Etica militare, tradizioni e associazioni d’arma di Alessandro Ferioli ffrontare il tema dell’etica militare è utile sempre, sia perché serve a inquadrare correttamente chi sta facendo ingresso nella professione, sia perché sollecita anche gli “anziani” a riflettere criticamente sulla loro più o meno lunga esperienza, accrescendone la maturità professionale e la disposizione a trasmettere valori positivi. Il diritto, mediante le leggi dello Stato, i regolamenti e la relativa giurisprudenza, norma procedure e comportamenti su un piano strettamente giuridico, stabilendo oggettivamente gli obblighi e le responsabilità personali, con i relativi limiti e le sanzioni comminate a carico di chi li viola: esso dipende però prevalentemente dalla volontà del legislatore (oggi democratico, in altri tempi non sempre) e non è perciò sufficiente, da solo, a esprimere l’etica militare. Occorre uno slancio ulteriore che coinvolga il cuore oltre il cervello, preparando quelle forze spirituali che, all’occorrenza, dovranno essere gettate nella lotta: esso può giungere dalla deontologia militare, che si propone di attualizzare l’ideale professionale militare nello spazio della coscienza e dell’onore, abituando il singolo alla fedeltà non soltanto alle norme scritte, ma anche a quelle non scritte, né prescrivibili, e tuttavia universalmente riconosciute nella tradizione. È la coscienza etica a imporre l’assunzione di responsabilità anche laddove regolamenti e protocolli operativi non ne prevedano: non è un caso che le decorazioni al Valore Militare – così secondo la disposizione del R.D. 4 novembre 1932, n. 1423 – siano conferite per ricompensare “un atto di ardimento, che avrebbe potuto omettersi senza mancare al dovere ed all’onore”. Talvolta, però, ci rendiamo conto che talune trattazioni di deontologia professionale militare non sono esaustive e non danno risposte concrete ai bisogni attuali del personale: insufficiente è l’approccio A 6 Marinai d’Italia 9 luglio 1940 - Punta Stilo Nella foto il più giovane degli ufficiali preleva la Bandiera di Combattimento e lo stendardo della Corazzata Giulio Cesare e la scorta in plancia per issarla al momento della Battaglia. Un ringraziamento ad Andrea Tirondola per aver riconosciuto e ricordato il CV Angelo Varoli Piazza (a sinistra, con le cordelline). (Collezione ANMI - fondo Castegnaro) sociologico, che tende piuttosto a “fotografare” la realtà che a trasformarla ed è indispensabile nel momento formativo iniziale, ma si muove secondo esigenze accademiche legate alle ricerche in corso e con una metodologia disciplinare non sempre coerente con le finalità istituzionali delle Forze Armate; sembrano altresì inadeguate le divagazioni estemporanee sulle tradizioni, cariche di exempla eccezionali ormai un po’ fuori dal tempo e troppo spesso gonfie di una retorica difficilmente spendibile nell’operato quotidiano, sì da scadere talora in panegirici fini a sé stessi che ricordano ma non ravvivano la fiamma. Mi sembra invece che l’etica militare, nell’odierna società del cambiamento, d’indubbia complessità e in rapida trasformazione, possa porsi non soltanto come un punto di riferimento saldo su ciò che intendiamo conservare del passato, ma soprattutto come un fondamentale regolatore pedagogico e culturale della modernizzazione dello strumento militare, che ci indichi come siamo disposti a muoverci, e con quali valori, fra le tante opzioni possibili. Lo scenario è quello di un mondo dove i nostri militari sono chiamati a intervenire con una forma mentis di chi opera in difesa della persona, agendo per riconsegnare ai soggetti più deboli i principî della dignità e dell’integrità umana, operando per costruire o ricostruire la consapevolezza dei diritti e dei doveri di cittadinanza nell’ambito di soggettività sociali disgregate. In tale contesto, se una scienza come l’antropologia culturale può fornire gli strumenti interpretativi per la comprensione delle differenze, la deontologia professionale – come stella polare di militari esemplari – si pone oggi a garanzia del perseguimento di valori positivi; e se le norme statuali fissano i limiti dell’agire, sanzionando i comportamenti scorretti, l’etica – come espressione soggettiva che coinvolge il singolo nell’intimità della coscienza – ne consente l’attuazione consapevole in vista del bene comune. Se quindi dovessi ipotizzare quali prospettive concrete abbia oggi l’etica militare, direi che al momento la migliore spendibilità del nostro patrimonio morale può forse avvenire a livello internazionale. E ciò non soltanto per quanto attiene alle decisioni dei comandanti e ai comportamenti dei militari – regolati, come sappiamo, prevalentemente dal diritto –, ma anche per conseguire la migliore integrazione possibile fra le truppe internazionali. Nel corso delle missioni, infatti, l’etica può diventare l’elemento-chiave capace di unificare, sul piano più alto e nobile, personale proveniente da contesti molto eterogenei per tradizioni nazionali, sensibilità sociali, abitudini alimentari, vissuti ideologici e orientamenti religiosi, approfondendo e cementando quella reciprocità di conoscenza che, peraltro, da tempo è già in atto. Si parla, e sovente con approssimazioni e strumentalizzazioni, di “identità europea”: anche nel campo militare esistono elementi – sia di affinità che di differenza – che possono concorrere al processo di formazione di una identità militare europea in chiave moderna, finalizzata precipuamente all’integrazione professionale. Come ci hanno insegnato gli storici Eric J. Hobsbawn e Terence Ranger nel volume The Invention of Tradition, una tradizione identitaria non si “scopre” ma si costruisce intenzionalmente, mutandola e reinterpretandola con l’insorgere di nuove situazioni o esigenze. Due mi sembrano i terreni su cui sviluppare una condivisione etica. In primo luogo, l’appartenenza a una medesima Forza Armata, Arma o Specialità contribuisce a cementare, pur nella eterogeneità delle provenienze nazionali, una comunanza di tradizioni. Gli scambi in tal senso già avvengono nella formazione e nell’espletamento dei compiti d’istituto, seppur forse con una frequenza ancora insufficiente a far parlare di piena integrazione. Per muoversi nella direzione auspicata resta perciò da incrementare la conoscenza delle tradizioni d’Arma specifiche dei colleghi stranieri, promuovendo al tempo stesso ancor più le nostre in tutte le sedi internazionali possibili. Vanno valorizzati in tal senso quegli aspetti della tradizione che concorrono effettivamente a costruire uno stile di vita e che trovano la più evidente esplicazione in sede operativa: penso, ad esem- pio, al caso del Decalogo dei Bersaglieri, un codice morale ideato dal fondatore del Corpo Alessandro Ferrero della Marmora in perfetta sintonia con la Proposizione che, sin dalla sua costituzione, definisce i compiti della specialità. In secondo luogo, sono convinto che vadano meglio valorizzate le esperienze maturate nelle missioni all’estero. È giunto insomma il momento che ciò che di buono è stato compiuto nel passato più recente si trasformi anch’esso in tradizione, attraverso una rielaborazione da compiersi nella memoria collettiva. Quest’ultima è intesa – per usare una più appropriata terminologia sociologica – come “fondamento” e al contempo “espressione” della memoria di un gruppo sociale; si tratta insomma di un vero e proprio patrimonio culturale elaborato in una zona di confine fra storia e tradizioni, senza pretese né di “oggettività” né d’imparzialità, ma fedele allo spirito del passato e legato sempre alla progettualità del presente. Dunque, occorre dare largo spazio, secondo una prospettiva transnazionale, a una memorialistica specifica, a manifestazioni e rievocazioni significative, alla doverosa celebrazione dei decorati al valore e dei Caduti, a riflessioni capaci di fornire ampie visioni d’insieme, sollecitando anche la storiografia e sostenendo sempre l’impegno di costruire e definire un patrimonio culturale comune, che richiami e rafforzi i valori e le norme morali di riferimento. La conseguenza principale di uno sforzo in tal senso sarebbe senz’altro, a mio avviso, una migliore comprensione della “cultura militare” dei partner coinvolti e, quindi, del loro specifico approccio alle operazioni e alle azioni di comando e delle loro peculiari modalità operative nell’affrontare e risolvere (o meno) i problemi e nell’accostarsi alle popolazioni locali e alle diverse parti in gioco. Ciò si rivela ancor più importante tenuto conto che, nelle odierne missioni, il conseguimento della superiorità militare è ben lontano dal costituire la conclusione delle operazioni, poiché ad essa fa seguito l’impiego della forza militare per la stabilizzazione e la ricostruzione del territorio. E in quell’ultima fase tutt’altro che breve, forse, meglio si esprime lo specifico apporto “nazionale”, che riflette la sensibilità civile del popolo d’appartenenza. Viene ora da chiedersi se e quale contributo possano fornire le associazioni d’Arma a beneficio di un “allargamento” del discorso etico. Di là dalla custodia della storia e delle tradizioni d’Arma, al cui riguardo già i nostri sodalizi rivestono un ruolo “di prima linea”, ritengo che l’associazionismo potrebbe porsi proficuamente anche l’ambizioso progetto di affiancare l’Istituzione militare nella divulgazione e nella trattazione di tematiche deontologiche. Ancora oggi, nella società italiana, sembra non inutile richiamare le finalità della professione militare come ridefinite dalla L. 14 novembre 2000, n. 331, Art. 1 – ovvero la difesa dello Stato e delle sue istituzioni democratiche, la realizzazione della pace e della sicurezza su scala internazionale e la tutela della collettività nel caso di pubbliche calamità – allo scopo di riaffermare il suo peculiare apporto al “bene comune”: interpretando il ruolo di mediazione tra militari in servizio e società civile, potremmo trasformare le feste d’Arma o di Specialità in occasioni di apertura al grande pubblico attraverso conferenze/convegni su temi deontologici, approfondendo anche i problemi inerenti a compiti specifici e specialità professionali (ad esempio il medico militare, le Capitanerie di Porto ecc.) e presentando le migliori pratiche sperimentate a livello di reparto. L’attivismo associazionistico non può esaurirsi – come taluni ancora credono – nella partecipazione alle cerimonie e nell’amministrazione sezionale, ma deve continuare in una militanza attiva nella società che mobiliti tutte le energie culturali disponibili. Più che i reiterati richiami, spesso slegati dalla riflessione storiografica, alle guerre di un passato in cui l’uniforme significava soltanto il dovere di dire “signorsì” e andare all’assalto incontro a morte sicura, mi sembra utile rivendicare e dimostrare la validità della professione militare oggi e la proposta etica con cui essa si presenta alla società e ai giovani che desiderano intraprendere quell’attività lavorativa con le stellette che è, innanzitutto, scelta di uno stile di vita. In quella proposta etica risiede il “segreto” di una professione unica, il cui impegno a difesa del bene comune è talmente pervasivo che può giungere persino a prevedere la morte come mero assolvimento del dovere da compiere. n Marinai d’Italia 7