la figura dell`advocatus nella cultura giuridica romana

LA FIGURA DELL’ADVOCATUS NELLA CULTURA GIURIDICA ROMANA
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1. Nella fase più arcaica della storia di Roma, uno degli aspetti maggiormente peculiari di
quell’insieme del sapere che noi oggi chiamiamo cultura consisteva nel suo rapporto di interdipendenza
con il mondo magico-religioso; non a caso, le più significative attività intellettuali costituivano
patrimonio esclusivo dei sacerdoti, i quali, garanti della pax deorum, erano considerati i soli in grado di
assicurare alla società un modus vivendi equilibrato e pacifico.
La connessione con la sfera religiosa appare particolarmente intensa se si guarda alla scientia iuris,
in quanto il profondo legame esistente tra ius e riti religiosi la rendeva prerogativa assoluta del collegio
pontificale1; il monopolio del diritto, infatti, rimase a lungo nelle mani dei pontifices che non
concedevano le loro consultationes pubblicamente, ma rispondevano soltanto a richieste specifiche dei
privati, custodendo la loro scienza nel più assoluto segreto2.
Una svolta importante verso la laicizzazione del sapere giuridico si verificò solo alla fine del IV
secolo a.C. con Appio Claudio Cieco, al quale va riconosciuto il merito di aver provveduto alla stesura
scritta delle formule del rituale processuale, che, tramandato per lungo tempo oralmente, era stato
soggetto inevitabilmente all’arbitrio dei pontefici3. Si assiste così ad un’accelerazione del processo
diretto a creare una scienza giuridica che non fosse più privilegio della casta sacerdotale, ma apparisse
manifesta a tutti i cittadini, processo avviatosi già verso la metà del V secolo a.C. con le XII Tavole, le
quali per la prima volta avevano posto per iscritto gli antichi mores4; si tratta, tuttavia, di una scienza che
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Al fine di rendere più agile il lavoro e di preservarne il fine comunicativo, non strettamente specialistico, ho corredato il
testo solo di alcuni essenziali riferimenti alle fonti e alla letteratura.
1 I pontifices, dal latino pons (ponte) e facere (fare), letteralmente “facitori di ponti”, più liberamente “coloro che aprono il
cammino”, costituivano, insieme con gli auguri, i due massimi collegi del sistema sacerdotale romano. In particolare al
collegio pontificale era affidata non solo la custodia e l’interpretazione dei principi del fas e del ius, ma anche il compimento
dei sacrifici propiziatori, la redazione del calendario, con l’indicazione dei dies fasti e di quelli nefasti, la registrazione dei più
importanti avvenimenti della città.
2 Cfr. Liv. 9.46.5, secondo il quale il ius civile fu per molti secoli repositum in penetralibus pontificum […];Val. Max., 2.5.2: Ius civile
per multa saecula inter sacra cerimoniasque deorum immortalium abditum solisque pontificibus notum Cn. Flavius libertino patre genitus et
scriba, cum ingenti nobilitatis indignatione factus aedilis curulis, vulgavit ac fastos paene toto foro exposuit . Cfr. ancora D.1.2.2.6 (Pomp. l.
sing. ench.): […] omnium tamen harum et interpretandi scientia et actiones apud collegium pontificum erant, ex quibus constituebatur, quis
quoquo anno praeesset privatis […].
Cfr. M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 20039, pp. 110-111, dove l’a. afferma che “i pontefici non intervenivano
solo là dove, in qualche modo, l’agire degli uomini toccava la sfera del sacro; intervenivano, come interpreti e consiglieri, in
ogni zona o angolo della vita giuridica. [...] i pontefici hanno il monopolio del diritto privato [...] e ne conservano il segreto
nei loro archivi. Il solo momento comunicativo è costituito dal responso, dal consiglio tecnico pronunciato con laconicità
oracolare”.
3 Si ricordi che Appio Claudio fu censore nel 312 a.C. ed autore, almeno secondo la testimonianza di Pomponio, dell’opera
nota come De usurpationibus che aprirebbe la letteratura giuridica romana e che consisterebbe in una raccolta di formule e
clausole rituali attinte dai repertori pontificali; di quest’opera, peraltro, non ci è pervenuto nulla. La tradizione racconta che
un collaboratore di Appio Claudio, Gneo Flavio, gli sottrasse il testo dell’opera appena ultimata, per consegnarlo al popolo.
In seguito alla divulgazione di tale testo si sarebbe formato il cd. ius Flavianum, da identificare, quindi, proprio con il
contenuto dell’opera di Appio. Dalla notizia del furto, che appare peraltro alquanto fantasiosa, emerge, tuttavia, il
fondamento di una verità più attendibile: si potrebbe ipotizzare, cioè, che sia stato lo stesso Appio a servirsi di G. Flavio
quale strumento per attuare un programma politico moderato, una democrazia plebea, tendente a “consolidare un’alleanza
politica tra patriziato e plebe sul piano specifico della cultura giuridica” (cfr. Coppola, Cultura e potere. Il lavoro intellettuale nel
mondo romano, Milano 1994, p. 44). Cfr. D.1.2.2.7 (Pomp. l. sing. ench.): Postea cum Appius Claudius proposuisset et ad formam
redegisset has actiones, Gnaeus Flavius scriba eius libertini filius subreptum librum populo tradidit, et adeo gratum fuit id munus populo, ut
tribunus plebis fieret et senator et aedilis curulis. hic liber, qui actiones continet, appellatur ius civile Flavianum, sicut ille ius civile Papirianum:
nam nec Gnaeus Flavius de suo quicquam adiecit libro. augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis
spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum.
4 Le XII Tavole (leges duodecim tabularum), definite da Livio fons omnis publici privatique iuris (Liv. 3.34.6), furono composte tra il
451 e il 450 a.C. da una commissione di decemviri (decemviri legibus scribundis) formata per l’occasione con il precipuo compito
di redigere per iscritto le leggi. Sebbene il testo originale delle XII Tavole non ci sia pervenuto, essendo andato distrutto,
secondo la tradizione, nell’incendio di Roma ad opera dei Galli nel 390 a.C., è stato possibile ricostruirne il contenuto
attraverso le citazioni di fonti più tarde; fondamentale, al riguardo soprattutto l’opera di Sesto Elio Peto Cato (II secolo
a.C.), i cd. Tripertita, che riproponevano il testo delle XII Tavole, seguito dall’interpretatio pontificale degli antichi precetti e
dalle clausole delle legis actiones. Si è quindi giunti a ritenere che le leges duodecim tabularum raccogliessero, condensate in brevi
1
rimase pur sempre appannaggio della classe aristocratica, l’unica a potere esprimere dei giuristi, anche in
considerazione del carattere gratuito della loro opera, che finiva con l’escludere, di fatto, dall’esercizio
dell’attività giuridica coloro i quali non disponessero di un patrimonio personale5. Alla vecchia
immagine del sacerdote-sapiente si sostituì, quindi, quella dell’aristocratico-sapiente; l’antico legame
sacralità-diritto venne lentamente soppiantato dal nuovo rapporto potere politico-sapere giuridico.
Non si deve credere, tuttavia, che lo spostamento dalla ‘sacralità’ alla ‘laicizzazione’ della scientia
iuris ne abbia immediatamente modificato, in modo sostanziale, le connotazioni; solo con l’affermarsi
della politica imperialistica, a partire dalle guerre puniche, essa conobbe una più evidente evoluzione
resasi manifesta in una duplice direzione: una maggiore divulgazione da un lato, una sempre più
accentuata specializzazione dall’altro.
