viene usato secondo regole rigorose, ma queste molto spesso non possono nemmeno essere indicate. Ciò, spiega Wittgenstein, non è dovuto al fatto che le regole di utilizzo del linguaggio non sono state ancora scoperte, ma alla loro inesistenza: 185 186 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 7. Ivi, § 23. 83 “…in generale, noi non usiamo il linguaggio secondo regole rigorose – né, d’altronde, esso ci è stato insegnato secondo regole rigorose…Non solo noi non pensiamo alle regole d’uso (definizioni, etc.) mentre usiamo il linguaggio, ma in molti casi non sappiamo neppure indicarle quando ce lo chiedono…e questo non perché sia a noi ignota la loro definizione reale, ma perché una loro definizione reale non esiste. Supporre che una definizione reale debba esservi, sarebbe come supporre che i bambini, ogni volta che giocano a palla, giochino un gioco secondo regole rigorose ”187. Che le cose stiano in questi termini, Wittgenstein lo dimostra prendendo come esempio il gioco del tennis, il quale pur non prevedendo alcuna regola rigorosa che impone di lanciare la palla ad una determinata altezza, è un gioco a tutti gli effetti: “…ma non esiste neppure nessuna regola che fissi, per esempio, quanto in alto o con quale forza si possa lanciare la palla da tennis, e tuttavia il tennis è un giuoco e ha anche regole”188. 9.3 Molteplicità dei giochi linguistici e somiglianze di famiglia Per Wittgenstein esistono una molteplicità di giochi linguistici che, per di più, non può essere definita una volta e per tutte perché di 187 188 L. Wittgenstein, Libro blu, in Libro blu e libro marrone, cit., p. 37. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 68. 84 continuo nuovi giochi linguistici nascono, mentre altri cadono in disuso: “Ma quanti tipi di proposizioni ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? – Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi differenti d’impiego di tutto ciò che chiamiamo «segni», «parole», «proposizioni». E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta e per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati189”. A questo punto, ci si potrebbe chiedere se il filosofo austriaco concepisse l’esistenza di un’essenza comune a tutti i giochi linguistici, in virtù della quale qualificarli e concepirli come tali. La risposta è negativa, in quanto, per Wittgenstein, tra di essi vi è solo un rapporto di parentela, grazie alla quale possono essere considerati linguaggi o parti di essi. Proprio come accade per altri tipi giochi: “Invece di mostrare quello che è comune a tutto ciò chiamiamo linguaggio, io dico che questi fenomeni non hanno affatto in comune qualcosa, in base al quale impieghiamo per tutti la stessa parola, - ma che sono imparentati l’uno con l’altro in molto modi differenti. E grazie a questa parentela, o a queste parentele, li chiamiamo tutti «linguaggi»190; 189 190 Ivi, § 23. Ivi, § 65. 85 “Considera, ad esempio, i processi che chiamiamo <giuochi>. Intendo i giuochi da scacchiera, giuochi di carte, giuochi di palla, gare sportive e via discorrendo. Che cosa è comune a tutti questi giuochi? – Non dire: «Deve esserci qualcosa di comune a tutti, altrimenti non si chiamerebbero ‘giuochi’» - ma guarda se ci sia qualcosa di comune a tutti. – Infatti, se li osservi, non vedrai certamente qualche cosa che sia comune a tutti, ma vedrai somiglianze, parentele, e anzi ne vedrai tutta una serie…E il risultato di questo esame suona: Vediamo una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono e si incrociano a vicenda. Somiglianze in grande e piccolo”191. Queste somiglianze vengono definite da Wittgenstein somiglianze di famiglia, perché la cosa che accade tra i membri di una stessa famiglia, i quali riportano caratteristiche somatiche e caratteriali simili, accade anche per ciò che riguarda i vari giochi, compresi quelli linguistici: “Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio con l’espressione «somiglianze di famiglia»; infatti le varie somiglianze che sussistono tra i membri di una famiglia si sovrappongono e s’incrociano nello stesso modo: corporatura, tratti del volto, colore degli occhi, modo di camminare, temperamento, ecc. ecc. – E dirò i giuochi formano una famiglia”192. 