La Turchia: dalla caduta dell`Impero ottomano a Erdoğan (1),Agnelli

annuncio pubblicitario
La Turchia: dalla caduta
dell’Impero ottomano a Erdoğan
(1)
La Turchia: dalla caduta dell’Impero ottomano a Erdoğan (1)di Gabriele
Rèpaci del 12/07/2016Il breve saggio che segue si propone di
analizzare – senza pretesa di completezza né esaustività – come la
dissoluzione dello spazio politico e culturale dell’Impero ottomano
debba essere conosciuta e correttamente valutata per comprendere una
serie di fenomeni storico-politici novecenteschi.
In particolare la storia della Turchia moderna è una miniera di
insegnamenti per comprendere molti degli avvenimenti che ci
coinvolgono in prima persona.
La storia dell’Impero Ottomano, dopo la presa di Costantinopoli, può
essere divisa in tre periodi: espansionistico, fino alla morte di
Solimano il Magnifico, nel 1566; di equilibrio, fino al fallimento
della seconda spedizione contro Vienna, nel 1683; di decadenza, dal
1683 alla deposizione dell’ultimo Sultano Mehmet VI, nel 1922.
L’identità politica europea risale alla fondazione della potenza dello
stato ottomano, a partire dal 1291, con la sconfitta dei bizantini e
la guerra santa in Anatolia. È tuttavia nel XIV secolo, con il Sultano
Murad I, che il campo d’azione dell’Impero si protende tutto verso
l’Europa, approfittando delle rivalità tra gli stati balcanici, delle
lotte tra Venezia e Genova, del conflitto tra Bisanzio e Roma.
La minacciosa irruzione ottomana fu fronteggiata da una prima
coalizione di principi cristiani, promossa da papa Urbano V e
sconfitta nella battaglia della Marica del 1363. La vittoria indusse
Murad a trasferire, nel 1365, la capitale da Busra ad Adrianopoli di
Bitinia, in Asia Minore, proprio per sancire il nuovo fulcro della
spinta a nord dell’Impero. Sotto il regno del suo successore, Bayazid
I, anche la Grecia e la Serbia divennero protettorati ottomani.
Intanto, l’affacciarsi a est delle orde mongole di Tamerlano (Tämūr
Lenk) contribuì ulteriormente all’occidentalizzazione del dominio
ottomano. I mongoli, pur avendo fatto prigioniero il Sultano ad
Ankara,
non
vollero
approfittare
della
debolezza
ottomana
e
arrestarono la loro espansione, abbandonando l’Impero alle sue lotte
intestine per la successione a Bayazid.
Tra i suoi figli ebbe la meglio Mehmet, divenuto Sultano con il nome
di Mehmet I. A lui si deve il consolidamento dei confini dell’Impero,
mentre il figlio, Murad II, avviò l’opera di edificazione di una vera
e propria amministrazione imperiale, finalizzata a organizzare e
beneficiare delle grandi risorse naturali e di attività umana, che i
vasti territori conquistati potevano offrire.
Con il successo di Mehmet II, si otterrà la conquista, nel 1453 e dopo
due anni di assedio, di Costantinopoli, finalmente eletta a nuova
capitale dell’Impero Ottomano.
Affresco di Tintoretto risalente al 1580 che racconta la presa di
Costantinopoli da parte dei turchi.
Costantinopoli capitale fu ribattezzata Istanbul, dalla locuzione
greca εις την πολιν (“verso la città”).
Da
questo
momento,
l’espansione
ottomana
a
ovest
sembrava
inarrestabile. Mehmet II era ormai identificato come Fatih, il
conquistatore, e in effetti, dal 1474 in poi, l’Impero proseguì verso
l’Europa centrale, con il primo assedio di Vienna, nel 1529, ad opera
di Süleyman II. Con lui, ricordato come Solimano il Magnifico o il
Legislatore, l’Impero raggiunse anche il massimo della sua potenza
militare, del prestigio internazionale e della razionalizzazione
organizzativa interna.
Quest’ultima,
infatti,
si
caratterizzò
per
essere
largamente
tollerante nei confronti dei paesi conquistati e persino liberale nel
riconoscimento dell’uso pubblico delle lingue e delle religioni.
