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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale
Incontro di studio sul tema:
Bioetica e diritto: una riflessione interdisciplinare
Roma, 23-25 maggio 2011
Prof. Avv. Michele Sesta
Ordinario di Diritto Civile dell’Università di Bologna
Avvocato in Bologna
[email protected]
www.studiosesta.it
L'INIZIO DELLA VITA UMANA:
DALLA TRADIZIONALE TUTELA DEL NASCITURO ALLE LEGGI
SULL'INTERRUZIONE VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA E SULLA
PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA
(Bozza di relazione)
SOMMARIO: 1. PREMESSA – 2. L’INIZIO DELLA VITA UMANA E LA TRADIZIONALE TUTELA DEL NASCITURO – 3.
L’INIZIO DELLA VITA UMANA E LA LEGGE SULL’INTERRUZIONE DELLA GRAVIDANZA – 4. LA TUTELA DELL’EMBRIONE
NELLA LEGGE SULLA PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA - 4.1. LIMITI ALL’ACCESSO ALLE TECNICHE E ALLA
DIAGNOSI GENETICA REIMPIANTO – 4.2. CREAZIONE, TRASFERIMENTO E CRIOCONSERVAZIONE DEGLI EMBRIONI:
ESISTE UN INCONDIZIONATO DIRITTO ALLA PROCREAZIONE? – 4.3. EFFETTI LEGALI ED IMPLICAZIONI PRATICHE
DELLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE DELL’8 MAGGIO 2009, N. 151: VERSO LA LEGITTIMAZIONE
DELLA DIAGNOSI REIMPIANTO CON SELEZIONE EMBRIONARIA? – 4.4. LA FECONDAZIONE ETEROLOGA, TRA DIVIETI E
DUBBI DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE – 4.5. LA MATERNITÀ SURROGATA
1
PREMESSA
Nell'accingersi a trattare, con finalità essenzialmente pratiche, un
tema arduo – qual è quello che attiene alla ricostruzione della condizione
giuridica dell'embrione – occorre in primo luogo avvertire che la riflessione,
1
ancorché intenda mantenersi ancorata ai dati normativi, dottrinali
e
giurisprudenziali, risulti fortemente condizionata dall'approccio pregiuridico dell'interprete.
A ben vedere, infatti, il punto nodale attorno al quale ruotano le varie
questioni che coinvolgono l'embrione è quello del suo statuto ontologico e,
quindi, pre-giuridico: dal ritenere che partecipi – sin dalla sua formazione della natura umana, che sia individuo, o addirittura – quantomeno in
potenza e non in atto – “persona”, discende che egli benefici della tutela
apprestata dall'art. 2 della Costituzione, cosicché il diritto positivo ne
riconoscerebbe i diritti inviolabili, primi fra tutti quelli all'integrità fisica e
alla vita.
In ultima analisi, infatti, la stessa inclusione dell'embrione nell’art. 2
Cost. si risolve in una opzione pre-giuridica, “di fede”, in senso ampio si
potrebbe dire, tanto da far dubitare chi detta opzione non intenda seguire –
ed anzi voglia capovolgere - circa la legittimità delle disposizioni legislative
che la presuppongono, quali sono quelle contenute nella legge n. 40/2004, a
partire dall'art. 1 che proclama la sussistenza di diritti in capo al concepito, e
nella legge n. 194/1978, il cui articolo 1 garantisce la tutela della vita umana
sin dal suo inizio.
A ben vedere, l'”atto di fede” concerne proprio la determinazione
dell'inizio della vita umana, che certamente rappresenta un dato
pregiuridico, che neppure la scienza pare in grado di determinare con
certezza, considerate le variegate posizioni che si rinvengono1, e che è
indipendente dalla scelta contingente dei legislatori. Sembra a chi scrive
1
BILO', Sub l. 22 maggio 1978, n. 194, art. 1, in Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, II ed.,
Milano, 2009, 2735
2
condivisibile che l'embrione partecipi sin dalla sua creazione della
condizione umana, sia che si sia formato in vitro che in corpore; in tale ultimo
caso egli è altro rispetto al corpo della madre in cui si è formato e cresce, e
quindi non le appartiene, né le spetta, in linea di principio, la facoltà
incondizionata di stabilirne il destino; alla donna spettano, invece, le scelte
relative alla propria salute fisica e psichica, come ebbe a chiarire la Corte
costituzionale decenni or sono2, aprendo la via alla legge sull'interruzione
della gravidanza, in una sentenza le cui enunciazioni rappresentano –
quantomeno sul piano teorico – un punto di equilibrio tra i diritti della
donna e quelli dell'embrione o del feto, che, pur partecipando della natura
umana, non sono, in atto, persone. Poi si potrà discutere su quale sia il più
ragionevole o coerente punto di equilibrio raggiungibile, se quello proposto
nel 1978 dal legislatore, od uno diverso spostato nell'un senso o nell'altro.
2
L'INIZIO
DELLA VITA UMANA E LA TRADIZIONALE TUTELA DEL
NASCITURO
Nell'ambito del libro primo del Codice civile, a partire dall'art. 1, si
menziona il concepito e la sussistenza dei diritti a lui riconosciuti, il cui
acquisto è però subordinato all'evento della nascita. E' ben noto che la
prospettiva codicistica mira essenzialmente alla tutela delle aspettative di
carattere patrimoniale3, anche se non le sono del tutto estranei interessi di
2
3
Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27, in Foro it, 1975, 1423.
Così l'art. 462 c.c., secondo cui sono capaci di succedere tutti coloro i quali sono nati o
concepiti al tempo di apertura della successione; l'art. 784 c.c., a norma del quale la
donazione può essere fatta anche a favore di chi è soltanto concepito, ovvero a favore dei
figli di una determinata persona vivente al tempo della donazione, benché non ancora
concepiti; l'art. 320 c.c., il quale prevede che la rappresentanza in tutti gli atti civili e
3
carattere personale, come ad esempio si ricava nella norma che consente il
riconoscimento del nascituro (art. 254 c.c.).
La
posizione
del
concepito
riflette
dunque
la
vocazione
tendenzialmente patrimonialistica del codice e, più in generale, va collocata
nel contesto ideologico in cui essa è maturata, emblematicamente
manifestato da alcune disposizioni del Codice penale, in particolare da
quelle in materia di aborto - all'epoca regolato nel titolo X del libro II,
intitolato “Dei delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe” -, ove la tutela
del concepito era solo riflessa ed indirettamente mirata a garantirne i diritti.
Oggi il tema degli interessi non patrimoniali del concepito richiede di
essere trattato nel quadro costituzionale, prescindendo, quindi, dalla
richiamata disposizione dell'art. 1, comma 2, c.c., la quale non può essere in
sé considerata ostativa al riconoscimento della sussistenza di una sfera
protetta già prima della nascita, tenuto anche conto – come si dirà – della
legislazione successiva al codice (art. 2 Cost., art. 1, l. n. 78/1978, art. 1, l. n.
40/2004). Basti pensare, per restare ad un recente dibattito giurisprudenziale,
al diritto del figlio a nascere sano e al danno da procreazione. Emblematico,
a tal riguardo, quanto affermato dalla Suprema Corte4, secondo la quale “il
concepito, pur non avendo una piena capacità giuridica, è comunque un
soggetto di diritto, perché titolare di molteplici interessi personali
riconosciuti dall'ordinamento sia nazionale che sovranazionale, quali il
diritto alla vita, alla salute, all'onore, all'identità personale, a nascere sano,
diritti, questi, rispetto ai quali l'avverarsi della condicio iuris della nascita è
4
nell'amministrazione dei beni è attribuita al padre ma solo per i figli nati e nascituri e
non anche per i nascituri non concepiti.
Cass., 11 maggio 2009, n. 10741, in Giust. civ. Mass., 2009, 748.
4
condizione imprescindibile per la loro azionabilità in giudizio ai fini
risarcitori. Ne consegue che la persona nata con malformazioni congenite,
dovute alla colposa somministrazione di farmaci dannosi (nella specie
teratogeni), alla propria madre, durante la gestazione, è legittimata a
domandare il risarcimento del danno alla salute nei confronti del medico che
quei farmaci prescrisse o non sconsigliò”5.
Proprio in relazione a tale ipotesi richiamata dalla Corte, viene
dunque affermata la sussistenza di un diritto del nascituro a nascere sano, in
virtù, in particolare, degli artt. 2 e 32 Cost., nonché dell'art. 3 della
Dichiarazione
di
Diritti
fondamentali
dell'Unione
europea,
che
esplicitamente prevede il diritto di ogni individuo all'integrità psico-fisica. In
questo contesto, la nascita è mera condicio iuris per l'azionabilità di diritti
della personalità preesistenti e, quindi, propri del concepito.