191 192 Ivi, § 66. Ivi, § 67. 86 Il concetto di gioco, quindi, in Wittgenstein è un concetto aperto, privo di limiti, che non si lascia definire193. Per questa ragione, se si vuole spiegare che cos’è un gioco, si devono solo fornire esempi, proprio la stessa cosa che si deve fare per spiegare cos’è il linguaggio o una proposizione: “Come faremo allora a spiegare a qualcuno che cos’è un giuoco? Io credo che gli descriveremo alcuni giuochi, e poi potremmo aggiungere : «queste, e simili cose, si chiamano giuochi»”194; “Se ci viene chiesto che cos’è una proposizione – sia che dobbiamo rispondere a un altro, sia che dobbiamo rispondere a noi stessi daremo esempi…in questo modo abbiamo un concetto di proposizione”195. 9.4 La filosofia nel “secondo” Wittgenstein Tra le tesi contenute nel Tractatus logico-philosophicus e quelle contenute nelle opere successive, come abbiamo visto, esistono alcune importanti differenze che hanno indotto molti studiosi a parlare dell’esistenza di un “primo” e un “secondo” Wittgenstein. In realtà, se ciò è vero, lo è solo per ciò che riguarda la riflessione sul linguaggio, mentre per quanto concerne la filosofia 193 Cfr. A. Voltolini, op. cit., p. 39. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 69. 195 Ivi, § 132. 194 87 Wittgenstein ha mantenuto, nella sostanza, la stessa concezione sia per quanto riguarda l’interpretazione della filosofia tradizionale e dei problemi che essa ha posto nel corso del tempo sia per quanto riguarda la natura e il compito assegnato alla nuova filosofia. La filosofia, infatti, anche negli scritti successivi al Tractatus è stata considerata da Wittgenstein non una dottrina, non una scienza, ma un’attività da esercitare sul linguaggio con l’obiettivo di chiarificarlo e di evitare tutti i possibili fraintendimenti causati da un uso scorretto di esso. Sulle modalità di raggiungimento di questo obiettivo, tuttavia, si possono registrare delle importanti differenze tra il Wittgenstein del Tractatus e quello delle opere successive. Nel Tractatus, infatti, la chiarezza era una condizione che si poteva raggiungere mediante la delimitazione del dicibile e mediante la sostituzione del linguaggio quotidiano con un linguaggio ideale, perfetto, al fine di prevenire il sorgere di proposizioni prive di senso. Nelle opere successive al Tractatus, invece, Wittgenstein non solo ha abbandonato, ma ha anche criticato ogni tentativo che andasse in questa direzione: “Che strano se la logica si dovesse occupare di un linguaggio «ideale» e non del nostro! Cosa dovrebbe esprimere infatti quel linguaggio ideale? Di certo quello che ora esprimiamo nel nostro 88 linguaggio abituale; ma allora la logica non può che occuparsi di questo”196; “Credo che abbiamo essenzialmente un solo linguaggio, il linguaggio comune. Non abbiamo bisogno di inventarne uno nuovo o di costruire una simbolica: il linguaggio quotidiano è già il linguaggio, a condizione che sia liberato dalle ambiguità che contiene”197. In Grammatica filosofica, inoltre, Wittgenstein spiega che “…il compito della filosofia non è quello di costruire un linguaggio nuovo, ideale, ma quello di chiarire l’uso linguistico del nostro linguaggio – del linguaggio esistente. Il suo scopo è eliminare particolari fraintendimenti; non, ad esempio, quello di creare dal nulla una comprensione autentica.”198. A tal fine, la prima cosa che la filosofia deve fare, per Wittgenstein, è abbandonare la tentazione di formulare teorie o di dare spiegazioni definitive, di volere a tutti i costi assomigliare alla scienza, ma deve configurarsi come un’attività avente una valenza solo ed esclusivamente descrittiva il cui scopo dovrà essere quello di 196 L. Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, a cura di M. Rosso, Torino 1976, p. 5. L. Wittgenstein, Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, a cura di F. Waismann, La Nuova Italia, Firenze 1975, p. 34. 198 L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, tr. it. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze 1990, p.80. 197 89 offrire una rappresentazione perspicua “dei fatti linguistici”199, ossia della grammatica degli usi dei termini: “Ogni spiegazione deve essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto”200; “Una delle fonti principali della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. – La nostra grammatica manca di perspicuità”201; “I filosofi hanno sempre davanti agli occhi il metodo della scienza, ed hanno l’irresistibile tentazione di porre domande, e di rispondere alle domande, nello stesso modo in cui lo fa la scienza. Questa tendenza è la reale fonte della metafisica, e porta il filosofo nell’oscurità completa. Ma il nostro compito non può mai essere quello di ridurre qualcosa a qualcosa, o di spiegare qualcosa. La filosofia è, in realtà, ‘puramente descrittiva’202. La mancanza di perspicuità è da attribuire, come abbiamo visto, al linguaggio stesso, in quanto in esso termini che hanno un diverso significato si presentano allo stesso modo, ed alla grammatica superficiale del linguaggio stesso che tende ad occultare l’impiego corretto dei termini203. A tal proposito, va rilevato che Wittgenstein, come nel Tractatus, anche nelle Ricerche (e in tutte le altre opere) 199 L. Wittgenstein, Filosofia, tr. it. di M. Andronico, Donzelli, Roma 1996, p.77. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 109. 201 Ivi, § 122. 202 L. Wittgenstein, Libro blu, in Libro blu e Libro marrone, cit., p. 28. 203 D. Marconi, Transizione, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, cit., p. 93. 200 90 distingue una grammatica superficiale che occulta l’impiego corretto delle varie espressioni linguistiche e che, tra l’altro, s’imprime in noi con maggiore facilità, ed una grammatica profonda, che è più difficile da rinvenire, ma che svela e conduce sulla giusta strada della comprensione linguistica: “Nell’uso di una parola si potrebbe distinguere una grammatica superficiale da una grammatica profonda. Ciò che s’imprime immediatamente a noi, dell’uso di una parola, è il suo modo d’impiego nella costruzione della proposizione, la parte del suo uso – si potrebbe dire – che possiamo cogliere con l’orecchio. – E ora confronta la grammatica profonda della parola «intendere» con quello, poniamo, che la sua grammatica superficiale ci lascerebbe indovinare. Nessuna meraviglia se troviamo difficile orientarci”204. I problemi filosofici, per Wittgenstein, sono causati proprio dalla grammatica superficiale del linguaggio che è ingannevole rispetto agli usi effettivi delle espressioni linguistiche. In pratica, il filosofo, a causa della “uniformità del modo di presentarsi delle parole”, finisce con usarle in modo sbagliato, in un modo che non è quello “comune” e corretto, ma in quello scorretto della metafisica: 204 L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, cit., § 664. 