Un passo ulteriore nella storia della scientia iuris fu segnato da Tiberio Coruncanio, il primo
pontefice massimo di famiglia plebea, il quale, intorno alla metà del III secolo a.C., introdusse l’attività
del publice profiteri, in contrapposizione a quella dei pontefici precedenti basata sulla segretezza dei
responsa (in latenti ius civile retinere); in altre parole, alla cultura arcaica chiusa alla conoscenza pubblica del
diritto, Coruncanio oppose una scienza fondata sul publice respondere che aprì automaticamente la via
all’insegnamento pubblico, al publice docere6.
Si tratta di un’innovazione che ebbe una conseguenza di straordinario interesse quale la
divulgazione della scientia iuris anche tra più estese fasce sociali, aprendo così la strada ad una sua sempre
maggiore penetrazione fra i cittadini e, di conseguenza, ad una più spiccata professionalizzazione della
cultura giuridica.
2. A Roma l’attività giuridica, lavoro tipicamente intellettuale, ruotava essenzialmente intorno a
tre distinte figure, il giureconsulto, il professore di diritto e l’avvocato, i quali svolgevano funzioni
diverse - interpretatio del diritto, insegnamento dello stesso, esercizio dell’avvocatura - che andarono
definendosi in maniera sempre più netta nelle varie fasi istituzionali, dalla repubblica al principato e al
dominato7.
precetti, disposizioni disciplinanti i rapporti familiari e patrimoniali tra i cittadini, nonché l’elenco tassativo dei crimini
capitali e la descrizione dei rituali delle actiones, che rappresentavano la più antica tutela processuale conosciuta dalla città. Si
tenga conto del fatto che le XII Tavole non introdussero innovazioni significative, ma ebbero il grande merito di aprire la
strada verso una maggiore certezza del diritto e una minore arbitrarietà nella sua interpretazione e applicazione ai cittadini.
5 Pomponio ricorda la figura di Masurio Sabino, un giurista vissuto nei primi tempi dell’impero, il quale costituisce
un’eccezione alla regola, in quanto riuscì ad esercitare con successo la professione giuridica pur essendo privo di beni di
fortuna, avvalendosi del sostegno economico offertogli dagli ascoltatori, cfr. D.1.2.2.50 (Pomp. l. sing. ench.) Ergo Sabino
concessum est a Tiberio Caesare, ut populo responderet: qui in equestri ordine iam grandis natu et fere annorum quinquaginta receptus est. huic
nec amplae facultates fuerunt, sed plurimum a suis auditoribus sustentatus est.
6 Cfr. D.1.2.2.35 (Pomp. l. sing. ench.): Iuris civilis scientiam plurimi et maximi viri professi sunt: sed qui eorum maximae dignationis apud
populum Romanum fuerunt, eorum in praesentia mentio habenda est, ut appareat, a quibus et qualibus haec iura orta et tradita sunt. et quidem
ex omnibus, qui scientiam nancti sunt, ante Tiberium Coruncanium publice professum neminem traditur: ceteri autem ad hunc vel in latenti ius
civile retinere cogitabant solumque consultatoribus vacare potius quam discere volentibus se praestabant. Interessante, sul punto, risulta
anche un passo di Cicerone laddove viene implicitamente sottolineato che, nel momento stesso in cui si risponde ai quesiti
formulati da alcuni, si svolge anche un’attività di insegnamento nei confronti di coloro che desiderano imparare; si tratta di
un insegnamento da intendersi quasi come una normale attività professionale cfr. Cic. Brut. 89.306: Ego autem in iuris civilis
studio multum operae Q. Scaevolae Q. F., qui quamquam nemini se ad docendum dabat, tamen consulentibus respondendo studiosos audiendi
docebat.
7 È opinione generalmente condivisa dagli studiosi che presso i Romani le attività umane fossero suddivise in due categorie
nettamente contrapposte: le operae o artes illiberales, comprendenti il lavoro manuale nelle sue specifiche caratteristiche, e le
operae o artes liberales, concernenti, invece, i vari aspetti del lavoro intellettuale. Le operae illiberales, per le quali, era prevista
come ricompensa una merces, potevano essere anche oggetto di un contratto di locatio-conductio, a differenza delle artes liberales,
le quali, non valutabili economicamente, erano gratuite e rimanevano, pertanto, escluse da questo schema contrattuale.
Tuttavia, va rilevato che, con il trascorrere del tempo, anche per qualcuna delle artes liberales si affermò la necessità di esigere
una remunerazione, da non considerarsi peraltro come una merces, ma solo come honorarium, corrisposto al prestatore d’opera
liberalis ex officio et amicitia. Il professionista aveva il diritto di trattenere l’honorarium una volta che gli fosse stato corrisposto:
cfr. D. 19.2.38.1 (Paul. l. sing. reg .) Advocati quoque, si per eos non steterit, quominus causam agant, honoraria reddere non debent (su
questo passo di Paolo ancora significativo G. Gandolfi, ‘Advocati (…) honoraria reddere non debent’ (Paolo in Dig. 19.2.38.1), in
Calendario del cenacolo avvocati Valpadana 4 (1967), pp. 1 ss.; cfr. poi anche Coppola, Cultura e potere cit., pp. 196 ss.); tuttavia, nel
caso in cui l’onorario promesso, sebbene solo informalmente, non fosse stato pagato o non fosse stato congruo, egli aveva
solo la possibilità di ricorrere alla tutela extra ordinem: cfr. A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli 200112, pp. 910-11.
2
I giureconsulti (iuris periti o prudentes), depositari della scientia iuris, costituirono i veri artefici
dell’evoluzione del diritto romano8; l’antico ius civile era, infatti, un diritto formalmente statico ed
immutabile, che proprio i giuristi provvedevano, di fatto, ad aggiornare, attraverso l’interpretatio iuris,
basata sull’analisi di casi giuridici concreti9.
Il perno della attività dei prudentes era rappresentato dal respondere, cioè dall’esprimere
direttamente la propria opinione sulle questioni giuridiche sottoposte alla loro attenzione. I giuristi,
rispondendo alle domande che venivano loro rivolte, elargivano consigli e pareri considerati autorevoli
e tenuti, quindi, in altissima considerazione; tali pareri, i cd. responsa prudentium, furono, in un primo
momento, orali e sinteticamente motivati, poi scritti e ampiamente argomentati, soprattutto al fine di
renderli più persuasivi e farli prevalere su responsa divergenti di altri giuristi.
Nell’età repubblicana i giureconsulti non si limitavano, tuttavia, a pronunciare responsa, essi si
dedicavano anche ad altre due attività, il cavere e l’agere. Con il verbo cavere (consigliare) si indicava la
collaborazione, la consulenza offerta, gratuitamente, dai giuristi ai cittadini per il compimento di atti
negoziali particolarmente complessi che richiedevano una specifica conoscenza giuridica. L’attività
dell’agere (apprestare l’actio) consisteva, invece, nel dare risposte in tema di azioni processuali,
nell’elargire consigli riguardo al miglior modo di proporre la domanda giudiziale e, dunque, di impostare
la linea difensiva nel processo.
Nel periodo repubblicano, parallelamente all’attività dei giureconsulti, cominciò a delinearsi
quella dei professori di diritto. L’insegnamento del diritto non veniva, però, impartito in modo regolare
e sistematico nel senso scolastico moderno; gli allievi non formavano, infatti, una vera e propria classe,
ma erano introdotti nell’abitazione del maestro, dove ne ascoltavano le opinioni, i responsa, e
partecipavano, in qualche modo, alla discussione sui vari casi pratici esaminati10. In origine, i professori
di diritto s’identificavano con i giureconsulti che nelle proprie case, frequentate spesso da numerosi
ascoltatori, elargivano consigli giuridici dettati dalla conoscenza derivante dalla loro profonda esperienza
di cultori del diritto11.