3
L'INIZIO
DELLA VITA UMANA E LA LEGGE SULL'INTERRUZIONE
VOLONTARIA DELLA GRAVIDANZA
La legge sull'interruzione volontaria della gravidanza intervenne nel
1978, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 27/19756, con la
5
6
Va precisato, tuttavia, che il riconoscimento di tale diritto in capo al nascituro è
strettamente correlata all'ipotesi in cui ad una gestante siano stati somministrati, senza
adeguata informazione, farmaci che abbiano provocato malformazioni al concepito, non
potendosi riferire, invece, al diverso caso in cui la madre non sia stata posta in
condizione di esercitare il diritto all'interruzione volontaria della gravidanza. Non può
rinvenirsi, infatti, nel nostro ordinamento un diritto "a non nascere se non sano", giacché
le norme che disciplinano l'interruzione della gravidanza la ammettono nei soli casi in
cui la prosecuzione della stessa o il parto comportino un grave pericolo per la salute o la
vita della donna, legittimando pertanto la sola madre ad agire per il risarcimento dei
danni (Cass., 11 maggio 2009, n. 10741, cit.).
Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27, cit.
5
quale venne dichiarata la parziale illegittimità costituzionale dell'art. 546
c.p., “nella parte in cui non prevede che la gravidanza potesse venir
interrotta quando l'ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave,
medicalmente accertato nei sensi in cui in motivazione e non altrimenti
evitabile, per la salute della madre”.
Ai fini della nostra riflessione, appare particolarmente rilevante
l'affermazione, contenuta all'art. 1, giusta la quale lo Stato garantisce la
tutela della vita umana “dal suo inizio”. Enunciazione quest'ultima che
(ancorché, per certi versi paradossalmente, contenuta proprio nella legge che
consente l'interruzione volontaria della gravidanza) evidenzia un piano
della tutela del concepito nettamente distinto da quello codicistico, in quanto
comporta la sussistenza di una tutela della vita prenatale del tutto
indipendente dall'evento della nascita: il che vale a ribadire che il concepito,
fin dal suo formarsi, è soggetto e non oggetto di diritti.
In questo quadro va analizzata la questione già accennata del
bilanciamento di detta tutela attribuita al concepito col diritto alla salute
della donna.
In proposito, la legge in esame, nel prevedere la possibilità di
praticare l'interruzione volontaria della gravidanza, traccia una chiara linea
divisoria tra il primo trimestre di gravidanza e il periodo successivo. Così,
entro i primi novanta giorni dal concepimento la decisione può essere
motivata, secondo quanto stabilito dall'art. 4 della suddetta legge, da un
serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione alle
disagiate condizioni economiche, sociali o familiari, alle circostanze del
concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito.
6
Diversamente,
trascorsi
i
novanta
giorni,
sarà
possibile
ricorrere
all'interruzione volontaria della gravidanza, ai sensi dell'art. 6, soltanto
allorché sussista un “grave” pericolo per la vita della donna, oppure vi sia
un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica dovuto ad anomalie o
malformazioni del nascituro, purché in tale caso non sussista la possibilità di
vita autonoma del feto (art. 7, comma 3).
E' evidente come la possibilità di praticare l'aborto volontario, che per
i primi tre mesi di gravidanza è consentito dalla legge a fronte delle ricadute
sulla salute della donna delle sue disagiate condizioni economiche, sociali o
familiari – il che vale, fuori finzione, a giustificarla in presenza di detti
presupposti,
apprezzati
esclusivamente
dall'interessata
-,
venga
notevolmente limitata nella fase successiva a tale periodo, nella quale il feto
è giunto ad una maggiore maturazione: il ricorso alle tecniche interruttive
della gravidanza, in tal caso, è ammesso solo a fronte di un grave pericolo
per la vita della donna o per la sua salute, ed incontra – in tale secondo caso un ulteriore limite nella possibilità di vita autonoma del feto, a fronte della
quale il medico, ai sensi dell'art. 7, comma 3, dovrà comunque fare tutto il
possibile per salvaguardare la vita di quest'ultimo. A tal proposito, la
Suprema Corte ha precisato che “la situazione cui la norma si riferisce, e che
è descritta come situazione relativa al feto e non al nascituro, è quel grado di
maturità del feto che gli consentirebbe, una volta estratto dal grembo della
madre, di mantenersi in vita e di completare il suo processo di formazione
anche fuori dall'ambiente materno”7.
In una simile ipotesi, dunque, viene ad attenuarsi sensibilmente la
7
Cass., 10 maggio 2002, n. 6735, in Nuova giur. civ. comm., 2003, 619, con nota di DE
MATTEIS.
7
disparità di tutela della vita prenatale rispetto a quella postnatale, e i diritti
della madre – eccettuato quello alla vita - non possono più ritenersi
prevalenti rispetto a quelli del feto8. La valutazione della possibilità di vita
extrauterina - che preclude il ricorso all'aborto ex art. 7, comma 3, difficilmente può essere effettuata attraverso criteri formali o temporali,
considerata la difficoltà nello stabilire un periodo minimo di vita ai fini della
possibile sopravvivenza extrauterina, ma dovrà essere condotta caso per
caso sulla base dei parametri offerti dalla scienza medica. Se è vero, infatti,
che da anni si è consolidato il dato secondo cui i nati alla ventitreesimaventiquattresima settimana hanno elevate chances di sopravvivenza,
altrettanto indubbio è che il limite minimo per la sopravvivenza del feto può
oggi individuarsi nella ventesima settimana, se non addirittura nella
diciottesima.
Una volta accertata in concreto la possibilità di sopravvivenza del
feto, il medico dovrà adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la vita,
anche qualora il feto, pur nato vivo, si presenti non vitale. In tal caso, il
sanitario dovrà prestare le cure necessarie a consentirne la sopravvivenza,
senza tuttavia ricadere nell'accanimento terapeutico. In particolare, il
medico, come già si anticipava, sarà tenuto ad effettuare le necessarie
valutazioni cliniche sulla base delle specifiche caratteristiche fisiche del feto
ed eventualmente sottoporlo a terapie intensive, onde poterne accertare con
maggiore attenzione le condizioni cliniche e poter formulare una più
accurata diagnosi9. Ciò consente al medico, qualora dalla diagnosi emerga
8
9
ZANCHETTI, Il dovere di soccorso nel parto prematuro e nell'interruzione di gravidanza, in
Canestrari – Ferrando – Mazzoni - Rodotà – Zatti (a cura di), Il governo del corpo, in
Trattato di biodiritto, diretto da Rodotà – Zatti, Milano, 2011, 1750.
ZANCHETTI, Il dovere di soccorso nel parto prematuro e nell'interruzione di gravidanza, cit.,
8
l'impossibilità di sopravvivenza del feto, di procedere alla somministrazione
allo stesso, anziché di cure intensive, di cure palliative volte ad alleviarne la
sofferenza.
4
LA
TUTELA DELL'EMBRIONE NELLA LEGGE SULLA PROCREAZIONE
MEDICALMENTE ASSISTITA
La legge n. 40/2004, nella sua versione originaria, si presentava
quantomai rigida nel disciplinare il ricorso alle tecniche di procreazione
medicalmente assistita, consentito solo in favore di coppie sterili « qualora
non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di
sterilità o infertilità » (art. 1, comma 2), metodi individuati all’art. 2. Ciò
spiega il numero cospicuo di interventi che, a partire dalla sua entrata in
vigore, l'hanno interessata, ad opera dei media, della prassi medica, delle
forze politiche, della Corte costituzionale, dei giudici amministrativi e dei
giudici di merito.
L'atteggiamento di prudenza del legislatore trovava la sua ratio
dichiarata proprio nell'intento di assicurare i diritti dei soggetti coinvolti nel
procedimento procreativo, compreso il concepito, espressamente, e per la
prima volta, elevato al rango di « soggetto » (art. 1), in favore del quale sono
contemplate specifiche misure di tutela agli artt. 13 e 14.
La richiamata disposizione contenuta all'art. 1 fonda l'intera legge e,
per certi versi, ha innovato il preesistente quadro normativo, a ben vedere,
ridimensionando ulteriormente la rilevanza giuridica dell'evento della
nascita. Ci si può chiedere se l'uso del termine concepito consenta
1754.
9
all'interprete di differenziarlo dall'embrione, per esempio ritenendo che il
concepito a cui la norma si riferisce sia da intendere non quale embrione in
vitro, ma quale entità già accolta nel grembo materno e, quindi, dotata di
concreta attitudine a nascere; in questo modo la norma costituirebbe una
sorta di riconferma di quella già vista contenuta nell'art. 1, l. n. 194/1978.
