La Turchia: dalla caduta dell’Impero ottomano a Erdoğan (1) La Turchia: dalla caduta dell’Impero ottomano a Erdoğan (1)di Gabriele Rèpaci del 12/07/2016Il breve saggio che segue si propone di analizzare – senza pretesa di completezza né esaustività – come la dissoluzione dello spazio politico e culturale dell’Impero ottomano debba essere conosciuta e correttamente valutata per comprendere una serie di fenomeni storico-politici novecenteschi. In particolare la storia della Turchia moderna è una miniera di insegnamenti per comprendere molti degli avvenimenti che ci coinvolgono in prima persona. La storia dell’Impero Ottomano, dopo la presa di Costantinopoli, può essere divisa in tre periodi: espansionistico, fino alla morte di Solimano il Magnifico, nel 1566; di equilibrio, fino al fallimento della seconda spedizione contro Vienna, nel 1683; di decadenza, dal 1683 alla deposizione dell’ultimo Sultano Mehmet VI, nel 1922. L’identità politica europea risale alla fondazione della potenza dello stato ottomano, a partire dal 1291, con la sconfitta dei bizantini e la guerra santa in Anatolia. È tuttavia nel XIV secolo, con il Sultano Murad I, che il campo d’azione dell’Impero si protende tutto verso l’Europa, approfittando delle rivalità tra gli stati balcanici, delle lotte tra Venezia e Genova, del conflitto tra Bisanzio e Roma. La minacciosa irruzione ottomana fu fronteggiata da una prima coalizione di principi cristiani, promossa da papa Urbano V e sconfitta nella battaglia della Marica del 1363. La vittoria indusse Murad a trasferire, nel 1365, la capitale da Busra ad Adrianopoli di Bitinia, in Asia Minore, proprio per sancire il nuovo fulcro della spinta a nord dell’Impero. Sotto il regno del suo successore, Bayazid I, anche la Grecia e la Serbia divennero protettorati ottomani. Intanto, l’affacciarsi a est delle orde mongole di Tamerlano (Tämūr Lenk) contribuì ulteriormente all’occidentalizzazione del dominio ottomano. I mongoli, pur avendo fatto prigioniero il Sultano ad Ankara, non vollero approfittare della debolezza ottomana e arrestarono la loro espansione, abbandonando l’Impero alle sue lotte intestine per la successione a Bayazid. Tra i suoi figli ebbe la meglio Mehmet, divenuto Sultano con il nome di Mehmet I. A lui si deve il consolidamento dei confini dell’Impero, mentre il figlio, Murad II, avviò l’opera di edificazione di una vera e propria amministrazione imperiale, finalizzata a organizzare e beneficiare delle grandi risorse naturali e di attività umana, che i vasti territori conquistati potevano offrire. Con il successo di Mehmet II, si otterrà la conquista, nel 1453 e dopo due anni di assedio, di Costantinopoli, finalmente eletta a nuova capitale dell’Impero Ottomano. Affresco di Tintoretto risalente al 1580 che racconta la presa di Costantinopoli da parte dei turchi. Costantinopoli capitale fu ribattezzata Istanbul, dalla locuzione greca εις την πολιν (“verso la città”). Da questo momento, l’espansione ottomana a ovest sembrava inarrestabile. Mehmet II era ormai identificato come Fatih, il conquistatore, e in effetti, dal 1474 in poi, l’Impero proseguì verso l’Europa centrale, con il primo assedio di Vienna, nel 1529, ad opera di Süleyman II. Con lui, ricordato come Solimano il Magnifico o il Legislatore, l’Impero raggiunse anche il massimo della sua potenza militare, del prestigio internazionale e della razionalizzazione organizzativa interna. Quest’ultima, infatti, si caratterizzò per essere largamente tollerante nei confronti dei paesi conquistati e persino liberale nel riconoscimento dell’uso pubblico delle lingue e delle religioni. Dopo Süleyman II, ebbe inizio la decadenza, scandita da lotte interne tra monarca e corpo militare dei «Giannizzeri» (costituito sin dal 1334 da ex cristiani, rapiti da fanciulli ed educati all’Islam), dalla battaglia di Lepanto del 1571, dal secondo fallito assedio di Vienna, nel 1683, dalla Pace di Carlowitz del 1699, con cui gli Asburgo ottennero la sovranità sul Regno di Ungheria, dal Trattato di Passarowitz del 1718, sempre nel segno dell’espansione austriaca. Con quest’ultimo accordo l’alleanza austro-russa contro l’Impero ottomano decretò il nuovo equilibrio europeo, sfociato nella guerra del 1736, strenuamente combattuta dall’esercito ottomano, e