Solo a partire dall’età imperiale furono aperte scuole ufficiali per l’insegnamento giuridico con
programmi regolari affidati, in un primo momento, a giureconsulti non molto rinomati e,
successivamente, nel periodo tardo imperiale, ai più famosi giuristi del tempo. In tali scuole venivano
tenute sistematicamente lezioni, per le quali non erano previste retribuzioni ufficiali, ma solo qualche
remunerazione offerta, in segno di gratitudine, dagli allievi. L’insegnamento del diritto nel periodo tardo
imperiale era coltivato principalmente da esponenti dell’alta società, il cui prestigio era così elevato che
una loro eventuale pretesa di ricevere un onorario, in cambio dell’attività svolta, sarebbe stata
Cfr. A. Schiavone, in A. Schiavone (a cura di), Storia del diritto romano, Torino 20012, p. 167, dove l’a. sottolinea “il primato,
nella formazione del ius, del sapere giuridico e dei suoi cultori privati rispetto ai dati normativi provenienti direttamente dalle
istituzioni politiche della comunità”, considerando tale dato “il carattere originale più importante del mondo giuridico
romano”, addirittura “uno dei tratti essenziali dell’intera romanità”.
Il diritto romano è, infatti, un diritto giurisprudenziale, “un diritto cioè costruito intorno al sapere particolare di un ceto di
esperti cui la collettività riservava il compito di dettare le regole della convivenza sociale fra i cittadini” […]: cfr. ancora
Schiavone, op. cit., p. 167.
9 Per un primo orientamento sulle linee generali della storia della giurisprudenza romana, oltre la classica opera di F. Schulz,
History of Roman Legal Science, Oxford 19532, che cito nella tr. it. Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, cfr. almeno: F.
D’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza romana della repubblica, Napoli 1978 e dello stesso a. Giuristi e sapienti in
Roma arcaica, Roma-Bari 1986; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, Napoli 19822; A. Schiavone, Giuristi e nobili nella
Roma repubblicana, Roma-Bari, 1987; I saperi della città, in Storia di Roma, 1, Torino 1988, pp. 545 ss.; Linee di storia del pensiero
giuridico romano, Torino 1994 e il recente saggio Diritto e giuristi nella storia di Roma, in A. Schiavone (a cura di), Diritto privato
romano. Un profilo storico, Torino 2003, pp. 3 ss.; L. Vacca, La giurisprudenza nel sistema delle fonti del diritto romano, Torino 1989; J.
Paricio, Valor de las opiniones jurisprudenciales en la Roma clásica, Madrid 2001.
10 Sul punto cfr. Schulz, Storia della giurisprudenza romana cit, pp. 109 ss.; Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani cit., pp. 63
ss.; Coppola, Cultura e potere cit., passim (ivi ulteriore bibliografia); P. Cantarone, Osservazioni sullo studio del diritto nella tarda
repubblica romana, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 67 (2001), pp. 417 ss..
11 Secondo Cicerone la casa di un giureconsulto era senza dubbio il luogo in cui si formulavano oracula per tutta la comunità.
Ne costituisce un emblematico esempio la casa del giurista Quinto Mucio, il quale era solito circondarsi di numerosi
cittadini, a cominciare da quelli più eminenti, cfr. Cic. De orat. 1.200: Est enim sine dubio domus iuris consulti totius oraculum civitatis:
testis est huiusce Q. Muci ianua et vestibulum, quod in eius infirmissima valetudine adfectaque iam aetate maxima cotidie frequentia civium ac
summorum hominum splendore celebratur.
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considerata un comportamento degradante. La gratuità dell’insegnamento faceva sì che potessero
dedicarsi totalmente ad esso soltanto coloro che possedevano un cospicuo patrimonio personale, con
l’inevitabile esclusione, quindi, dall’attività didattica delle categorie economicamente più deboli.
Con la progressiva trasformazione dell’insegnamento giuridico in una vera e propria
professione, pur permanendo la mancanza di un onorario ufficialmente riconosciuto ai docenti, si
giunse spesso ad accordi amichevoli tra insegnanti ed allievi; tuttavia, solo una ricompensa offerta
spontaneamente, in segno di gratitudine, poteva essere accettata senza apparire disonorevole, mentre
qualsiasi regolare patto intercorso eventualmente tra professore ed allievo sarebbe risultato
particolarmente indecoroso, dato il carattere ‘sacro’ della civilis sapientia, definita da Ulpiano res
sanctissima, quindi assolutamente non valutabile in danaro12.
Ben distinti dai giureconsulti e dai professori di diritto erano gli avvocati, cui spettava il compito
di assistere le parti in giudizio; essi venivano scelti, inizialmente, per la loro alta posizione sociale
(patronus) o per le loro qualità oratorie (orator). Sembra che la professione dell’avvocato si sarebbe
delineata proprio nell’ambito della protezione accordata in giudizio al cliente dal patronus; in prosieguo
di tempo, la maggiore complessità delle questioni giuridiche e delle procedure avrebbe determinato
l’affermarsi di una figura con più specifiche competenze in materia, l’advocatus13. La finalità
fondamentale della professione legale consisteva nell’assistenza processuale offerta alla parte
dall’avvocato, la cui ars oratoria, ossia l’arte, la tecnica dell’eloquenza, rivestiva un’importanza
fondamentale in ambito processuale, dove finiva con il trasformarsi da strumento di persuasione in
un’eccellente arma di difesa degli interessi del cittadino. A differenza del giureconsulto, che era un
esperto di diritto, un ‘consulente’ (consultor) che indicava alla parte il fondamento giuridico delle sue
pretese o della sua difesa, consigliandola sul miglior modo di far valere le proprie ragioni nel processo,
l’avvocato, uomo dal profondo senso pratico, era colui che sosteneva tali ragioni, intervenendo in
giudizio a fianco della parte, puntando, più che su una specifica competenza giuridica, su una brillante
capacità oratoria, volta al buon esito della causa14.
L’attività forense era riservata esclusivamente agli uomini, la donna, infatti, non trovava
assolutamente spazio nell’esercizio della professione legale, come del resto in tutte le altre attività
intellettuali; alla donna, in linea di principio, era negata la stessa possibilità di parlare in pubblico e,
pertanto, colei che avesse osato sfidare la pubblica opinione era considerata rea di un comportamento
infamante. Ad onta di tale stato di cose, verso la fine dell’età repubblicana si verificò un fenomeno che
dovette sconcertare la classe politica: numerose donne presero l’abitudine di pronunziare arringhe nei
tribunali. Particolarmente illuminante al riguardo risulta un passo di Valerio Massimo che tratteggia il
ritratto di una matrona romana, una certa C. Afrania (Cafrania, Carfania, C. Afrinia, Carfinia?), moglie del
senatore Licinio Bucco, donna litigiosa per natura (uxor prompta ad lites contrahendas), la quale, pur avendo
Cfr. D.50.13.1.5 (Ulp. l. 8 de omn. trib.) Proinde ne iuris quidem civilis professoribus ius dicent: est quidem res sanctissima civilis sapientia,
sed quae pretio nummario non sit aestimanda nec dehonestanda, dum in iudicio honor petitur, qui in ingressu sacramenti offerri debuit. quaedam
enim tametsi honeste accipiantur, inhoneste tamen petuntur.
