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CRITICA E PUBBLICO
di Massimo Marino
1. Il critico teatrale nasce in Inghilterra agli inizi del Settecento, sulle colonne di “The
Tatler” di Richard Steele e di “The Spectator” di Joseph Addison. Si afferma
nell’Ottocento soprattutto in Inghilterra e in Francia, con lo sviluppo della stampa
periodica. Illuminano la sua crescita turbinosa il Lucien de Rubempré di Illusioni
perdute di Honoré de Balzac (1837-1843) e le considerazioni di Oscar Wilde ne Il
critico come artista (1890). In Italia muove i primi passi più consapevoli nella
seconda metà del XIX secolo, sempre legato per lo più alla cronaca impressionista, al
colore locale o localistico. Ma è nel Novecento che propriamente si compie la sua
parabola: il critico si presenta di volta in volta come giudice severo, come
propugnatore di un nuovo teatro, come censore della scena commerciale o come
difensore a oltranza della norma della tradizione e del “buon gusto” borghese, come
raffinato letterato prestato all’analisi di un’attività effimera o come voce militante che
dialoga con gli artisti e con le loro concezioni, come rappresentante avvertito del
pubblico o come garante culturale di una determinata tendenza artistica.
Nel Novecento si consuma anche la sua crisi, parola che gli è quanto mai congeniale,
contenuta nella radice del suo stesso appellativo. Il crinale che deve tracciare, le
scelte che deve compiere, come impone il verbo greco krínein, diventano limiti e
problemi in un secolo che moltiplica i punti di vista e sfuma i confini della certezza
epistemologica e interpretativa. Il teatro nel Novecento perde progressivamente il suo
ruolo di forma di spettacolo principale, scalzato da altre modalità di rappresentazione
e di intrattenimento. Smarrisce, inoltre, la peculiarità di rituale con regole univoche e
ben definite, esplodendo in una molteplicità di “teatri”, diversi per modi di operare,
per poetiche, per pubblico, per scopi e risultati. Il giornale, la rivista e perfino il libro
vengono accostati e poi sostituiti da altri strumenti di comunicazione sempre più
veloci e, almeno apparentemente, più interattivi.
Il critico dichiara esplicitamente la sua crisi già negli anni Sessanta, incalzato dalle
trasformazioni dei supporti sui quali si è espletata fino ad allora la sua attività e da
quelle dell’oggetto da guardare. Si sente – come disse Roberto De Monticelli –
rinchiuso in un ghetto asfittico, altrettanto distante da chi fa teatro, dai giornalisti e
dai letterati puri, lontano dal ruolo di avvertito mediatore culturale tra il pubblico,
l’opera e l’interprete cui vorrebbe assolvere, comparsa di un’informazione sempre più
orientata verso lo sguardo veloce e accattivante, sensazionalista più che approfondito.
Ma a ben guardarla, la crisi non è un salto nel nulla: è una trasformazione che verrà
attraversata con dubbi, resistenze, coraggio, dolore, secondo i casi personali,
generando rinunce ma anche propiziando invenzioni.
Giovani critici cercano modi e strumenti originali per descrivere un mondo artistico
in sommovimento. Gli anni del Living, di Grotowski, di Barba, di Kantor, di Carmelo
Bene, di Ronconi, del nuovo teatro americano, del teatro di strada, dell’animazione,
del teatro fuori dei teatri verso i manicomi, le carceri, i quartieri, sono anche i tempi
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di riviste agguerrite e anticipatrici come “Sipario” nel periodo in cui è caporedattore
Franco Quadri (1962-69), come “Teatro” (1967-1971) e poi “La scrittura scenica”
(1971-1983) diretti da Giuseppe Bartolucci, come “Scena” (1976-1982) sotto la guida
prima di Antonio Attisani e in seguito di Goffredo Fofi. Importante diventa il ruolo di
registrazione e stimolo di un annuario come Il Patalogo, pubblicato dalla Ubulibri di
Quadri dal 1979, raccolta di materiali sugli spettacoli della stagione e di saggi che
segnalano fenomeni, problemi e tendenze.
Gli anni Ottanta segnano una parentesi di riflusso e di stagnazione. Bisognerà
aspettare la metà del decennio successivo per assistere a una rinascita, con giovani
gruppi che incrociano i linguaggi mettendo a confronto il corpo con immagini e
sonorità, esplorando concezioni filosofiche e sociali più o meno apocalittiche,
connettendo la danza, il video, il teatro. Parallelamente cambiano orientamento riviste
come “Hystrio” e ne vengono inventate altre, su carta o su internet (“Art’o”,
“www.tuttoteatro.com”, “www.ateatro.it”); si aprono spazi autoprodotti di
informazione e di approfondimento dove esplorare diversi modi di guardare la scena
e una scrittura multimediale.
La recensione va ulteriormente in crisi, minata da qual “re” e da quel “censore” che
contiene, che evocano lo sguardo severo del giudice, del sovrano, di colui che
possiede un’unica verità e un unico modo per indirizzare, per governare. Si tratta
piuttosto di fare, di agitare “cultura teatrale”, di fiancheggiare, incalzare, capire gli
artisti e il movimento reale del teatro. Lo sguardo sullo spettacolo si incrocia con
quello sui processi e sulle strutture di produzione, inserisce la creazione scenica nel
sistema delle arti e della società, cerca la dichiarazione diretta dell’artista, la discute,
la mette a confronto. Diventa molto di più della breve presentazione o dell’intervista
promozionale alle quali sembrano condannanti i quotidiani, che riducono via via lo
spazio di indirizzo e di segnalazione a rubriche settimanali, specie di ghetti dove
vengono sintetizzati in poche righe gli sguardi sui più importanti spettacoli della
settimana, con eventuale corredo di faccine tristi o sorridenti o di pallini per valutare
lo spettacolo.
Il nuovo critico, figura definita “impura” o “mutante”, diventa compagno di strada,
studioso, testimone, ma si trasforma anche in organizzatore di rassegne, promotore di
tendenze, aprendo nuovi problemi circa l’oggettività o la soggettività del suo sguardo,
circa lo “sporcarsi le mani” con quello che dovrebbe essere il suo oggetto d’indagine.
Ma, lo sappiamo dalle scienze naturali e antropologiche, l’osservazione muta insieme
l’osservatore e l’oggetto osservato, e l’oggettività è spesso una maschera per
occultare una scelta di campo propugnata come l’unica possibile.
Il critico, nel tardo Novecento, deve difendere uno spazio, progettarne di nuovi,
inventare la sua stessa attività.
2. Ma forse è stato sempre così. Mentre il cronista diventa sempre più analista,
applicando il suo sguardo oltre che al testo e ai dati di costume anche all’attore, alle
messe in scena e, qualche volta, ai problemi di organizzazione ed economia dello
spettacolo, già agli albori del secolo osserviamo alcuni critici che lottano contro il
teatro accademico o di evasione. Tra di loro compaiono i nomi di registi
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sperimentatori: Jacques Copeau, prima di fondare il Vieux Colombier, fu critico per
la “Nouvelle Revue Française”; Gordon Craig affiancò per una ventina d’anni alle
sue battaglie sulla scena la pubblicazione di “The Mask”. Così lo Studio di
Mejerchol’d a Pietroburgo, oltre a lavorare per formare nuovi attori, provò a far
nascere diversi sguardi con la rivista “L’amore delle tre melarance”. La regia
legittima la propria opera di reinterpretazione dei testi drammatici ripercorrendo la
storia del teatro del passato, descrivendo il teatro presente o polemizzando con esso,
in proprio o con l’ausilio di critici solidali.
Anche in Italia alcuni osservatori passano a proporre progetti di riforma della scena.
Altri ancora sviluppano attraverso le critiche teatrali una battaglia culturale più
ampia, per un rinnovamento della cultura e della società. Tra i primi ricordiamo
Edoardo Boutet e Silvio d’Amico, diversamente impegnati contro la cultura
approssimativa delle compagnie capocomicali. Boutet affiancò all’attività di critico
quella di organizzatore, fondando la prima compagnia stabile italiana, quella del
Teatro Argentina di Roma (1905-1908); Silvio d’Amico lottò per un teatro basato su
messe in scena rigorose di testi d’autore, contro le improvvisazioni e le guitterie di
attori senza preparazione. Accanto a una costante attività di critico e di cronista
militante, sviluppò una riflessione storica che produsse vari importanti volumi (tra
tutti va ricordata la Storia del teatro drammatico, pubblicata nel 1939-40) e fu nel
1935 il fondatore dell’Accademia d’Arte Drammatica, prima scuola per formare un
interprete più responsabile.
Fra i critici che dall’osservatorio del teatro propugnarono e svilupparono una
riflessione culturale, sociale e politica, ricordiamo Antonio Gramsci e Piero Gobetti.
Negli stessi anni, tra la prima guerra mondiale e l’ascesa del fascismo, Adriano
Tilgher affermava che il critico deve valutare le opere teatrali in relazione alla loro
capacità di affrontare “il problema centrale” di un’epoca e di una società. In questa
direzione si schierò decisamente per il teatro pirandelliano, che come nessun altro,
secondo lui, comprendeva e interpretava lo scontro tra la vita e la forma proprio di
un’età di trasformazione e di crisi del soggetto.
3. La critica italiana della prima metà del Novecento si batte per un teatro
rigorosamente basato sul testo drammatico. Le recensioni hanno una struttura
comunemente fissa: analisi accurata del dramma, contestualizzato nel tempo,
nell’opera dell’autore, nelle tendenze artistiche coeve, con brillante e dettagliato
riassunto della trama e qualche magra notazione conclusiva sullo spettacolo,
riguardante soprattutto la prestazione degli attori. Questo schema è determinato anche
dai tempi della stampa quotidiana. L’articolo deve uscire il giorno dopo la prima
rappresentazione: viene in genere abbozzato già prima dello spettacolo (si basa
principalmente sul testo) e completato in redazione velocemente di notte (i giornali
andavano in stampa molto più tardi di quanto non avvenga oggi), con l’assillo della
fretta che mettono redattori e tipografi. Solo per le edizioni del pomeriggio si può
ampliare lievemente il discorso sullo spettacolo vero e proprio.
Questo sistema viene messo in discussione quando anche da noi, nel secondo
dopoguerra, in ritardo rispetto al resto d’Europa, si afferma la regia. Lo spettacolo
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diventa opera altrettanto importante del testo e il regista un autore più o meno alla
pari di quello della parte letteraria. Si coglie nelle cronache dell’epoca (un’ampia
serie è consultabile, per esempio, nell’archivio on line del Piccolo Teatro di Milano,
all’indirizzo www.piccoloteatro.org) il rammarico per non avere il tempo di
descrivere appropriatamente la messa in scena.
Naturalmente altri modelli di critica, e altri sguardi, sono presenti e possibili. Sui
quotidiani, le terze pagine accolgono servizi più articolati e meditati. Settimanali
come “Il Mondo”, “L'Espresso”, “Panorama”, “L’Europeo” negli anni Sessanta e
Settanta ospitano ampie recensioni, con tempi di riflessione ed elaborazione più ampi
di quelli concessi dai quotidiani. Al critico di professione, spesso proveniente dal
giornalismo, si affiancano vari “avventizi”, perlopiù scrittori, come Ennio Flaiano,
folgorante nelle sue cronache apparentemente divaganti, e molti altri, con esiti
differenti: ricordiamo, lungo tutto il Novecento, Alberto Savinio, Corrado Alvaro,
Alberto Arbasino, Vincenzo Cardarelli, Carlo Emilio Gadda, Cesare Garboli,
Salvatore Quasimodo, Angelo Maria Ripellino, fino a Franco Cordelli, Luca
Doninelli, Giovanni Raboni. Ma anche registi o organizzatori praticheranno, magari
per brevi periodi, la critica, come a Milano nell’immediato dopoguerra Giorgio
Strehler e Paolo Grassi, quasi preparando la strada per il loro teatro. Alcuni
intellettuali passeranno più volte da un campo all’altro, come Gerardo Guerrieri,
regista, studioso, organizzatore culturale, sceneggiatore, sodale negli anni della
ricostruzione di Ruggero Jacobbi e Vito Pandolfi, altre personalità aperte a molteplici
esperienze teatrali e culturali.
Le riviste specializzate consentono sguardi più approfonditi, anticipano testi e
tendenze, corredano i servizi di immagini, scandagliano pratiche e poetiche con
inchieste e interviste. Nella Francia del dopoguerra una pattuglia di critici
d’eccezione affila le armi su un periodico come “Théâtre Populaire” (1953-1964),
affiancando il progetto per un nuovo teatro e per un nuovo pubblico di Jean Vilar,
battagliando sul repertorio ma anche sull’accesso delle classi popolari al teatro,
seguendo e discutendo l’idea di una scena strettamente legata alla comunità del suo
pubblico. Alcuni di loro, come Roland Barthes, abbandoneranno l’analisi del teatro
per dedicarsi a differenti campi di esercizio dello sguardo; altri, come Bernard Dort,
si trasformeranno in studiosi attenti a interpretare le trasformazioni sociali ed
estetiche dell’arte scenica, inventando, dopo la chiusura della rivista, diversi
strumenti di indagine.
4. La regia e la necessità di rendere conto di prodotti artistici più compositi, insieme
alla ristrutturazione dei tempi di lavoro della stampa quotidiana, impongono di
ritardare di un giorno l’uscita delle recensioni. Ormai lo spettacolo del regista è un
altro “testo” rispetto a quello dell’autore. Le cose si complicano ulteriormente con
l’esplosione del “nuovo teatro” negli anni Sessanta. Il testo drammatico è distrutto o
negato a favore del corpo, dell’improvvisazione, dell’uso di oggetti e di immagini.
Per il critico è più difficile “leggere” opere che rifiutano i canoni tradizionali. Il
pubblico, d’altra parte, non si accontenta di consumare uno spettacolo per divertirsi,
rilassarsi, istruirsi o emozionarsi, e neppure chiede più al recensore un giudizio per
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capire se valga la pena spendere il prezzo del biglietto: vuole piuttosto essere
coinvolto in un processo.
Ripartiamo, allora, dal pubblico. La fine dell’Ottocento lo ha sprofondato in una sala
buia, trasportandolo in una specie di sogno individuale e collettivo. Certi autori lo
hanno sottratto, già all’inizio del Novecento, alla passività, all’incantesimo, alterando
i modi della recitazione e della pronuncia, staccandosi dal naturalismo. Altri hanno
provato, utopicamente, a trasformare una massa anonima di consumatori di
intrattenimento in una comunità, che si costituisce nelle feste negli spazi aperti delle
città, nelle liturgie che celebrano la rivoluzione russa o in certi spettacoli dei più
importanti festival; in una collettività d’elezione che si riconosce nei piccoli teatri
indipendenti e radicali o nei lavori dei gruppi dell’agit-prop politico, ugualmente in
cerca di un pubblico non indifferenziato, solidale.
Le avanguardie storiche cercano di risvegliare il pigro borghese, magari mettendogli
mortaretti sotto la sedia, come fanno i futuristi; altri intervenendo piuttosto sul
montaggio dei materiali dello spettacolo. Bertolt Brecht vorrebbe rendere il suo
spettatore simile a quello della boxe, tecnico, esperto, e gli chiede di seguire il
dramma fumando un sigaro, vicino e distante, senza abdicare alla ragione, anzi
sempre pronto a criticare e a rendere la materia teatrale nutrimento per la
trasformazione sociale. Antonin Artaud progetta, nel suo utopico e radicale “teatro
della crudeltà”, un altro tipo di spettatore: contagiato da un virus divorante simile a
quello della peste, capace di vibrare insieme allo spettacolo, che lo deve trascinare
non attraverso gli inganni di cartapesta della rappresentazione, ma per forza
alchemica e per empatia di coinvolgimento profondo. E’ una rottura del muro della
quarta parete e un’ulteriore tappa verso quella che sarà la trasformazione, nel
dopoguerra, del pubblico generico in spettatore consapevole, in spettatori singoli,
sguardi personali che inverano in sé, nella propria visione, il lavoro degli artisti.
Questo nuovo occhio, insieme esigente e partecipe, portato ai confini del canone
teatrale dall'happening, dalla performance, dal teatro a partecipazione, dalla nuova
scena, vuole capire, trovare le strade per entrare in sintonia con un dato che non è più
solo estetico, ma di mutazione sociale e personale. Il teatro si trasforma in percorso
“dentro di sé e dentro il mondo”, come ha ben sintetizzato Giuliano Scabia. E perciò
la vecchia critica risulta poco utile. Il nuovo sguardo richiede tracciati, strade di
incontro e non più giudizi o cronache di costume. Cerca fili per orientarsi in labirinti
da percorrere personalmente: per ritrovare magari, alla fine del tragitto, un differente
impegno collettivo.
5. Giuseppe Bartolucci e Franco Quadri, che possiamo considerare tra i padri della
nuova critica militante emersa negli anni Sessanta, sottolineano in diverse sedi la
necessità di mettere in discussione le tecniche di osservazione tradizionale per seguire
i cambiamenti del teatro. Bisogna affinare i modi per rendere conto delle nuove
“scritture sceniche”, basate su immagini e partiture corporee, su luci e suoni, su un
insieme di elementi compositi e sfuggenti da registrare, descrivere, analizzare,
ricomporre in una trama capace anche di penetrare motivazioni, intenzioni, progetti.
Il nuovo teatro e il nuovo spettatore impongono altri metodi di resoconto e mettono in
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dubbio la necessità di una critica valutativa, come sottolineano anche le voci più
innovatrici del versante degli studi universitari, tra gli altri Fabrizio Cruciani e
Ferdinando Taviani.
Se in scena fiorisce una scrittura autonoma, che a volte evade perfino dalle pretese
centralizzatrici del regista, la critica diventa ricerca di fili di senso per ricreare
un’esperienza molteplice e farla ripercorrere autonomamente dal lettore. Il critico
diventa sempre di più un saggista e uno storico del presente: qualcuno che sta dentro
gli avvenimenti ma è anche capace di spostarsi in una prospettiva esterna, un
osservatore mobile che cerca di confrontare la propria visione con quelle dell’artista e
degli spettatori senza voce. Si trasforma in testimone partecipe e privilegiato, capace
di entrare e di uscire dalla performance per cercare di svelarne i segreti, in una
tensione continua tra l’abbandono all’avvenimento scenico e la distanza
interpretativa. Una posizione simile la avanzava già Silvio d’Amico in una
fondamentale conferenza intitolata Esame di coscienza del cronista di teatro detto
critico drammatico, tenuta presso i GUF (Gruppi Universitari Fascisti) di Roma e di
Firenze nel 1942. Descriveva l’atto della visione come una immedesimazione totale
nel mondo del palcoscenico e la scrittura come un tentativo successivo di dare ordine
alle impressioni, oggettivandole con passione, in modo tale da far rivivere al lettore lo
spettacolo come un’esperienza coinvolgente.
Il nuovo critico molte volte combatte per un’idea di teatro, come voleva all’inizio del
XX secolo George Bernard Shaw; si rivela artista capace di ricreare l’opera con la
sua scrittura, incarnando con modalità differenti le idee avanzate da Oscar Wilde;
milita in bilico tra i due campi, critico e artista, come gli statunitensi Richard
Schechner e Michael Kirby, performer, registi e direttori, in successione, di “The
Drama Review”; o attraversa gli ambiti e le tendenze, come fece Kenneth Tynan, dal
1953 al 1963 brillante e severo recensore di “The Observer”, subito schierato con
Aspettando Godot di Beckett e con Ricorda con rabbia di Osborne, critico ufficiale
capace di riconoscere la dirompente novità di Marat Sade di Peter Brook, poi dal
1963 consulente letterario del Royal National Theatre diretto da Laurence Olivier, in
seguito drammaturgo e sceneggiatore. Un critico come Roberto De Monticelli,
formatosi negli anni dell’affermazione della regia, si sente in crisi a causa delle
trasformazioni apportate dal nuovo teatro, che sembrano svuotare il concetto stesso di
rappresentazione e di personaggio, sostituendoli con la soggettività dell’attore. Altri
si dichiarano pronti a entrare nei processi degli artisti dal di dentro, come propugnava
Herbert Ihering già negli anni Venti, in polemica con lo sguardo esterno di Alfred
Kerr. Altri ancora, come Ennio Flaiano, tessono a effetto l’elogio dello “spettatore
addormentato”, quello che percepisce gli spettacoli come in un sogno, con l’altro
occhio dell’inconscio; oppure, come Bernard Dort, dichiarano la visone teatrale
sospesa in uno stato simile al sonnambulismo kleistiano. Il critico deve stare dentro e
fuori, di fianco, di sotto lo spettacolo, espropriato delle sue funzioni di coro che tutto
razionalizza, spiega e media, suggerisce il fondatore e regista della Socìetas Raffaello
Sanzio, Romeo Castellucci, riflettendo sullo scandalo dell’interpretazione che si
frappone tra l’evidenza dell’opera e l’urgenza dello spettatore. Oppure deve provare a
fare le sue “cantine romane”, ritraendosi dal sistema dell’informazione
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spettacolarizzata per attingere precisione e verità, secondo la suggestione di un altro
grande uomo di teatro, Leo de Berardinis.
6. Quattro sono gli elementi in tensione per definire la mutevole focale del critico: lo
spettacolo, lo spettatore, i mezzi di comunicazione di massa, gli artisti. Cambiando la
posizione di uno o di più d’uno di questi elementi, si va a ridefinire il quadro generale
e l’angolo di osservazione particolare. Il guardare ha dovuto forgiare nuovi strumenti
di interpretazione o di scrittura in conseguenza delle mutazioni dello spettacolo, ma
anche dello svuotamento della funzione di giudice dell’osservatore professionista e
delle ristrutturazioni del sistema dei mass-media; il presunto rappresentante oggettivo
del pubblico è stato incalzato dai nuovi ruoli assunti dagli artisti e dagli spettatori.