91 “Nelle teorie e nelle dispute filosofiche troviamo le parole, di cui non conosciamo molto bene i significati nella vita quotidiana, impiegate in un senso ultrafisico”205. “Quando i filosofi impiegano una parola e si interrogano sul suo significato, bisogna sempre domandarsi: ma questa parola è effettivamente usata così nel linguaggio che l’ha prodotta // per cui è prodotta //? Per lo più si troverà che non è così, e che la parola viene impiegata contro la sua normale // contrariamente alla sua normale // grammatica. (“Sapere”, “essere”, “cosa”.)”206. Questo modo di procedere rende la filosofia tradizionale, per Wittgenstein, simile agli scarabocchi che fanno i bambini quando scrivono su pezzi di carta, e i filosofi ai loro stessi autori: “I filosofi sono spesso come bambini piccoli, che prima scarabocchiano con la loro matita dei segni qualsiasi su di un foglio di carta, e poi // dopo // chiedono agli adulti “che cos’è?”207. Se è dall’uso metafisico che nascono i non sensi della filosofia, allora occorre riportare il linguaggio al suo uso corretto, ossia da quello metafisico a quello quotidiano: “Quando i filosofi usano una parola - «sapere», «essere», «oggetto», «io», «proposizione», «nome» - e tentano di cogliere l’essenza della cosa, ci si deve sempre chiedere: Questa parola viene mai effettivamente usata così nel linguaggio, nel quale ha la 205 L. Wittgenstein, Filosofia, cit., p. 71 Ivi, pp. 71, 73. 207 Ivi, p. 73. 206 92 sua patria? – Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano”208. A tal proposito, Wittgenstein paragona il linguaggio ad una mosca caduta all’interno di una bottiglia, ovvero nella trappola metafisica, ed assegna all’attività filosofica il compito di insegnare al linguaggio ad uscire da tale trappola mediante il ritorno al linguaggio comune. “Qual è il tuo scopo in filosofia? – Indicare alla mosca la via di uscita dalla trappola”209. Il compito della chiarificazione linguistica è un compito infinito e non raggiungibile una volta e per tutte sia perché la grammatica superficiale del linguaggio è sempre operante e pronta a fare cadere nell’errore sia perché il nostro linguaggio si presta ai fraintendimenti tipici della metafisica: “Il linguaggio ha pronte per tutti le stesse trappole: la straordinaria rete di strade sbagliate ben tenute // praticabili //. Così vediamo una persona dopo l’altra percorrere le stesse strade e già sappiamo dove uno girerà, dove proseguirà dritto senza notare la deviazione, ecc., ecc.. Dunque, io dovrei mettere dei cartelli là dove di diramano le false strade, che aiutino a passare sui punti pericolosi”210. 208 Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 116. Ivi, § 309. 210 L. Wittgenstein, Filosofia, cit., pp.55, 57. 209 93 “Finché ci sarà un verbo ‘essere’ che sembra funzionare come ‘mangiare’ e ‘bere’, finché ci saranno aggettivi come ‘identico’, ‘vero’, ‘falso’, ‘possibile’, finché si parlerà dello scorrere del tempo e dell’estensione dello spazio, e così via, fino ad allora gli incapperanno sempre nelle stesse misteriose difficoltà, e si fisseranno su ciò che nessuna spiegazione sembra poter rimuovere”211. Il fine dell’attività filosofica, abbiamo detto sopra, è quello di giungere ad una rappresentazione chiara dei vari usi dei termini del linguaggio, perché in tal modo si potrà rilevare il funzionamento del linguaggio. Ciò è possibile “presentando esempi di uso del linguaggio, in maniera ordinata, in modo tale che chiunque veda da sé come funzionano certe espressioni nel linguaggio, e come il loro uso filosofico costituisca una distorsione dell’uso ordinario e delle”212. Se verrà imboccata questa strada, oltre a conoscere il reale funzionamento del linguaggio, si otterrà l’ulteriore vantaggio di potere smettere di fare filosofia in qualsiasi momento. Infatti, una ricerca filosofica orientata alla ricerca di essenze non potrà cessare almeno fin quando non avrà ritenuto di averla trovata, mentre se la filosofia viene intesa come suggerisce Wittgenstein, si può smettere di 211 212 Ivi, p. 57. D. Marconi, Transizione, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, cit., p. 92. 