Il pensiero di Ulpiano ricorda l’opinione espressa da Quintiliano in riferimento agli avvocati, per i quali egli considerava
legittimo ricevere doni dai clienti, alla stessa guisa di quei filosofi, che avevano accettato onorari offerti spontaneamente dai
discepoli, cfr. Quint. Inst Orat. 12.7.9: […] At si res familiaris amplius aliquid ad usus necessarios exiget, secundum omnium sapientium
leges patietur sibi gratiam referri, cum et Socrati conlatum sit ad uictum, et Zeno, Cleanthes, Chrysippus mercedes a discipulis acceptauerint.
Nel Digesto i professori di diritto sono messi sullo stesso piano dei filosofi, ai quali viene negato il diritto di reclamare una
remunerazione, essendo la ricerca di un profitto incompatibile con gli ideali filosofici, cfr. D.50.13.1.4 (Ulp. l. 8 de omn. trib.)
An et philosophi professorum numero sint? et non putem, non quia non religiosa res est, sed quia hoc primum profiteri eos oportet mercennariam
operam spernere.
13 L’avvocato, dal latino ad-vocare (chiamare in aiuto) era, in origine, colui che, chiamato in propria difesa da familiari ed
amici, offriva loro assistenza processuale.
14 Si noti che diversamente dall’avvocato moderno, al quale si richiede come premessa indispensabile per l’esercizio efficace
della professione una solida preparazione giuridica, a prescindere dalle sue qualità oratorie, che soprattutto nel processo
civile appaiono alquanto mortificate, nell’avvocato romano era, invece, proprio l’ars oratoria la dote irrinunciabile, che
prevaleva sulla stessa preparazione giuridica.
Ancora le fonti imperiali prescrivevano che gli avvocati dovessero essere facundiae studiis eruditi: cfr. CI.2.7.26pr. (a. 524) Imp.
iustinus a. theodoro pu. Per hanc legem decernimus, ne, antequam in octuaginta tantum virorum numerum fori tui culminis togatorum
collegium deductum fuerit, adspirare quis qualibet arte concedatur aut possit, nisi vel eorum filii, qui triginta priorum obtinent numerum, facundiae
studiis eruditi […]. d. id. febr. constantinopoli iustino a. ii et opilione conss.
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4
la possibilità economica di procurarsi tutti gli avvocati di cui avesse bisogno, si difendeva personalmente
in giudizio (pro se apud pretorem verba fecit), dando prova di grandissima impudenza (quod impudentia
abundabat)15. Il giudizio così severo di Valerio Massimo non costituisce un caso isolato di misoginia, ma
un’opinione diffusa al punto che, dopo qualche tempo, un pretore con un editto avrebbe proibito alle
donne l’esercizio dell’avvocatura; in un frammento di Ulpiano, riportato nel Digesto, si fa
espressamente menzione di questo editto e se ne attribuisce il motivo di fondo proprio al
comportamento di Carfania improbissima femina16.
3.- Proseguendo il discorso sull’avvocatura, va detto che i Romani la considerarono una elevata
e nobile professione, non solo nell’età repubblicana, quando il foro costituiva il primo campo di
addestramento per l’uomo politico, ma anche nel periodo imperiale, sebbene con connotazioni
diverse17.
L’avvocatura, che conobbe a Roma un ampio sviluppo negli ultimi due secoli della repubblica,
svolse, in una prima fase, una funzione civile e fu esercitata gratuitamente, in quanto l’avvocato aspirava
soltanto ad acquistare autorità e prestigio nella lotta politica. I più insigni politici venivano, appunto,
dall’esercizio della pratica forense: da Catone il Censore a Caio Gracco, a Cicerone, per ricordare solo
alcuni dei nomi più noti18, i quali in più occasioni diedero prova delle loro capacità oratorie.
In questo periodo, infatti, eloquenza forense ed eloquenza politica si prospettavano come due
attività di pa ri rilievo, valido strumento di difesa a tutela degli interessi dei cittadini, che veniva utilizzato
da uomini ambiziosi, i quali spinti dal desiderio di percorrere un brillante cursus honorum, si aspettavano
da una buona pratica forense, un accrescimento della propria fama, come premessa essenziale per
l’ascesa politica.
L’attività forense si profilava come una professione altolocata e disinteressata, distaccata dalle
altre attività civili, esercitata da uomini ancora fortemente legati alla tradizione aristocratica della cultura
giuridica e considerata essenzialmente come una sorta di beneficium da offrire gratuitamente a familiari,
15Cfr.
Val. Max., 8.3.2: C. Afrania uero Licinii Bucconis senatoris uxor prompta ad lites contrahendas pro se semper apud praetorem uerba
fecit, non quod aduocatis deficiebatur, sed quod inpudentia abundabat. itaque inusitatis foro latratibus adsidue tribunalia exercendo muliebris
calumniae notissimum exemplum euasit, adeo ut pro crimine inprobis feminarum moribus C. Afraniae nomen obiciatur. prorogauit autem
spiritum suum ad C. Caesarem iterum <P.> Seruilium consules: tale enim monstrum magis quo tempore extinctum quam quo sit ortum
memoriae tradendum est.
16 Cfr. D. 3.1.1.5 (Ulp. l. 6 ad ed.): Secundo loco edictum proponitur in eos, qui pro aliis ne postulent: in quo edicto excepit praetor sexum et
casum, item notavit personas in turpitudine notabiles. sexum: dum feminas prohibet pro aliis postulare. et ratio quidem prohibendi, ne contra
pudicitiam sexui congruentem alienis causis se immisceant, ne virilibus officiis fungantur mulieres: origo vero introducta est a Carfania
improbissima femina, quae inverecunde postulans et magistratum inquietans causam dedit edicto. casum: dum caecum utrisque luminibus orbatum
praetor repellit: videlicet quod insignia magistratus videre et revereri non possit. refert etiam Labeo Publilium caecum Asprenatis Noni patrem
aversa sella a Bruto destitutum, cum vellet postulare. Quamvis autem Caecus pro alio postulare non possit, tamen et senatorium ordinem retinet et
iudicandi officio fungitur. numquid ergo et magistratus gerere possit? sed de hoc deliberabimus. exstat quidem exemplum eius, qui gessit: Appius
denique Claudius caecus consiliis publicis intererat et in senatu severissimam dixit sententiam de Pyrrhi captivis. sed melius est, ut dicamus retinere
quidem iam coeptum magistratum posse, adspirare autem ad novum penitus prohiberi: idque multis comprobatur exemplis.
17 Sulla figura dell’avvocato romano e sul ruolo da lui svolto cfr., oltre le note voci enciclopediche lontane nel tempo ma
ancora molto utili (G. Humbert, Advocatio-Advocatus, in Ch. Daremberg-E. Saglio [dir.], Dictionnaire des antiquités grecques et
romaines d’aprés les textes et les monuments, I, Paris 1877, pp. 81-82; C.F. Kubitschek, Advocatus, in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, I, Stuttgart 1894, pp. 436 ss.; E. De Ruggiero, Advocatus, in Dizionario epigrafico di antichità romane,
Roma 1895, pp. 116 ss.; P. Fiorelli, Avvocato e procuratore, in Enciclopedia del diritto, IV, Milano 1959, 646-47) e il saggio di A.
