Immanuel Kant una mappa delle possibilità 0. Introdurre: 0.1. come un proclama e un manifesto: il coraggio del sapere contro il pensiero servile; “sapere aude” 0.1.1. «il coraggio di far uso del proprio intelletto». L’illuminismo è l’età in cui l’uomo accetta il rischio del pensiero: Kant 1784 Che cos’è l’Illuminismo «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo.» 0.1.2. non età illuminata ma età illuministica (il carattere infinito del sapere) «Se ora si domanda: — Viviamo noi attualmente in una età illuminata? — dobbiamo rispondere: — No, bensì in un’età di illuminismo —. Come stanno ora le cose, la condizione in base alla quale gli uomini presi in massa siano già in grado, o anche solo possano esser posti in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è ancora molto lontana. Ma abbiamo evidenti segni che essi abbiano aperto il campo per lavorare a emanciparsi da tale stato e che gli ostacoli alla diffusione del generale illuminismo o all’uscita da una minorità a loro stessi imputabile diminuiscano a poco a poco.» 0.1.3. coraggio del sapere, logica servile, tutori del servaggio, guide al risveglio. 0.1.3.1. È il sapere ad essere oggetto del coraggio, non dunque un pensiero che procede in qualsiasi direzione voglia, senza guida e senza criteri nella convinzione di vivere ed esprimere così la propria libertà; ci si deve accorgere, se pur con difficoltà, che in tal modo si esprime aderendo a questa o quella opinione senza disporre di uno strumento proprio di controllo e di scelta. L’intera filosofia di Kant si presenta come una filosofia critica, preliminare; non è “illuminata” ma “illuministica”; non presenta sistemi di teorie specifiche già compattate in universi chiusi, ma è dedicata alla ricerca delle condizioni del buon uso delle facoltà del soggetto. Come dichiara Kant vuole rispondere a tre domande fondamentali: «Ogni interesse della mia ragione (così lo speculativo, come il pratico) si concentra sulle tre domande: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare?». Si tratta di tre direzioni di indagine critica o delle tre “critiche” di tre “facoltà”: della ragione pura (o della conoscenza, Critica della ragion pura), della volontà (Critica della ragion pratica), del sentimento (Critica del giudizio). Un esame preliminare alla costruzione del sapere scientifico. 0.1.3.2. la logica dell’atteggiamento servile base per il successo di processi autoritari di sottomissione: «La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A persuadere la grande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) che il passaggio allo stato di maggiorità è difficile e anche pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni. Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un 1 passo fuori dalla carrozzella da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano ad essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli.» 0.1.3.3. destinatari e guide dell’appello all’uso della ragione. Non è la massa indistinta di persone ad essere il destinatario primo dell’appello e del manifesto per una stagione di illuminismo, la massa infatti cade facile vittima di tutori che mirano a rendere gli uomini sudditi («quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni»). L’appello, come l’elogio, è rivolto in prima destinazione ai regnanti che, ponendo limiti e garantendo la stabilità politica, l’ordine sociale, il rispetto della legge, creano le condizioni storiche in grado di promuovere il libero pensiero. «Un più alto grado di libertà civile sembra favorevole alla libertà dello spirito del popolo, ma pone però ad esso limiti invalicabili. Un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito un campo in cui esso può svilupparsi in tutte le sue forze.» E, alle spalle dei governanti, come guide di illuminismo, si collocano quei pochi che sono riusciti a sciogliersi dai «ceppi di una eterna minorità» (e sembra con evidenza tornare la scena della caverna platonica): «solo a pochi è venuto fatto con l’educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorità e camminare poi con passo più sicuro.» Dunque «alcuni liberi pensatori». Si tratta dei philosophes. Sono loro a dare il volto sociale all’Illuminismo, con le loro libere e nuove riunioni, prima che con le loro opere: la conversazione colta dei salotti, caffè, circoli. Il philosophe, che vive di studio e di letture, esercita la sua professione non solo scrivendo articoli e cooperando come autore alla pubblicazione e circolazione di testi, ma anche con una partecipazione attiva al dibattito culturale nei numerosi circoli che sorgono nel XVIII secolo: i salotti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, spesso animati da importanti donne di cultura; i «pranzi dei lumi», gestiti da aristocratici e letterati a imitazione della corte del re, ma spesso critici nei confronti della monarchia e degli apparati feudali che tuttora la circondano; i ritrovi all’aperto dove amici si incontrano per discutere della cosa pubblica e conversare di filosofia; i «caffè», luoghi di riunione e discussione che si caratterizzano per l’attacco spregiudicato ai valori della tradizione, per la vivace e ironica polemica nei confronti delle manierate e intorpidite riunioni dei salotti; le società letterarie che si oppongono alle accademie e alle società culturali di stato; le redazioni tipografiche di giornali e periodici dove editori e autori si confrontano sulle scelte culturali, soprattutto a fronte degli ostacoli frapposti dalla censura politica; i foyers dei teatri dove si rappresentano testi di illuministi e si aprono le polemiche sull’estetica musicale e sulla funzione dell’arte. I salotti di Madame d’Epinay, di Madame Geoffrin, di