94 praticarla in qualsiasi momento, perché a tale tipo di lavoro non c’è fine: “La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio…Invece, adesso, si indica un metodo mediante esempi, e la serie di questi esempi la si può interrompere // può essere interrotta //”213; “Ma allora con il nostro lavoro non arriviamo mai alla fine! Naturalmente // certo che // no, perché non ha fine”214. Il lavoro finalizzato alla rappresentazione perspicua degli usi linguistici comporterà, per Wittgenstein, anche la dissoluzione dei problemi filosofici tradizionali, in quanto diventerà manifesto, come già visto, che essi nascono solo da un uso distorto del linguaggio: “I problemi vengono dissolti nel vero senso della parola – come una zolletta di zucchero nell’acqua”215. Da quanto detto sino a qui, risulta chiaro che la filosofia, per Wittgenstein, non può in alcun modo né fondare né intaccare il linguaggio, ma può solo descriverne i diversi usi: “La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo. Lascia tutto com’è”216. 213 L. Wittgenstein, Filosofia, cit., p. 75. Ivi, p. 77. 215 Ivi, p. 49. 216 L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, cit., § 124. 214 95 Per queste stesse ragioni, in filosofia non vi possono essere scoperte. Anzi, l’unica cosa che la filosofia può scoprire sono i nonsensi di cui la filosofia è tutta piena, i quali dimostrano quanto inutile è tentare di superare i limiti del linguaggio: “I risultati della filosofia sono la scoperta di un qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio. Essi, i bernoccoli, ci fanno comprendere il valore di quella scoperta”217. Interpretando la filosofia in questo modo, è stato rilevato da alcuni interpreti, Wittgenstein sarebbe uscito da una contraddizione presente nella sua riflessione. Nel Tractatus, ricordiamo, Wittgenstein aveva affermato che la filosofia non può “partorire” teorie o dottrine e che la verità era una possibilità a cui potevano ambire solo le proposizioni della scienza, salvo cadere nella contraddizione di fornire una vera e propria teoria del linguaggio e del mondo. Con l’assegnazione di un ruolo solo ed esclusivamente descrittivo, invece, Wittgenstein questa volta si sarebbe mantenuto fedele ad un’idea che ha conservato lungo tutto il suo filosofare, ovvero che la filosofia dovesse essere solo un’attività218. 217 218 Ivi, § 119. Cfr. D. Marconi, Transizione, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, cit., p. 92. 96 9.5 Filosofia, malattia, psicanalisi Le considerazioni svolte sin qui, hanno spinto Wittgenstein ad attribuire alla filosofia un ruolo terapeutico, quello di curare il linguaggio. Wittgenstein stesso ha suggerito di considerare i problemi filosofici posti dalla filosofia tradizionale come malattie, mentre ha assegnato alla nuova filosofia il compito di condurre il “paziente” alla guarigione: “Il filosofo tratta una questione; come una malattia”219; “Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie”220. A tal proposito, Wittgenstein stesso paragona la filosofia alla psicoanalisi. Entrambi, infatti, aspirano a “trovare la parola liberatrice, cioè la parola che ci consente infine di concepire ciò che fino ad ora ha gravato, inafferrabile sulla nostra coscienza”221. In entrambe, inoltre, l’accettazione di un errore da parte del soggetto avviene solo se egli giunge a “viverlo” come tale: “Il fatto è che possiamo convincere l’altro di un errore solo se egli riconosce che questa è davvero l’espressione del suo modo di sentire. //….solo se egli riconosce questa espressione (per davvero) come la giusta espressione del suo modo di sentire.// In effetti, è 219 L. Wittgenstein, Ricerche Filosofiche, cit., § 255. Ivi, § 133. 221 L. Wittgenstein, Filosofia, cit., pp. 11, 13. 220 97 l’espressione giusta solo se egli la riconosce come tale (Psicoanalisi.)”222. E’ stato mostrato, inoltre, che in filosofia, così come nella pratica della psicoanalisi, si tratta, per Wittgenstein, di “trasformare il non senso latente in non senso palese”223. Come per la psicoanalisi, infine, anche per la filosofia si tratta di distruggere idoli e non crearne altri: “(Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli. E questo significa non crearne nuovi – ad esempio, “assenza di un idolo”.)”224 Queste sono solo alcune delle analogie che Wittgenstein pone tra la filosofia e la psicoanalisi, le quali mostrano quanto Wittgenstein fosse interessato al lavoro che stava portando avanti Freud, pur essendone, comunque, molto critico225. 