nella pace del 1774, con cui la Russia conseguì, tra l’altro, il diritto di libera navigazione nel mar Nero e il passaggio della sua flotta dagli stretti per il Mediterraneo. Tra Settecento e Ottocento, l’Impero ottomano visse una nuova fase di stabilizzazione, dovuta al clima inaugurato in Europa dalla Rivoluzione francese e dalle guerre napoleoniche, che permisero all’Impero ottomano, da un lato, di sentirsi tranquillo sulle proprie frontiere verso la Russia, e, dall’altro, di concentrarsi sull’ammodernamento militare e dell’amministrazione interna. Il Congresso di Parigi, nel 1856, scandì una nuova fase dell’identità europea dell’Impero: l’integrità dei confini era salvaguardata, ma l’indipendenza riconosciuta alla Grecia e l’autonomia accordata alla Romania inaugurarono inedite lotte delle altre nazionalità per la loro separazione dal potere del Sultano. L’Impero ormai era in crisi e il processo di disgregazione irreversibile. Lungo questa china fin de siècle, nacquero il movimento dei Giovani ottomani e l’ideologia dell’Ottomanesimo, mirata a ridimensionare lo sfaldamento dell’Impero attraverso un percorso di riforme nel richiamo alla grande tradizione ottomana. Le novità prodotte da questo movimento si sintetizzano in una formula: Tanzimat e Khayriyya o «leggi benefiche», avviate nel 1856, per indicare il complesso di disposizioni di riforma della giustizia, culminate nella Costituzione ottomana del 1876. Si trattò di tentativi coraggiosi di grande impatto formale, evocati anche in altri contesti musulmani come la Tunisia, ma di scarsa aderenza sostanziale. Non meno contraddittorio si rivelò il movimento dei Giovani turchi. Creato clandestinamente a Istanbul nel 1889, il movimento si organizzò nel Comitato unione e progresso (Ittihad ve Terakki Cemiyeti) e si dichiarò erede dei giovani ottomani del 1876. Il movimento era composto prevalentemente da ufficiali dell’esercito, sotto la guida di Enver Bey, ma raccoglieva idee libertarie e socialiste collegandosi anche, tramite alcuni suoi affiliati europei, alla massoneria: per questo non si presentava con un programma ben definito e omogeneo. Sul piano retorico, esso riecheggiava il «panturanesimo» o «panturchismo» che i musulmani dell’Impero ottomano avevano importato dalla Russia e le cui idee si sintetizzavano nella formula del ripristino del «focolare turco» (Türk Ocaği). Invece, sul fronte istituzionale, due sembravano le rivendicazioni: il ritorno alla Costituzione liberale del 1876; il recupero del consenso delle minoranze non turche, di cui i Giovani turchi interpretavano le istanze autonomistiche dopo la crisi dell’unità ottomana. Certo, le ideologie costituzionali di questa élite furono fortemente suggestionate da eventi esterni: le istanze rivoluzionarie russe, ideologicamente ben marcate; l’esempio giapponese, la cui modernizzazione era iniziata proprio dopo la vittoria sulla Russia ed era passata attraverso la costituzionalizzazione del potere; l’esperimento di monarchia costituzionale in Iran, del 1905-1906. Il 23 luglio 1908, Enver Bey intimò al Sultano Abdül Hamid II, denominato «rosso» per la sua crudeltà sanguinaria, di ristabilire la Costituzione del 1876. Il giorno seguente il Sultano cedette e annunciò, in attuazione della ripristinata Carta, la convocazione di elezioni politiche generali. La prima camera elettiva fu solennemente convocata e inaugurata il 4 dicembre 1908. In quei mesi, si organizzarono i primi sindacati e si verificarono i primi scioperi della storia ottomana. L’obiettivo di coniugare la grandezza imperiale con la costituzionalizzazione del potere sembrò raggiunto. Invece, il 13 aprile 1909, Instabul fu scossa da una sommossa degli studenti di teologia che rivendicavano il ritorno alla legge coranica e le dimissioni del governo. Gli insorti non incontrarono alcuna resistenza e si imposero nella capitale. Disorientati, i Giovani turchi trovarono rifugio a Salonicco per riorganizzarsi. Rientrato in Turchia, Enver riprese la marcia verso Istanbul proprio con l’aiuto delle armate di Macedonia e, il 24 aprile reintegrò nei poteri la Camera elettiva, riuscendo a far designare Mehmet V quale successore di Hamid. In verità l’ammutinamento studentesco del 13 aprile aveva manifestato la debolezza congenita del movimento dei