L'uposatha nella tradizione monastica buddhista. Jesús López-Gay, S. J. Docente Pontificia Università Gregoriana. (pubblicato in: Informazione in psicologia, psicoterapia, psichiatria n. 38 - 39, Roma settembre – dicembre 1999 gennaio aprile 2000, pp. 12 - 17) All'interno della vita monastica, 1'uposatha è un giorno di ritiro quindicinale che ha un profondo senso comunitario e allo stesso tempo didattico e liturgico. L'origine è prebuddhistica. Molte religioni primitive dell'india celebravano riti religiosi in coincidenza con i quattro giorni cardinali del mese lunare: luna piena, quarto, ottavo, e luna nuova. In questa occasione si offrivano alcuni sacrifici (upasavatha). Di fatto, questo è il significato etimologico del termine.1 Non pochi asceti contemporanei al buddhismo avevano accettato questa abitudine, approfittandone per esporre le proprie dottrine. Il carattere sacrificale viene sostituito da quello didattico, di insegnamento. Questa abitudine passò anche al nascente buddhismo, e nelle fonti della letteratura pâli viene conservato il nome di uposatha, che designa il giorno di osservanza nel mese lunare, ogni quindici giorni, del digiuno, e durante il quale si radunavano tutti i monaci con due fini: fare una confessione generale, dichiarando la propria "purezza perfetta", e la lettura delle regole o Pâtimokkha, alla quale seguiva una confessione particolare. Diventò uno degli atti comunitari più importanti del monacato buddhista.2 La caratteristica principale era, dopo la dichiarazione previa dello stato di purezza, la recita delle regole monastiche o pâtimokkha, in totale 227 regole secondo il Suttavibhanga, testo canonico scritto in pâli.3 E in questa occasione si offriva ai monaci l'opportunità di confessare pubblicamente le offese commesse contro le regole. Se, dopo la recita di ognuna delle regole, i monaci rimanevano in silenzio era segno che si trovavano in stato di perfetta purezza (pârisuddhi).Oltre il silenzio c'era un'altra forma di ottenere la purezza: la "confessione". Questo atto comunitario serviva per modellare la comunità e per trasmettere fedelmente la lettera e lo spirito autentico delle regole. Come in altre occasioni, con il passare del tempo, nuovi casi e possibilità pian piano diedero una struttura nuova a questo rito quindicinale. La presenza di alcuni termini in questa confessione particolare, per esempio, "mi pento", "riconosco la mia colpa", "farò la penitenza", ecc., e l'oggetto della confessione di come erano i peccati in relazione con le "intenzioni", ci dimostra che non si trattava di qualcosa di esterno, materiale, ma di autenticamente profondo. Principalmente la seconda sezione del Mahâvagga è dedicata a questo rito.4 Non mancano altri testi canonici, come vedremo. Ci presentano alcuni dati storici interessanti, come quando ci raccontano che "nel tempo in cui il Sublime Buddha viveva vicino a Râgagaha, nella montagna Gigghakûta, gli asceti Paribbâgakas, appartenenti alle scuole Titthiya, si radunavano il giorno ottavo e decimo quarto o decimo quinto di ogni mese, per recitare la legge o dottrina (Dhamma), il popolo veniva da loro per sentire la legge, e molti erano pieni di fede verso questi asceti tanto che molte scuole guadagnarono aderenti".5 Sembra che il fine principale di queste prime adunanze era lo studio e la propagazione della dottrina, tale com'era interpretata da loro. Un fine didattico. In questo contesto storico, i laici buddhisti pensarono che se i loro monaci si radunavano periodicamente si potevano conseguire gli stessi frutti. Sembra che la vita cenobitica non era ancora fortemente stabilita all'interno del buddhismo. Siamo nei primi momenti, e per questo motivo i laici proposero le loro idee allo stesso Buddha, e come risposta il Sublime prescrisse ai "monaci" di radunarsi insieme e recitare la Legge. Un secondo momento dello sviluppo storico avvenne quando Buddha dopo essere stato in solitudine, pensò più concretamente che i monaci in occasione dell'adunanza quindicinale dovevano recitare i precetti o Pâtimokkha.6 Il testo delle regole segnalava ai monaci l'ideale della perfezione monastica, e la loro osservanza creava la comunità mentre la loro mancanza era per i monaci motivo di peccato; era quindi un testo che li liberava da ogni macchia, come vedremo più avanti.7 "Quando il Sublime era solo e si era ritirato nella solitudine, il seguente pensiero è venuto alla sua mente: che cosa accadrebbe se io prescrivessi che i monaci recitassero il pâtimokkha, le regole già promulgate da me, e in questo consistesse il loro servizio nell'uposatha? E il Sublime, alla sera dopo aver lasciato la solitudine... si indirizzò ai monaci con le seguenti parole: quando ero in solitudine, o monaci, ho avuto il seguente pensiero... [si racconta di nuovo il pensiero di Buddha, e come conseguenza] Io vi prescrivo, o monaci, di recitare le regole." Subito il Sublime diede delle norme concrete su come recitare le regole nell'adunanza comunitaria: "Un monaco dotto e competente proclami il seguente monito dinanzi l'assemblea: voglia la comunità, reverendi signori, sentirmi: Oggi è l'Uposatha, il giorno quindici. Se l’assemblea è preparata, celebri il servizio dell'Uposatha recitando il Pâtimokkha. Che deve fare innanzitutto la comunità? Che ognuno proclami la sua perfetta purezza (pârisuddhi), signori. Adesso, passo a recitare il Pâtimokkha. E la comunità rispose: ognuno di noi ha sentito questo monito e lo guarda nella mente". Due confessioni, quella che diventa una dichiarazione previa dello stato di purezza, e quella delle offese contro le regole. L'atto dell'Uposatha è passato da una adunanza didattica a un cerimonia asceticoliturgica, divisa in due momenti. Prima della recita delle regole, doveva essere una "confessione pubblica" o dichiarazione del proprio stato di perfetta purezza, come un requisito per poter partecipare a questa adunanza. Chiaramente si vede il rispetto per la comunità. Subito studieremo la seconda confessione, la più importante. Veniamo all'esame della prima dichiarazione dello stato di purezza perfetta. Leggiamo un testo dell'Udâna, testo canonico8, "In una certa occasione il Beato si trovava presso Sâvathi, nel parco orientale, presso la casa a piani della madre di Migâra. Ora, in quel tempo, il Beato se ne stava seduto, circondato dall'assemblea dei monaci, in un giorno che era uposatha. Il venerabile Ânanda, entrata la notte quando la prima vigilia stava trascorrendo, si alzò da dove sedeva e, buttando la veste sulla spalla destra, congiunse le palme salutando il Beato, e gli disse: Signore la notte è ben entrata, la prima vigilia è trascorsa. L'assemblea dei monaci è stata già seduta a lungo. Voglia il Beato pronunciare i voti [le regole] per i monaci... (Ânanda ripete il gesto e la domanda tre volte, ma il Beato rimase in silenzio; finalmente all'alba, il Beato diede la risposta)... Ânanda, l'assemblea non è totalmente pura". Questa mancanza di purezza generale all'interno della comunità, in uno dei membri della comunità, costituiva l'ostacolo per la proclamazione delle regole che doveva fare lo stesso Buddha. ln questo contesto, uno dei grandi discepoli, MahâMogallanâ scopri la presenza di un monaco "di azioni nascoste, che non viveva castamente, pieno di brame...", e lo espulse. "È strano, Mogallâna, è meraviglioso, come quell'imbecille abbia dovuto aspettare prima di essere afferrato per il braccio (ed espulso).Allora il Beato ammonì i monaci, dicendo: ‘Da questo giorno in poi, o monaci, io non osserverò più l'Uposatha né pronuncerò i voti o regole. Pronunciateli voi.’" Si deduce che all'inizio, era Buddha stesso, il Sublime, che leggeva pubblicamente le regole. Lui stesso imponeva la penitenza. Ma un giorno, dopo la scoperta di mancanza di purezza perfetta in uno dei monaci, non ha voluto più leggere le regole, insegnando ai monaci la necessità di questa purezza previa nella comunità e comunicando l'incarico della lettura ad altri discepoli. Buddha stesso conosceva lo stato interiore dei monaci, e anche alcuni dei suoi discepoli, come Mogallâna, e per questo motivo subito espulse il monaco indegno. Alcuni anziani o "thera" godevano di questa qualità di conoscere lo stato di purezza dei monaci e le offese che avevano9. Il Sublime vietò la recita delle regole se nell'assemblea fossero stati presenti questi monaci nello stato di impurezza. Ma, la "recita del Pâtimokkha non deve essere proibita dinanzi ai monaci puri, gli innocenti"10. Con belle parole, Buddha spiegò il motivo di queste espulsioni. "Proprio come, o monaci, il grande oceano non coabita con un corpo morto, poiché quando nel grande oceano c'è un cadavere, ben presto esso lo spinge verso la sponda e lo butta sulla spiaggia, cosi pure, o monaci, qualunque persona che sia immorale, di perversa natura, impura, di condotta sospetta, di azioni nascoste, che non sia un vero monaco con una tale persona l'Ordine non convive, ma, allorché si raccoglie, ben presto lo butta fuori...11. Se un monaco si rendeva conto che non era nello stato di purezza dopo l’inizio, subito lo doveva dichiarare al monaco che gli era vicino, e soltanto così poteva continuare partecipando all’assemblea12. Anche se un monaco è in stato di dubbio sul suo stato di purezza, lo doveva dichiarare come tale, "Mi sento in dubbio, o amici, su tale e tale offesa e voglio espiarla. Se parla così, può partecipare all'Uposatha e sentire le regole"13. Questa confessione è meglio non farla in comune, ma personalmente14. Se erano meno di tre i membri dell'assemblea si poteva omettere la lettura delle regole, ma mai la dichiarazione dello stato di purezza15. Quali sono i peccati che fanno i monaci impuri e impediscono la lettura delle regole per andare avanti nella loro confessione? Dai testi canonici citati possiamo raccogliere alcuni di questi peccati: perversa natura, persona immorale, un impuro, monaco di condotta sospetta, azioni nascoste, chi non è un vero monaco pur mostrando di esserlo, che non vive castamente pur pretendendo di vivere così, sporco, con un mucchio di immondizia. La confessione generale sullo stato della vita e natura è previa, le mancanze contro le regole sono molto più concrete. Dopo questa dichiarazione generale di purezza, le regole devono essere lette, ogni regola tre volte, e tutti le ascoltano con attenzione, e il silenzio diventa il segno della purezza. "Chi ha commesso un'offesa deve confessarla; se non c'è nessuna offesa, voi dovete rimanere in silenzio, e io, dice Buddha, capirò che i reverendi fratelli sono puri dalle offese". Un monaco, dunque, che desidera diventare puro e ha una offesa deve confessarla; perché se la confessa approfitta dell'occasione opportuna. "Pâtimokkha è l'inizio, significa affrontare o ottenere le buone qualità"16. Ancora non c'è accordo fra gli specialisti sul significato etimologico del termine Pâtimokkha. Uno degli autori più qualificati vede nel termine mukha (andare dinanzi) 1' idea di confessare le mancanze e i peccati contro le regole.17 È curioso che nel buddhismo cino-giapponese il termine viene trascritto con tre ideogrammi (betsu-gedatsu-kai), "speciale-liberazione-regole", attraverso la confessione delle regole si ottiene una speciale liberazione. Alcuni vedono nelle regole non un regolamento per mantenere l'ordine esterno nella vita del monastero, ma per offrire la occasione di fare la confessione. Le regole sono nate in un secondo momento nella storia del buddhismo. All'inizio, tutta l'attenzione era sull’"essere", in un secondo momento l'attenzione ricade sul "diventare santi", sullo sforzo. In questo contesto nascono le norme, le regole, e la confessione. 18 Adesso veniamo all'esame della confessione di alcune regole. Nel primo gruppo di regole (pârâjika), la sua trasgressione (benché sia di pensiero) porta con sé l'espulsione dell'Ordine; è il non essere in comunione, e per questo occorre ascoltare con attenzione la lettura delle regole, e dopo la recita, se uno è colpabile, fare la confessione. Dopo la lettura di queste quattro regole, si chiedeva: "venerabili signori, se siete caduti nei peccati contro queste regole, non potete restare con i monaci, siete impuri e non siete in comunione", la non residenza insieme indica il frutto materiale del peccato, il non essere in comunione, è il frutto spirituale. "Siete voi puri?", alla domanda il silenzio era la manifestazione della purezza, in questo caso il silenzio era la forma privilegiata di manifestarsi alla comunità, non occorreva una confessione verbale.19 Dopo seguono 13 regole chiamate sanghadisesa, la cui trasgressione esige l'adunanza dell'assemblea (sangha), che giudica la malizia dell'offesa, e il monaco "deve riconoscere questa mancanza o peccato e confessarlo". In questi casi, la purezza si ottiene esplicitamente attraverso "la confessione". Ci sono alcuni testi dentro il Cullavagga, libro anche molto antico, che illuminano tutto il tema della "confessione"20. Per esempio, si parla di Vaddha come se si parlasse contro Dabba, diffamandolo. Egli di conseguenza viene allontanato dalla comunità dei monaci, e simbolicamente la sua ciotola è collocata al rovescio. "In questa occasione, Ânanda, essendosi vestito bene, al mattino, portando la ciotola e il manto, si indirizzò alla residenza di Vaddha. E quando arrivò, parlò a Vaddha dicendo: La (tua) ciotola è stata collocata al rovescio dalla comunità, e tu non hai niente a che fare con la comunità. Vaddha, sentendo questa sentenza, subito non ebbe forze e cadde. In questo momento gli amici e compagni di Vaddha e i suoi consanguinei vennero e dissero, 'non piangere, non lamentarti'. Noi ti riconcilieremo con il Beato e con la comunità dei monaci. E Vaddha si alzò, e insieme con sua moglie, i suoi amici e i suoi consanguinei, vennero al luogo dove si trovava il Sublime, e li si gettò a terra collocando la sua testa ai piedi del Beato o Sublime, e disse: 'Ho peccato, il peccato è caduto su di me, o Signore, secondo la mia debolezza, secondo la mia pazzia, secondo la mia ingiustizia, in quanto senza nessun fondamento ho diffamato Dabba per mancanza di moralità. In relazione con questo peccato voglia il Beato accettare la confessione che io faccio del mio peccato pieno di malizia, e propongo per il futuro di rettificarmi. Certamente, o amico Vaddha, il peccato ti aveva coperto, secondo la tua debolezza... perché senza fondamento hai diffamato Dabba per mancanza di moralità. Ma perché tu, o amico Vaddha, hai contemplato il tuo peccato come peccato, e ti sei emendato, noi accettiamo dalle tue mani la tua confessione del peccato... questo ti renderà capace nel futuro di non peccare più".21 Dobbiamo sottolineare alcuni verbi, come il ''riconoscimento del proprio peccato, il pentimento, la confessione e il proposito di non cadere di nuovo nel peccato". La confessione non è dunque soltanto qualcosa di esterno. I frutti della confessione di questo peccato commesso contro le regole e il perdono, la capacità di non peccare di nuovo. E' vero che la confessione viene richiesta innanzi tutto ai monaci, ma in questo caso abbiamo trovato un "laico", anche se unito alla comunità dei monaci. Dopo la confessione fatta al Venerabile, Vaddha è andato all'assemblea e là ha fatto la confessione. L'Uposatha era considerato come un atto pieno di frutto spirituale, splendido, commovente. Il potere spirituale che si poteva raccogliere era superiore a quello proprio delle divinità, degli asuras e altri esseri mitologici.22 È vero che nell'Uposatha si accettavano domande di tipo dottrinale e anche di tipo morale. Non perdeva la sua dimensione didattica, dottrinale. I laici buddhisti si interessavano all'osservanza dell'uposatha. Veniva considerato come una fonte di benedizioni per loro stessi, e come il momento di ricordare i comandamenti fondamentali del buddhismo, ai quali loro si sottomettevano. Per il valore didattico, ascetico e liturgico, ancora si celebra l'uposatha nei paesi buddhisti più fervorosi, ma secondo le loro circostanze si sottolineano alcuni aspetti. In Tailandia, la confessione specifica delle regole ha perso rilievo, mentre la partecipazione dei laici alla preparazione della sala, nel contare il numero dei monaci presenti, ecc., è accurata.23 In Birmania al contrario, la confessione dei peccati contro le regole si conserva come rito essenziale dell'uposatha.24 Nel Tibet, l'atto esterno di una formula di confessione dei peccati è passato in primo piano, benché non viene recitata individualmente ma cantata in coro.25 Cosi recita: "Confesso i peccati che ho commesso con il mio corpo, la mia parola e la mia mente, e attraverso la mia codardia, la collera, e la mia stupidità. Ascoltatemi, o grandi Lamas possedenti i vajra, e tutti i Buddha e o Boddhisatvas delle dieci direzioni. Io mi pento di tutti gli atti cattivi commessi dal tempo della mia nascita fino ad oggi, come quelli contro i dieci comandamenti, e le cinque mancanze minori... di non aver mantenuto l'insegnamento dei bodhisattvas, e i voti imposti dai mantras segreti, ... e finalmente prometto di non commettere più questi peccati". Note 1The Pali Society's Pali-English Dictionary, edited by T. W. Rhys Davide, W. Shede, London-Boston 1972, pp. 150b-151a. 2 Per una bibliografia su questo atto, le fonti buddhiste, e la stessa celebrazione nelle diverse tradizioni, consultare il mio libro, J. LÒPEZ-GAY, La Mistica del budismo. Los monjes no cristianos del oriente, ed. Bac, Madrid 1974, pp.146 Ss. J:PRZLUSKI, Uposhata, 'Indian Historical Quarterly", 12(1936)pp.283-290. 3 Una traduzione di tutte, divise in Otto sezioni secondo la loro importanza nel libro citato, La Mistica del budismo, pp.160-173, più le regole del buddhismo mahâyana, pp. 173-176. Senza dubbio, la traduzione più completa delSuttavibhanga è quella in tre volumi presentata dalla PTS (=Pali Text Society) nel Vinaya Pitaka (The Book of the Discipline), translated by Honner, London 1949-1957. 4 Abbiamo davanti la traduzione del SBE(Sacred Books of the East, vol.I, London 1879, e ss.), il Mahâvagga (I-IV) eil Pâtimokkha nel vol. XIII, Oxford 1881, e seguiamo la divisione di paragrafi e numeri propria di questa edizione. È vero che in questo volume si trovano soltanto le quattro prime sezioni del MV. Per le sezioni restanti, vedere il vol. XVII. Un'ottima traduzione del MV è quella fatta da Horner, che presenta la PTS(Pali Text Society), London 1962. 5Mahdvagga, 2,1,1, d'ora in poi MV; la stessa idea si ripete in 2,1.3.4.; seguo 1'interpretazione dell'editore sul numero di volte che i monaci si raggruppavano ogni mese. Parlando di Buddha, invece di "Sublime" possiamo anche presentarlo come il "Beato". 6MV, 2,3,1 ss. 7 Sul significato delle Regole, vedere il mio libro citato nella nota 3, sono pubblicate nel vol.XIII del SBE, Oxford 1881, pp. 1-69. Cfr. Thera ÑANAMOLI,Pâtimokkha... with Introduction by Phara Sâsana Sabhana. With a few important texts from the Tipitaka relating to the Pâtimokkha, Bangkok 1966. Sulla traduz. in inglese più completa delle Regole, vedere la nota 3. 8 Udâna. 5.5 È un capitolo o sezione lunga con molte ripetizioni. 9Cullavagga, 9,2. Una traduzione ottima in ingl. nel vol.V del Vinaya Pitaka pubblicato dalla Pali Text Society, London 1975. Su Ânanda e Moggallâna, leggere le due biografie che ho scritto in Le grandi figure del Buddhismo, Cittadella Ed., Assisi 1995, pp.20 ss., 69 ss. 10 Cullavagga,9,3. MV, 27,1 e 55. 11 Udâna, 5,5 12 MV, 2,27,1-2,5. 13MV, 2,27,2. 14 MV, 2,27,3, fra altri monaci come i Khabbaggiya, si accettava la confessione comune come dice il testo e per questo domandano a Buddha. 15MV, 2,26,lss. 16 MV, 2,3,3-4. Nella nota della traduzione del testo Pali, si spiega, e si discute, la radice e il significato del termine Pâtimokkha, che prima è stato proposto nella p. XV e ss. dell'Introduzione. Noi utilizziamo il testo del Vìnaya Texts, translated from the pâli by T WDavids andi H. O1denberg, (vol.XIII del SBE), Part I: The Pâtimokkha.The Mahâvagga, 1-1V, Oxford 1881 .Vedere inoltre il testo della nota 4. 17 T. W. RHYS DAVIDS, Encyclopaedia of Religion and Ethics (ed. J .Hasting ) IX, Edimburg 1917,col.677a. 18 Questa ideologia si trova esposta nel libro canonico Anguttaranikâya ,2, 17, l ss., 10,4,31 ,ecc.(5 vol. nella PTS, vol.22,24-27, traduzione di F.L.WOODWARD, The Book of the Graduai Sayings,London, reimpr., 1955-65). 19 Patimokkha, traduzione citata, pp.3-6. La prima regola vieta le relazioni sessuali con gli uomini, animali,ecc.le altre, non rubare, non uccidere, non soprastimarsi (interessanti i commentari a questa regola presentati nell'ediz. del PTS). 20 Il Cullavagga è tradotto e pubblicato nel vol. XX del SBE, Oxford 1885, nel del Vinaya Texts. 21 Cullavagga, ediz.cit., V,20,5.Testo simile nello stesso libro canonico, VII, 3-7, e applicato a un gruppo di monaci che riconoscono i loro peccati, in Mv IX, 1,9. 22 Anguttara Nìkâya, VIII,5,41 .42. 23 K.E.WELLS, Thai Buddhism, its Rites and Activities, Bangkok 1960, pp.51-58. Nel libro cit. di Thera ÑÂNAMOLI,vedere p. 6 ss. 24 E.M.SPIRO, Buddhism and Society, London 1971, pp. 302-304, più realista P. ANATRIELLO, Buddhismo Birmano, Napoli 1969, pp.68-69. 25 L.A.WADDELL, The Buddhism of Tibet, or Lamaism, 2 nd ed., Cambridge 1934, p.443, e viene copiata la formula del "confiteor tibetano", pp. 501-502.