222 Ivi, p. 13,15. A. Kenny, Wittgenstein sulla natura della Filosofia, in AA.VV., Capire Wittgenstein, a cura di M. Andronico, D. Marconi, C. Penco, Ed. Marietti 1820, Genova – Milano 2010, p. 221. 224 L. Wittgenstein, Filosofia, cit., p. 25. 225 Ivi, p. 210. 223 98 10 CONCLUSIONI Il lavoro sin qui condotto, ha mostrato che per quanto riguarda la filosofia, Wittgenstein, nella sostanza, ha mantenuto la stessa concezione. Attività, non dottrina, non teoria, la filosofia può servire solo a chiarificare il linguaggio, al fine di prevenire confusioni e fraintendimenti linguistici. Si è visto che le vie per giungere alla chiarezza sono state diverse, ma che tale diversità non è tale da intaccare l’idea che della filosofia Wittgenstein ha conservato lungo tutta la sua riflessione. Per questa ragione, risulterebbe troppo semplicistica una lettura che distingua in modo netto due fasi nella riflessione di Wittgenstein, perché per quanto riguarda la filosofia, ma non solo226, il suo ragionamento parrebbe mantenere una sostanziale unità. Se si considerano le forti accuse rivolte alla filosofia tradizionale sembrerebbe ovvio, scontato, dire che Wittgenstein ha “rotto” con la tradizione filosofica occidentale, in quanto portatore di una filosofia elaborata secondo principi alternativi rispetto a questa. Di stare proponendo una nuova idea di filosofia, una filosofia diversa da quella che produceva “crampi” all’intelletto, Wittgenstein era fortemente convinto. 226 Cfr. D. Marconi, Transizione, in AA.VV., Guida a Wittgenstein, cit., pp. 99-101. 99 Ma è sufficiente l’accusa di insensatezza rivolta alla metafisica, avere paragonato questa a degli scarabocchi, avere affermato che non ci sono essenze da ricercare, essersi scagliato contro le prove dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima ed avere confinato, nell’indicibile tutta la materia dell’etica; basta, cioè, rigettare, perché ritenute prive di senso, tutte le questioni poste dalla filosofia classica per dire che Wittgenstein è uscito fuori dalla filosofia? Secondo alcuni interpreti no. Ad esempio, A. Kenny ha spiegato che per alcuni aspetti, la riflessione di Wittgenstein presenta molti tratti in comune con la tanto “disprezzata” filosofia tradizionale e che, addirittura, per ciò che concerne la natura della filosofia, Wittgenstein avrebbe la stessa concezione di Cartesio. “…non penso che significhi che in alcun modo che il suo pensiero rompe con la grande tradizione filosofica occidentale quanto egli sembra talvolta aver creduto”227; “…riguardo alla natura della filosofia, Cartesio e Wittgenstein sono fondamentalmente concordi”228. Nemmeno l’essersi opposto alla metafisica, alle prove che riguardano l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima ed ad altri temi classici della filosofia tradizionale, dunque, per Kenny basterebbero a 227 A. Kenny, Wittgenstein sulla natura della filosofia, in AA.VV., Capire Wittgenstein, cit., p. 227. 228 Ivi, p. 228. 100 convincere che Wittgenstein sia portatore di una filosofia che non ha nulla a che vedere con quella passata, perché altri filosofi illustri e “tradizionali”, già prima di lui, si sono distinti per azioni di questo tipo senza per questo essere visti come esempi di rottura rispetto al passato229. Va però considerata l’accusa di autocontraddizione pragmatica o performativa rivolta da Apel a Wittgenstein per la sua interpretazione della metafisica, nonché per tutte le asserzioni che si riferiscono al funzionamento del linguaggio, le quali non rispettano le regole da lui stesso stabilite. In realtà, proprio l’accusa di insensatezza