Una lettura sistematica della legge non pare, tuttavia, consentire una simile
interpretazione restrittiva, visto quanto disposto dagli artt. 13 e 14, che
dettano le concrete disposizioni a tutela dell'embrione e che sono
sicuramente pensati indipendentemente dal trasferimento dell'embrione
stesso nel corpo materno10. Al di là delle parole usate e della coerenza
formale della definizione, il legislatore ha inteso dunque statuire che
l'embrione, in quanto « vita umana », meriti la tutela della propria dignità,
ancorché detta tutela, in linea di principio, non debba necessariamente
assumere le forme riservate alla persona vivente11. In definitiva, risulta con
chiarezza dalla disposizione di cui trattasi che il legislatore considera
l'embrione
un'entità
titolare
di
diritti,
onde
l'ordinamento
–
indipendentemente dal momento della nascita - è chiamato a proteggerne
innanzitutto quello alla vita, l’aspettativa di nascere, e, più in generale, la
dignità “umana”, che ne impedisce una utilizzazione in qualsiasi modo
10
A. BELLELLI, La sperimentazione sugli embrioni: la nuova disciplina, in Familia, 2004, 986; M.
MORETTI, La procreazione medicalmente assistita, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da G.
BONILINI e G. CATTANEO, III, 2. ed., Torino, 2007, 291; R. VILLANI, Procreazione assistita,
in Tratt. dir. fam., diretto da P. ZATTI, VII, Agg., Milano, 2006, 263 e 273, per il quale il
legislatore, nel nominare il concepito, ha voluto fare riferimento all’embrione, da intendersi,
in assenza di indicazioni legislative, quale embrione in vitro. L’A. rileva anche come non sia
attribuibile all’embrione in vitro una piena capacità giuridica, bensì una soggettività più
semplice e meno garantita, al pari di quella che si suole riconoscere alle entità diverse dalle
persone vere e proprie.
11
F. D. BUSNELLI, Libertà di coscienza etica e limiti della norma giuridica: l'ipotesi della
procreazione medicalmente assistita, in Familia, 2003, 276.
10
strumentale, che comporti cioè il sacrificio dell'embrione in favore di
persone viventi o di finalità di ricerca.
Da questo presupposto è agevole comprendere come tutto l'impianto
della legge sia caratterizzato dall'intento di porre limiti rigorosi alle tecniche
di procreazione assistita e come le singole disposizioni che la compongono
siano volte a definire una sfera di intangibilità dell'embrione, in applicazione
della sua riconosciuta soggettività12. Si pensi ai limitati casi di ricorso alle
tecniche (art. 4), ai rigidi requisiti soggettivi (art. 5), al divieto di
fecondazione eterologa (artt. 4, comma 3°, e 9), al circostanziato consenso
informato (art. 6), alla indispensabile autorizzazione regionale della
struttura in cui gli interventi possono esclusivamente essere realizzati (art.
10),
al
relativo
registro
nazionale
in
cui
le
medesime
devono
obbligatoriamente essere iscritte (art. 11). E, ancor più, alla disciplina dei
divieti e delle sanzioni (artt. 12, 13, 14, 17, comma 2°), di notevole asprezza,
che assume una rilevanza centrale nella filosofia della legge e che, per tali
ragioni, è stata da più parti criticata13 e, come si vedrà, sottoposta ad una
vera e propria erosione14.
12
C. CASINI, M. CASINI, M. L. DI PIETRO, La legge 19 febbraio 2004, n. 40. Commentario,
Torino, 2004. Sulla posizione giuridica dell’embrione, diffusamente, G. ALPA, Le origini della
vita e la posizione giuridica dell’embrione, in G. ALPA – G. RESTA, Le persone fisiche e i diritti
della personalità, in Trattato di diritto civile, diretto da R. SACCO, 1, Torino, 2006, 206 ss. Cfr.
anche M. SESTA, voce “Procreazione medicalmente assistita”, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2005.
13
S. CANESTRARI, Procreazione assistita: limiti e sanzioni, in Dir. pen. proc., 2004, 418; A.
SANTOSUOSSO, Per ricorrere al soccorso della tecnologia basta la sola certificazione di sterilità, in
Guida al dir., 2004, 29; R. VILLANI, Procreazione assistita, in Tratt. dir. fam., cit., 334, che critica
la scelta del legislatore rilevando l’opportunità di un impiego a fini di sperimentazione e
ricerca.
14
SESTA, La procreazione medicalmente assistita tra legge, Corte costituzionale, giurisprudenza di
11
4.1
LIMITI
ALL'ACCESSO ALLE TECNICHE E LA QUESTIONE DELLA
DIAGNOSI GENETICA PREIMPIANTO
La dignità dell'embrione giustifica la rigidità di accesso alle tecniche
ed i limiti alla diagnosi preimpianto: la legge dispone infatti che l’accesso
alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo
quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause
impeditive della procreazione ed è comunque circoscritto ai casi di sterilità o
di infertilità inspiegate o dipendenti da cause accertate: in ogni caso, occorre
una certificazione medica in proposito (art. 4, comma 1°)15. Il ricorso alle
tecniche presuppone quindi una vera e propria impossibilità della
procreazione naturale, il che significa che coppie ipofertili non sono
ammesse alle tecniche; allo stesso modo, coppie fertili ma portatrici di
malattie genetiche non possono far ricorso alla fecondazione in vitro che
consentirebbe di procedere ad indagini diagnostiche dell'embrione al fine di
accertarne le condizioni di salute, onde procedere al trasferimento in utero
solo qualora gli accertamenti diano riscontro favorevole16. Se questo appare
l’impianto originario della legge, va al riguardo rammentato che il Ministro
della Salute, con decreto 11 aprile 2008 (con cui si è proceduto
all’aggiornamento delle linee guida contenute nel d.m. 21.07.2004), ha
merito e prassi medica, in Fam. e dir., 2010, 839.
15
Sul concetto di infertilità cfr. C. FLAMIGNI, Il libro della procreazione, Milano, 2003, 366; v.
anche R. VILLANI, Procreazione assistita, in Tratt. dir. fam., cit., 279, secondo il quale i rigidi
requisiti di accesso alla PMA introducono “una sorta di principio di sussidiarietà”.
16
R. VILLANI, La procreazione assistita, Torino, 2004, 60; S. CANESTRARI, Procreazione
assistita: limiti e sanzioni, cit., 417; Trib. Catania, 3 maggio 2004, in Fam. e dir., 2004, 378, con
commenti di G. FERRANDO e M. DOGLIOTTI; in Dir. fam., 2005, 2, 550, con nota di L.
D’AVACK; in Dir. fam., 2005, 1, 97, con nota di P. MOROZZO DELLA ROCCA.
12
consentito l’accesso alle tecniche anche nei casi di malattie virali
sessualmente trasmissibili per infezioni da Hiv, Hbv (epatite B) e Hcv
(epatite C), sul presupposto che le predette malattie, in ragione del rischio
elevato di infezione per la madre e per il feto, costituiscano, di fatto, una
causa ostativa della procreazione, in quanto “imponendo l’adozione di
precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di
infecondità”, rappresentano casi di “infertilità maschile severa da causa
accertata e certificata da atto medico”, come tali idonei a consentire l’accesso
alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.
La questione dell’accesso alle tecniche è strettamente connessa a
quella della diagnosi preimpianto, che nel quinquennio di vigenza della
legge è stata tra le più controverse in sede giurisprudenziale e
amministrativa. Particolare attenzione meritano, come anticipato, i divieti
enunciati dagli artt. 13 — che, nel proibire qualsiasi sperimentazione sugli
embrioni umani, consente solo attività di ricerca clinica e sperimentale
diretta a finalità terapeutiche e diagnostiche a tutela della salute
dell'embrione stesso — e 14, che detta i limiti alla applicazione delle tecniche
sugli embrioni17. Sulla scia delle predette regole, la giurisprudenza, nelle
prime applicazioni della legge, aveva ritenuto illecita l'effettuazione di
indagini preimpianto dirette ad accertare la presenza di malattie genetiche
incurabili, argomentando che lo statuto legale dell'embrione non può
tollerare l'applicazione di preventiva selezione eugenetica18.
Come si è visto, tra le finalità della legge non è stata contemplata
quella di consentire l'accesso alle tecniche di p.m.a. a coppie non sterili che
17
18
A. BELLELLI, La sperimentazione sugli embrioni: la nuova disciplina, cit., 981.
Trib. Catania, 3 maggio 2004, cit.; v. anche C. CAMPIGLIO, Procreazione assistita e famiglia
13
vogliano evitare la trasmissione di malattie genetiche ai propri figli (in
questo senso si era già espresso il Parlamento europeo nella Risoluzione
concernente la fecondazione artificiale“in vivo” o “in vitro”, in cui si
prevede che « in nessun caso si debba ricorrere ai metodi della fecondazione
extracorporea per la selezione di determinati embrioni e [si] chiede pertanto
di vietare qualsiasi forma di esame genetico degli embrioni al di fuori del
corpo materno »). Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea dispone (art. 3.2) che, nell'ambito della medicina e della biologia,
devono essere in particolare rispettati il divieto delle pratiche eugenetiche,
segnatamente di quelle aventi come scopo la selezione delle persone. Parte
della dottrina ritiene, peraltro, che questa previsione sia da interpretare in
senso restrittivo, nel senso cioè di vietare le forme classiche di eugenetica e
non screening genetici diretti a prevenire la nascita di individui affetti da
gravi malattie19.