Pierantoni, Gli avvocati di Roma antica, Bologna 1900, i più recenti lavori di R. Rossi, Observaciones sobre la figura del abogado en
derecho romano, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, III, Torino 1970, pp. 269 ss.; K. Z. Mehesz, Advocatus Romanus, Buenos Aires
1971; A. Carcaterra, Le operazioni dell’‘avvocato’. Euristica e logica a fronte della ‘narratio’ dell’interessato, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 52 (1986), pp. 73 ss.; J. M. David, Le patronat judiciaire au dernier siècle de la République Romaine, Roma 1992, pp.
51 ss.; J. Crook, Legal Advocacy in the Roman World, London 1995; A. A. Dimopoulou, La rèmunèration de l’assistance en justice.
Étude sur la relation avocat-plaideur à Rome, Atene 1999. Utili spunti in argomento anche in alcuni saggi dedicati alla figura di
Cicerone avvocato: F. Wieacker, Cicero als Advokat, Berlin 1965; G. Broggini, Cicerone avvocato, in Jus 37 (1990), pp. 143 ss.; G.
Sposito, Il luogo dell’oratore. Argomentazione topica e retorica forense in Cicerone, Napoli 2001.
18 Cfr. Cornel., Cato 3.1, che definisce Catone peritus iuris et probabilis orator; Quint., Inst. Or. 12.3.10, il quale elogia Cicerone
per la conoscenza della scientia iuris: Et M. Tullius non modo inter agendum numquam est destitutus scientia iuris sed etiam componere
aliqua de eo coeperat.
Si ricordi che lo stesso Cicerone (Cic., De orat., 1.5.18) evidenziava l’importanza che rivestiva per l’oratore la conoscenza
delle leggi e del diritto: tenenda praeterea est omnis antiquitas exemplorumque vis, neque legum ac iuris civilis scientia neglegenda est.
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amici o cittadini in generale19; l’originaria gratuità del rapporto avvocato-cliente determinava, peraltro,
un obbligo di riconoscenza degli assistiti nei confronti dei difensori, un obbligo che, tuttavia, non si
concretizzava in termini di dipendenza personale o sottomissione, ma si esprimeva con uno scambio
spontaneo di favori, consistenti spesso anche nell’offerta di un sostegno politico e, con l’andare del
tempo, in doni o somme di danaro. Tali espressioni di riconoscenza non rappresentavano certo una
controprestazione del lavoro svolto dall’avvocato, ma semplicemente un regalo per un aiuto ricevuto a
titolo di amicitia e che, come tale, quindi, non poteva essere preteso dal professionista per l’ordinaria via
giudiziale20.
L’espansione di Roma e l’intensificarsi degli scambi commerciali determinarono l’instaurarsi di
un diverso rapporto avvocato-cliente, in quanto furono gli stessi avvocati a cominciare a richiedere ed
ottenere dai clienti doni o danaro per difenderli nel processo.
La situazione degenerò talmente che, alla fine del III secolo a.C., con la lex Cincia de donis et
muneribus, la prima legge in materia di onorari, si cercò di arginare la sempre più diffusa consuetudine di
pretendere una retribuzione; la norma dedicò un capitolo particolare all’interdizione di tale fenomeno,
stabilendo che nessun avvocato potesse ricevere doni o danaro prima di trattare una causa: ne quis ob
causam orandam pecuniam donumve accipiat, come afferma Tacito21.
La lex Cincia, proposta dal tribuno della plebe M. Cincio Alimento, era stata forse motivata
anche dal proposito di evitare che le incalzanti pretese degli avvocati finissero con il danneggiare i ceti
poveri, rendendo troppo onerosa per loro la possibilità di ottenere un sostegno in giudizio; la
disposizione, tuttavia, non ebbe gli effetti sperati in quanto gli avvocati cedettero sempre più alla
tentazione del guadagno, inventando, non di rado, anche formule giuridiche per eludere il divieto
sancito dalla norma 22.
Cfr. Cic., De off. 2.19.65: [...] Haec igitur opera grata multis et ad beneficiis obstringendos homines accommodata.
Cfr. sul punto K. Visky, Retribuzioni per il lavoro giuridico nelle fonti del diritto romano, in Iura 15 (1964), p. 15, che afferma: “[…]
la concezione romana era aliena dal riconoscere un corrispettivo del lavoro avvocatesco e lo riteneva incompatibile coll’aiuto
ricevuto per amicizia ch’è considerato per i cittadini romani obbligatorio e di carattere gratuito”; Rossi, Observaciones sobre la
figura del abogado en derecho romano cit., pp. 281-82, dove l’a. efficacemente afferma “La gratuidad […] excluía cuaquier
pretensión o derecho a ser remunerado, pero no excluía el hecho o la posibilidad de que el cliente demostrara su
agradecimiento hacia su defensor con espontáneas ofrendas, remuneraciones […]. Tal comportamiento no podía
considerarse como una “controprestacion” por el trabajo del abogado, sino más bien una gratiarum actio del cliente, un acto
de gratitud por el ausilio recibido a causa de la amistad […]: en efecto, un mero regalo que el abogado no hubiese podido
exigir nunca por vía judicial”.
Riguardo alla possibilità riconosciuta agli avvocati di far valere per via contenziosa il loro diritto all’onorario, si ricordi un
rescritto degli imperatori Severo e Caracalla, menzionato da Ulpiano, dove si stabilisce che, nel caso in cui il cliente non
avesse corrisposto quanto dovuto al proprio difensore, la retribuzione spettantegli sarebbe stata determinata extra ordinem dal
giudice, in considerazione dell’importanza della causa, delle usanze del luogo, della competenza dell’avvocato e del grado di
giurisdizione del tribunale, cfr. D.50.13.1.10: (Ulp. l. 8 de omn. trib.): In honorariis advocatorum ita versari iudex debet, ut pro modo litis
proque advocati facundia et fori consuetudine et iudicii, in quo erat acturus, aestimationem adhibeat, dummodo licitum honorarium quantitas non
egrediatur: ita enim rescripto imperatoris nostri et patris eius continetur. verba rescripti ita se habent: ‘Si Iulius Maternus, quem patronum causae
tuae esse voluisti, fidem susceptam exhibere paratus est, eam dumtaxat pecuniam, quae modum legitimum egressa est, repetere debes".
Dato che la convenzione fra avvocato e cliente per l’assistenza processuale non configurava un’ipotesi di locatio-conductio, il
cliente non avrebbe potuto esercitare l’actio locati contraria nel caso di inadempimento dell’avvocato, ma avrebbe dovuto
parimenti servirsi della cognitio extra ordinem, cfr. D.50.13.1.9 (Ulp. l. 8 de omn. trib.): Sed et adversus ipsos omnes cognoscere praeses
debet, qui ut adversus advocatos adeantur, divi fratres rescripserunt.
Si tratta, comunque, di una materia molto incerta e lontana dal potersi ritenere consolidata nella riflessione giurisprudenziale
romana.
21 Cfr. Tac., Ann. 11.5.3: igitur incipiente C. Silio consule designato, […] consurgunt patres legemque Cinciam flagitant, qua cavetur
antiquitus, ne quis ob causam orandam pecuniam donumve accipiat.
Cfr. ancora Tac., Ann. 15.20.2-3 […] Paetus Thrasea […] haec addidit: ‘usu probatum est, patres conscripti, leges egregias, exempla honesta
apud bonos ex delictis aliorum gigni. sic oratorum licentia Cinciam rogationem, candidatorum ambitus Iulias leges, magistratuum avaritia
Calpurnia scita pepererunt; nam culpa quam poena tempore prior, emendari quam peccare posterius est’.