rivolta alla metafisica e, più in generale, l’avere negato una portata conoscitiva ad una filosofia ridotta a semplice attività di chiarificazione, lascia ampie perplessità. Circa lo statuto della metafisica, per esempio, una posizione più plausibile è forse quella proposta da Popper, per il quale la metafisica, non essendo “falsificabile”, non può sicuramente ambire ad essere considerata una scienza, ma ciò non è una ragione sufficiente per definirla insensata. La metafisica, per Popper, è sensata come dimostra sia il fatto che comprendiamo quello che dice sia che è 229 Cfr. A. Kenny, Wittgenstein sulla natura della filosofia, in AA.VV., Capire Wittgenstein, cit., p. 227. 101 discutibile sul piano logico ed argomentativo, anche se, in molti casi, mancano gli strumenti atti a controllarne le tesi. Inoltre, Popper ha anche fatto notare l’importante ruolo che la metafisica esercita sulla scienza. Sul piano concettuale, infatti, senza visioni metafisiche, come ad esempio l’idea che l’universo sia un tutto ordinato, la ricerca scientifica perderebbe alcune chiavi euristiche. Dal punto di vista storico, inoltre, è possibile rilevare che teorie, come ad esempio quella dell’atomismo, che inizialmente riguardavano solo la metafisica, ad un certo momento sono diventate vere e proprie teorie scientifiche. Sarebbe, perciò, troppo riduttivo considerare le teorie metafisiche solo come frutto di stati soggettivi o, peggio ancora, emotivi. Le suddette considerazioni effettivamente costituiscono una limitazione della figura di Wittgenstein come pensatore, il che, comunque, non toglie che Wittgenstein occupi sia per la sua genialità sia per la forte influenza che il suo pensiero ha esercitato sia per il fascino che le sue opere suscitano, un posto di primaria importanza nella storia della filosofia. 102 Riferimenti Bibliografici Opere di Wittgenstein Estratti da lettere di L. Wittgenstein a B. Russel, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it. di A. G. Conte, Torino, 1998, pp. 283-299. Filosofia, tr. it. di M. Andronico, Donzelli, Roma, 1996. Grammatica filosofica, tr. it. di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze, 1990. Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano, 1967. Libro blu, in Libro blu e Libro Marrone, ed. it. a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino, 2000. Ludwig Wittgenstein e il Circolo di Vienna, a cura di F. Waismann, La Nuova Italia, Firenze 1975. Note sulla logica, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., pp. 243-263. Osservazioni filosofiche, a cura di Marino Rosso, Torino, 1976. Quaderni 1914-1916, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., pp. 127-239. Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1999. Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, cit., pp. 25-109. 103 Opere di altri autori AA.VV. Capire Wittgenstein (a cura di M. Andronico, D. Marconi, Carlo Penco), Marietti 1820, Genova - Milano, 2010. AA.VV. Guida a Wittgenstein. Il «Tractatus», dal «Tractatus» alle «Ricerche», Matematica, Regole e linguaggio privato, Psicologia, Certezza, Forme di vita (a cura di Diego Marconi), Laterza, Roma – Bari, 1997. Carapezza M. Segno e simbolo in Wittgenstein, Bonanno, Acireale – Roma, 2006. Gargani A. G. Introduzione a Wittgenstein, Laterza, Roma - Bari, 2005. Kenny A. Wittgenstein sulla natura della filosofia, in Capire Wittgenstein cit., pp. 209-228. Marconi D. Il “Tractatus”, in AA.VV., Guida a Wittgenstein cit., pp. 15-58. Transizione, in AA.VV., Guida a Wittgenstein cit., pp. 59-101. Mounce H. O. Introduzione al “Tractatus” di Wittgenstein, tr. it. Di M. Andronico, Marietti 1820, Genova, 2000. Soleri S. Note al Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, Bibliopolis, Napoli, 2003. 104 Voltolini A. Guida alla lettura delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, Laterza, Roma – Bari, 1998. 105