Mademoiselle de Lespinasse, di Madame Necker si contendono la presenza di D’Alembert, Diderot, Helvétius, Galiani; dai dieci ai venti «uomini di lettere» si riuniscono, due volte la settimana, nella casa del barone D’Holbach e poi in quella di Helvétius, impegnati in dibattiti ritenuti meno salottieri e più produttivi di quelli che si svolgevano presso le dame; nei giardini antistanti il palazzo delle Tuileries, gli stessi filosofi si ritrovano in incontri spregiudicati, vivaci e critici («facevamo circolo - scrive uno di loro, Norellet, criticando l’atmosfera dei salotti - seduti ai piedi di un albero nel grande viale, abbandonandoci a una conversazione animata e libera come l’aria che respiravamo»); nei caffè parigini del Procope, della Régence, al Caveau del Palais Royal, dove l’accesso è libero, fuori dalla ritualità mondana, dalla manierata autocensura e dalla selezione propria dei salotti, i philosophes conversano e dibattono in piena autonomia e franchezza. In tutte queste aggregazioni domina l’arte della conversazione, presentata dagli illuministi non tanto come arte del competere e dell’emergere in società, ma come forma di argomentazione e discussione, strumento indispensabile per attuare il confronto tra diverse posizioni filosofiche, per accelerare la circolazione e la lettura delle opere, per avviare quei processi innovativi che essi teorizzano. La massa compare come il dichiarato destinatario di questo fervente dibattere e conversare sui temi centrali del vivere comune, ma è anche avvertita come quel contesto in cui la forza del numero, abilmente dominato e tenuto in servitù dal potere politico non illuminato e non illuministico, può soffocare qualsiasi tentativo di rischiaramento della mente umana e qualsiasi promozione di autonomia e libertà critica. 0.1.3.4. Riprendendo (forse) Kant, Simone Weil parlerebbe della «sostituzione della luce interiore che ci dovrebbe guidare nella ricerca universalistica della verità e della giustizia con il dogma 2 custodito dall’istituzione a cui si chiede di "affidarsi" in toto, nell’impossibilità di controllarne personalmente ogni argomento. Come tale, favorisce il vizio e penalizza la virtù. Soprattutto quel vizio dell’ozio che nell’etica della Weil appare il vero peccato capitale: la tentazione, quasi irresistibile, della pigrizia del pensiero («Non c’è nulla di più comodo che non pensare»). Il piacere dell’affidamento a verità ufficiali, brandendo le quali ci si può confrontare con gli altri, distinguendo amici e nemici, ortodossi ed eretici, i "nostri" e i "loro", ognuno murato nelle proprie convinzioni stabilite, ognuno sollevato dalla fatica della ricerca e della contaminazione reciproca. Ognuno legittimato a sorvegliare e punire il dissidente, il solitario, il deviante.» (Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, Premessa di Marco Revelli, 13) «Il movente del pensiero 34 non è più il desiderio incondizionato, ma non definito della verità, ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito.» (Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, 34-35). 0.1.4. due nemici del coraggio di pensare: scetticismo, dogmatismo. Il pensiero servile ha alleati e nutrici all’interno dello stesso dibattere, anche quello scientifico e filosofico. Il moltiplicarsi di teorie e di posizioni tra loro spesso contrastanti e in lotta genera le due contrastanti, ma gemellate, situazioni di dogmatismo dispotico, e scetticismo anarchico. Errori, confusioni e lotte senza fine sorgono quando la mente umana fa un uso indebito delle proprie facoltà, non indagandone a priori le possibilità e i limiti, cedendo a usi speculativi che non potranno trovare alcuna giustificazione né nelle forme della ragione, né nei dati dell’esperienza. L’uso indebito della ragione, gli insuccessi ai quali sono esposte, di conseguenza, la filosofia e la scienza, generano sfiducia, disaffezione e scetticismo nei confronti del pensiero, alimentano e giustificano la tendenza anti-illuministica dell’uomo che preferisce non pensare. 0.1.4.1. Dogmatici, scettici e la proposta di indagine critica. Nella Critica della ragion pura Kant delinea tre tappe storico-ideali nell’uso della ragione. Un primo passo «dogmatico» in cui la ragione, senza una critica preliminare delle proprie possibilità, si dedica allo studio degli oggetti convinta della sicura bontà dei suoi esiti; le divergenze tra le ipotesi metafisiche del mondo che ne derivano smentiscono tale pretesa. Il secondo passo è «scettico»: se lo scetticismo degli empiristi sveglia la ragione alla prudenza, inducendola a escludere qualsiasi principio che non derivi dall’esperienza, annulla pero la possibilità di costruire il sistema della natura che la ragione invece intende attuare. «Ma è ancora necessario un terzo passo — prosegue Kant — sottoporre ad esame non i fatti della ragione, ma la ragione stessa in tutta la sua potenza e capacità di conoscenze pure a priori: che non è censura, ma critica della ragione.» In quanto svolge un’indagine su di sé, indipendentemente da ogni esperienza, la ragione non può più proporsi di svelare il piano del mondo come accadeva nella convinzione razionalistica; questa consapevolezza non costituisce però uno smacco per la ragione, ma è la strada per sottrarla al lungo destino storico che l’ha resa fonte di illusioni e di lotte senza fine. 0.1.4.2. Dogmatismo e scetticismo sono tra loro agli estremi, ma li unisce la paura del pensare, la mancanza di coraggio e di libertà. Ostacoli sconfitti alla radice dal paziente studio delle possibilità e dei limiti della ragione nel campo della conoscenza, della volontà e del sentimento. In tale cammino si incontrano altri indicatori come concetti di metodo solitamente considerati anch’essi estremi, e quindi tra loro inconciliabili, ma in grado di segnare, con antinomie apparenti, il campo dell’indagine: possibilità e vincoli, limite e infinito, assoluto e contingenza. 0.1.4.2.1. Possibilità e vincoli (limiti): lo studio delle possibilità è l’esame, la scoperta e la presentazione delle forme della mente, forme a priori o trascendentali che diventano le sue condizioni di esperienza. Il quadro della forme produce la consapevolezza del modo specifico con cui l’uomo pensa, vuole e desidera e quindi diventa anche scoperta dei limiti della mente umana. Il limite e la possibilità si rimandano l’un l’altro: i limiti segnano il campo delle possibilità, del buon uso della mente, e lo definiscono con completezza, chiarezza, certezza. Il quadro sembra chiudersi nelle forme della chiarezza definitiva ma esso rende così possibile il procedere della ragione 3 secondo fondatezza empirica e correttezza formale, strumenti di realizzazione del libero pensiero, un pensiero che risulti un pensare e non adattamento servile a tutori. 0.1.4.2.2. Vincoli (limiti) e infinito. Il tema delle forme e dei limiti, della chiusura e della possibilità, portato a definitiva chiarezza, completezza e certezza, pone di fronte all’idea di ciò che sta oltre il limite (razionale e naturale) e che si oppone alla mente per la sua inconoscibilità, superandola senza limiti, senza fine o confini, respingendola e ad un tempo attraendola: si tratta dell’infinito e del sentimento del sublime che accompagna la sua scoperta in campo estetico, razionale (matematico) e naturale. Si prenda il caso del “Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime”: « Ma saltano agli occhi anche delle differenze considerevoli. Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanti implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità. […] Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e, poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo.» (Critica del giudizio, Laterza 91,92) E, nel breve saggio del 1794 La fine di tutte le cose, Kant esplicita la natura dell’infinito attraverso il sentimento che lo accompagna accostandolo al sublime e alla facoltà che ci permette di avvertirne in qualche modo la presenza e la natura: «E' un’idea terrorizzante e sublime, in parte per la sua oscurità, nella quale l'immaginazione è solita farsi più potente che nella chiara luce. Essa, infine, deve essere intrecciata in modo meraviglioso anche con l'universale ragione umana, perché si trova, sotto una veste od un’altra, in tutti i tempi, fra tutti i popoli che usano la ragione.» (Immanuel Kant 1794 La fine di tutte le cose, Traduzione dal tedesco di Giancarlo Conti e di Silvia Sandrini) 0.1.4.2.3. Assoluto e contingenza. La presentazione dell’apriori umano porta ad una filosofia trascendentale che rivendica per sé la completezza nel campo di ciò che le forme rendono possibile. L’esperienza del limite e il conseguente rimando a ciò che sta oltre il limite, pensato ma non percepito, mette di fronte, con attrazione e timore, alla contingenza del conoscere senza metterne in dubbio il carattere dell’assoluto quanto alla certezza, completezza e chiarezza del definire secondo conoscenza. La certezza che la conoscenza raggiunge quando si muove nel rispetto dell’esperienza e delle forme con cui può costituirla in oggetti determinati, sconfigge ogni possibile disprezzo della mente che può provenire da posizioni radicali dei dogmatici o degli scettici; essa tuttavia non può annullare, anzi fa ancor più emergere, il senso della contingenza del conoscere, agire, desiderare formalmente definiti. Anche e proprio nel definire, la mente rimanda ad un infinito e al sentimento del sublime che accompagna emotivamente quella esperienza: «un piacere negativo». 1. l’intento della filosofia trascendentale introdotto da un apologo metafora del fisico e astronomo inglese Arthus Stanley Eddington (1882-1944) proposto nell’opera La filosofia della scienza fisica (The Philosophy of Physical Science) e definito (prima 1781) da Kant. «Supponiamo che un ittiologo stia esplorando la vita negli oceani. Butta la rete nell'acqua e tira su una varietà di pesci. Nel guardare il pescato, procede come fa solitamente uno scienziato, sistematizzando ciò che esso mostra. Arriva a due generalizzazioni: nessuna creatura del mare è lunga meno di cinque centimetri, e tutte le creature del mare hanno le branchie. Entrambe le cose sono vere per ciò che ha pescato, ed egli assume, provvisoriamente, che esse rimarrebbero vere se dovesse ripetere la pesca un numero arbitrario di volte. Nell'applicare questa analogia, la pescata sta per l'insieme delle conoscenze delle scienze fisiche, e la rete sta per l'apparato sensoriale e sperimentale che usiamo per ottenerle. Gettare la rete equivale a fare un'osservazione; le conoscenze che non sono (o non possono) essere ottenute tramite un'osservazione non sono ammesse nelle scienze fisiche. Un osservatore esterno potrebbe obiettare che la prima generalizzazione è sbagliata. "C'è un mucchio di creature del mare più corte di cinque centimetri, solo che la tua rete non è adatta ad afferrarle."» 4 1.1. Ci sono dunque due modi per stabilire quali sono e quali possono essere i contenuti della conoscenza: 1. esaminarli uno ad uno e procedere quindi con una scrupolosa constatazione empirica e catalogazione secondo generi (esaminare e catalogare i pesci presi dalla rete, a posteriori, sulla base dell’esperienza); 2. esaminare la mente umana con una indagine a priori, condotta prima di fare esperienza, constatarne le potenzialità e indicare le possibilità e i limiti della conoscenza umana (osservare e misurare i buchi della rete). La prima strada in quanto basata sull’esperienza potrà parlare solo di ciò che si conosce e non potrà mai dire nulla di conclusivo, perché l’intera esperienza possibile, per definizione, non può essere data (la stessa fine dell’esperienza cade fuori dalla esperienza). La seconda strada richiede una indagine preliminare della mente con l’utilizzo della mente stessa; la mente qui è l’imputato e il giudice… si deve supporre che sia capace di autocontrollo, di esame riflessivo; di conoscere e contemporaneamente di essere presente al proprio processo conoscitivo (conosco e so di conoscere, come, analogicamente, vedo e so di vedere). Si tratta della capacità critica della ragione o della Ragion Critica. È il progetto delle cosiddette tre critiche, a partire dalla Critica della Ragion Pura (ed. Laterza, Bari 1971). 1.2. Kant vuole avviare l’esame preliminare della mente umana e considera tale progetto come il primo, preliminare e doveroso, impegno della filosofia: «un invito alla ragione di assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé, e di erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne e immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura stessa» (Kant CRP 7). Poiché «…tutti i principi dell’intelletto puro non sono altro che principi a priori della possibilità dell’esperienza, e a questa soltanto si riferiscono anche tutte le proposizioni sintetiche a priori; anzi la loro stessa possibilità si fonda totalmente su questa relazione» (Kant CRP 242). Kant afferma, guardando i risultati della propria indagine trascendentale, di poter presentare con compiutezza, certezza e chiarezza, l’intera mappa dell’a priori delle facoltà dell’uomo, il campo delle possibilità (e dei limiti) conoscitive. 1.3. ancora una “rivoluzione copernicana” della filosofia (come della fisica con Galilei) «Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegate i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. […] … perché l’esperienza stessa è un modo di conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presupporre in me stesso la regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali devono accordarsi.» (Kant CRP 20,21) 1.4. il tema del limite, la necessità del limite, il pregio del limite o la storia della colomba lieve. «La matematica ci dà uno splendido esempio di quanto possiamo spingerci innanzi nella conoscenza a priori, indipendentemente dall'esperienza. È vero che essa ha che fare con oggetti e conoscenze solo in quanto si possono presentare nell'intuizione: ma questa circostanza vien facilmente trascurata, perché l'intuizione stessa può essere data a priori, e perciò difficilmente si può distinguere da un concetto puro. Eccitato da una siffatta prova del potere della ragione, l'impulso a spaziare più largamente non vede più confini. La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l'aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppo angusti limiti all'intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell'intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l'intelletto. Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un buon fondamento. Se non che, poi si cercano abbellimenti esterni 5 di ogni specie per confortarci sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica.» (Kant CRP 2000, 38) L’esame che la ragione svolge su se stessa è preliminare a qualsiasi indagine sulla realtà e condizione per uno sviluppo regolare e sistematico della ricerca scientifica. La completezza della ragione in tale direzione di analisi è insieme individuazione di ciò che è conoscibile e l’indicazione di ciò che risulta in conoscibile per definizione. L’individuazione del limite, dell’ambito di corretto esercizio della ragione, non è un’attestazione di debolezza ma la premessa per l’uso della ragione; eloquente in tal senso la metafora della “colomba leggera”. Kant richiama come massima il detto di Persio: Tecum abita et noris quam sit tibi curta suppellex (Rientra in te [conosciti, frequentati, esplorati, rifletti] e vedrai quanto piccolo corredo di strumenti tu possieda [frequentati e vedrai quant’è povero il tuo arredo mentale]) 1.5. si tratta dell’etica dell’illuminismo: 1.5.1. “sapere aude”, la valenza etica del sapere: L’illuminismo è l’età in cui l’uomo accetta il rischio del pensiero; «il coraggio di far uso del proprio intelletto». «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo.» (Kant 1784 Che cos’è l’Illuminismo) 1.5.2. tuttavia, non età illuminata ma età illuministica (il carattere infinito del sapere) «Se ora si domanda: — Viviamo noi attualmente in una età illuminata? — dobbiamo rispondere: — No, bensì in un’età di illuminismo—. Come stanno ora le cose, la condizione in base alla quale gli uomini presi in massa siano già in grado, o anche solo possano esser posti in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è ancora molto lontana. Ma abbiamo evidenti segni che essi abbiano aperto il campo per lavorare a emanciparsi da tale stato e che gli ostacoli alla diffusione del generale illuminismo o all’uscita da una minorità a loro stessi imputabile diminuiscano a poco a poco» (Kant 1784 Che cos’è l’Illuminismo) 2. l’impostazione trascendentale della filosofia 2.1. trascendentale come metodo, come obiettivo e come oggetto. La corretta impostazione del completo piano di indagine sulle facoltà dell’uomo si deve fondare, secondo Kant, su una distinzione preliminare, che egli pone al centro di tutta la sua riflessione, tra le possibilità e la realtà delle cose. La ragione critica non indaga la realtà delle cose, ma le possibilità della mente: bisognerà allora stabilire fin dove essa possa spingersi ed entro quali limiti debba arrestarsi. «Conoscere qualcosa a priori significa conoscerla per la sua più pura possibilità» (Kant, Principi primi metafisici della scienza della natura) Kant definisce trascendentale l’indagine che egli intende condurre: si occuperà infatti «non tanto di oggetti, quanto invece del nostro modo di conoscere gli oggetti, nel senso che un tale modo di conoscenza deve essere a priori». La strategia dell’indagine trascendentale mira a isolare e studiare analiticamente quelle forme del soggetto che, in quanto a priori (non derivate dall’esperienza, anche a loro si applica il termine trascendentale: si tratta di forme trascendentali della mente) rendono possibile al soggetto l’esperienza conoscitiva (non derivano dall’esperienza, ne sono la condizione); naturalmente in quanto tali forme sono proprie del soggetto, l’universo delle conoscenze che ne deriva sarà tale per il soggetto umano e non pretenderà di svelare l’essenza del mondo, di descrivere la realtà quale essa è in sé o agli occhi di un’altra ipotetica intelligenza non umana. 2.1.1. note al termine trascendentale e differenze. L’indagine che studia i principi a priori della conoscenza e segnala «che e come certe rappresentazioni vengono applicate, o sono possibili, esclusivamente a priori» è chiamata da Kant «trascendentale». La filosofia è dunque trascendentale 6 quando si presenta come teoria della possibilità a priori dell’esperienza in generale. La filosofia medievale denominava «trascendentali» tutte quelle nozioni destinate a esprimere le specificazioni dell’essere considerato al livello di massima universalità, prima della sua articolazione in modi dell’essere, in categorie. Trascendentali erano dunque, secondo la sistemazione scolastica: essere, cosa, uno, altro, vero, buono; essi costituivano le specificazioni generalissime dell’essere, i generi supremi della riflessione metafisica. Anche in Kant l’espressione trascendentale indica la capacità di andare oltre l’esperienza, ma la direzione di questo superamento è totalmente cambiata: il trascendentale supera l’esperienza non perché indichi essenze oltre il dato sensibile o l’essere in sé, ma perché indaga gli elementi a priori della conoscenza, le condizioni formali dell’esperienza. Trascendentale è dunque la natura delle forme che appartengono al soggetto e lo studio di come esse rendono possibile una conoscenza sintetica a priori. Il termine trascendentale definisce una filosofia la cui indagine conoscitiva verte sull’uomo in quanto soggetto autonomo, a livello di definizione formale dell’esperienza, fonte e artefice dei processi che riguardano la conoscenza, le decisioni morali, il sentimento avvertito nella prospettiva di in un fine. 2.2. i tre ambiti dell’indagine trascendentale: «Ogni interesse della mia ragione (così lo speculativo, come il pratico) si concentra sulle tre domande: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare?». Le tre “critiche” delle tre “facoltà”: della ragion pura (conoscenza), della ragion pratica (volontà), del giudizio (sentimento). Conoscenza Volontà Sentimento Critica della ragion pura Critica della ragion pratica Critica del giudizio 3. le forme della ragione pura: sensibilità, intelletto, ragione schema della critica della ragion pura: esposizione trascendentale delle forme a priori della mente "altro non è che l'inventario di tutto ciò che possediamo per mezzo della ragion pura, sistematicamente ordinato" modi di conoscenza sezioni della critica materia (a) e forme (b) della conoscenza sensibilità estetica a. intuizione sensibile empirica (fenomeno) b. intuizione sensibile pura: - spazio - tempo intelletto analitica a. esperienza sensibile b. forme a priori: - schemi (cfr.tempo) - categorie (concetti puri) - appercezione trascendentale (Io penso) logica ragione dialettica a. conoscenza dell'esperienza secondo concetti (concetti empirici) b. forme a priori (principi trascendentali, idee): - io (idea psicologica) - cosmo (idea cosmologica) - Dio (idea teologica) 7 3.1. estetica trascendentale «Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità.» (Kant CRP 66-67). Spazio e tempo intuizioni pure (non concetti) «a) Lo spazio non rappresenta certo una proprietà di qualche cosa in sé, o le cose nel loro mutuo rapporto; ossia, non è una determinazione di esse, che appartenga agli oggetti stessi, e che rimanga anche se si faccia astrazione da tutte le condizioni soggettive dell’intuizione. Giacché né le determinazioni assolute, né quelle relative possono esser intuite prima dell’esistenza delle cose alle quali appartengono, e quindi a priori. b) Lo spazio non è altro se non la forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni, cioè la condizione soggettiva, l’unica per la quale ci è possibile un’intuizione esterna, della sensibilità.» (Kant CRP 71) 3.1.1. geometria e matematica. Nell’estetica trascendentale della Critica della Ragion pura, Kant, affrontando l’esposizione trascendentale del concetto di spazio e di tempo, presenta le forme a priori della sensibilità come «principio dal quale si possa scorgere la possibilità di altre conoscenze sintetiche a priori … la geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente e, nondimeno, a priori … il nostro concetto del tempo spiega la possibilità di tante conoscenze sintetiche a priori»; l’analisi della sensibilità gestita da forme a priori e quindi in termini di sintesi attiva, consegna i dati materiali della sensibilità (i fenomeni) a forme a priori in vista di giudizi sintetici a priori e di teorie sistematiche come la geometria e la matematica. 