Giovani turchi: tradizionalismo e costituzionalismo non potevano essere semplicemente sommati attraverso imitazioni esterne e rievocazioni del passato. Il cuore dell’Impero dei primi anni del Novecento si scopriva «europeo» anche nel vivere il dilemma, determinante nella storia del costituzionalismo, tra riforma, tradizione e rivoluzione. Intanto, il ritrovato sodalizio con il nuovo Sultano, in quanto caldeggiato soprattutto dall’esercito, produrrà due ulteriori effetti di lungo periodo: la emarginazione dei gruppi autonomistici delle periferie dell’Impero, insurrezione; la originariamente deviazione vicini militarista al movimento di dell’esperienza di rivendicazione costituzionale, con il conseguente abbandono di tutti i progetti di decentramento riformistico e il progressivo accentramento dei poteri, sfociato nel «triumvirato militare» di Enver-Cemal-Talat, avallato dal Sultano e legittimato con la elevazione di Enver al rango di Paşa. Legato alla Germania dal trattato di alleanza del 2 agosto 1914, L’Impero ottomano entrò in guerra il 29 ottobre. La guerra, ancorché condotta sotto la direzione strategica di Enver Paşa, produsse un susseguirsi di disfatte, conclusesi con l’armistizio firmato a Mudros il 30 ottobre 1918. Le grandi potenze europee imposero lo smembramento dell’Impero, la confisca della flotta ottomana, l’occupazione di Istanbul da parte delle truppe dell’Intesa balcanica, l’affidamento dei territori a patti segreti per la suddivisione delle province imperiali, le Vilayet tra inglesi (Mossul e Mesopotamia), francesi (Siria e Cilicia), italiani (Koniya e Antalya). Il governo si trovò a non detenere alcun ruolo concreto, tant’è che il nuovo Sultano, Mehmet VI, compose un Consiglio di ministri senza Enver, agli ordini dei vincitori. È in questo difficile passaggio che riemersero le istanze costituzionali, ancora una volta di confusa identificazione. Cellule del Comitato unione e progresso si ricostituirono lontano dalle città. Fu proprio per stanarne la presenza che il Sultano inviò il giovane e valoroso ufficiale Mustafà Kemal a recarsi nella regione di Samsun. Gli esperimenti costituzionali insurrezionali questa volta tentarono forme di governo repubblicane e autonomiste, apertamente ostili al Sultano e al suo asservimento allo straniero. Nacquero così: il Comitato per la difesa della Tracia, in lotta contro le mire espansionistiche della Grecia; il governo per la Caucasia, separato dagli armeni, autoproclamatisi indipendenti. In Anatolia, si insediò nel 1919 il movimento di resistenza armata «Associazione per la difesa dei diritti» (Müdaafayi Hukuk Cemiyetleri). Contemporaneamente si verificarono ovunque significativi moti contadini, tesi a sperimentare rudimentali forme di soviet. All’arrivo a Samsun, Kemal si convinse della bontà di queste rivendicazioni repubblicane rispetto all’indifferenza della borghesia musulmana cittadina, economicamente interessata al mantenimento dell’occupazione straniera, e comprese che la disgregazione imperiale non era da imputare all’autonomismo, quanto alla totale sfiducia popolare nelle istituzioni centrali del paese. Così, il 22 giugno 1919, Kemal lanciò il suo primo appello pubblico alla resistenza, invitando i militari a unirsi a lui e annunciando la convocazione di un Congresso nazionale a Sivas, rappresentativo di tutte le forze del territorio per ricomporre l’identità turca. Subito dopo, il 23 luglio, approfittando della campagna di resistenza contro la costituzione della Grande Armenia, egli promosse l’Assemblea generale preliminare di Erzurum, finalizzata a fissare gli obiettivi del Congresso nazionale di Sivas: separazione degli interessi della Turchia da quelli dell’Impero ottomano; proclamazione della indivisibilità dei paesi turchi dell’antico Impero; indipendenza dagli europei. Aperto a Sivas il 13 settembre, il Congresso si trasferì ad Ankara alla fine dell’anno. Le proclamazioni di Sivas non mettevano in discussione il potere del Sultano. Infatti, l’opzione repubblicana non risultava ancora pienamente condivisa. In ogni caso, però, il Sultano si mostrò da subito ostile al progetto di Kemal, strumentalizzando contro di lui le sollevazioni autonomistiche dei curdi, mal viste dai partecipanti al Congresso di unificazione Sivas, spiazzando nazionale