Dopo Süleyman II, ebbe inizio la decadenza, scandita da lotte interne
tra monarca e corpo militare dei «Giannizzeri» (costituito sin dal
1334 da ex cristiani, rapiti da fanciulli ed educati all’Islam), dalla
battaglia di Lepanto del 1571, dal secondo fallito assedio di Vienna,
nel 1683, dalla Pace di Carlowitz del 1699, con cui gli Asburgo
ottennero la sovranità sul Regno di Ungheria, dal Trattato di
Passarowitz del 1718, sempre nel segno dell’espansione austriaca. Con
quest’ultimo accordo l’alleanza austro-russa contro l’Impero ottomano
decretò il nuovo equilibrio europeo, sfociato nella guerra del 1736,
strenuamente combattuta dall’esercito ottomano, e nella pace del 1774,
con cui la Russia conseguì, tra l’altro, il diritto di libera
navigazione nel mar Nero e il passaggio della sua flotta dagli stretti
per il Mediterraneo.
Tra Settecento e Ottocento, l’Impero ottomano visse una nuova fase di
stabilizzazione,
dovuta
al
clima
inaugurato
in
Europa
dalla
Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, che permisero
all’Impero ottomano, da un lato, di sentirsi tranquillo sulle proprie
frontiere
verso
la
Russia,
e,
dall’altro,
di
concentrarsi
sull’ammodernamento militare e dell’amministrazione interna.
Il Congresso di Parigi, nel 1856, scandì una nuova fase dell’identità
europea dell’Impero: l’integrità dei confini era salvaguardata, ma
l’indipendenza riconosciuta alla Grecia e l’autonomia accordata alla
Romania inaugurarono inedite lotte delle altre nazionalità per la loro
separazione dal potere del Sultano. L’Impero ormai era in crisi e il
processo di disgregazione irreversibile.
Lungo questa china fin de siècle, nacquero il movimento dei Giovani
ottomani e l’ideologia dell’Ottomanesimo, mirata a ridimensionare lo
sfaldamento dell’Impero attraverso un percorso di riforme nel richiamo
alla grande tradizione ottomana. Le novità prodotte da questo
movimento si sintetizzano in una formula: Tanzimat e Khayriyya o
«leggi benefiche», avviate nel 1856, per indicare il complesso di
disposizioni di riforma della giustizia, culminate nella Costituzione
ottomana del 1876. Si trattò di tentativi coraggiosi di grande impatto
formale, evocati anche in altri contesti musulmani come la Tunisia, ma
di scarsa aderenza sostanziale.
Non meno contraddittorio si rivelò il movimento dei Giovani turchi.
Creato clandestinamente a Istanbul nel 1889, il movimento si organizzò
nel Comitato unione e progresso (Ittihad ve Terakki Cemiyeti) e si
dichiarò erede dei giovani ottomani del 1876. Il movimento era
composto prevalentemente da ufficiali dell’esercito, sotto la guida di
Enver Bey, ma raccoglieva idee libertarie e socialiste collegandosi
anche, tramite alcuni suoi affiliati europei, alla massoneria: per
questo non si presentava con un programma ben definito e omogeneo.
Sul
piano
retorico,
esso
riecheggiava
il
«panturanesimo»
o
«panturchismo» che i musulmani dell’Impero ottomano avevano importato
dalla Russia e le cui idee si sintetizzavano nella formula del
ripristino del «focolare turco» (Türk Ocaği).
Invece, sul fronte istituzionale, due sembravano le rivendicazioni: il
ritorno alla Costituzione liberale del 1876; il recupero del consenso
delle minoranze non turche, di cui i Giovani turchi interpretavano le
istanze autonomistiche dopo la crisi dell’unità ottomana.
Certo, le ideologie costituzionali di questa élite furono fortemente
suggestionate da eventi esterni: le istanze rivoluzionarie russe,
ideologicamente
ben
marcate;
l’esempio
giapponese,
la
cui
modernizzazione era iniziata proprio dopo la vittoria sulla Russia ed
era
passata
attraverso
la
costituzionalizzazione
del
potere;
l’esperimento di monarchia costituzionale in Iran, del 1905-1906.
Il 23 luglio 1908, Enver Bey intimò al Sultano Abdül Hamid II,
denominato «rosso» per la sua crudeltà sanguinaria, di ristabilire la
Costituzione del 1876. Il giorno seguente il Sultano cedette e
annunciò, in attuazione della ripristinata Carta, la convocazione di
elezioni politiche generali.
La prima camera elettiva fu solennemente convocata e inaugurata il 4
dicembre 1908. In quei mesi, si organizzarono i primi sindacati e si
verificarono i primi scioperi della storia ottomana.
L’obiettivo
di
coniugare
la
grandezza
imperiale
con
la
costituzionalizzazione del potere sembrò raggiunto. Invece, il 13
aprile 1909, Instabul fu scossa da una sommossa degli studenti di
teologia che rivendicavano il ritorno alla legge coranica e le
dimissioni del governo. Gli insorti non incontrarono alcuna resistenza
e si imposero nella capitale.