Questo è stato e resta un punto particolarmente critico della legge,
poiché il divieto di diagnosi si pone fortemente in contrasto con la prassi
invalsa da decenni di effettuare indagini prenatali sui feti, al fine di
consentire alla madre, se del caso, l'interruzione della gravidanza ex art. 4 o
6, lett. b), l. n. 194/1978. È vero che la l. n. 194/1978 ammette l'interruzione
della gravidanza non per il fatto che il feto sia malformato, ma per i riflessi
che la nascita di quel soggetto avrebbe sulla salute fisica o psichica della
madre, mentre l'indagine preimpianto sull'embrione non si collega se non
indirettamente con la tutela della salute della donna; tuttavia, non v'è
dubbio che si sia creata in tal modo una rilevante antinomia nel sistema.
nel diritto internazionale, Padova, 2003, 230.
19
C. CAMPIGLIO, Procreazione assistita e famiglia nel diritto internazionale, cit., 258.
14
Detta antinomia — priva di ogni ragionevole concreta giustificazione 20 —, se
trova una spiegazione nei differenti motivi che hanno ispirato le norme della
l. n. 194/1978 rispetto a quelli della l. n. 40/2004, non può lasciare soddisfatto
l'interprete, così portato a ricercare una lettura che contemperi le menzionate
regole tra loro potenzialmente in conflitto, anche valorizzando il dato
testuale dell'art. 14, comma 1, l. n. 40/2004, che, nel vietare la soppressione di
embrioni, mantiene « fermo » quanto previsto dalla l. 194/197821.
In tale direzione si è incamminata la giurisprudenza di merito, in seno
alla quale si sono registrate aperture sempre più esplicite a favore delle
indagini preimpianto.
Due interessanti decisioni di merito hanno affermato la liceità della
diagnosi preimpanto quando risulti strumentale all’accertamento di
eventuali malattie dell’embrione. Secondo Il Tribunale di Cagliari22, la
diagnosi preimpianto può ritenersi lecita quando risponda alle seguenti
caratteristiche: sia stata richiesta dai soggetti indicati nell’art. 14, comma 5, l.
n. 40/2004; abbia ad oggetto embrioni destinati all’impianto nel grembo
materno;
sia
strumentale
all’accertamento
di
eventuali
malattie
dell’embrione; sia finalizzata a garantire a coloro che abbiano avuto legittimo
accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita una adeguata
informazione sullo stato di salute degli embrioni da impiantare. Nella
specie, è stato riconosciuto alla coppia sterile il diritto di ottenere che il
20
A. BELLELLI, La sperimentazione sugli embrioni: la nuova disciplina, cit., 980.
Così M. DOGLIOTTI, Una prima pronuncia sulla procreazione assistita: tutte infondate le
questioni di legittimità costituzionale?, in Fam. e dir., 2004, 384.
22
Trib. Cagliari, 22 settembre 2007, n. 2508, in Foro it., 2007, 11, 3245, con nota di G.
CASABURI; in Guida al dir., 2007, 46, 59, con nota di S. DE NICOLA e A. PORRACCIOLO; in
Giur. merito, 2008, 1, 99, con nota di D. SIMEOLI; in Giur. merito, 2008, 4, 1002, con nota di C.
DI MARZIO.
21
15
personale sanitario proceda all’indagine preimpianto anche con tecniche
invasive e comunque secondo metodologie che, in base alla scienza medica,
offrano il maggior grado di attendibilità della diagnosi e il minor margine di
rischio per la salute e le potenzialità di sviluppo dell’embrione. Il Tribunale
ha fondato la sua decisione su argomenti - tutti, per la verità, già
ampiamente sviluppati dalla dottrina maggioritaria - quali la mancanza di
un esplicito divieto di legge alla diagnosi; la netta distinzione tra l’attività di
ricerca,
sperimentazione
e
manipolazione
genetica
e
la
diagnosi
preimpianto; l’espressa salvezza della legge sull’interruzione volontaria
della gravidanza, che fa ritenere che la tutela del concepito si arresti
comunque davanti al prevalente interesse della donna alla propria salute
fisico-psichica. Similmente, il Tribunale di Firenze23, nel 2007, ha ritenuto
che, al fine di assicurare il diritto della coppia sterile e portatrice di malattie
genetiche
trasmissibili
di
avere
conoscenza
dello
stato
di
salute
dell’embrione ottenuto mediante la procreazione medicalmente assistita e
destinato ad essere impiantato nel grembo della donna, la coppia medesima
abbia il diritto di ottenere che il personale sanitario proceda all’indagine
preimpianto e che, successivamente alla verifica, proceda al trasferimento in
utero dei soli embrioni sani o portatori sani, secondo le tecniche della
migliore scienza medica24. Il percorso è stato poi completato dal T.A.R. Lazio,
che, con sentenza 21 gennaio 200825, ha dichiarato illegittimo il divieto di
23
Trib. Firenze, 17 dicembre 2007, in Guida al dir., 2008, 3, 53, con nota di G. M. SALERNO.
Sull’evoluzione della giurisprudenza in tema di procreazione medicalmente assistita v. P.
VIPIANA, Orientamenti giurisprudenziali in tema di procreazione medicalmente assistita, prima e
dopo la legge n. 40/2004, in Fam. e dir., 2007, 87. Con specifico riferimento alla giurisprudenza
della Corte costituzionale si veda P. VERONESI (a cura di), Giurisprudenza costituzionale, in
Studium iuris, 2007, 1, 105.
25
T.A.R. Lazio, Roma, 21 gennaio 2008, n. 398, in Giur. merito, 2008, 4, 1144, con nota di A.
24
16
diagnosi preimpinato senza finalità eugenetica, giacché divieto creato ex
novo e contra legem dalle Linee guida sulla procreazione medicalmente
assistita contenute nel d.m. 21 luglio 2004, il cui scopo era quello di fornire
chiare indicazioni agli operatori delle strutture autorizzate all’applicazione
delle tecniche di PMA affinché fosse assicurato il pieno rispetto di quanto
dettato dalla legge26. In particolare, il d.m. del 2004 non solo aveva introdotto
il divieto di diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, che a stretto rigore
poteva ritenersi ricompreso nel divieto di sperimentazione sugli embrioni di
cui all’art. 13 della legge n. 40/2004, ma aveva ulteriormente delimitato
l’ambito
della
diagnosi
sull’embrione
da
impiantare
all’indagine
osservazionale, che consentiva di valutare la compattezza e l’aggregazione
delle cellule e le anomalie nello sviluppo dell’embrione, ma non di
individuare eventuali anomalie genetiche.
In connessione all'evoluzione della giurisprudenza ordinaria e a
seguito della predetta pronuncia di annullamento adottata dal Tar Lazio, il
Ministro della Salute, con decreto 11 aprile 2008, ha proceduto, come si è
detto, all’aggiornamento delle Linee guida contenute nel d.m. 21.07.2004
(non si tratta di linee guida propriamente “nuove”, ma di una versione
aggiornata delle precedenti27), eliminando il limite costituito dalla sola
indagine di tipo osservazionale: con il che, fermo il divieto di diagnosi
preimpianto a finalità eugenetica, si è ammessa espressamente la ricerca
DODARO, e in Fam. e dir., 2008, 499, con nota di A. FIGONE.
26
Per un primo e critico commento alle Linee guida si veda P. VERONESI, Le “linee guida” in
materia di procreazione assistita. Nuovi dubbi di legittimità all’orizzonte, in Studium iuris, 2004, 11,
1356.
27
Per un primo commento al d.m. 11 aprile 2008 cfr. G. M. SALERNO, Sulle malattie
sessualmente trasmissibili uno “sconfinamento” di competenza, in Guida al dir., 2008, 20, 28 ss.; cfr.
le Linee guida in Fam. e dir., 2009, 7, 715.
17
clinica e sperimentale sull’embrione effettuata allo scopo di conoscerne lo
stato di salute.
CREAZIONE, TRASFERIMENTO E CRIOCONSERVAZIONE
EMBRIONI:
ESISTE
UN
INCONDIZIONATO
DIRITTO
PROCREAZIONE?
4.2
DEGLI
ALLA
La tutela dell'embrione ispira anche le norme dell'art. 14, che in origine
prescriveva il divieto di crioconservazione degli embrioni (comma 1), salvo
casi eccezionali di forza maggiore legati alla salute psico-fisica della donna e
non prevedibili al momento della fecondazione che non consentissero di
impiantare gli embrioni prodotti (comma 3); il divieto di produrre più di tre
embrioni
per
ogni
ciclo
terapeutico,
da
impiantarsi
tutti
contemporaneamente (comma 2); il divieto di riduzione embrionaria
(comma 4). In argomento il T.A.R. Lazio28 ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 14, commi 2 e 3, della legge n. 40/2004, che
ha imposto la creazione di un numero di embrioni non superiore a tre e il
loro contestuale impianto ed ha vietato, salvo ipotesi del tutto eccezionali, la
loro crioconservazione, per contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost. Se lo scopo
della l. n. 40/2004 è, infatti, quello di favorire la soluzione dei problemi
riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana e di individuare
un giusto bilanciamento tra l’interesse di tutela dell’embrione e quello di
tutela dell’esigenza di procreazione, l’art. 14 – affermava il T.A.R. Lazio –
contrasta con l’art. 3 Cost. “nella misura in cui rivela una sua intrinseca
28
T.A.R. Lazio, Roma, 21 gennaio 2008, n. 398, cit.; ed anche Trib. Firenze, ord. 12 luglio 2008
e ord. 26 agosto 2008.