22 Si tenga presente che la lex Cincia de donis et muneribus, emanata nell’anno 204 a.C., era una lex imperfecta, in quanto non
prescriveva la nullità per gli atti posti in essere contra legem , né comminava pene per i trasgressori.
Interessante l’opinione espressa dalla Dimopoulou, La rèmunèration de l’assistance en justice cit., p. 161, la quale pone la lex Cincia
sulla scia di una tendenza generale volta a limitare l’eccessiva importanza che si comincia ad attribuire al danaro nella società,
considerando tale fenomeno come una minaccia per i costumi tradizionali romani. In riferimento alla clausola ob causam
orandam, l’a. sottolinea l’espressione della volontà di risanamento dei costumi applicata al particolare campo dell’assistenza
giudiziaria.
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4.- Nel principato, parallelamente alle graduali limitazioni imposte alle libertà repubblicane,
l’avvocatura perse il suo originario carattere di servizio pubblico e politico, per trasformarsi sempre più
in attività professionale. Il nuovo rapporto tra avvocato e cliente, avviatosi alla fine della repubblica, si
consolidò nel periodo imperiale, tanto che, per ovviare agli abusi cui talora dava luogo la pretesa di
onorari eccessivi da parte dei difensori, gli imperatori emanarono disposizioni volte a stabilire un
contemperamento fra gli opposti interessi in gioco; ormai il principio della remunerazione poteva
ritenersi definitivamente accettato, dato che le norme non miravano più a tutelare la gratuità delle cause,
ma semplicemente a fissare la moderazione dell’onorario. La natura e l’ammontare delle ricompense che
gli avvocati potevano ricevere non erano sempre ben definibili, in quanto risultavano spesso dalla
condizione sociale e dai mezzi economici delle parti, le quali retribuivano, secondo le proprie
disponibilità, i servigi resi loro dai difensori.
Nella primissima fase dell’età imperiale gli avvocati ricevevano sicuramente retribuzioni,
probabilmente in alcuni casi anche eccessive, al punto da indurre Augusto, nel 17 a.C., a stabilire che i
difensori che avessero percepito un compenso troppo alto dovessero restituire ai clienti il quadruplo
della somma ricevuta23.
Ciò che era considerato assolutamente sconveniente dalla pubblica opinione era il fatto che
l’avvocato, ancor prima di assumere la difesa di un cliente, patteggiasse con lui un qualunque onorario e
ne richiedesse poi, a cose ultimate, il pagamento24; era, invece, generalmente accettato che un cliente
particolarmente riconoscente offrisse in forma privata un qualche dono al suo difensore e che questi
non ritenesse sconveniente riceverlo.
In prosieguo di tempo, trascorsa la prima fase del principato, quando, per la forza degli eventi,
venne gradualmente a mancare l’interesse per la carriera politica, i successi conseguiti nell’ambito
forense non poterono più essere visti come un trampolino di lancio per l’ascesa politica; fu allora che
l’avvocatura acquistò il carattere di una normale professione regolarmente retribuita con onorari
ammessi e disciplinati dalla legislazione imperiale, a partire dall’imperatore Claudio, durante il cui regno
A tale riguardo l’a. cita una serie di leggi precedenti che si proponevano come obiettivo la limitazione del lusso inutile, tra
queste la lex Claudia, che vietava ai senatori il commercio marittimo, la lex Oppia sumptuaria, che poneva limiti al lusso
nell’abbigliamento e nell’arredamento domestico, la lex Publicia de cereis, che mirava a ridurre i doni offerti dai clienti ai
patroni; sulle leggi sul lusso cfr. G. Clemente, Le leggi sul lusso e la società romana nel III e II secolo a.C., in A. Giardina-A.
Schiavone (a cura di), Società romana e produzione schiavistica, III, Roma-Bari, 1981, pp. 1 ss.; A. Bottiglieri, La legislazione sul lusso
nella Roma repubblicana, Napoli 2002 e, a proposito di tale volume, l’ampio intervento di C. Venturini, Leges sumptuariae, in
Index 32 (2004), pp. 355 ss..
23 Cfr. Dio. Cass. 54.18.2.
Più tardi, dopo la legalizzazione degli onorari, Quintiliano deplorerà il fatto che spesso gli oratori del suo tempo,
considerando la ricchezza un valore rispettabile di per sé, fanno dell’attrattiva del guadagno la motivazione essenziale della
loro scelta professionale, fondando il proprio prestigio sulle colossali fortune accumulate con l’attività forense, cfr. Quint.,
Inst. Or. 1.16: […] neque enim nobis operis amor est, nec, quia sit honesta ac rerum pulcherrima eloquentia, petitur ipsa, sed ad vilem usum et
sordidum lucrum accingimur.
Questi avvocati arricchiti, che si pavoneggiano, orgogliosi dei propri successi, costituiscono un facile bersaglio per i poeti
satirici: nei versi di Marziale e di Giovenale si riscontrano, infatti, numerose testimonianze al riguardo e anche se è innegabile
che la derisione contenga una nota di esagerazione, indubbiamente nella satira è possibile cogliere l’eco dell’opinione
pubblica sulla questione.
La carriera dell’avvocato viene considerata spesso come una facile via alla ricchezza, il danaro più che la vocazione o il
desiderio di gloria come l’unico movente per cui taluni scelgono la professione forense, cfr. Ioven. Sat. 14.189-193: at nunc
post finem autumni media de nocte supinum clamosus iuuenem pater excitat: ‘accipe ceras, scribe, puer, uigila, causas age, perlege rubras maiorum
leges; […]. Cfr. inoltre Mart. Epigr. 2.30: Mutua uiginti sestertia forte rogabam, quae uel donanti non graue munus erat: qiuppe rogabatur
felixque uetusque sodalis et cuius laxas arca flagellat opes. Is mihi ‘Diues eris, si causas egeris’ inquit. […].
24 Quintiliano definisce incisavemente piraticus mos l’usanza degli avvocati di pattuire con i clienti il compenso spettante per la
trattazione della causa, cfr. Quint. Inst. Or. 12.7.11: Paciscendi quidem ille piraticus mos et inponentium periculis pretia procul
abominanda negotiatio etiam mediocriter improbis aberit, cum praesertim bonos homines bonasque causas tuenti non sit metuendus ingratus.
Sulla questione che emerge nel passo di Quintiliano cfr. M. Pani, La remunerazione dell’oratoria giudiziaria nell’alto principato: una
laboriosa accettazione sociale, in Miscellanea Greca e Romana 10 (1986), pp. 329 ss., V. Angelini, Metuendus ingratus, (Avvocato e cliente
in una pagina di Quintiliano), in Studi per Luigi De Sarlo, Milano 1989, pp. 1 ss.; Coppola, Cultura e potere cit., 188.
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fu stabilito per ciascuna causa un tetto massimo di 10.000 sesterzi25, limite che rimase sostanzialmente
invariato per lungo tempo26.
5.- Nel tardo impero la professione legale venne riconosciuta quasi come un servizio pubblico,
organizzato secondo rigide regole prescritte dal potere imperiale27.
Già in epoca precostantiniana risultava vigente per gli avvocati l’obbligo di registrarsi nell’albo di
un giudice e all’uopo era stabilito per ciascun tribunale un numerus clausus di iscritti. Costantino abolì tale
numerus clausus prescrivendo, però, per ogni avvocato, il divieto di esercitare in un tribunale diverso da
quello nel quale era stato registrato28. Si trattava di una norma rigidissima, in conseguenza della quale un
giovane che, all’inizio della carriera, fosse stato accolto ed iscritto nella matricula di un tribunale restava
ad esso legato per sempre, salvo rarissime eccezioni29.