Disorientati, i Giovani turchi trovarono rifugio a Salonicco per
riorganizzarsi. Rientrato in Turchia, Enver riprese la marcia verso
Istanbul proprio con l’aiuto delle armate di Macedonia e, il 24 aprile
reintegrò nei poteri la Camera elettiva, riuscendo a far designare
Mehmet V quale successore di Hamid.
In verità l’ammutinamento studentesco del 13 aprile aveva manifestato
la
debolezza
congenita
del
movimento
dei
Giovani
turchi:
tradizionalismo e costituzionalismo non potevano essere semplicemente
sommati attraverso imitazioni esterne e rievocazioni del passato. Il
cuore dell’Impero dei primi anni del Novecento si scopriva «europeo»
anche
nel
vivere
il
dilemma,
determinante
nella
storia
del
costituzionalismo, tra riforma, tradizione e rivoluzione.
Intanto, il ritrovato sodalizio con il nuovo Sultano, in quanto
caldeggiato soprattutto dall’esercito, produrrà due ulteriori effetti
di lungo periodo: la emarginazione dei gruppi autonomistici delle
periferie
dell’Impero,
insurrezione;
la
originariamente
deviazione
vicini
militarista
al
movimento
di
dell’esperienza
di
rivendicazione costituzionale, con il conseguente abbandono di tutti i
progetti di decentramento riformistico e il progressivo accentramento
dei poteri, sfociato nel «triumvirato militare» di Enver-Cemal-Talat,
avallato dal Sultano e legittimato con la elevazione di Enver al rango
di Paşa.
Legato alla Germania dal trattato di alleanza del 2 agosto 1914,
L’Impero ottomano entrò in guerra il 29 ottobre. La guerra, ancorché
condotta sotto la direzione strategica di Enver Paşa, produsse un
susseguirsi di disfatte, conclusesi con l’armistizio firmato a Mudros
il 30 ottobre 1918. Le grandi potenze europee imposero lo smembramento
dell’Impero, la confisca della flotta ottomana, l’occupazione di
Istanbul da parte delle truppe dell’Intesa balcanica, l’affidamento
dei territori a patti segreti per la suddivisione delle province
imperiali, le Vilayet tra inglesi (Mossul e Mesopotamia), francesi
(Siria e Cilicia), italiani (Koniya e Antalya). Il governo si trovò a
non detenere alcun ruolo concreto, tant’è che il nuovo Sultano, Mehmet
VI, compose un Consiglio di ministri senza Enver, agli ordini dei
vincitori.
È
in
questo
difficile
passaggio
che
riemersero
le
istanze
costituzionali, ancora una volta di confusa identificazione. Cellule
del Comitato unione e progresso si ricostituirono lontano dalle città.
Fu proprio per stanarne la presenza che il Sultano inviò il giovane e
valoroso ufficiale Mustafà Kemal a recarsi nella regione di Samsun.
Gli esperimenti costituzionali insurrezionali questa volta tentarono
forme di governo repubblicane e autonomiste, apertamente ostili al
Sultano e al suo asservimento allo straniero. Nacquero così: il
Comitato per la difesa della Tracia, in lotta contro le mire
espansionistiche della Grecia; il governo per la Caucasia, separato
dagli armeni, autoproclamatisi indipendenti.
In Anatolia, si insediò nel 1919 il movimento di resistenza armata
«Associazione
per
la
difesa
dei
diritti»
(Müdaafayi
Hukuk
Cemiyetleri). Contemporaneamente si verificarono ovunque significativi
moti contadini, tesi a sperimentare rudimentali forme di soviet.
All’arrivo a Samsun, Kemal si convinse della bontà di queste
rivendicazioni repubblicane rispetto all’indifferenza della borghesia
musulmana
cittadina,
economicamente
interessata
al
mantenimento
dell’occupazione straniera, e comprese che la disgregazione imperiale
non era da imputare all’autonomismo, quanto alla totale sfiducia
popolare nelle istituzioni centrali del paese.
Così, il 22 giugno 1919, Kemal lanciò il suo primo appello pubblico
alla resistenza, invitando i militari a unirsi a lui e annunciando la
convocazione di un Congresso nazionale a Sivas, rappresentativo di
tutte le forze del territorio per ricomporre l’identità turca.
Subito dopo, il 23 luglio, approfittando della campagna di resistenza
contro la costituzione della Grande Armenia, egli promosse l’Assemblea
generale preliminare di Erzurum, finalizzata a fissare gli obiettivi
del Congresso nazionale di Sivas: separazione degli interessi della
Turchia
da
quelli
dell’Impero
ottomano;
proclamazione
della
indivisibilità dei paesi turchi dell’antico Impero; indipendenza dagli
europei.
Aperto a Sivas il 13 settembre, il Congresso si trasferì ad Ankara
alla fine dell’anno.