18
irrazionalità violando il canone di ragionevolezza (…) per quanto attiene alla
parità di trattamento”; e con l’art. 32 Cost. “nella misura in cui consente
pratiche che non bilanciano adeguatamente la tutela della salute della donna
con la tutela dell’embrione”.
Sul punto si è pronunciata la Corte costituzionale29, dichiarando
l’illegittimità dell’art. 14, comma 2, nella parte in cui non demanda al medico
la scelta di quanti embrioni produrre per ogni ciclo terapeutico e di quanti
embrioni impiantare: se tutti quelli prodotti, in una unica soluzione, o solo
alcuni di essi, con possibile crioconservazione dei rimanenti. L’intervento
demolitorio ha mantenuto salvo il principio secondo cui le tecniche di
produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello
strettamente necessario, ma ha comportato la caducazione del numero
massimo
di
embrioni
contemporaneo
producibile
impianto.
e
dell’obbligo
Contestualmente,
la
di
Corte
un
ha
unico
e
dichiarato
l’illegittimità costituzionale del comma 3 del medesimo articolo nella parte
in cui non prevedeva che il trasferimento degli embrioni crioconservati, da
praticarsi non appena possibile, dovesse essere effettuato “senza pregiudizio
della salute della donna”.
Dalla motivazione della pronuncia emerge come la caducazione dei
limiti di cui all’art. 14, comma 2, e, in particolare, dell’obbligo di un unico e
contestuale impianto di tutti gli embrioni prodotti, fosse imposta dal fatto
che
la
norma
non
bilanciava
adeguatamente
l’esigenza di
tutela
dell’embrione – una tutela legale che la Consulta pretende solo relativa – con
29
Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, in Fam. e dir., 2009, 8-9, 761, con nota di M. DOGLIOTTI;
in Giust. civ., 2009, 6, 1177 (s.m.), con nota di E. GIACOBBE; in Riv. it. dir. e proc. pen., 2009, 2,
298 (s.m.), con nota di E. DOLCINI; in Foro it., 2009, 9, 2301; in Dir. fam., 2009, 3, 991 (s.m.),
con nota di L. D’AVACK e M. CASINI.
19
il diritto alla procreazione della donna. La Corte, infatti, prima di entrare nel
merito delle doglianze sollevate dai giudici rimettenti sotto il profilo
dell’irragionevolezza (ex art. 3 Cost.) e della lesione del diritto alla salute (ex
art. 32 Cost.), premette (par. 6.1. della motivazione) che la stessa legge n.
40/2004 consente “un affievolimento della tutela dell’embrione” là dove, pur
con il limite massimo dei tre embrioni, ammette comunque la possibilità di
un impianto di più embrioni, nella consapevolezza che al fine di una
concreta aspettativa di gravidanza è necessario procedere all’impianto di più
di un embrione e con l’accettazione del rischio che alcuni di tali embrioni, o
anche uno solo, oltre a quello che dà luogo a gravidanza, possano
disperdersi. Con il che – afferma la Corte – la legge pone un limite alla tutela
apprestata all’embrione in ragione ed in funzione della tutela delle esigenze
di procreazione, che rappresentano la “finalità proclamata dalla legge”.
A questo riguardo, però, diventa lecito chiedersi se effettivamente
esista un generale diritto della donna (o della coppia) alla procreazione (non
ulteriormente qualificata) o se, invece, solo il diritto alla procreazione
“naturale” goda di rilevanza costituzionale ex artt. 2, 29, 30, 31 Cost. e art. 1,
l. n. 194/1978.
Pare a chi scrive che, piuttosto che invocare un bilanciamento tra le
esigenze di tutela dell’embrione e il preteso diritto della donna alla
procreazione, la Corte avrebbe potuto argomentare le sue conclusioni
limitandosi ad invocare – come del resto ha fatto nel prosieguo della
motivazione – il diritto alla salute (art. 32 Cost.) e il principio di
ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Sotto il primo profilo, rilevando che la normativa sulla PMA, così
20
come
originariamente
formulata,
pur
avendo
affievolito
la
tutela
dell’embrione, non permetteva di proteggere adeguatamente la salute della
donna. Ciò perché, in caso di insuccesso del primo impianto, il limite
numerico di embrioni producibili e trasferibili in utero determinava una
moltiplicazione dei cicli terapeutici con conseguente iperstimolazione
ovarica ad alto tasso di pregiudizio per la salute fisica e psichica della donna;
mentre, in ipotesi di maggiore possibilità di attecchimento, era comunque
configurabile una lesione del diritto alla salute della donna e del feto, per i
rischi connessi ai parti plurigemellari necessitati dall’obbligo di un
contestuale impianto di tutti gli embrioni prodotti (avuto riguardo al divieto
di riduzione embrionaria di cui all’art. 14, comma 4, salvo il ricorso
all’aborto30).
Sotto il profilo della ragionevolezza, poi, la normativa è stata
censurata dalla Corte perché privava il medico della possibilità di prendere
decisioni che tenessero conto delle situazioni concrete, in particolare delle
condizioni fisiche delle pazienti (come l’età giovane o adulta della donna e i
tentativi infruttuosi precedenti), in funzione di una valutazione sulle
effettive possibilità di successo della pratica da effettuare. In altri termini, è il
medico a dover decidere, secondo le regole di buona pratica clinica, il
trattamento da porre in essere in vista di un serio tentativo di procreazione
assistita, e non il legislatore, con previsioni generali ed astratte che trattino
allo stesso modo situazioni dissimili.
La Corte ha così valorizzato il ruolo del medico nel decidere il modus
30
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 4, è stata dichiarata (Corte
cost., 8 maggio 2009, n. 151, cit.) manifestamente inammissibile per difetto di motivazione
sulla rilevanza nel giudizio a quo.
21
operandi nel caso concreto, in funzione di un trattamento che, in ragione delle
condizioni soggettive della donna, dia buone probabilità di successo, in
condizioni di massima sicurezza per la sua salute fisica.
4.3 EFFETTI
DELLA
LEGALI ED IMPLICAZIONI PRATICHE DELLA SENTENZA
CORTE
COSTITUZIONALE DELL'8 MAGGIO
2009,
N.
151:
VERSO LA LEGITTIMAZIONE DELLA DIAGNOSI PREIMPIANTO CON
SELEZIONE EMBRIONARIA?
A seguito della decisione della Corte costituzionale e dei richiamati
interventi amministrativi, sono riconosciuti al medico ampi spazi di
autonomia:
- decidere, caso per caso, quanti embrioni produrre (sempre nei limiti
dello stretto necessario, che rimane salvo);
- decidere quanti embrioni, di quelli prodotti, impiantare (sempre nei
limiti dello stretto necessario, che rimane salvo): tutti in un’unica
soluzione ovvero alcuni soltanto;
- procedere alla crioconservazione degli embrioni non impiantati per
scelta medica: infatti, con la caducazione dell’obbligo di un unico e
contestuale impianto di tutti gli embrioni prodotti (art. 14, comma 2), la
Corte ha introdotto espressamente una ulteriore deroga (rispetto a
quella già prevista dall’art. 14, comma 3) al divieto di congelamento
(comma 1), rendendo necessitata la crioconservazione degli embrioni
22
prodotti e non impiantati, pur lasciando formalmente intatto il divieto
di crioconservazione di cui all’art. 14, comma 1, che rimane penalmente
sanzionato31. Il che, stante il principio di tassatività della norma penale,
è fonte di gravi incertezze in ordine alla sussistenza del divieto.
Potrebbe dirsi che la crioconservazione sia lecita se il medico, nello
scegliere quanti embrioni produrre e quanti impiantarne, si sia
mantenuto nei limiti, fatti espressamente salvi dalla Corte, dello stretto
necessario, mentre continui a costituire reato, ex art. 14, comma 1, la
crioconservazione di embrioni non impiantati e prodotti “oltre il limite
dello stretto necessario”;
- procedere alla diagnosi genetica preimpianto (PGD) sugli embrioni
crioconservati. Tale pratica ha lo scopo di verificare l’esistenza di
anomalie genetiche degli embrioni, al fine di selezionare, per il
trasferimento, solo quelli sani, sì da intervenire subito, piuttosto che a
gravidanza iniziata (mediante le tecniche di diagnosi prenatale quali
amniocentesi e villocentesi). Come si è visto, pur ritenuta inizialmente
vietata ai sensi dell’art. 13, l. n. 40/2004, detta pratica è stata
espressamente ammessa dalle Linee guida del 2008 ed è diventata
penalmente lecita se effettuata allo scopo di conoscere lo stato di salute
dell’embrione e purché non abbia finalità eugenetica. Tuttavia, il limite
dei tre ovociti da fecondare e l’obbligo dell’unico e contestuale
impianto (art. 14, comma 2) rendeva le finalità della diagnosi
31
Così Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, cit.: “Le raggiunte conclusioni, che introducono
una deroga al principio generale di divieto di crioconservazione di cui al comma 1 dell’art.