con il suo l’annuncio progetto di politico elezioni di politiche anticipate, evidentemente alternative all’Assemblea insediata ad Ankara, modificando, inoltre, la composizione del governo di Istanbul per renderlo meno filoeuropeo. In effetti, le mosse del Sultano disorientarono la strategia di Kemal. L’Assemblea nazionale non solo decise di trasferirsi a Istanbul contro il suo parere, ma accelerò inopinatamente il processo rivoluzionario, adottando un Patto nazionale che riprendeva senza mezze misure il programma di Sivas. Questo colpo di forza provocò una crudele repressione britannica: i lavori dell’Assemblea vennero soppressi e i deputati nazionalisti confinati a Malta. Il Sultano, dal canto suo, emise un Fètva, un decreto che dichiarava fuori legge tutti gli aderenti ai movimenti nazionalisti riconosciuti a Sivas. Kemal, che si era rifiutato di recarsi a Istanbul, sfuggì alla retata inglese e poté riorganizzare altre mobilitazioni che costringeranno a nuove elezioni, contro la volontà del Sultano. La partecipazione alla nuova consultazione popolare sancì la nascita del sentimento repubblicano turco: la nuova Grande Assemblea (Büyük Millet Meclisi) era a maggioranza nazionalista e repubblicana e inaugurò i suoi lavori il 23 aprile 1920, eleggendo suo presidente Kemal. Questi, sempre con l’appoggio soprattutto dell’esercito guidato dal colonnello İsmet (il futuro İnӧnü), nominò il primo governo nazionalista turco. Il governo nasceva formalmente illegale al cospetto del Fètva del Sultano, ma sostanzialmente legittimo per il consenso ricevuto, tanto da vedersi di lì a poco riconosciuto a livello internazionale, con la partecipazione dei suoi membri all’armistizio franco-turco. La politica nazionalista si misurò da subito con due diverse prospettive presenti tra i repubblicani: il cosiddetto «ideale occidentale» (Garb dell’esperienza Mefkulersi), delle Tanzimat; che avocava l’«ideale il recupero orientale» (Sark Mefkurersi), teso invece alla discontinuità su tutti i fronti, con il passato ottomano come anche con i valori occidentali dell’«asservimento imperiale». Su quest’ultima prospettiva pesava certamente l’influsso ideologico della Russia bolscevica, che aveva appoggiato il movimento nazionalista nella sua triplice lotta contro il Sultano, gli alleati europei e gli armeni. L’«ideale orientale» predicava la lotta contro l’imperialismo anglofrancese, ma sul piano delle proposte politiche si dimostrava piuttosto confuso. In ogni caso, Kemal reputò opportuno assecondare l’«ideale orientale», per non perdere l’appoggio popolare di quelle forze contadine che avevano contribuito non poco alla riuscita della rivolta nazionalista. Per tale ragione, egli provvide a creare un doppione islamico dell’Armata Rossa: l’Armata Verde (Yeşil Ordu), con funzioni di ordine pubblico e sicurezza sui confini. Questa Armata sfuggirà subito di mano al suo ideatore. In nome della lotta contro l’imperialismo europeo in Asia, i miliziani «verdi» predicavano l’eliminazione della proprietà privata e la distribuzione delle terre e delle ricchezze. Ma il «populismo» di Kemal mirava ad altro: riconoscersi in uno stato nuovo, sotto la cui guida promuovere giustizia e sviluppo. Per la definitiva discontinuità dal passato, questa idea repubblicana doveva innanzitutto emanciparsi dalla legittimazione del Sultano. Con il Trattato di Sèvres, del 10 agosto 1920, cadde quest’ultima ipoteca. La sottoscrizione da parte del Sultano di condizioni palesemente umilianti per la Turchia, fece perdere ogni credibilità all’istituzione monarchica. Con tale accordo l’Impero ottomano, già drasticamente ridimensionato col Trattato di Londra del 1913, si ritrovò ridotto ad un modesto stato entro i limiti della penisola anatolica, privato di tutti i territori arabi e della sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che furono smilitarizzati. Ai greci fu assegnata nell’Asia minore la zona gravitante su Smirne, ai bordi meridionali della penisola anatolica erano previste zone d’influenza dell’Italia (golfo di Adalia), della Francia (Cilicia) e della Gran Bretagna (Kurdistan). L’Armenia fu riconosciuta come stato indipendente con i Vilayet di Erzerum, Erivan e Trebisonda. Dei paesi arabi, Siria e Libano andarono ai francesi, la Palestina e l’Iraq