Verso la metà del V secolo la professione forense appariva molto più seguita in oriente che in
occidente, dove la carenza di avvocati indusse, nel 451, l’imperatore Valentiniano III a stabilire che
nessun avvocato potesse ottenere l’iscrizione negli albi delle prefetture pretoriana e urbana, nel caso in
cui nel tribunale della sua provincia vi fossero stati meno di quattro avvocati30; in oriente, invece, dove il
numero degli avvocati risultava eccessivo, fu reintrodotto il numerus clausus già in vigore in epoca
precostantiniana31.
Non mancarono, peraltro, possibilità di avanzamento nella carriera: era stabilito, ad esempio,
che il membro più anziano di ciascun tribunale venisse nominato advocatus fisci32 e rimanesse in carica
per un breve periodo33, trascorso il quale avrebbe dovuto ritirarsi dall’esercizio della professione34.
Cfr. Tac. Ann. 11.7.4: [...] capiendis pecuniis [posuit] modum usque ad dena sestertia, quem egressi repetundarum tenerentur.
D.50.13.1.12 (Ulp. l. 8 de omn. trib.) […] licita autem quantitas intellegitur pro singulis causis usque ad centum aureos. Si tenga
presente che 100 aurei erano pari a 10.000 sesterzi, dato che un aureo equivaleva a 100 sesterzi.
Nerone stabilì che le parti fossero tenute a corrispondere agli avvocati una ricompensa certam iustamque, ma che non
dovessero pagare nulla per il procedimento giudiziario in sé, le cui spese erano a carico dell’erario cfr. Suet. Nero 17: cautum
[…] ut litigatores pro patrociniis certam iustamque mercedem, pro subsellis nullam omnino darent praebente aerario gratuita […].
Traiano, pur ammettendo la corresponsione di un onorario, ne vietò il pagamento anticipato: cfr. Plin. Ep. 5.9.4 (C. Plinivs
Sempronio Rufo Suo S.) suberat edicto senatus consultum: hoc omnes qui quid negotii haberent, iurare, priusquam agerent, iubebantur nihil se
ob advocationem cuiquam dedisse promisisse cavisse. His enim verbis ac mille praeterea et venire advocationem cuiquam dedisse, promisisse, cavisse.
His enim verbis ac mille praeterea et venire advocationes et emi vetabantur. peractis tamen negotiis permittebatur pecuniam dumtaxat decem
milium dare.
Tariffe precise si leggono nell’editto sui prezzi di Diocleziano del 301 d.C., dove, sotto il titolo De mercedibus operariorum, si fa
riferimento anche agli onorari degli avvocati, stabilendo che il difensore poteva chiedere al massimo 250 denari per una
postulatio e 1000 denari per una cognitio: cfr. CIL III 831 (= Giacchero 154-155) Edictum de pretiis rerum venalium 7.72-73:
advocato sive iurisperito mercedis in postulatione ducentos quinquaginta, in cognitione mille.
Sul problema specifico dell’onorario degli avvocati cfr., tra gli altri, A. Klingmüller, Honorarium, in Paulys Real-Encyclopädie der
classischen Altertumswissenschaft, VIII, Stuttgart 1913, pp. 2270 ss; Visky, Retribuzioni per il lavoro giuridico cit., pp. 14 ss. C. St.
Tomulescu, Les avocats dans l’édit du maximum, in Accademia Romanistica Costantiniana, Atti II Convegno Internazionale, Spello-Isola
Polvese sul Trasimeno-Montefalco (18-20 settembre 1975), Perugia 1976, pp. 293 ss., con particolare riferimento all’onorario degli
avvocati nell’editto dioclezianeo; E. L. Rodríguez, Reflexiones en torno al origen de los honorarios de los advocati, in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 60 (1994), pp. 361 ss.; Reflexiones en torno al origen de los honorarios de los advocati, Madrid 1996;
Dimopoulou, La rémunération de l’assistance en justice cit., passim.
27Nel V secolo viene considerata addirittura come una milizia ufficialmente riconosciuta, cfr. CI.2.7.14 (a. 469) .
28 Cfr. CTh.2.10.1-2 (a. 319) .
29 Si ricordi ad esempio che in occidente l’imperatore Valentiniano III consentì agli avvocati africani, la cui carriera era stata
danneggiata dall’invasione dei Vandali, di esercitare in qualsiasi tribunale (apud omnes iudices), ad eccezione di quelli delle
prefetture pretoriana e urbana (praeter praetorianam togam forumque urbanum): cfr. Nov. Val. 2.3 (a. 443).
30 Cfr. Nov. Val. 32.
31 Cfr. A. H. M. Jones, The Later Roman Empire (284-602), Oxford 1964, che cito nella tr. it. Il Tardo impero romano (284-602
d.C.), II, Milano 1974, pp. 728-29.
32 Si ricordi che fu l’imperatore Adriano ad istituire l’avvocatura del fisco che attribuiva ad avvocati, già precedentemente
addetti al fiscus, compiti particolari inerenti a processi nei quali fossero coinvolti interessi del fisco stesso sia a Roma sia nelle
province, garantendo ad essi il diritto alla corresponsione di un regolare salarium: S.H.A. Hadr. 20.6: fisci advocatum primum
instituit.
Sull’advocatus fisci cfr. G. Chicca, Il “fiscus” e le attribuzioni del suo “advocatus” nell’ordinamento romano, in Revue Internationale des
Droits de l'Antiquité 11 (1964), pp. 141 ss.; G. Boulvert, Advocatus fisci, in Index 3 (1972), pp. 22 ss.; A. Burdese, Sull’origine
dell’advocatus fisci, in Studi in memoria di Enrico Guicciardi, Padova 1975, pp. 81 ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Presenti fisci patrono, in
Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, 3, Napoli 1984, pp. 1119 ss; M. V. Giangrieco Pessi, Situazione economico- sociale e
25
26Cfr.
8
Questa atmosfera, nella quale la professione legale si trovò spesso al centro dell’attenzione del
legislatore, favorì negli avvocati la consapevolezza della comune appartenenza ad una specifica categoria
di professionisti e, di conseguenza, l’organizzazione di vere e proprie corporazioni35. Al riguardo, va
segnalato che Valentiniano III, con una constitutio del 442, si occupava della regolamentazione delle
corporazioni forensi e definiva l’officium degli avvocati tam magnum, tam necessarium et tam sanctum36. Nella
lex, da una parte venivano esplicitamente indicati i requisiti richiesti ai professionisti legali per entrare a
far parte delle corporazioni, dall’altra non si lesinavano privilegi ed elogi, sottolineando il massimo
onore concesso loro con il riconoscimento del diritto di appartenere alle suddette corporazioni.
Mentre gli uomini di elevata condizione sociale si dedicavano alla professione forense soltanto
in giovinezza, considerandola, come già in passato, un avviamento alla carriera politica, coloro che
appartenevano a strati sociali più modesti, vedevano nell’avvocatura una possibilità concreta di
arricchimento e di ascesa sociale37.
Non è possibile in base ai dati in nostro possesso fare una sicura valutazione dei guadagni di un
avvocato dell’epoca, giacché essi dipendevano non solo dall’abilità e dalla reputazione di cui godeva il
professionista, ma soprattutto dall’importanza del tribunale presso il quale esercitava. Va detto però
che, anche se gli onorari erano in una qualche misura fissati dalla legge, gli avvocati cercavano in vario
modo di oltrepassare il tetto stabilito, talvolta chiedendo in aggiunta all’honorarium il mantenimento e le
spese, talaltra accordandosi con il cliente per ottenere un pagamento in natura, consistente in schiavi,
bestiame e fattorie; tuttavia queste usanze furono fortemente deplorate e, in qualche caso, punite
perfino con l’espulsione dall’ordine.