14, quale logica conseguenza della caducazione, nei limiti indicati, del comma 2 – che
determina la necessità del ricorso alla tecnica di congelamento con riguardo agli embrioni
prodotti ma non impiantati per scelta medica – comportano […]”.
23
preimpianto quasi di impossibile attuazione. Oggi, a seguito della
pronuncia della Consulta, invece, i medici possono avere più embrioni
a disposizione, stabilire a loro discrezione, secondo la miglior regola
dell’arte, quali e quanti impiantarne e quando procedere all’impianto
medesimo e, dunque, la PDG risulta in concreto praticabile.
È chiaro, quindi, che, riscontrata, a seguito della diagnosi genetica
preimpianto, la presenza di malattie genetiche, l’embrione non sarà
impiantato, qualora la donna non lo consenta32.
In definitiva, l’insieme delle condizioni conseguenti alla pronuncia
della Corte costituzionale e all’intervento ministeriale sulle Linee guida
rende possibile la diagnosi preimpianto ed il conseguente mancato impianto:
il che, però, non sembra poter rimuovere, di per sé, il divieto di selezione
eugenetica di cui all’art. 13, comma 3, lett. b) (che vieta “ogni forma di
selezione a scopo eugenetico degli embrioni”), norma che fa riferimento ad
una condotta materiale contraddistinta dal risultato; risultato che, attraverso
la diagnosi preimpianto di cui sopra, pare potersi conseguire. Né tale
conclusione dubbiosa può essere, ad avviso di chi scrive, superata sulla base
32
Ammettendo la diagnosi genetica preimpianto allo scopo di procedere all’impianto dei
soli embrioni che non risultino affetti da patologie genetiche, si finisce inevitabilmente per
aderire a quell’indirizzo interpretativo (costituzionalmente orientato ex artt. 13 e 32 Cost.)
che consente alla donna di revocare il proprio consenso procreativo oltre il momento della
fecondazione dell’ovulo (come prescritto ad litteram dall’art. 6, comma 3, l. n. 40/2004) e sino
all’effettivo trasferimento dell’embrione in utero, negando la sia pur astratta ammissibilità di
un impianto coattivo degli embrioni laddove la donna intenda revocare il proprio consenso.
(Al riguardo, M. SESTA, Commento agli artt. 1-11, 15-18 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, in
Codice della famiglia, tomo II, a cura di M. SESTA, 2. ed., Milano, 2009, 3706-3707). Ciò che,
del resto, risulta in piena sintonia con quanto dispone l’art. 14, comma 5, l. n. 40/2004, che
riconosce alla coppia il diritto di chiedere informazioni sullo stato di salute degli embrioni
prodotti e da trasferire in utero; informazioni di certo determinanti per decidere se accettare
o rifiutare il trasferimento medesimo e che potrebbero concretamente orientare la donna ad
opporsi all’impianto di embrioni già formati e risultati non sani.
24
di opinabili considerazioni dirette a stabilire quali pratiche abbiano carattere
eugenetico33, con lo scopo di escludervi quelle di cui trattasi, considerato il
tenore letterale del divieto e la sottostante intenzione del legislatore.
Alle aperture con cui le Linee guida del 2008 e, da ultimo, la sentenza
della
Corte
costituzionale
hanno
riconosciuto
maggiori
possibilità
decisionali e di intervento al medico nell’accesso alla diagnosi genetica
preimpianto, nella scelta del numero di embrioni da produrre e da
impiantare e nelle pratiche di crioconservazione, le Corti di merito paiono
essersi adeguate con notevole “disinvoltura”. Tra le prime applicazioni
giurisprudenziali, si rinvengono due significative pronunce. In particolare, il
Tribunale di Bologna34 ha ritenuto che, a seguito dell’intervento, dapprima,
del giudice amministrativo, dell’emanazione delle Linee guida del 2008, e,
quindi, della Corte costituzionale, sia venuto meno il divieto di diagnosi
genetica preimpianto. Il che ha consentito al giudice di ordinare con
provvedimento d’urgenza, in relazione ad una coppia infertile di cui la
donna era affetta da una grave malattia geneticamente trasmissibile, la
produzione di un minimo di sei embrioni, da sottoporsi a diagnosi
preimpianto, e l’installazione, sempre con il consenso della paziente, dei soli
33
In particolare, come già rilevato (nt. 13), parte della dottrina (C. CAMPIGLIO, Procreazione
assistita e famiglia nel diritto internazionale, cit., 258) ritiene che il divieto delle pratiche
eugenetiche sia da interpretare in senso restrittivo, nel senso, cioè, di vietare le forme
classiche di eugenetica (aventi per scopo il miglioramento genetico della specie umana o
comunque capaci di produrre una razza migliore) e non screening genetici diretti a prevenire
la nascita di individui affetti da gravi malattie. Criticamente F. GAZZONI, Osservazioni non
solo giuridiche sulla tutela del concepito e sulla fecondazione artificiale, in Dir. fam., 2005, fasc. 1,
199, osserva che “con la selezione degli embrioni, anziché un’eugenetica di massa, a carico
dello Stato, si attuerebbe un’eugenetica affidata al singolo, che intenda scegliere, tra i vari
embrioni, quelli sani, “i migliori”, scartando “i peggiori”, quelli che una volta nati,
darebbero “materiale umano scadente”[…]”.
34
Trib. Bologna (ord.), 29 giugno 2009, in Giur. merito, 2009, 12, 3000 (s.m.), con nota di G.
CASABURI.
25
embrioni
che
non
presentassero
quella
patologia,
nonché
la
crioconservazione anche degli embrioni idonei di cui non fosse possibile
l’immediato trasferimento. Sulla stessa scia, il Tribunale di Salerno35 ha
affermato che, a tutela del diritto di autodeterminazione nelle scelte
procreative di una coppia di coniugi fertili, entrambi portatori di una grave
patologia trasmissibile geneticamente, vada ordinato al centro medico, ex
art. 700 c.p.c., l’adempimento contrattuale delle prestazioni professionali
consistenti nelle tecniche procreative medicalmente assistite (imposte dalle
migliori pratiche scientifiche) di diagnosi preimpianto degli embrioni da
prodursi e di trasferimento nell’utero della donna di embrioni che non
evidenziano la malformazione genetica.
Entrambe le decisioni lasciano naturalmente insoluta la questione, di
cui si è detto, di compatibilità con l’art. 13, comma 3, lett. b), e, ancor di più,
quella relativa al destino degli embrioni non idonei, che sembrano destinati
alla soppressione in chiaro contrasto con quanto disposto dall’art. 14, comma
1.
Ma è soprattutto sotto un ulteriore profilo che la pronuncia del
Tribunale di Salerno suscita notevoli perplessità e si espone a censura, per
aver consentito l’accesso alle tecniche di PMA ad una coppia fertile, ancorché
a forte rischio di trasmissibilità di malattie genetiche (di cui entrambi i
componenti risultavano portatori). Infatti, una cosa sono le coppie infertili
ed affette da malattie genetiche, che, dunque, soddisfano a pieno i requisiti
soggettivi richiesti dall’art. 4, l. n. 40/2004 (“casi di sterilità o di infertilità”
35
Trib. Salerno, 9 gennaio 2010, in Fam. e dir., 2010, fasc. 5, p. 476, con nota di M. SEGNI,
Procreazione assistita per i portatori di malattie trasmissibili – un nuovo problema, p. 478, e con
nota di S. LA ROSA, Diagnosi preimpianto anche per le coppie fertili portatrici di malattie
genetiche, p. 482.
26
inspiegate o da cause accertate “documentate da atto medico”) per poter
accedere alle tecniche di PMA e rispetto alle quali la diagnosi preimpianto,
così come positivamente ammessa dalle Linee guida del 2008 e fattivamente
riconosciuta dal riassetto della disciplina di cui all’art. 14, determinato dalla
pronuncia della Consulta, risulta poter operare; altra cosa sono le coppie
fertili, ma a forte rischio di trasmissibilità di malattie. A queste ultime, come
già accennato, si sono espressamente riferite le Linee guida del 2008 (v. supra
par. 2), che hanno consentito l’accesso alle tecniche solo nei casi in cui vi
siano uomini portatori di malattie virali sessualmente trasmissibili per
infezioni da HIV, epatite B e epatite C.
Ma, al di fuori delle predette malattie virali, positivamente
individuate (HIV, epatite B e C), nessuna norma di legge e nessun
regolamento autorizzano a fondare interpretativamente una estensione
dell’accesso alle tecniche, rigorosamente previsto a favore delle sole coppie
infertili (art. 4, l. n. 40/2004), anche nei casi in cui all’interno della coppia non
vi sia sterilità o infertilità, ma un rischio di trasmissibilità di malattie
genetiche al feto.