agli inglesi come “mandati” sotto il controllo della Società delle Nazioni (una forma speciale di neocolonialismo). Infine, l’esercito veniva esautorato di qualsiasi funzione decisionale. Fu proprio questo passaggio che colse a suo favore Kemal. Il 20 gennaio 1921, egli propose l’adozione di una Costituzione provvisoria per la transizione definitiva alla repubblica laica, fondata sulla sovranità della nazione. Intanto, a «sinistra» dello schieramento kemalista forte dell’appoggio dell’Armata Verde, si affacciava la fronda estremista, che spingeva per la lotta di classe e la rivoluzione proletaria. A questo punto, Kemal richiamò l’esercito e decise di liquidare l’Armata Verde, promuovendo contro di essa un piano di attacco destinato a sortire importanti effetti : da una parte, verrà sancita la sconfitta dell’«ideale orientale»; dall’altra, l’esercito assumerà il ruolo di tutore istituzionale della identità repubblicana, ancora in costruzione; infine, si accentueranno le rivendicazioni greche a nord, grazie al ritiro delle truppe militari a Bursa per fronteggiare l’Armata. La ripresa del conflitto con la Grecia riavvicinò la Turchia alla Russia, fino alla firma del patto di amicizia sovietico-turco, del 16 marzo 1921, che consentì alla Turchia di risolvere anche il problema di una grande Armenia indipendente, di fatto consegnata all’Urss come repubblica sovietica. L’entrata dell’esercito turco a Izmir (Liberazione di Smirne) il 9 settembre 1922, a seguito del successo della Grande offensiva di Smirne, sigillando efficacemente la vittoria turca e concludendo la guerra. Con la pace di Losanna del 1923, la Turchia assumeva il suo aspetto attuale e con il recupero pieno dell’indipendenza, il processo di edificazione repubblicana finalmente si consolidava. I passaggi fondamentali furono quattro: il voto dell’Assemblea di Ankara, adottato all’unanimità il 1 novembre 1922, con cui venne proclamata la sovranità del governo di Ankara su tutto il territorio nazionale e di fatto si disconosceva la legittimità del Sultano; la creazione, nell’agosto del 1923, del Partito repubblicano del popolo (Cumhuriyet Halk Partisi – CHP), come partito unico della Turchia indipendente; la proclamazione della repubblica il 29 ottobre 1923; la soppressione del Califfato nel 1924. Kemal fu eletto dal parlamento presidente della repubblica e nominò come Primo ministro İsmet Paşa, conosciuto ormai come İnӧnü. Furono questi due uomini politici a redigere la Costituzione repubblicana e laica della moderna Turchia. A suggello del suo operato, l’Assemblea nazionale conferirà a Kemal, nel 1934, il titolo di Atatürk, ovvero «Padre dei turchi». Mustafà Kemal Atatürk (padre dei turchi) è stato il fondatore della nazione turca contemporanea, attraverso un’operazione complessiva di riformismo dispotico dall’alto che trova pochi altri precedenti storici (da Pietro il Grande in Russia ai primi del Settecento alla cosiddetta Restaurazione Meiji in Giappone dopo il 1868). È interessante (e non casuale) che sia stato un uomo nato e cresciuto nella Rumelia (a Salonicco, nella Turchia europea perduta nel 1913) a rifondare una Turchia largamente immaginaria e mitica nell’Anatolia, una zona geografica in cui prima del 1071 (battaglia di Manzikert) non abitava praticamente nessun turco, ed in cui per circa mille anni abitarono almeno quattro popoli principali (turchi, greci, armeni, curdi), più molti altri popoli minori (lazi, circassi, georgiani, arabi, assiri, eccetera). Il sogno europeo dei riformatori turchi dell’Ottocento, nato e cresciuto in Rumelia, venne trapiantato in un’Anatolia largamente immaginaria. Per approfondimenti: _Hamit Bozarslan, La Turchia contemporanea, Il Mulino, 2004 _Lea Nocera, La Turchia contemporanea. Dalla repubblica kemalista al governo dell’AKP, Carocci, 2011 _Alessandro Aruffo, Il pendolo turco. La Turchia contemporanea tra passato e futuro, Datanews, 2011 © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata Agnelli, Pirelli e la guerra di Etiopia. Le ragioni di una sconfitta (3) Agnelli, Pirelli e la guerra di Etiopia. Le ragioni di una sconfitta (3)di Giuseppe Baiocchi del 15/06/2016 Nel ventennio fascista girano soldi, come si è scritto, per corrompere, per comprare silenzi o consensi. Chiudendo un occhio su arricchimenti