Verso la metà del V secolo, allorché fu ristabilito, come si è detto, il numerus clausus per gli
avvocati dell’impero orientale, si sviluppò una nuova prassi: gli avvocati, sia quelli ancora in attività, sia
quelli già a riposo, pretesero per i loro figli il diritto di colmare i vuoti formatisi nell’ordine e, poiché
queste richieste furono accolte e sanzionate dal governo imperiale, si sviluppò la tendenza
all’ereditarietà della professione forense38.
La particolare attenzione rivolta dal legislatore tardoantico all’attività forense costituisce un
indubbio riconoscimento delle importanti funzioni svolte dall’avvocato nella società; emblematica, al
politica finanziaria sotto i Severi, Napoli 1988, pp. 155 ss.; S. Puliatti, Il “de iure fisci” di Callistrato e il processo fiscale in età severiana,
Milano 1992, pp. 360 ss.; P. Lambrini, In tema di advocatus fisci, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 59 (1993), pp. 325 ss.;
Coppola, Cultura e potere cit., pp. 376 ss..
Il compenso dell’advocatus fisci veniva stabilito nel momento stesso della nomina, come viene attestato da CI.2.7 22 pr.(a.
505).
Ove l’advocatus fisci fosse morto prima del compimento dell’anno del suo incarico, agli eredi veniva trasmesso il compenso
previsto per tutto l’anno, cfr. CI.2.7.15.1 (a. 472) imp. Leo a. Dioscoro pp. […] statuimus, ut, si quis patronatus fisci adeptus
gradum fatalem diem obierit, universa totius anni solacia, ex quo hoc idem officium peragere coeperit, ad heredes seu successores suos, sive liberi sive
extranei fuerint, transmittendi tam ex testamento quam ab intestato liberam habeat facultatem. d. xvii k. iun. constantinopoli marciano
cons.
Nel tardo impero gli avvocati si trasformano in burocrati: dal momento del loro ingresso nell’ordine sono, infatti,
automatiche le promozioni fino alla carica di advocatus fisci, la quale, essendo molto ben retribuita, permetteva di ritirarsi dalla
professione: cfr. Jones, Il Tardo impero romano cit., p. 730; Coppola, Cultura e potere cit., pp. 385-86.
33 L’advocatus fisci restava in carica due anni se apparteneva ad un tribunale minore, un solo anno nel caso che fosse addetto
alla prefettura urbana, cfr. Jones, Il Tardo impero romano cit., p. 729.
Nel tribunale della prefettura pretoriana dal 452 furono eletti annualmente due advocati fisci: cfr. CI. 2.7.10 (a. 452).
34 Si tenga presente che, in genere, la carriera dell’avvocato non fu soggetta a limiti temporali, almeno a partire dal 439 d.C.,
quando, con una legge di Teodosio II, venne abrogata una costituzione precedente (probabilmente di Teodosio I) che aveva
fissato, invece, a venti anni di carriera il limite massimo per l’esercizio della professione: cfr. Nov. Theod. 10.2 (a. 439). Il
limite temporale fu, comunque, reintrodotto da Valentiniano III: cfr. Nov. Val. 2.4 (a. 454).
35 Tali corporazioni (collegia o matriculae) erano composte da un determinato numero di membri fissi, i cd. statuti, gli unici che
potevano agire davanti ad ogni tribunale, e da altri canditati aspiranti, i cd. supranumerarii, i quali potevano accedere solo ai
tribunali inferiori, in attesa di ricoprire un posto divenuto vacante nell’organico degli statuti.
36 Cfr. Nov. Val. 2.2.
37 Cfr. CI.2.6.6.5 (a. 368) imp. valentinianus et valens aa. ad olybrium pu. Apud urbem autem Romam etiam honoratis, qui hoc
putaverint eligendum, eo usque liceat orare, quousque maluerint, videlicet ut non ad turpe compendium stipemque deformem haec adripiatur
occasio, sed laudis per eam augmenta quaerantur. nam si lucro pecuniaque capiantur, veluti abiecti atque degeneres inter vilissimos numerabuntur.
pp. x k. sept. valentiniano et valente aa. ii conss..
38 Cfr. CI.2.7.22.5 (a. 505); CI.2.7.24.5 (a. 517); CI.2.7.26 (a. 524). Gli estranei, invece, avevano l’obbligo di pagare un diritto
per l’ammissione: cfr. Jones, Il Tardo impero romano cit., p. 734.
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riguardo, risulta una costituzione emanata a Costantinopoli il 28 marzo del 469 dagli imperatori Leone
ed Antemio, che vale la pena di riportare integralmente:
CI.2.7.14. IMPP. LEO ET ANTHEMIUS AA . CALLICRATI PP. ILLYRICI . Advocati, qui dirimunt
ambigua fata causarum suaeque defensionis viribus in rebus saepe publicis ac privatis lapsa erigunt,
fatigata reparant, non minus provident humano generi, quam si proeliis atque vulneribus patriam
parentesque salvarent. nec enim solos nostro imperio militare credimus illos, qui gladiis clupeis et
thoracibus nituntur, sed etiam advocatos: militant namque causarum patroni, qui gloriosae vocis confisi
munimine laborantium spem vitam et posteros defendunt. D. V K. APRIL. CONSTANTINOPOLI ZENONE
ET MARCIANO CONSS.
La costituzione, indirizzata al prefetto del pretorio dell’Illirico, Callicrate, evidenzia
efficacemente la peculiarità e il carattere meritorio dell’attività forense, esaltando l’opera svolta dagli
avvocati in difesa di coloro che, vittime di ingiustizie, offesi nelle loro legittime aspirazioni, vedono
violati i propri diritti e sono costretti, quindi, ad affrontare processi lunghi e complicati per ottenere il
riconoscimento e l’affermazione delle proprie ragioni (Advocati, qui dirimunt ambigua fata causarum suaeque
defensionis viribus in rebus saepe publicis ac privatis lapsa erigunt, fatigata reparant). L’appassionata eloquenza
degli avvocati, posta a servizio dei cittadini oppressi, è equiparata all’impegno di coloro che difendono
la patria e i genitori con la forza delle armi (non minus provident humano generi, quam si proeliis atque vulneribus
patriam parentesque salvarent); sembra di intravedere nelle parole della legge l’esistenza di due milizie, le
quali, sia pure con modalità del tutto diverse, sono ugualmente impegnate nella difesa di coloro che, per
qualsivoglia motivo, sono in difficoltà (militant namque causarum patroni, qui gloriosae vocis confisi munimine
laborantium spem vitam et posteros defendunt).
Il linguaggio aulico usato nel testo normativo fotografa una situazione alquanto utopistica, più
vagheggiata che reale: non è, infatti, verosimile che gli avvocati finalizzassero costantemente la loro
attività al raggiungimento degli elevati obiettivi etici indicati nella norma, in quanto rimanevano pur
sempre ancorati ad interessi ed ambizioni individuali.
Nonostante le evidenti iperboli, dalla norma emerge un’immagine ideale di avvocato, nobile
difensore dei diritti conculcati, professionista impegnato nel perseguimento di alti obiettivi, immagine
che perdurerà nel tempo, conservando ancora oggi un’indiscutibile attrattiva.
Chiara Corbo
Titolare di borsa postdottorato in diritto romano
Università degli Studi di Salerno
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