Eppure, il Tribunale di Salerno, con una pronuncia praeter legem (o
contra legem?)con cui ha superato il dettato normativo di cui all’art 4, l. n.
40/2004, nonché l’elencazione tassativa (delle malattie virali idonee a
consentire l’accesso alle tecniche anche in condizioni di effettiva fertilità)
contenuta nelle Linee guida del 2008, ha consentito alla coppia fertile di
ricorrere alla PMA e, nell'ambito di essa, alla diagnosi preimpianto con
selezione embrionaria; con ciò fugando quegli stessi interrogativi che il
27
giudice rimettente36, nel sollevare questione di legittimità costituzionale
dell’art. 14, l. n. 40/2004, si era posto in formula dubitativa, rilevando come
“ove accolte dalla Corte le questioni di legittimità costituzionale
prospettate”, si sarebbe inevitabilmente creata una disparità di trattamento
fra le coppie a forte rischio di trasmissibilità di malattie genetiche al cui
interno vi fosse sterilità o infertilità, che, come tali, potevano (già) accedere
alla PMA e, a questioni di legittimità costituzionali accolte, avrebbero potuto
altresì ricorrere fattivamente alla diagnosi preimpianto, e le coppie sempre a
forte rischio di trasmissibilità di malattie genetiche, ma fertili, cui sarebbe
stato inibito ogni accesso alle tecniche di PMA ed ogni conseguente
possibilità di selezione embrionaria.
Se la Cassazione, nel 199937, aveva anticipato il legislatore, qui il
Tribunale lo ha consapevolmente ignorato, svincolandosi dalla soggezione
all’art. 101 Cost. e pretendendo di riscrivere la normativa vigente alla luce
del preteso “diritto della donna al figlio, per di più sano”, invocando una
interpretazione costituzionalmente orientata delle norme interessate che gli
ha consentito, addirittura, di evitare la rimessione alla Corte della questione
di legittimità costituzionale dell’art. 4, che pure era stata prospettata dai
ricorrenti come passaggio “necessario” per conseguire il risultato.
36
Trib. Firenze, ord. 26 agosto 2008, cit.
La Corte di cassazione (Cass., 16 marzo 1999, n. 2315, in Fam. e dir., 1999, 233, con nota di
M. SESTA) ebbe a statuire che « in tema di fecondazione assistita eterologa, il marito che ha
validamente concordato o comunque manifestato il proprio preventivo consenso alla
fecondazione assistita della moglie con seme di donatore ignoto non ha azione per il
disconoscimento della paternità del bambino concepito e partorito in esito a tale
inseminazione ».
37
28
4.4
LA
FECONDAZIONE
ETEROLOGA,
TRA
DIVIETI
E
DUBBI
DI
LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE
Altra norma della legge 40/2004 ad essere stata di recente inviata alla
Corte costituzionale è quella dell'art. 4, comma 3, con la quale si vieta alle
coppie sterili di accedere alla fecondazione eterologa, cioè effettuata con
gameti donati da soggetti esterni alla coppia. Tre sinora sono le ordinanze di
rimessione alla Corte, tutte facenti capo alla sentenza della Corte Europea
dei diritti dell'uomo del 1 aprile 201038.
Con tale pronuncia la Corte di Strasburgo ha ritenuto illegittimo e
discriminatorio il divieto assoluto di fecondazione eterologa previsto
dall'ordinamento austriaco, perché in violazione del combinato disposto
degli artt. 8 e 14 CEDU: tale divieto si pone in contrasto con il diritto di una
coppia di concepire un figlio e di ricorrere a tal fine alle tecniche di
procreazione medicalmente assistita, rientrante nell'ambito dell'art. 8, in
quanto espressione della vita privata e familiare, ponendo cosi la coppia
sterile in posizione ingiustificatamente differenziata rispetto alle altre, in
violazione di quanto disposto dall'art. 14 CEDU.
Alla luce di tale statuizione, per primo il Tribunale di Firenze 39,
facendo proprie le istanze dei ricorrenti e non ritenendo legittima
l'applicazione diretta della sentenza CEDU, ha sollevato la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, l. 40/2004, nella parte in cui
vieta la fecondazione eterologa, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost.,
38
39
Corte Europea dei diritti dell'uomo, sez. I, 1 aprile 2010, n. 57813/00 – S.H. E altri c.
Austria, in Fam. e dir., 2010, 977, con nota di SALANITRO.
Trib. Firenze (ord.), 13 settembe 2010, in Fam. e dir., 2010, 1135, con nota di SALANITRO.
29
in relazione al combinato disposto degli artt. 8 e 14 CEDU, così come
interpretato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza sopra richiamata, e con
l'art. 3 Cost.
Successivamente, anche il Tribunale di Catania40 ha sottoposto il
divieto di fecondazione eterologa al vaglio del Giudice costituzionale,
estendendo tuttavia il giudizio di non conformità, oltre che alla norma di cui
all'art. 14, comma 3, anche agli articoli 9, comma 1 e 2, nella parte in cui
richiamano suddetta norma, e all'art. 12, comma 1, volto a sanzionare le
strutture che pratichino la fecondazione con gameti estranei alla coppia.
Infine, assai di recente, anche il Tribunale di Milano 41, sulla scia dei
Tribunali di Firenze e di Catania, ha eccepito l'incostituzionalità della legge
sulla procreazione medicalmente assistita nella parte in cui vieta la
fecondazione eterologa e prevede sanzioni per le strutture che dovessero
praticarla. Il Tribunale di Milano, inoltre, così come quello di Catania, non si
è limitato a tener conto del diritto europeo, alla luce in particolare di quanto
affermato dalla Corte di Strasburgo nella sentenza più volte richiamata,
incentrando la questione di legittimità sull'art. 117 Cost. quale norma di
raccordo tra Costituzione italiana e la Convenzione Europea per la
salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU); ma ha fatto riferimento anche ad
alcuni principi costituzionali, quali il diritto alla dignità della persona (art.
2), il diritto all'uguaglianza dei cittadini (art. 3), il diritto alla genitorialità
(art. 31) ed il diritto alla salute (art. 32).
In particolare, i Giudici milanesi, nel riferirsi innanzitutto ai concetti
di famiglia e di genitorialità, ricavabili dalla Carta costituzionale,
40
41
Trib. Catania (ord.), 21 ottobre 2010, in Fam. e dir., 2010, 1138, con nota di SALANITRO.
Trib. Milano (ord.), 2 febbraio 2011, ined.
30
evidenziano come essi non possano ritenersi cristallizzati all'epoca in cui
quest'ultima entrò in vigore, ma necessitino di essere interpretati in base
all'evoluzione dell'ordinamento e ai mutamenti sociali e di costume di cui
essa è espressione, al fine di garantire in modo pieno il diritto di identità e di
autodeterminazione di una coppia in ordine alla propria genitorialità,
“principio che viene compromesso dal divieto di accesso ad un determinato
tipo di fecondazione, individuata come indispensabile per il caso concreto”.
Alla luce di ciò, il Collegio remittente considera il divieto in esame
non solo contrastante con i principi espressi dagli artt. 2, 29 e 31 Cost., ma
altresì discriminatorio e irragionevole, in virtù dell'effetto, ad esso
riconducibile, di attribuire a coppie con limiti di procreazione un
trattamento differenziato solo in virtù del tipo di patologia che affligge l'uno
o l'altro dei componenti della coppia, dovendo invece corrispondere
all'identico limite della sterilità ed infertilità della coppia la medesima
possibilità di accedere alla tecnica procreativa più confacente, in relazione
alla specifica causa patologica, alla risoluzione del problema.
In ultimo, il Tribunale sottopone alla Corte costituzionale un ulteriore
profilo di illegittimità del divieto di fecondazione eterologa, rappresentato
dal contrasto con l'art. 32 Cost. Secondo i Giudici milanesi, infatti, tale
divieto potrebbe compromettere la tutela dell'integrità psico-fisica della
coppia di cui uno dei componenti sia sterile, se si considera la natura di
rimedi terapeutici delle tecniche di procreazione medicalmente assistita,
finalizzate al superamento di una “causa patologica comportante un difetto
di funzionalità dell'apparato riproduttivo di uno dei due coniugi (o
conviventi) che impedisce la procreazione.