esagerati, su conflitti di interessi evidenti, su tante e piccole grandi truffe quotidiane e dove questo non basti a garantire la totale fedeltà, c’è il sesso come arma di ricatto e l’accusa di omosessualità, quella che il regime ha deciso essere la più grave, la più infamante. Ora il nostro racconto arriverà a segreti di ben altro genere: a quegli affari e a quegli accordi, tenuti nascosti agli italiani, con poteri così forti da determinare le sorti del paese. Rapporti stabiliti fin dagli albori con il fascismo, da prima della Marcia su Roma, prima del 28 ottobre 1922. Cominciamo dalla massoneria, l’associazione segreta per eccellenza. Della massoneria fanno parte membri dirigenti del Regno, personaggi della grande industria e della finanza, nonché ufficiali delle forze armate. Per Mussolini, che è in procinto di organizzare la Marcia su Roma è fondamentale averne l’appoggio. Per ben due volte si incontra alla Stazione termini delle capitale con influenti Massoni, tra di essi uno dei capi della massoneria: Raul Palermi. Il Gran Maestro gli avrebbe garantito il pieno appoggio organizzativo e finanziario all’impresa. Inoltre anche moltissimi Gerarchi sono iscritti alle logge: Farinacci, Starace, Balbo, Bottai, Rossoni, Costanzo Ciano e tanti altri ancora. Avrebbero avuto un lecito vantaggio economico dalla fratellanza massonica? Nel 1924, uomini del partito fascista, tutti massoni, si sarebbero spartiti una tangente di provenienza dalla multinazionale del petrolio “Sinclair Oil” . In cambio questa sarebbe stata favorita per ottenere contratti di fornitura all’Italia. La trama affaristica viene scoperta dal deputato Giacomo Matteotti, che si appresta a denunciare il malaffare dai banchi di Montecitorio, con prove alla mano, ottenute dalla massoneria inglese. Matteotti non potrà parlare, verrà rapito da una squadraccia fascista e poi ucciso. Mussolini è il mandante dell’omicidio? Se ne parla ancora oggi, è un altro dei suoi segreti. Intanto riesce a volgere a suo favore la crisi istituzionale sorta con il caso Matteotti e, con il discorso del 3 Gennaio 1925 alla camera, avvia l’Italia verso la dittatura. Da questo momento il rapporto tra il Duce e la massoneria comincia ad incrinarsi, ora non può più tollerare una lobby segreta con un potere proprio -uno stato nello stato- e decide di liberarsene. Prima l’ha sapientemente e opportunisticamente usata, poi se ne disfa. Con un provvedimento ratificato dal senato del Regno il 20 novembre 1925, si proibisce qualsiasi organismo associativo che per statuto tenga segreti i nomi dei proprio soci e da qui la massoneria diventa fuori legge. Se con la massoneria il rapporto è stato ambiguo, quello con la classe industriale italiana è stato per Mussolini costante e duraturo; soprattutto con quella Piemontese, Lombarda, Venete, Ligure e Romagnola che nel biennio 1920/1922 maggiormente si è servita del fascismo per aggirare la rivolta degli operai nelle fabbriche. Per capirne la genesi, bisogna tornare ai giorni precedenti la marcia su Roma, quando alcuni industriali milanesi vanno a trovare Mussolini presso la redazione del Popolo d’Italia. Non è solo una visita di cortesia, ma di affari: aprono il portafoglio. Un responsabile della associazione bancaria avrebbe lasciato sulla sua scrivania ben 20.000.000 di lire, circa 17.500.000 di Euro odierni. Quasi altrettanti sarebbero stati elargiti sotto banco al futuro Duce dall’associazione degli industriali. Mussolini riceve le elargizioni e gli industriali sosterranno l’affermazione del fascismo. In cambio il Duce promette l’approvazione di un vasto pacchetto di leggi a loro favorevoli una volta ottenuto il potere, ma ci saranno anche seggi alla camera e al senato, in modo che alcuni imprenditori possano beneficiare della immunità parlamentare e intervenire personalmente sulle leggi. Scambi di favori e arricchimenti: senatore autorevole diviene Giovanni Agnelli della FIAT. La presenza di Agnelli nelle maglie della politica permetterà la trasformazione in industria bellica della FIAT , che sarà spesso favorita nelle commesse. Reciproci vantaggi nascono dalla amicizia con Alberto Pirelli, industriale della gomma. Pirelli sarà nominato consigliere economico dello stesso Mussolini. Poi andrà alla presidenza delle camere di