Il critico, oggi, deve probabilmente investire qualcosa di personale in più e la scrittura
deve diventare una responsabilità nuova, opera che rifiuta la chiosa, la definizione del
senso, l’anatomo-patologia pura e semplice, e si sposta dalla “clinica”, dalla “legge” e
dal “giudizio”, evocati da Gilles Deleuze, a quel piacere della scrittura come atto di
interpretazione proiettato all’infinito di cui parla Roland Barthes. Il filtro culturale
sovrapposto alla vita materiale dello spettacolo e il discorso specialistico devono
aprirsi ad approcci multidisciplinari, come già suggeriva Marco De Marinis agli inizi
degli anni Ottanta, o indisciplinari, come vorrebbe Jean-Marc Adolphe, apripista di
una pattuglia di critici europei che analizzano il teatro che si mescola con
l’immagine, con la creazione digitale, con un tipo di danza che introduce sui suoi
parquet le arti visive e la parola. Riviste come la francese “Mouvement”, come
“Janus”, prodotta da Troubleyn, la compagnia del regista, pittore, drammaturgo e
coreografo fiammingo Jan Fabre, superano i rigidi steccati che incasellano le arti in
ambiti tradizionali.
Altri sguardi cercano territori inesplorati e pubblici affezionati o inconsueti sul web;
nei percorsi di formazione universitaria vengono introdotti laboratori di critica;
rifiorisce l’editoria teatrale. Si moltiplicano le riviste prodotte all’interno
dell’università: accanto a “Teatro e storia”, al “Castello di Elsinore”, a una rinnovata
“Biblioteca teatrale”, si affacciano testate come “Prove di drammaturgia” e “Culture
teatrali”, che tracciano interessanti intersezioni tra storia e contemporaneità.
Intanto si ripresentano problemi antichi o ne emergono di imprevisti: sui giornali
quotidiani la critica viene sempre più marginalizzata, mentre nelle pubblicazioni
specializzate di rado viene remunerata. Il lavoro del critico risulta sempre più
precario, avventizio o addirittura volontario, un passaggio in attesa di una
sistemazione migliore, una specie di passione disinteressata, un impegno militante o
un ponte per un impiego in altri campi. Questa figura dai contorni sfumati spesso si
ritrova a trasformarsi in organizzatore o consulente, a riversarsi nell’insegnamento o
a dover inventare altre zone di azione.
Chi sceglie di perseverare, diventa comunque un soggetto in metamorfosi, che deve
districarsi affrontando difficoltà inedite e fronteggiando continuamente problemi
etici, economici, di ruolo culturale e sociale. Confrontandosi, in una dialettica
continua, con l’organizzatore, con l’artista, con lo spettatore, fiancheggiandoli e
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ritraendosi per fare i conti, in modi mutati rispetto al passato, con la necessità del
rigore del giudizio, in una società che rende tutto equivalente, omologato.
Perfino il lettore, in certi momenti, sembra abbandonarlo per trasformarsi
direttamente in attore partecipe di un’esperienza, senza mediazioni. Agli inizi del
nuovo secolo assistiamo a un grande interesse per il teatro fatto in prima persona,
rilevabile anche nell’esplosione di laboratori, seminari, corsi universitari di teatro e
danza; parallelamente, pare ridursi il pubblico delle riviste e dei lettori di giornali,
anche on line. Forse perché, nelle crisi di realtà che attraversiamo, il teatro è
considerato principalmente un mezzo per fare esperienze, ancora di sé e del mondo. Il
critico dovrà, se vuole sopravvivere, inventare un altro spazio in questo bisogno, che
non è solo teatrale ma principalmente sociale.
Bibliografia
La critica teatrale, sezione monografica in “Quaderni di teatro”, a II, n.5, agosto
1979;
Giovanni Antonucci, Storia della critica teatrale, Roma, Studium, 1990;
Giuseppe Bartolucci, La scrittura scenica, Roma, Lerici, 1968;
Roberto De Monticelli, L’attore, a cura di Odoardo Bertani, Milano, Garzanti, 1988;
Cesare Garboli, Un po’ prima del piombo. Il teatro in Italia negli anni Settanta, a
cura di Ferdinando Taviani, Firenze, Sansoni, 1998;
Massimo Marino, Lo sguardo che racconta. Un laboratorio di critica teatrale, Roma,
Carrocci, 2004.
Giugno 2005