31
Pare a chi scrive che le complesse ed articolate censure sopra
riassunte, ancorché suggestive, non siano fondate, nel senso che sussiste in
concreto un margine di discrezionalità del legislatore interno che gli
consente legittimamente di porre il divieto di fecondazione eterologa. Si
pensa, soprattutto, da un lato alla insussistenza di un incondizionato diritto
alla procreazione artificiale, e dall'altro al diritto all'identità biologica del
nato, in virtù del quale il divieto in esame, evitando la creazione di un
“falso” rapporto di discendenza, troverebbe un fondamento nell'art. 2 Cost.,
qualificando la corrispondenza tra identità genetica e identità sociale della
persona quale originario diritto della personalità.42
4.5
LA MATERNITÀ SURROGATA
La maternità surrogata è vietata ai sensi dell'art. 12, comma 6, della
legge n. 40/2004, il quale punisce chiunque, in qualsiasi forma, organizza o
pubblicizza la surrogazione di maternità. A riguardo, circa i complessi
problemi conseguenti all'attribuzione dello status del figlio concepito
attraverso un accordo di maternità surrogata, non è prevista alcuna forma di
“sanatoria”, come invece accade per l'infrazione del divieto di fecondazione
eterologa (art. 4, comma 3), in presenza della quale la legge comunque
impedisce il disconoscimento della paternità (art. 9).
Alla luce di quanto sopra, - con riguardo all'ordinamento interno può dirsi che gli accordi di surrogazione e la loro attuazione, sul piano dello
status del nato, sono totalmente improduttivi di effetti, vigendo
42
SESTA, voce Procreazione medicalmente assistita, in Enc. giur. Treccani, 2004, 5.
32
incondizionatamente il principio secondo il quale la maternità è attribuita a
colei che ha partorito il figlio (arg. ex art. 169, comma 3, c.p.c.). Ne consegue
che l'eventuale formazione di un atto di nascita che indichi quale madre una
donna diversa da quella che ha partorito si risolve nel compimento del
delitto di alterazione di stato e, sul piano civilistico, può dar luogo all'azione
di contestazione della maternità secondo il combinato disposto degli artt.
248 e 239, comma 2, c.c.
Altra questione è, tuttavia, quella della rilevanza per l'ordinamento
interno di un accordo di maternità surrogata perfezionatosi all'estero, sotto
la vigenza di una specifica normativa che lo disciplini. A tal riguardo nulla è
previsto dalla legge sulla procreazione medicalmente assistita, a differenza
di quanto – di fatto - accade per il caso di fecondazione eterologa. In tale
ipotesi, infatti, la legge n. 40/2004, all'art. 9 stabilisce che qualora si faccia
ricorso alle tecniche di fecondazione eterologa, pur vietate dalla suddetta
legge, il coniuge o il convivente il cui consenso possa ricavarsi da atti
concludenti non può esercitare l'azione di disconoscimento della paternità,
ai sensi dell'art. 235, comma 1, n. 1) e 2), c.c., né l'impugnazione di cui all'art.
263 c.c. Al contempo, inoltre, non sorge alcuna relazione giuridica tra il nato
e il donatore di gameti e quest'ultimo non può far valere nei confronti del
primo alcun diritto né può ritenersi titolare di obblighi.
La soluzione adottata in questi termini dal legislatore, in linea con gli
orientamenti affermatisi tanto a livello internazionale che nell'ambito degli
ordinamenti interni di altri Stati, mira ad affermare il prevalere della
dimensione sociale della filiazione rispetto a quella genetica, il che - di fatto consente anche di dirimere eventuali conflitti tra normative contrastanti,
33
qualora la fecondazione eterologa sia stata praticata all'estero.
Diversamente, invece, come già si accennava, il legislatore non è
intervenuto a regolare i complessi profili giuridici concernenti lo status del
nato allorché da parte di cittadini italiani sia stato stipulato un contratto di
surroga all'estero, cioè sotto la vigenza di un ordinamento straniero in cui
esso è ammesso.
La risoluzione dei problemi connessi ad un simile accordo è affidata
alle norme di diritto internazionale privato, ed in particolare a quelle
disposizioni della legge 31 maggio 1995, n. 218, che sottopongono
l'accertamento e la contestazione del rapporto di filiazione alla legge
nazionale del figlio al momento della nascita o a quella dei genitori (art. 33).
A tal riguardo, è intervenuta di recente la Corte d'appello di Bari43, la
quale ha affermato la riconoscibilità nel nostro ordinamento dei
provvedimenti
di
attribuzione
della
maternità
legale
alla
madre
“committente”, emessi, nel caso di specie, dall'autorità giudiziaria del Regno
Unito (c.d. parental orders), a seguito del ricorso alle tecniche di surrogazione
di maternità praticate in Inghilterra prima dell'entrata in vigore della legge
n.40/2004. La Corte ha così ritenuto quegli accordi surrogatori non contrari
all'ordine pubblico internazionale, in virtù dell'ammissione da parte di
alcuni stati dell'Unione Europea delle tecniche di surrogazione e del
prevalere del principio generale dell'interesse superiore del minore, per il
quale il favor veritatis soccombe, in tal caso, dinanzi al favor filiationis.
Accanto al problema, appena illustrato, dell'accertamento dello status
del figlio nato a seguito del compimento di un procedimento di
43
App. Bari, 13 febbraio 2009, in Fam. e dir., 2010, 251, con nota di DE TOMMASI.
34
surrogazione di maternità, si pone la questione relativa all'eventuale
esercizio di un'azione di contestazione dello status filiationis di colui che sia
nato attraverso tecniche di surrogazione praticate all'estero da genitori
italiani. Se anche si ravvisassero elementi di internazionalità, in linea di
principio, alla fattispecie si applicherebbe la legge italiana, perché il figlio
risulta cittadino italiano, e gli accordi di surrogazione non avranno quindi
efficacia alcuna ed il suo status sarà quello che gli deriva dalle norme interne
in materia.
A tal proposito, infatti, l'art. 33, comma 3, della l. n. 218/1995
espressamente stabilisce che “la legge nazionale del figlio al momento della
nascita regola i presupposti e gli effetti dell'accertamento e della
contestazione dello stato di figlio. Lo stato di figlio legittimo, acquisito in
base alla legge nazionale di uno dei due genitori, non può essere contestato
che alla stregua di tale legge”.
La norma, prevedendo l'applicazione della legge nazionale del nato,
variamente combinata con quella dei genitori, sembra offrire dunque una
chiara ed univoca soluzione al problema: ma cosa accade nell'ipotesi in cui il
figlio nato a seguito di una surrogazione di maternità abbia una doppia
cittadinanza e le leggi dei due Stati di cui egli è cittadino siano in contrasto
con riguardo all'esercizio delle azioni di contestazione dello stato di figlio?
Quale sarà, tra le due, la legge nazionale applicabile in tal caso?
Si pensi all'ipotesi – non meramente teorica - in cui una coppia
coniugata di cittadini italiani si rechi in uno degli Stati degli USA in cui la
maternità surrogata è consentita e, dopo aver stipulato un valido accordo
surrogatorio, ivi si formi legittimamente un atto di nascita in cui detti
35
coniugi risultino genitori legittimi del figlio, senza che emerga la sottostante
surrogazione di maternità; atto di nascita poi trascritto in Italia, ovviamente
senza alcun riferimento alla modalità del concepimento o della nascita.
Quid iuris qualora un qualsiasi soggetto interessato volesse contestare
la maternità del nato ex art. 239 c.c. (supposizione di parto) e 249 c.c.? Se si
ritenesse applicabile la legge italiana, in quanto legge nazionale del figlio,
l'azione potrebbe essere esperita, poiché alcun rapporto di maternità si
sarebbe formato in tal caso rispetto alla donna individuata come madre
nell'atto di nascita, stante l'illiceità nel nostro ordinamento dell'accordo tra la
coppia committente e la madre “sostituta”.
Tuttavia, il figlio, nato in territorio statunitense, avrà sia la
cittadinanza statunitense, in virtù dello ius soli vigente nell'ordinamento
dello Stato di nascita, sia quella italiana, in quanto figlio di cittadini italiani
(art. 1, l. n. 91/1992). Pertanto, ritenendo che la legge nazionale del figlio che
regola i presupposti e gli effetti della contestazione sia invece quella
statunitense, lo stato legittimo del nato a seguito di un contratto di maternità
surrogata
validamente
stipulato
dalla
coppia
secondo
le
norme
dell'ordinamento straniero considerato, non sarebbe impugnabile.
Il conflitto tra le due normative, quella italiana e quella statunitense,
in materia di contestazione di legittimità pone il problema di stabilire quale
di esse trovi applicazione nel caso che qui si considera. La risoluzione di tale
complessa questione potrebbe, ad un primo esame, rinvenirsi nella regola
generale sancita dall'art. 19, comma 2, della l. n.218/1995, secondo cui “se la
persona ha più cittadinanze, si applica la legge di quello tra gli Stati di
appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra le
36
cittadinanze vi è quella italiana, questa prevale.” L'applicazione, tuttavia, di
tale disposizione al caso in esame risulta poco convincente, se si considera
che lo status filiationis consacrato nell'atto di nascita – vero e proprio titolo
dello stato – è avvenuto legittimamente in applicazione delle regole relative
alla formazione di quell'atto. In altri termini, colui al quale venga attribuito
lo stato di figlio in base alla legge di un determinato ordinamento nazionale,
non potrà vedersi contestato tale stato sulla base di quanto disposto da una
legge di un diverso ordinamento.
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