3.2. analitica trascendentale Allo studio delle possibilità conoscitive dell’intelletto, del quadro dei suoi concetti puri, delle sue forme a priori (le categorie) Kant dedica 1’«Analitica trascendentale». In una sezione di essa, intitolata «Deduzione trascendentale», egli affronta il problema della giustificazione logica dell’uso delle categorie. Il termine deduzione (che nel linguaggio giuridico significa dimostrazione della legittimità di una pretesa) ha qui il significato di giudizio sulla legittimità dell’attività compiuta dalle categorie in quanto strumenti a priori necessari e universali, dell’intelletto umano e non solo come modi e abitudini secondo cui il soggetto di fatto procede; solo una deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto da un principio trascendentale attesta la loro natura di forme a priori della mente, giustifica il loro ruolo di funzioni con cui l’intelletto ordina l’esperienza sensibile in forme concettuali, permette di spiegare in modo completo e sistematico, l’intero campo delle possibilità logiche dell’intelletto. 3.2.1. le scienze. La conoscenza, considerata nell’intero arco della sua costituzione, si presenta come un processo di organizzazione progressiva del dato sensibile nell’unità dell’oggetto: i dati fenomenici vengono organizzati dalla sensibilità secondo le forme a priori dello spazio e del tempo; l’intelletto pensa il dato sensibile secondo concetti (le categorie, sue forme a priori) e organizza quindi i fenomeni nei modi di una conoscenza universale e scientifica; la percezione che l’intelletto ha della propria unità (indicata da Kant con l’espressione «appercezione trascendentale») è il principio che permette di organizzare, in sintesi finale, la conoscenza concettuale nell’unità del singolo oggetto. Da una parte quindi l’unità dell’oggetto, punto di arrivo dell’intero processo di conoscenza, si presenta come risultato di un’attività di unificazione e di sintesi a priori dei dati fenomenici che trova il proprio principio nell’unità del soggetto; dall’altra l’unità del soggetto, espressa con i termini Io penso, non indica una sostanza metafisica esterna al cammino conoscitivo, ma un principio trascendentale dell’intelletto, cioè una funzione della mente che sorregge l’intera conoscenza; questa infatti viene considerata come processo di unificazione dei dati fenomenici in oggetti di conoscenza scientifica. 3.3. dialettica trascendentale Le forme a priori dell’intelletto (categorie e Io penso) sono funzioni attraverso le quali la nostra mente organizza le intuizioni dell’esperienza, fornisce ad esse l’unità e la struttura di oggetti e li esprime con concetti determinati (come albero, casa, libro); la ragione è invece una facoltà sistematica; invita a organizzare i nostri concetti in modo che si compongano nell’unità organica di un sistema. La ragione non dispone di quei «principi costitutivi», propri dell’intelletto, che presiedono alla definizione dell’esperienza in forme concettuali e rendono possibile la conoscenza 8 scientifica della realtà, ma dispone solo di «principi regolativi»; questi non hanno alcun riferimento all’esperienza e si presentano come massime che prescrivono all’intelletto di unificare sistematicamente le proprie conoscenze. Con il termine ragione, inteso in senso proprio, Kant designa dunque la facoltà che istituisce legami; ad essa si deve la tendenza della nostra mente a comporre i propri concetti d’esperienza in sistemi, in vista di sintesi sempre più organiche. Allo studio della ragione, facoltà che conduce a una conoscenza sistematica, è dedicata la sezione della Critica della ragion pura denominata «Dialettica trascendentale». La ragione dell’uomo tende alla completezza della conoscenza come al proprio fine naturale; è un obiettivo di cui lo stesso senso comune sembra essere consapevole quando si esprime con termini che indicano una totalità di dati dell’esperienza come io, mondo, Dio. Ma, ai termini io, mondo, Dio, spiega Kant, non corrisponde alcun oggetto di esperienza; essi infatti indicano, nel loro significato, una totalità e unità di dati che l’esperienza non potrà mai fornire; non sono quindi giustificato dall’esperienza come se si potesse indicare un oggetto reale che possa corrispondere al loro significato. Tuttavia quei termini sono portatori e sono espressione della funzione specifica della ragione: esprimono quindi l’obiettivo della ragione al sistema, sono principi della ragione, principi di sistema, punti focali o prospettici di convergenza, idee e non concetti. L’io rappresenta l’assoluta e incondizionata unità del soggetto pensante; il mondo l’unità della serie delle condizioni del fenomeno; Dio l’unità delle condizioni di tutti gli oggetti del pensiero in generale. Io, mondo, Dio, in quanto termini che implicano nella propria nozione una pienezza che non ha alcun riscontro nell’esperienza, si presentano dunque come idee della ragione e ne costituiscono le forme a priori, i principi trascendentali di una possibile e continua sistematicità. 3.3.1. Sorretta dalla funzione di queste idee e dal loro uso la ragione si abbandona ad una funzione illusoria quando cerca di dimostrare l’esistenza delle proprie idee come se fossero realtà o denominazione di una esperienza, così facendo cade in errori (sofismi e antinomie) che la ragione stessa, con uno sguardo autocritico, è in grado di cogliere e smontare. Così facendo restituisce alle idee la funzione di stimolare la conoscenza verso armonie di sistema varie e propositive ma che non possono pretendere per sé la natura di concetto, cioè di struttura a priori e forma ideale capace di indicare una realtà data empiricamente nella sua unità di oggetto di conoscenza. L’Opus postumum di Kant presenta in forma di mappe una sequenza di sistemi possibili della realtà. 4. basi per un’etica autonoma: principi della ragion pratica 4.1. una morale autonoma (al singolare). Kant progetta di rifondare la scienza etica sulla sola ragione umana, l’unica fonte di principi che conferisce all’azione i caratteri di universalità e di autonomia indispensabili a ogni azione morale; a tale scopo la riflessione morale non parte dall’analisi dei contenuti delle azioni morali, ma delle condizioni della moralità, poste dal soggetto, del tutto a priori o trascendentali, poste cioè dalla ragione nella sua destinazione pratica. Come la ragion pura trova nelle proprie forme a priori le regole della sua attività conoscitiva, così la ragion pratica (la ragione in quanto guida all’azione) trova nei propri imperativi formali (si tratta di una ragion pura pratica) i criteri ispiratori di ogni comportamento etico. La ragione, oltre a un uso teoretico, ha infatti un uso pratico: essa fornisce all’uomo non solo conoscenze, ma anche indicazioni generali di comportamento; è la ragione che determina la volontà ad agire moralmente: «la sua vera destinazione può essere solo quella di produrre una volontà buona, non come mezzo per qualche altro scopo, ma come buona in se stessa». L’autonomia della ragione nel determinare l’azione secondo propri principi oggettivi e universali si fonda sulla libertà; quest’ultima è infatti una condizione a priori della ragione pratica e della volontà etica, il presupposto indispensabile dell’azione morale, intesa come capacità di autodeterminarsi. 4.2. gli imperativi categorici. Kant presenta i principi della ragione nella sua destinazione pratica (ragion pratica) con l’espressione «imperativo categorico» non perché esso si imponga come un’autorità esterna o in forma coercitiva, ma in quanto si presenta come condizione ideale che non 9 ha altri presupposti e fini all’infuori di quelli rappresentati dalla realizzazione della natura libera e razionale dell’uomo nel campo dell’agire. 4.3. le tre formule dell’imperativo categorico. Nelle diverse situazioni del vivere quotidiano, l’uomo dovrà agire (ma si tratta di una forma non cogente di dovere) ispirandosi alle indicazioni dell’imperativo categorico. 4.3.1. Esso propone di agire seguendo principi universali (il primo comanda: «agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a una legge universale di natura»), 4.3.2. trattando se stessi e gli altri uomini come fine e mai come mezzo dell’azione che si intende compiere (la seconda formula dell’imperativo categorico enuncia: «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»), 4.3.3. in piena autonomia, come se ciascuno fosse legislatore di sé (la terza formula ricorda: «agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale»). 4.4. le caratteristiche della morale autonoma fondata sulla ragione pratica universale 4.4.1. Gli imperativi categorici sono formali: forniscono criteri generali di comportamento, non determinano azioni specifiche, non impongono una precisa condotta; sono principi a priori della ragione nella sua destinazione pratica; perciò lasciano il soggetto totalmente libero e responsabile nella scelta delle proprie azioni, nei contenuti concreti dell’agire. 4.4.2. Fondamentale è notare l’incrocio tra imperativo, massima, azione. Kant indica con il termine «massima» i principi soggettivi dell’agire. Il termine non designa né decisioni concrete, né regole pratiche particolari, né norme oggettive secondo le quali agire, ma regole generali che il singolo decide di seguire nelle proprie azioni e che determinano concretamente le sue scelte (ad esempio, aiutare in ogni circostanza chi è nel bisogno, non seguire mai la regola dominante del momento ecc.). Per stabilire l’eticità di una azione occorre cercare la massima che la ispira. Solo la riflessione sul proprio agire consente all’uomo di individuare le massime e i principi soggettivi del comportamento; spesso infatti questi non vengono professati, restano sottintesi e abitudinari e solo con difficoltà l’uomo riesce a cogliere e formalizzare in modo esplicito e pieno i principi direttivi delle proprie azioni; (il mio gesto di elemosina a quale massima si ispira? voglio aiutare chi è nel bisogno, spero che gli altri facciano altrettanto con me, avverto una gratificazione emotiva, posso far notare la mia generosità, segnalo una distanza sociale a mio vantaggio ecc.). L’imperativo categorico afferma il criterio: l’azione è morale se la massima che la ispira è universalmente estendibile. La strada di verifica (di tipo sbrigativamente utilitaristico) è la contraddizione: è morale quella massima la cui estensione universale non crea una contraddizione di cui lo stesso soggetto che agisce sarebbe vittima (se la mia azione è ispirata dalla massima “odia sempre il tuo prossimo”, qualora la massima venisse universalizzata io stesso ne verrei colpito diventando vittima e mezzo dell’odio altrui). 4.4.3. espressa dal secondo imperativo categorico, la distinzione tra mezzi e fini mette a disposizione il concetto eticamente indispensabile e fondante di una “realtà fine a se stessa”: «Ogni essere razionale esiste come fine in se stesso» «L’imperativo pratico sarà pertanto il seguente: agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.» (Kant, Fondazione) 4.4.3.1. La formula espressa da Kant sembra attenuare l’idea di una appartenenza e definizione assoluta dell’uomo come fine a sé, sia perché l’attenzione dell’imperativo verte non sull’uomo inteso nella sua singolarità specifica ma sull’umanità, sia perché introduce espressioni che attenuano il legame uomo-fine (anche, semplicemente: «sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»). 