commercio internazionali e dal 1934 sarà anche presidente della confindustria. Non meno privilegiati sono i banchieri: il consiglio di amministrazione della “banca commerciale” fa il pieno con 9 senatori e 1 deputato. Il “credito italiano” ottiene 7 senatori e 3 deputati. Il “Banco di Roma” 2 senatori e 4 deputati e fiumi di danaro scorreranno in occasione delle guerre promesse. Giovanni Agnelli e Roberto Pirelli La forza del potere bancario è tale che fin dal 1923 lo stato interviene a piene mani e senza chiedere nulla in cambio. Mussolini opera per il salvataggio del Banco di Roma, del Banco di Santo Spirito, della Banca nazionale della agricoltura e di tantissime altre. In sette anni, la perdita secca dello stato è di ben cinque miliardi di lire dell’epoca, altri sei miliardi vengono elargiti negli anni successivi: in tutto 11 miliardi, oltre 9 miliardi di euro calcolando il valore della lira nel 1930. Sono trascorsi più di dieci anni, dai primi accordi tra Mussolini e gli industriali: questi lo hanno finanziato e lo hanno agevolato nella scalata al potere. Ora per il Duce è arrivato il momento di sdebitarsi: è una guerra di conquista, anzi, la conquista di un impero coloniale: valvola di sfogo che spesso è stata la risposta, superficiale e frettolosa, alle necessità politiche ed economiche del paese. “Camicie nere della rivoluzione! Uomini e donne di tutta Italia! Italiani sparsi nel mondo, oltre i monti e oltre i mari! Ascoltate! Un’ora solenne sta per scoccare nella storia della patria. Venti milioni di uomini occupano in questo momento le piazze di tutta Italia. Mai si vide nella storia del genere umano, spettacolo più gigantesco. Venti milioni di uomini: un cuore solo, una volontà sola, una decisione sola. La loro manifestazione deve dimostrare e dimostra al mondo che Italia e fascismo costituiscono una identità perfetta, assoluta, inalterabile. Possono credere il contrario soltanto i cervelli avvolti nella più crassa ignoranza su uomini e cose d’Italia, di questa Italia 1935, anno XIII dell’era fascista. Da molti mesi la ruota del destino, sotto l’impulso della nostra calma determinazione, si muove verso la mèta: in queste ore il suo ritmo è più veloce e inarrestabile ormai! Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un po’ di posto al sole. Quando nel 1915 l’Italia si gettò allo sbaraglio e confuse le sue sorti con quelle degli Alleati, quante esaltazioni del nostro coraggio e quante promesse! Ma, dopo la vittoria comune, alla quale l’Italia aveva dato il contributo supremo di seicentosettantamila morti, quattrocentomila mutilati, e un milione di feriti, attorno al tavolo della esosa pace non toccarono all’Italia che scarse briciole del ricco bottino coloniale altrui. Abbiamo pazientato tredici anni, durante i quali si è ancora più stretto il cerchio degli egoismi che soffocano la nostra vitalità. Con l’Etiopia abbiamo pazientato quaranta anni! Ora basta!” Le truppe del 524° battaglione di mitraglieria in partenza per l’Etiopia Un discorso carico di furore quello di Mussolini, che il 2 ottobre 1935 annuncia che l’Italia entra in guerra con l’Etiopia. Il discorso pronunciato dal Duce è un concentrato retorico virulento di tutte le umiliazioni subite e accumulate nella memoria nazionale : la volontà di riscattare la disfatta di Adua del 1896, la vittoria mutilata dopo la prima guerra mondiale, lo scontro tra nazioni borghesi e nazioni proletarie. L’occasione politica arriva all’improvviso: dall’incidente militare di Ual Ual ai confini dell’Etiopia con l’Eritrea (già colonia italiana). Anche per i Gerarchi la guerra è un occasione per fare affari. Il costo in danaro del conflitto sarà altissimo: 40 miliardi di lire del 1935, pari a circa 39 miliardi di euro. Per l’industria è il più grande affare dall’avvento del Regime: solo in termini di viveri ci vogliono 15.000.000 di scatole di minestra, 17.000.000 di confezioni di carne in scatola, poi 5.000.000 di paia di scarpe, 92.000.000 di metri di panno per le divise, 12.000 serbatoi per le riserve d’acqua. Nel solo mese di ottobre del 1935 giungono nel porto di Massaua 150.000 tonnellate di materiale.. è un bel godere per tutti: per gli italiani che si illudono di essere tornati ai fasti gloriosi dell’impero romano, ma soprattutto per i faccendieri