Le proclamazioni di Sivas non mettevano in discussione il potere del
Sultano.
Infatti,
l’opzione
repubblicana
non
risultava
ancora
pienamente condivisa. In ogni caso, però, il Sultano si mostrò da
subito ostile al progetto di Kemal, strumentalizzando contro di lui le
sollevazioni autonomistiche dei curdi, mal viste dai partecipanti al
Congresso
di
unificazione
Sivas,
spiazzando
nazionale
con
il
suo
l’annuncio
progetto
di
politico
elezioni
di
politiche
anticipate, evidentemente alternative all’Assemblea insediata ad
Ankara, modificando, inoltre, la composizione del governo di Istanbul
per renderlo meno filoeuropeo. In effetti, le mosse del Sultano
disorientarono la strategia di Kemal. L’Assemblea nazionale non solo
decise di trasferirsi a Istanbul contro il suo parere, ma accelerò
inopinatamente
il
processo
rivoluzionario,
adottando
un
Patto
nazionale che riprendeva senza mezze misure il programma di Sivas.
Questo colpo di forza provocò una crudele repressione britannica: i
lavori dell’Assemblea vennero soppressi e i deputati nazionalisti
confinati a Malta. Il Sultano, dal canto suo, emise un Fètva, un
decreto che dichiarava fuori legge tutti gli aderenti ai movimenti
nazionalisti riconosciuti a Sivas. Kemal, che si era rifiutato di
recarsi a Istanbul, sfuggì alla retata inglese e poté riorganizzare
altre mobilitazioni che costringeranno a nuove elezioni, contro la
volontà del Sultano. La partecipazione alla nuova consultazione
popolare sancì la nascita del sentimento repubblicano turco: la nuova
Grande Assemblea (Büyük Millet Meclisi) era a maggioranza nazionalista
e repubblicana e inaugurò i suoi lavori il 23 aprile 1920, eleggendo
suo presidente Kemal. Questi, sempre con l’appoggio soprattutto
dell’esercito guidato dal colonnello İsmet (il futuro İnӧnü), nominò
il primo governo nazionalista turco.
Il governo nasceva formalmente illegale al cospetto del Fètva del
Sultano, ma sostanzialmente legittimo per il consenso ricevuto, tanto
da vedersi di lì a poco riconosciuto a livello internazionale, con la
partecipazione dei suoi membri all’armistizio franco-turco.
La politica nazionalista si misurò da subito con due diverse
prospettive presenti tra i repubblicani: il cosiddetto «ideale
occidentale»
(Garb
dell’esperienza
Mefkulersi),
delle
Tanzimat;
che
avocava
l’«ideale
il
recupero
orientale»
(Sark
Mefkurersi), teso invece alla discontinuità su tutti i fronti, con il
passato
ottomano
come
anche
con
i
valori
occidentali
dell’«asservimento imperiale».
Su quest’ultima prospettiva pesava certamente l’influsso ideologico
della
Russia
bolscevica,
che
aveva
appoggiato
il
movimento
nazionalista nella sua triplice lotta contro il Sultano, gli alleati
europei e gli armeni.
L’«ideale orientale» predicava la lotta contro l’imperialismo anglofrancese, ma sul piano delle proposte politiche si dimostrava
piuttosto confuso. In ogni caso, Kemal reputò opportuno assecondare
l’«ideale orientale», per non perdere l’appoggio popolare di quelle
forze contadine che avevano contribuito non poco alla riuscita della
rivolta nazionalista. Per tale ragione, egli provvide a creare un
doppione islamico dell’Armata Rossa: l’Armata Verde (Yeşil Ordu), con
funzioni di ordine pubblico e sicurezza sui confini. Questa Armata
sfuggirà subito di mano al suo ideatore. In nome della lotta contro
l’imperialismo europeo in Asia, i miliziani «verdi» predicavano
l’eliminazione della proprietà privata e la distribuzione delle terre
e delle ricchezze. Ma il «populismo» di Kemal mirava ad altro:
riconoscersi in uno stato nuovo, sotto la cui guida promuovere
giustizia e sviluppo.
Per la definitiva discontinuità dal passato, questa idea repubblicana
doveva innanzitutto emanciparsi dalla legittimazione del Sultano. Con
il Trattato di Sèvres, del 10 agosto 1920, cadde quest’ultima ipoteca.
La sottoscrizione da parte del Sultano di condizioni palesemente
umilianti
per
la
Turchia,
fece
perdere
ogni
credibilità
all’istituzione monarchica.