4.4.3.2. Servendosi del concetto di realtà fine a sé espresso da Kant nella terza formula dell’imperativo categorico le nuove sensibilità etiche, contemporanee (ad esempio Hans Jonas), estendono in concetto di “realtà fine a sé” ad ambiti diversi e più vasti di quelli della sola umanità, 10 allo scopo di scongiurare una (totale) riduzione a mezzo, senza diritti, di ciò che non è umano come gli animali, le piante, le risorse, l’ambiente ecc. 4.5. fondamento e postulati dell’imperativo categorico 4.5.1. il fondamento nella libertà (legge e libertà, componenti imprescindibili della morale) 4.5.2. l’oggetto dell’imperativo categorico: il sommo bene o l’idea della piena realizzazione della volontà secondo le indicazioni dell’imperativo categorico; non si tratta di una situazione reale ma di una prospettiva pratica razionale che sostiene l’azione etica. 4.5.3. il sommo bene, versione oggettiva dell’imperativo categorico, implica nella sua nozione alcuni (due) postulati: 4.5.3.1. l’immortalità dell’anima: il sommo bene, non raggiungibile dai singoli individui (ma a cui nessun individuo intende moralmente rinunciare nelle proprie aspirazioni e, soprattutto, in coerenza con la logica della propria ragione espressa dagli imperativi categorici, secondo «il fine, che per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori, e necessario.») ha un contesto di realizzazione se l’azione etica degli uomini non cessa con la loro esistenza, li supera, sopravvive alla loro vicenda personale e diventa costitutiva di una umanità veramente etica in cui l’azione degli uomini e dei popoli si ispira agli imperativi pratici della ragione. Il tema dell’immortalità, ripreso in contesto morale, perde la pretesa di avere una accezione fisica; si tratta di una “ immortalità senza sostanza” (M. Foucault, L’archeologia del sapere, p. 274) una immortalità etica. Da qui parte il sogno kantiano di una civiltà mondiale ispirata alla pace. 4.5.3.2. l’esistenza di Dio: la ragione umana non è in grado di dimostrare l’esistenza di Dio ma Dio costituire il proprio ideale formale di sistematicità; anche il campo pratico Dio è un’esigenza morale, non perché sia fonte di moralità (la morale diventerebbe eteronoma, anzi i suoi stessi comandi sono subordinati alla coscienza morale: «Nella misura in cui la ragion pratica ha diritto di guidarci, noi non riterremo le azioni obbligatorie perché sono comandi di Dio, ma le considereremo comandi di Dio perché ad essi noi ci sentiamo internamente obbligati.» Kant CRP 620) ma in quanto è postulato della realizzazione ideale dell’oggetto dell’imperativo categorico, cioè il sommo bene, fine, aspirazione e sostegno dell’azione morale. «È necessario che tutta intera la nostra vita sia subordinata a massime morali; ma è insieme impossibile che ciò accada, se la ragione non unisce con la legge morale, che è una semplice idea, una causa efficiente, che per la condotta a norma di quella determini un esito esattamente corrispondente ai nostri fini supremi, sia in questa, sia in un’altra vita. Senza dunque un Dio e senza un mondo per noi ora invisibile ma sperato, le idee sovrane della moralità sono bensì oggetti di approvazione e di ammirazione, ma non motivi di proposito e di azione, poiché esse non adempiono tutto il fine, che per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori, e necessario.» (Kant, Critica della ragion pura, 617) [questo forse il senso della nota e abusata frase: un cielo stellato sopra di noi, la legge morale dentro di noi]. 4.5.4. Ad uno sguardo storico complessivo, e vista la loro universalità sulla base trascendentale della filosofia pratica, gli imperativi categorici (la loro definizione e i loro postulati) uniscono razionalità e condivisione, come è proprio della filosofia pratica; razionalità e condivisione vanno mantenute in questa sequenza e non possono subire un’alternanza rovesciata. La razionalità è base per la condivisione e non è la condivisione a garantire la razionalità; la razionalità indica il campo imprescindibile della condivisione. 5. come conclusione: l’obiettivo e i limiti della critica trascendentale (in forma filosofica e in richiamo mitico) l’isola e il mare «Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma, questa terra è un’isola, chiusa dalla sua stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, 11 incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo.» (Kant Critica della ragion pura, 243) L’assedio del mare e le illusioni, o meglio allucinazioni, create dalla volontà di terraferma, quasi in posizione di difesa nei confronti del mare, indicano in immagine e in metafora l’ansia del definire, del tracciare confini, delimitare aree note e stabilizzate e l’insoddisfazione di fronte alla consapevolezza della precarietà di ogni equilibrio raggiunto e apparentemente conquistato. La stessa volontà di difesa e di conquista tiene desti il timore della fine e la mestizia del conquistare per delimitare ed escludere. Odisseo «Quando compare per la prima volta nel poema che porta il nome delle sue avventure, Odisseo è in lacrime. Passa il tempo così, da otto anni, su uno scoglio di fronte al mare, poco lontano dalla casa in cui Calipso, bellissima e divina, gli promette il più mirabile dei doni: l’immortalità. Nessun mortale saprebbe respingere la tentazione. Ma, ogni mattina, Odisseo — che il sole splenda sulla natura rigogliosa di Ogigia o l’inverno ne abbia ghiacciato i sentieri — abbandona il letto della ninfa, va a sedersi sulla roccia e guarda lontano, dimenticando la proposta di eternità. Cosa può contenere di altrettanto immenso, il mare? Cosa sogna, l’eroe? Cosa può renderlo a tal punto ebbro da rifiutare una prospettiva priva di morte pur di continuare a sciogliersi in pianto?» (Nucci Matteo 2013, Le lacrime degli eroi, Einaudi, Torino, p.19) 12