Ebola
Africa
c
ome una guerra
Insufficienze e resistenze
nel contrasto all’epidemia
L’
economia del paese «è
allo stremo, il commercio è interrotto, le compagnie aeree non fanno
più scalo a Freetown.
Molte zone del paese sono “chiuse”, la
popolazione non può muoversi liberamente. Il cibo comincia a scarseggiare,
non è ancora la stagione del raccolto e
purtroppo si stanno usando le scorte
alimentari destinate alla vendita o alle
sementi». La testimonianza di Clara
Frasson, capo progetto per l’ong italiana Medici con l’Africa - CUAMM arriva da Pujehun, in Sierra Leone: insieme a Guinea Conakry, Liberia e (in
misura molto minore) Nigeria e Senegal, questo è uno dei cinque paesi in
cui stata registrata, a partire dal marzo
scorso, la prima epidemia di virus Ebola in Africa occidentale.
«Questa emergenza è paragonabile a una guerra», spiega ancora Frasson a Il Regno: una preoccupazione
condivisa a livello mondiale. Il presidente degli Stati Uniti Obama, a metà
settembre, ha persino annunciato l’invio di 3.000 soldati Usa in Liberia – il
focolaio più difficile da controllare –
per coordinare la risposta umanitaria.
E come ogni guerra, anche quella contro la febbre emorragica ha i suoi caduti: negli stessi giorni in cui Obama
annunciava l’impegno statunitense, i
morti accertati erano oltre 2.600, poco
meno della metà, cioè, dei 5.300 ufficialmente contagiati. Ma tra le vittime
ci sono anche operatori sanitari, come
i sette guineani attaccati e uccisi a Wamé, nel Sudest del paese, il 16 settembre: conseguenza estrema di diffidenze
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Il Regno -
at t ua l i t à
16/2014
ancora molto diffuse nei confronti di
volontari, medici e cooperanti, spesso
accusati falsamente di voler lucrare su
un’emergenza creata ad arte o, addirittura, inesistente.
Sono probabilmente anche dicerie
come queste ad aver contribuito a creare una situazione «senza precedenti
nell’epoca moderna», come l’ha definita Bruce Aylward, responsabile delle
emergenze per l’Organizzazione mondiale della sanità. Per farvi fronte, secondo le Nazioni Unite, servirebbe
non meno di un miliardo di dollari. Più
netta ancora la presa di posizione di
Medici senza frontiere – una delle prime organizzazioni impegnate sul terreno – la cui coordinatrice a Freetown,
nelle settimane precedenti, aveva definito «pericolosamente inadeguata» la
risposta internazionale. In effetti, non
sembrano essere state sufficienti le misure già prese, che comprendono la
chiusura delle frontiere, il blocco di
molti voli e anche coprifuoco totali della durata di tre giorni, utili a identificare i malati, proclamati in Sierra Leone.
Un paese dove, comunque, i posti di
blocco per i controlli sanitari sono ormai una vista abituale.
Si guarisce se…
«No bad, you can go» è la frase con cui
gli addetti autorizzano a proseguire il
viaggio, dopo aver misurato a tutti la
temperatura. Qualche linea di febbre,
infatti, potrebbe essere il primo sintomo del virus e della necessità di un ricovero in una struttura speciale. Queste,
spesso, non sono sufficienti: «In Sierra
Leone – racconta ancora Frasson – fi-
nora ce ne sono solo due ed è urgente
costruirne altre, per avere almeno 500
letti per il trattamento». Eppure, proprio i centri speciali creati per affrontare l’epidemia non sono visti di buon
occhio dagli abitanti, esattamente come i cooperanti stranieri: ad agosto, in
Liberia, una folla di cittadini di Monrovia ne ha preso d’assalto uno. Lo slogan, di nuovo, era: «Ebola non esiste».
Per breve tempo una ventina di malati,
fuggiti durante la violenta protesta, sono stati liberi di muoversi in città.
Il timore di essere separati dal resto
della popolazione è spesso la causa delle resistenze. A Pujehun, ad esempio,
«l’ospedale è quasi vuoto, la popolazione ha paura di essere messa in isolamento perché sa che è difficile sopravvivere all’Ebola. Solo i bambini gravissimi e le donne con complicanze da
parto arrivano in ospedale, gli altri anche se malati preferiscono rimanere a
casa, dove spesso muoiono», spiega la
capo progetto di Medici con l’Africa.
In realtà, continua, «abbiamo visto
che se le persone infette vengono curate precocemente la sopravvivenza è
elevata».
Per raggiungere questo obiettivo si
sono mobilitate tutte le realtà presenti
sul territorio. Non solo quelle altamente specializzate, come Medici senza
frontiere o attive da anni nella cooperazione sanitaria, come il CUAMM.
Anche la Chiesa cattolica, tra le altre, si
è spesa per cercare di fermare la malattia. Religiosi e religiose hanno perso la
vita per assistere i pazienti, ed è particolarmente drammatico il caso dell’ospedale gestito dai Fatebenefratelli a
Ebola
L
Una crisi nella crisi
a nuova ondata del virus Ebola si è manifestata a partire
dal dicembre 2013 in Guinea, per poi propagarsi in Liberia
e Sierra Leone con un primo picco a metà marzo 2014,
quando il virus è stato isolato, seguito da un secondo picco
più grave a maggio, per poi impennarsi costantemente fino ai
nostri giorni: più del 40% dei nuovi casi è concentrato negli
ultimi 21 giorni. Come afferma Giovanni Putoto, responsabile
programmazione per l’associazione Medici con l’Africa CUAMM: «La durata e la diffusione dell’epidemia si spiegano
con il fatto che le persone colpite dal contagio si sono mosse
indisturbate all’interno dei paesi e tra i paesi limitrofi, diffondendo la malattia» (www.saluteinternazionale.it, aggiornato al
1o settembre).
I dati ufficiali dell’Organizzazione mondiale della sanità
aggiornati al 22 settembre, tra confermati, probabili e sospetti, contano 5.843 casi e 2.803 morti tra Guinea, Liberia e Sierra
Leone. Secondo l’organismo «il numero reale dei casi potrebbe essere da 2 a 4 volte maggiore» e alla fine dell’epidemia ci si
può aspettare una cifra di circa «20.000 casi».
«Le indagini laboratoristiche realizzate in Francia e negli
Stati Uniti hanno identificato come agente patogeno causale
– scrive Putoto – lo Zaire EbolaVirus (EBOV) della famiglia dei
Filovirus (RNA virus). Quest’ultimo presenta elementi nucleari
distinti rispetto alle forme di EBOV isolate finora. La febbre
emorragica da Ebola è una malattia zoonotica. Dopo il contagio con animali infetti della foresta tropicale, in particolare
pipistrelli e scimmie, la trasmissione umana avviene attraverso
il contatto diretto con i liquidi biologici degli ammalati, in particolare sangue, saliva, lacrime, latte materno, liquido seminale, feci e urine. La sintomatologia si sviluppa dopo un periodo
di incubazione che varia da 2 a 21 giorni».
Epidemia nuova, fragilità antiche
«È la prima volta – prosegue Putoto – che un’epidemia di
Ebola colpisce l’Africa occidentale, nota invece per essere
una zona endemica della febbre emorragica di Lassa. Le caratteristiche nucleari, cliniche e di letalità, sembrano supportare l’ipotesi che EBOV non sia stato trasferito da altri paesi,
ma abbia avuto una distinta evoluzione nell’Africa occidentale. In sostanza, il virus dell’Ebola dimostrerebbe di avere una
distribuzione geografica più ampia di quanto precedentemente ritenuto.
Che riflessioni iniziali si possono fare? In Africa occidentale si sta consumando la più grande e la più grave di tutte le
Monrovia: i due sacerdoti e il fratello
che vi lavoravano sono morti e anche le
suore che li affiancavano sono state ricoverate, o rimpatriate per precauzione. Sacerdoti diocesani, missionari e
anche vescovi, poi, hanno usato in tutta la regione le messe come veicolo di
informazione. Persino alcune parti del
rito sono state modificate per evitare
contagi, come quelle che riguardano lo
scambio del segno della pace e la distribuzione dell’eucaristia. Molte Caritas
si sono poi impegnate in campagne di
epidemie di Ebola finora documentate nel continente africano. La risposta delle istituzioni competenti, internazionali
in particolare, nel controllo dell’epidemia è risultata tardiva
e inadeguata. Considerate le caratteristiche biologiche e la
distribuzione geografica, è ragionevole attendersi che l’epidemia di febbre emorragica di Ebola si ripresenti in futuro. In
attesa di trattamenti e vaccini efficaci e sicuri, e soprattutto
accessibili a tutti, bisognerebbe puntare sulla realizzazione
di un sistema regionale che garantisca in tempi rapidi l’identificazione del virus e il monitoraggio efficace delle epidemie secondo quanto prevedono le regole della sanità internazionale».
La febbre emorragica di Ebola, spiega ancora il responsabile programmazione del CUAMM, «è un’epidemia «molto
cara» e antropologicamente «molto complessa» da gestire.
Interrompere la catena della trasmissione comporta l’adozione di misure di salute pubblica la cui realizzazione richiede
cospicue risorse professionali, materiali e finanziarie, oggi
ancora gravemente carenti. Un’attenzione particolare dovrebbe essere rivolta agli ambienti ospedalieri. L’epidemia di
Ebola si trasmette anche in questi contesti come infezione
nosocomiale con perdite gravissime di personale sanitario
locale. Il controllo delle infezioni dovrebbe diventare attività
di routine.
Questi provvedimenti per quanto necessari, ottengono
un effetto relativo se non sono accompagnati dalla mobilizzazione attiva della comunità. Saper approcciare la popolazione richiede un processo di relazioni basate sul dialogo
continuo e sul rispetto. L’epidemia di Ebola ha colpito sistemi
sanitari fragili, come quello della Sierra Leone e della Liberia
usciti da poco da lunghi conflitti civili. La sfida a breve termine è di continuare a garantire i servizi sanitari di base. Il sistema sanitario deve dare segnali concreti che i servizi funzionano, sono efficaci e sicuri, nonostante l’epidemia. Sul medio
termine i gap strutturali – risorse umane e finanziarie in primis – dovrebbero colmati con decisione e perseveranza facendo tesoro delle esperienze passate. A questo riguardo,
non mancano esempi di buone prassi a cui ispirarsi. L’Uganda,
dopo l’epidemia di Ebola del 2000, ha saputo reagire con
prontezza ed efficacia in quelle del 2007 e del 2012, riducendo in modo significativo diffusione, durata e mortalità del
contagio».
M.E. G.
sensibilizzazione porta a porta, appoggiandosi anche ai leader tradizionali
locali.
«Usiamo tutti i mezzi possibili per
informare la popolazione, perché abbia
fiducia nel sistema sanitario», conferma
anche Frasson. E aggiunge: «Non è facile ma è la nostra sfida. Dopo l’Ebola,
dovremo riorganizzare nuovamente
questo settore che ora è collassato: questa nuova “guerra” ha portato ancora
una volta povertà, morte e disperazione». È questo l’altro volto del virus: l’e-
pidemia ha infierito in contesti dove esistevano già situazioni critiche dal punto
di vista medico, arginate con grande
sforzo. «Le mamme non fanno più le
visite prenatali, non portano i bambini a
vaccinare, le donne incinte riprendono
a partorire in casa senza assistenza, i
malnutriti non vanno più ai centri dove
possono essere alimentati correttamente, curati e salvati», conclude la responsabile del CUAMM.
Davide Maggiore
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