Con tale accordo l’Impero ottomano, già drasticamente ridimensionato
col Trattato di Londra del 1913, si ritrovò ridotto ad un modesto
stato entro i limiti della penisola anatolica, privato di tutti i
territori arabi e della sovranità sugli stretti del Bosforo e dei
Dardanelli, che furono smilitarizzati. Ai greci fu assegnata nell’Asia
minore la zona gravitante su Smirne, ai bordi meridionali della
penisola anatolica erano previste zone d’influenza dell’Italia (golfo
di Adalia), della Francia (Cilicia) e della Gran Bretagna (Kurdistan).
L’Armenia fu riconosciuta come stato indipendente con i Vilayet di
Erzerum, Erivan e Trebisonda. Dei paesi arabi, Siria e Libano andarono
ai francesi, la Palestina e l’Iraq agli inglesi come “mandati” sotto
il controllo della Società delle Nazioni (una forma speciale di
neocolonialismo). Infine, l’esercito veniva esautorato di qualsiasi
funzione decisionale. Fu proprio questo passaggio che colse a suo
favore Kemal.
Il 20 gennaio 1921, egli propose l’adozione di una Costituzione
provvisoria per la transizione definitiva alla repubblica laica,
fondata sulla sovranità della nazione. Intanto, a «sinistra» dello
schieramento kemalista forte dell’appoggio dell’Armata Verde, si
affacciava la fronda estremista, che spingeva per la lotta di classe e
la rivoluzione proletaria. A questo punto, Kemal richiamò l’esercito e
decise di liquidare l’Armata Verde, promuovendo contro di essa un
piano di attacco destinato a sortire importanti effetti : da una
parte, verrà sancita la sconfitta dell’«ideale orientale»; dall’altra,
l’esercito assumerà il ruolo di tutore istituzionale della identità
repubblicana, ancora in costruzione; infine, si accentueranno le
rivendicazioni greche a nord, grazie al ritiro delle truppe militari a
Bursa per fronteggiare l’Armata. La ripresa del conflitto con la
Grecia riavvicinò la Turchia alla Russia, fino alla firma del patto di
amicizia sovietico-turco, del 16 marzo 1921, che consentì alla Turchia
di risolvere anche il problema di una grande Armenia indipendente, di
fatto consegnata all’Urss come repubblica sovietica.
L’entrata dell’esercito turco a Izmir (Liberazione di Smirne) il 9
settembre 1922, a seguito del successo della Grande offensiva di
Smirne, sigillando efficacemente la vittoria turca e concludendo la
guerra.
Con la pace di Losanna del 1923, la Turchia assumeva il suo aspetto
attuale e con il recupero pieno dell’indipendenza, il processo di
edificazione repubblicana finalmente si consolidava. I passaggi
fondamentali furono quattro: il voto dell’Assemblea di Ankara,
adottato all’unanimità il 1 novembre 1922, con cui venne proclamata la
sovranità del governo di Ankara su tutto il territorio nazionale e di
fatto si disconosceva la legittimità del Sultano; la creazione,
nell’agosto del 1923, del Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet
Halk Partisi – CHP), come partito unico della Turchia indipendente; la
proclamazione della repubblica il 29 ottobre 1923; la soppressione del
Califfato nel 1924. Kemal fu eletto dal parlamento presidente della
repubblica e nominò come Primo ministro İsmet Paşa, conosciuto ormai
come İnӧnü. Furono questi due uomini politici a redigere la
Costituzione repubblicana e laica della moderna Turchia. A suggello
del suo operato, l’Assemblea nazionale conferirà a Kemal, nel 1934, il
titolo di Atatürk, ovvero «Padre dei turchi».
Mustafà Kemal Atatürk (padre dei turchi) è stato il fondatore della
nazione turca contemporanea, attraverso un’operazione complessiva di
riformismo dispotico dall’alto che trova pochi altri precedenti
storici (da Pietro il Grande in Russia ai primi del Settecento alla
cosiddetta
Restaurazione
Meiji
in
Giappone
dopo
il
1868).
È
interessante (e non casuale) che sia stato un uomo nato e cresciuto
nella Rumelia (a Salonicco, nella Turchia europea perduta nel 1913) a
rifondare una Turchia largamente immaginaria e mitica nell’Anatolia,
una zona geografica in cui prima del 1071 (battaglia di Manzikert) non
abitava praticamente nessun turco, ed in cui per circa mille anni
abitarono almeno quattro popoli principali (turchi, greci, armeni,
curdi), più molti altri popoli minori (lazi, circassi, georgiani,
arabi, assiri, eccetera). Il sogno europeo dei riformatori turchi
dell’Ottocento, nato e cresciuto in Rumelia, venne trapiantato in
un’Anatolia largamente immaginaria.
Per approfondimenti:
_Hamit Bozarslan, La Turchia contemporanea, Il Mulino, 2004
_Lea Nocera, La Turchia contemporanea. Dalla repubblica kemalista al
governo dell’AKP, Carocci, 2011
_Alessandro Aruffo, Il pendolo turco. La Turchia contemporanea tra
passato e futuro, Datanews, 2011
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
Agnelli, Pirelli e la guerra di
Etiopia. Le ragioni di una
sconfitta (3)
Agnelli, Pirelli e la guerra di Etiopia. Le ragioni di una sconfitta
(3)di Giuseppe Baiocchi del 15/06/2016
Nel ventennio fascista girano soldi, come si è scritto, per
corrompere, per comprare silenzi o consensi. Chiudendo un occhio su
arricchimenti esagerati, su conflitti di interessi evidenti, su tante
e piccole grandi truffe quotidiane e dove questo non basti a garantire
la totale fedeltà, c’è il sesso come arma di ricatto e l’accusa di
omosessualità, quella che il regime ha deciso essere la più grave, la
più infamante. Ora il nostro racconto arriverà a segreti di ben altro
genere: a quegli affari e a quegli accordi, tenuti nascosti agli
italiani, con poteri così forti da determinare le sorti del paese.
Rapporti stabiliti fin dagli albori con il fascismo, da prima della
Marcia su Roma, prima del 28 ottobre 1922.
Cominciamo dalla massoneria, l’associazione segreta per eccellenza.
Della massoneria fanno parte membri dirigenti del Regno, personaggi
della grande industria e della finanza, nonché ufficiali delle forze
armate.
Per Mussolini, che è in procinto di organizzare la Marcia su Roma è
fondamentale averne l’appoggio.
Per ben due volte si incontra alla Stazione termini delle capitale con
influenti Massoni, tra di essi uno dei capi della massoneria: Raul
Palermi.
Il Gran Maestro gli avrebbe garantito il pieno appoggio organizzativo
e finanziario all’impresa.
Inoltre anche moltissimi Gerarchi sono iscritti alle logge: Farinacci,
Starace, Balbo, Bottai, Rossoni, Costanzo Ciano e tanti altri ancora.
Avrebbero avuto un lecito vantaggio economico dalla fratellanza
massonica?
Nel 1924, uomini del partito fascista, tutti massoni, si sarebbero
spartiti una tangente di provenienza dalla multinazionale del petrolio
“Sinclair Oil” . In cambio questa sarebbe stata favorita per ottenere
contratti di fornitura all’Italia.
La trama affaristica viene scoperta dal deputato Giacomo Matteotti,
che si appresta a denunciare il malaffare dai banchi di Montecitorio,
con prove alla mano, ottenute dalla massoneria inglese.
Matteotti non potrà parlare, verrà rapito da una squadraccia fascista
e poi ucciso. Mussolini è il mandante dell’omicidio? Se ne parla
ancora oggi, è un altro dei suoi segreti.
Intanto riesce a volgere a suo favore la crisi istituzionale sorta con
il caso Matteotti e, con il discorso del 3 Gennaio 1925 alla camera,
avvia l’Italia verso la dittatura.
Da questo momento il rapporto tra il Duce e la massoneria comincia ad
incrinarsi, ora non può più tollerare una lobby segreta con un potere
proprio -uno stato nello stato- e decide di liberarsene.
Prima l’ha sapientemente e opportunisticamente usata, poi se ne disfa.
Con un provvedimento ratificato dal senato del Regno il 20 novembre
1925, si proibisce qualsiasi organismo associativo che per statuto
tenga segreti i nomi dei proprio soci e da qui la massoneria diventa
fuori legge.
Se con la massoneria il rapporto è stato ambiguo, quello con la classe
industriale italiana è stato per Mussolini costante e duraturo;
soprattutto con quella Piemontese, Lombarda, Venete, Ligure e
Romagnola che nel biennio 1920/1922 maggiormente si è servita del
fascismo per aggirare la rivolta degli operai nelle fabbriche.
Per capirne la genesi, bisogna tornare ai giorni precedenti la marcia
su Roma, quando alcuni industriali milanesi vanno a trovare Mussolini
presso la redazione del Popolo d’Italia. Non è solo una visita di
cortesia, ma di affari: aprono il portafoglio. Un responsabile della
associazione bancaria avrebbe lasciato sulla sua scrivania ben
20.000.000
di
lire,
circa
17.500.000
di
Euro
odierni.
Quasi
altrettanti sarebbero stati elargiti sotto banco al futuro Duce
dall’associazione degli industriali. Mussolini riceve le elargizioni e
gli industriali sosterranno l’affermazione del fascismo.
In cambio il Duce promette l’approvazione di un vasto pacchetto di
leggi a loro favorevoli una volta ottenuto il potere, ma ci saranno
anche seggi alla camera e al senato, in modo che alcuni imprenditori
possano
beneficiare
della
immunità
parlamentare
e
intervenire
personalmente sulle leggi.
Scambi di favori e arricchimenti: senatore autorevole diviene Giovanni
Agnelli della FIAT. La presenza di Agnelli nelle maglie della politica
permetterà la trasformazione in industria bellica della FIAT , che
sarà spesso favorita nelle commesse. Reciproci vantaggi nascono dalla
amicizia con Alberto Pirelli, industriale della gomma.
Pirelli sarà nominato consigliere economico dello stesso Mussolini.
Poi andrà alla presidenza delle camere di commercio internazionali e
dal 1934 sarà anche presidente della confindustria.
Non
meno
privilegiati
sono
i
banchieri:
il
consiglio
di
amministrazione della “banca commerciale” fa il pieno con 9 senatori e
1 deputato. Il “credito italiano” ottiene 7 senatori e 3 deputati. Il
“Banco di Roma” 2 senatori e 4 deputati e fiumi di danaro scorreranno
in occasione delle guerre promesse.
Giovanni Agnelli e Roberto Pirelli
La forza del potere bancario è tale che fin dal 1923 lo stato
interviene a piene mani e senza chiedere nulla in cambio.
Mussolini opera per il salvataggio del Banco di Roma, del Banco di
Santo Spirito, della Banca nazionale della agricoltura e di tantissime
altre. In sette anni, la perdita secca dello stato è di ben cinque
miliardi di lire dell’epoca, altri sei miliardi vengono elargiti negli
anni successivi: in tutto 11 miliardi, oltre 9 miliardi di euro
calcolando il valore della lira nel 1930.
Sono trascorsi più di dieci anni, dai primi accordi tra Mussolini e
gli industriali: questi lo hanno finanziato e lo hanno agevolato nella
scalata al potere. Ora per il Duce è arrivato il momento di
sdebitarsi: è una guerra di conquista, anzi, la conquista di un impero
coloniale: valvola di sfogo che spesso è stata la risposta,
superficiale e frettolosa, alle necessità politiche ed economiche del
paese.
“Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia!
Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari! Ascoltate!
Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria. Venti
milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta
Italia.
Mai si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco.
Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una
decisione sola.
La loro manifestazione deve dimostrare e dimostra al mondo che Italia
e
fascismo
costituiscono
una
identità
perfetta,
assoluta,
inalterabile. Possono credere il contrario soltanto i cervelli avvolti
nella più crassa ignoranza su uomini e cose d’Italia, di questa Italia
1935, anno XIII dell’era fascista.
Da molti mesi la ruota del destino, sotto l’impulso della nostra calma
determinazione, si muove verso la mèta: in queste ore il suo ritmo è
più veloce e inarrestabile ormai!
Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un
popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si
tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci
un po’ di posto al sole.
Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue
sorti con quelle degli Alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio
e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia
aveva dato il contributo supremo di seicentosettantamila morti,
quattrocentomila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo
della esosa pace non toccarono all’Italia che scarse briciole del
ricco bottino coloniale altrui.
Abbiamo pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più
stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con
l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!”
Le truppe del 524° battaglione di mitraglieria in partenza per
l’Etiopia
Un discorso carico di furore quello di Mussolini, che il 2 ottobre
1935 annuncia che l’Italia entra in guerra con l’Etiopia. Il discorso
pronunciato dal Duce è un concentrato retorico virulento di tutte le
umiliazioni subite e accumulate nella memoria nazionale : la volontà
di riscattare la disfatta di Adua del 1896, la vittoria mutilata dopo
la prima guerra mondiale, lo scontro tra nazioni borghesi e nazioni
proletarie. L’occasione politica arriva all’improvviso: dall’incidente
militare di Ual Ual ai confini dell’Etiopia con l’Eritrea (già colonia
italiana).
Anche per i Gerarchi la guerra è un occasione per fare affari. Il
costo in danaro del conflitto sarà altissimo: 40 miliardi di lire del
1935, pari a circa 39 miliardi di euro.
Per l’industria è il più grande affare dall’avvento del Regime: solo
in termini di viveri ci vogliono 15.000.000 di scatole di minestra,
17.000.000 di confezioni di carne in scatola, poi 5.000.000 di paia di
scarpe, 92.000.000 di metri di panno per le divise, 12.000 serbatoi
per le riserve d’acqua. Nel solo mese di ottobre del 1935 giungono nel
porto di Massaua 150.000 tonnellate di materiale.. è un bel godere per
tutti: per gli italiani che si illudono di essere tornati ai fasti
gloriosi dell’impero romano, ma soprattutto per i faccendieri
dell’economia e della politica che lucrano sulle spese. Mussolini,
come sempre, lascia fare. L’utile netto fra banche e imprese è
valutabile intorno ai 5 miliardi di lire, cui va aggiunto un plusguadagno non dichiarato di altri 2 miliardi spesso utilizzato per
“ungere” le ruote giuste. Oggi farebbe un totale di quasi sette
miliardi di Euro.
Si lucra anche sugli aspetti più vergognosi della guerra di Etiopia:
l’utilizzo dei gas asfissianti all’ Iprite proibiti dalla convenzione
di Ginevra ( convenzione, alla quale, l’Italia non aveva aderito).
Queste bombe costano allo Stato 4.500 lire l’una, ma il guadagno non è
solo sugli ordigni, sul conto anche le protezioni che i soldati
italiani devono avere per difendersi dai loro effetti.
A suggerire il rimedio interviene Alberto Pirelli, consigliere
economico del Duce e comproprietario dell’unica grande industria della
gomma italiana. La Pirelli è fornitrice di tutti gli pneumatici dei
camion e delle auto inviate per la conquista. Ora vuole vendere allo
stato anche le proprie maschere antigas e del modello 33 ne produce
appositamente 75.000 esemplari, da spedire in Africa per la modica
cifra di 5.850.000 lire. La guerra di Abissinia si rivela un grosso
affare non solo per i produttori di mezzi e armi, ma anche per un
infinità di imprese civili che seguono a ruota l’esercito occupante.
Queste devono ottenere licenze, concessioni, permessi speciali, tutte
possibili occasioni di guadagni illeciti e si riversano in Africa
orientale 823 aziende di costruzioni con un capitale investito pari a
oltre 800.000.000 di lire, poco meno di 800 milioni di euro. La
liquidità scorre a fiumi e in molti vi si abbeverano.Ai 40 miliardi di
lire del costo della guerra, a conti fatti, se ne aggiungono ancora
altri 13 di spesa pubblica per investimenti civili, per complessivi 53
miliardi, oltre 52 miliardi di euro. Un flusso di danaro enorme su cui
molti hanno fatto la cresta ma, naturalmente, tutto questo viene
tenuto segreto. Certi fatti sono però sotto gli occhi di tutti: il
favoritismo verso certe aziende è fin troppo evidente. La FIAT del
senatore
Agnelli
invia
in
Africa
l’86%
degli
autocarri
in
circolazione. Per le casse dello stato è un vero disastro. La resa
economica reale della guerra di conquista è in totale perdita. Le
risorse dell’Etiopia non saranno e non potranno essere mai tali da
compensare il costo dell’impresa, ma questo gli italiani non lo sanno,
non devono assolutamente saperlo.
nelle immagini (da sinistra verso destra): carta politica della
Etiopia nel 1935, il Negus, Hailé Selassié, manifesto di propaganda
per la campagna di Etiopia, giornale “Gazzetta del Popolo” alla fine
della campagna”
Dopo la vittoria in Etiopia (che non risolse, però, la sicurezza della
Regione interna, sempre in mano alle bande partigiane del Negus)
l’Italia subì un embargo commerciale da parte della società delle
nazioni. Questa politica di proibizione da parte di Francia e
Inghilterra,
allontanò
definitivamente
Mussolini
dai
due
paesi
coloniali, in favore della politica nazionalista tedesca e dunque
cambiò atteggiamento anche nei confronti di Hitler, iniziando le
trattative per l’annessione tedesca dell’Austria (in principio lo
Stato Italiano, si era fatto garante per la sovranità austriaca e
ungherese,
nazioni
dell’antico
stato
Austro-Ungarico,
sconfitto
durante il primo conflitto).
Una riflessione critica particolare si configura a proposito di come,
anche ai tempi, vi erano potenze imperialiste e coloniali come la
Francia o l’Inghilterra che non si ponevano scrupoli a promuovere e
metter in atto embarghi commerciali ad altre potenze minori europee
(tra le quali l’Italia) in nome della libertà dei popoli. In
particolare l’Inghilterra è ed era all’epoca una delle potenze
coloniali maggiori e vedeva di cattivo occhio un espansione italiana
in Africa.
Inoltre le condizioni economiche erano precarie e l’opinione pubblica
italiana era insoddisfatta per non aver ricevuto (dopo gli accordi
scaturiti dal primo conflitto) tutti i territori che con gli alleati
avevano pattuito.
Per approfondimenti:
_Nicola Labanca, La guerra d’Etiopia (1935/1941) – il Mulino
_Mancini Ugo, Il fascismo dallo Stato liberale al regime – Editore
Rubbettino
© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata
Scarica