dell’economia e della politica che lucrano sulle spese. Mussolini, come sempre, lascia fare. L’utile netto fra banche e imprese è valutabile intorno ai 5 miliardi di lire, cui va aggiunto un plusguadagno non dichiarato di altri 2 miliardi spesso utilizzato per “ungere” le ruote giuste. Oggi farebbe un totale di quasi sette miliardi di Euro. Si lucra anche sugli aspetti più vergognosi della guerra di Etiopia: l’utilizzo dei gas asfissianti all’ Iprite proibiti dalla convenzione di Ginevra ( convenzione, alla quale, l’Italia non aveva aderito). Queste bombe costano allo Stato 4.500 lire l’una, ma il guadagno non è solo sugli ordigni, sul conto anche le protezioni che i soldati italiani devono avere per difendersi dai loro effetti. A suggerire il rimedio interviene Alberto Pirelli, consigliere economico del Duce e comproprietario dell’unica grande industria della gomma italiana. La Pirelli è fornitrice di tutti gli pneumatici dei camion e delle auto inviate per la conquista. Ora vuole vendere allo stato anche le proprie maschere antigas e del modello 33 ne produce appositamente 75.000 esemplari, da spedire in Africa per la modica cifra di 5.850.000 lire. La guerra di Abissinia si rivela un grosso affare non solo per i produttori di mezzi e armi, ma anche per un infinità di imprese civili che seguono a ruota l’esercito occupante. Queste devono ottenere licenze, concessioni, permessi speciali, tutte possibili occasioni di guadagni illeciti e si riversano in Africa orientale 823 aziende di costruzioni con un capitale investito pari a oltre 800.000.000 di lire, poco meno di 800 milioni di euro. La liquidità scorre a fiumi e in molti vi si abbeverano.Ai 40 miliardi di lire del costo della guerra, a conti fatti, se ne aggiungono ancora altri 13 di spesa pubblica per investimenti civili, per complessivi 53 miliardi, oltre 52 miliardi di euro. Un flusso di danaro enorme su cui molti hanno fatto la cresta ma, naturalmente, tutto questo viene tenuto segreto. Certi fatti sono però sotto gli occhi di tutti: il favoritismo verso certe aziende è fin troppo evidente. La FIAT del senatore Agnelli invia in Africa l’86% degli autocarri in circolazione. Per le casse dello stato è un vero disastro. La resa economica reale della guerra di conquista è in totale perdita. Le risorse dell’Etiopia non saranno e non potranno essere mai tali da compensare il costo dell’impresa, ma questo gli italiani non lo sanno, non devono assolutamente saperlo. nelle immagini (da sinistra verso destra): carta politica della Etiopia nel 1935, il Negus, Hailé Selassié, manifesto di propaganda per la campagna di Etiopia, giornale “Gazzetta del Popolo” alla fine della campagna” Dopo la vittoria in Etiopia (che non risolse, però, la sicurezza della Regione interna, sempre in mano alle bande partigiane del Negus) l’Italia subì un embargo commerciale da parte della società delle nazioni. Questa politica di proibizione da parte di Francia e Inghilterra, allontanò definitivamente Mussolini dai due paesi coloniali, in favore della politica nazionalista tedesca e dunque cambiò atteggiamento anche nei confronti di Hitler, iniziando le trattative per l’annessione tedesca dell’Austria (in principio lo Stato Italiano, si era fatto garante per la sovranità austriaca e ungherese, nazioni dell’antico stato Austro-Ungarico, sconfitto durante il primo conflitto). Una riflessione critica particolare si configura a proposito di come, anche ai tempi, vi erano potenze imperialiste e coloniali come la Francia o l’Inghilterra che non si ponevano scrupoli a promuovere e metter in atto embarghi commerciali ad altre potenze minori europee (tra le quali l’Italia) in nome della libertà dei popoli. In particolare l’Inghilterra è ed era all’epoca una delle potenze coloniali maggiori e vedeva di cattivo occhio un espansione italiana in Africa. Inoltre le condizioni economiche erano precarie e l’opinione pubblica italiana era insoddisfatta per non aver ricevuto (dopo gli accordi scaturiti dal primo conflitto) tutti i territori che con gli alleati avevano pattuito. Per approfondimenti: _Nicola Labanca, La guerra d’Etiopia (1935/1941) – il Mulino _Mancini Ugo, Il fascismo dallo Stato liberale al regime – Editore Rubbettino © L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata