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ialogo |
ebraismo
Chiesa-Israele:
punti fermi
e domande aperte
Premessa
Gruppo interconfessionale Teshuvah
Il gruppo interconfessionale Teshuvah –
nato per impulso della Commissione per
l’ecumenismo e il dialogo della diocesi di
Milano – raccoglie cattolici e protestanti
«impegnati all’interno delle rispettive comunità per un processo di riconciliazione e
di ravvedimento delle Chiese cristiane nei
confronti dell’ebraismo». Il testo qui pubblicato, Chiesa e Israele. Punti fermi e interrogativi aperti, è frutto della «riflessione
compiuta all’interno del gruppo e della sua
specifica prospettiva. È pertanto destinato
ai cristiani che cercano di meglio comprendere la relazione cristiano-ebraica». I suoi
quattordici punti vorrebbero suscitare una
libera discussione nelle comunità cristiane
al fine di «verificare se le affermazioni ivi
contenute possono o meno essere considerate condivise e, pertanto, acquisite», almeno
da parte di coloro che hanno approfondito il
rapporto Chiesa-Israele. È auspicio dei redattori – vi si legge – far nascere un dibattito su che cosa può essere considerato «punto fermo» e su come proseguire la ricerca
(«interrogativi aperti»). Il documento viene
pubblicato come «bozza», in attesa e «nella
speranza che possa provocare osservazioni e
proposte di migliorie o di integrazioni».
Originale digitale in nostro possesso.
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A Milano il gruppo interconfessionale Teshuvah,
nella propria attività di incontri e proposte alle comunità ecclesiali, ha inteso privilegiare l’attenzione
alla necessaria e urgente revisione della autocoscienza cristiana nei confronti dell’ebraismo. La sua
stessa denominazione prospetta, accanto all’ascolto
della tradizione ebraica, l’esigenza di un cammino
di conversione inteso come «ritorno» a Dio, alle
fonti bibliche e alle origini della tradizione cristiana.
Questa prospettiva ha una propria peculiarità che
caratterizza gli obiettivi del gruppo in modo differente da quelli delle esperienze di amicizia o di dialogo tra ebrei e cristiani.
Il testo Chiesa e Israele. Punti fermi e interrogativi
aperti è frutto della riflessione compiuta all’interno
del gruppo Teshuvah e della sua specifica prospettiva. È pertanto destinato ai cristiani che cercano di
meglio comprendere la relazione cristiano-ebraica.
Intende interpellarli e invitarli a un confronto. Non
si rivolge dunque in modo diretto a ebrei, né si prospetta in primo luogo come contributo al dialogo
con essi. Nasce invece dalla convinzione che l’istanza di una teshuvah cristiana nei confronti del popolo ebraico sia e debba diventare previa allo stesso
dialogo bilaterale. Nasce, inoltre, dall’esigenza di
puntualizzare i risultati a cui attualmente è giunto
il cammino iniziato nel 1947 con il documento di
Seelisberg.
I quattordici punti del testo che segue sono stati
redatti con il semplice scopo di suscitare una libera discussione intracristiana, tesa a verificare se le
affermazioni ivi contenute possono o meno essere
considerate condivise e, pertanto, acquisite almeno
da parte di coloro che hanno messo a tema e approfondito il rapporto Chiesa-Israele. È dunque auspicio
dei redattori di questo documento che, su tale rapporto, nasca un dibattito riguardo a che cosa può essere considerato «punto fermo» e a come proseguire
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la ricerca su «interrogativi aperti». Pertanto questo
testo, in una prima fase, viene pubblicizzato come
«bozza», nella speranza che possa provocare osservazioni e proposte di migliorie o di integrazioni.
Prezioso risulterà anche l’eventuale contributo di
correzioni e suggerimenti da parte di ebrei sensibili
al cammino che alcuni cristiani cercano di compiere
per rettificare la coscienza della propria relazione
con la realtà storica del popolo ebraico. La redazione finale di questo documento, che potrà dunque
avvalersi anche di apporti esterni al gruppo Teshuvah, dovrà risultare espressione di collaborazione
ecumenica. Proprio a questo titolo, il testo Chiesa e
Israele potrà essere utile per la formazione cristiana
nelle diverse confessioni.
1. L’elezione di Israele è irrevocabile
L’idea di popolo eletto (o scelto, come preferisce
esprimersi la tradizione ebraica) si riferisce all’insieme dei doni profusi da Dio a Israele. Essi rendono
gli ebrei una comunità distinta dagli altri popoli (i
gojim, cioè le genti). Al riguardo la Lettera ai Romani enumera queste peculiarità: gli ebrei «sono
israeliti e hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene il messia
secondo la carne» (Rm 9,4-5). A questa elencazione
va aggiunta, almeno, la terra d’Israele. Fa parte dei
contenuti della fede cristiana affermare con Paolo
che «i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili»
(Rm 11,29).
La tradizione ebraica per individuare le peculiarità del popolo scelto si rifà, di preferenza, alle tre
caratteristiche presenti nel libro dell’Esodo (cf. Es
19,5-6): gli ebrei sono «proprietà particolare» (segullah) del Signore (JHWH), «regno di sacerdoti»
(mamlekhet kohanim) e «popolo santo» (goj qadosh).
Va posto in evidenza che l’espressione «regno di sacerdoti» (o popolo sacerdotale) è da intendersi come
una chiamata diretta a svolgere un compito a favore
delle genti.
Non si deve dimenticare che il discorso è introdotto da una clausola ipotetica: «Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza» (Es
19,5); essa attribuisce un ruolo fondamentale all’accettazione da parte del popolo della proposta di
alleanza giuntagli dal Signore. In questo contesto,
l’ebraismo sottolinea la particolarità della risposta
data dal popolo al Sinai; essa, tradotta alla lettera,
suona così: «Tutto quanto il Signore ha detto faremo e ascolteremo» (cf. Es 24,7).
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– A quale fine Israele è eletto?
– Che cosa significa, per la fede cristiana, che l’elezione di Israele è irrevocabile?
2. Gesù è ebreo e lo è per sempre
Assunto nella sua veste canonica, il Nuovo Testamento si apre con una genealogia volta a stabilire
la discendenza abramica e davidica di Gesù Cristo
(cf. Mt 1,1-17). È, quindi, proprio della fede cristiana affermare che Gesù Cristo è il messia d’Israele.
L’appartenenza ebraica di Gesù è componente costitutiva della sua messianicità.
La fede della Chiesa proclama Gesù Cristo vero
uomo. Recepita in modo integrale, questa affermazione comporta che Gesù abbia assunto tutte
le caratteristiche di una vita umana collocata in un
determinato tempo e in un determinato luogo. Fa
parte dell’umanità di Gesù il fatto che egli abbia
condiviso la fede d’Israele. L’appartenenza ebraica
di Gesù è componente costitutiva della sua umanità.
L’ebraicità di Gesù è confermata dalla ricerca
storica su Gesù. L’indagine va condotta secondo i
parametri propri della storiografia e, pertanto, prescinde da ogni precomprensione dogmatica. Appartiene eventualmente all’ermeneutica dei credenti far
interagire tra loro alcuni esiti della ricerca storica
con la comprensione di fede, stando alla quale Gesù
è messia d’Israele e vero uomo.
L’ebraicità di Gesù è ulteriormente confermata
dal fatto che il suo magistero si è volontariamente
limitato «alle pecore perdute della casa di Israele»
(Mt 15,24).
– Come va intesa oggi l’affermazione che Gesù è
ebreo «per sempre»?
– Come si è posto l’ebreo Gesù di fronte alla Torah?
3. I primi seguaci di Gesù erano ebrei
e il loro movimento nasce intraebraico
È dato storico incontrovertibile che nel I secolo
e.v. l’ebraismo fosse una realtà molteplice contraddistinta da vari movimenti con orientamenti diversi
in ambito sia pratico sia ideale.
La fede in un messia personale e la fiducia nella resurrezione dei morti sono convinzioni tipiche
di alcune correnti giudaiche (cf. At 23,6-9). Affermare che Gesù è messia e che è risorto dai morti
non significò perciò rompere con l’ebraismo. Anzi,
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le prime comunità di ebrei credenti in Gesù Cristo
dichiararono la loro fede in lui proprio in base a credenze interne alla loro tradizione. Di conseguenza
esse mantennero le prassi che contraddistinguevano, allora, la totalità degli ebrei, prima fra tutte l’osservanza della Torah e la centralità del tempio di
Gerusalemme.
Alla «Chiesa madre» di Gerusalemme, radunata attorno a Giacomo, fratello del Signore, venne
riconosciuto un ruolo centrale anche da parte delle comunità «miste» di ascendenza paolina (cf. Rm
15,25-27).
È pertanto anacronistico riproiettare all’indietro
una visione, propria di epoche successive, secondo
cui accogliere Gesù come messia comportava uscire
o essere allontanati dalla comunità ebraica.
– Quali problemi le origini ebraiche del cristianesimo pongono ai cristiani e agli ebrei di oggi?
4. I credenti in Gesù Cristo:
un movimento specifico e distinto
dalle altre correnti giudaiche
Il movimento nato dalla fede in Gesù Cristo si
presentò all’origine contraddistinto da vari orientamenti. Più che di cristianesimo delle origini sarebbe
quindi opportuno parlare, al plurale, di cristianesimi. Meglio ancora, di varie e diverse comunità cristiane delle origini.
Ciò non significa che le comunità di credenti in
Gesù Cristo, pur nella loro molteplicità, non avessero, in vari modi, consapevolezza delle diversità che
le distinguevano dalle altre correnti giudaiche. La
differenza emerge in particolare attorno a due snodi, entrambi espressione della fede nel messia venuto, morto, risorto e prossimo a venire come Figlio
dell’uomo (cf. Mt 24,27; Mc 13,26) o Signore (cf.
1Ts 4,15-17).
Il primo snodo è rappresentato sia dalla precoce comparsa di formulazioni cultuali rivolte verso
il Signore risorto (cf. ad esempio Maràna tha, 1Cor
16,22), sia dalla ricca elaborazione di titoli cristologici. Il secondo è incentrato sulla presenza di gentili
all’interno di comunità cristiane. Le modalità della
partecipazione delle genti alle comunità dei credenti in Gesù Cristo suscitarono aspri dibattiti. Da un
lato, prevalse il modello secondo cui l’ammissione
doveva conformarsi al procedimento riservato ai
proseliti d’Israele, che comportava l’obbligo di osservare i precetti della Torah. Dall’altro, vi fu la posizione, elaborata con particolare vigore da Paolo,
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secondo la quale l’ingresso nella comunità dei credenti in Gesù Cristo dipendeva tanto per i «giudei»
quanto per i «greci» solo dalla fede; in relazione a
quest’ultimo aspetto non sussisteva, dunque, alcuna
differenza tra giudei e gentili.
– In che modo la varietà di orientamenti cristologici presenti nelle comunità delle origini si collega
alla pluralità delle correnti giudaiche coeve?
5. Gli scritti neotestamentari sono
incomprensibili senza riferimento
alle Scritture d’Israele
Quando furono redatti i testi, in seguito confluiti
nel Nuovo Testamento, ebbero come loro riferimento costante le Scritture d’Israele. Gli eventi fondamentali della fede sono avvenuti «secondo le Scritture» (cf. 1Cor 15,3-4). I Vangeli presentano Gesù
come colui che vive, interpreta con autorità e adempie le Scritture. La vita di Gesù (Vangeli) e quella
della comunità dei credenti (Atti, Lettere, Apocalisse) sono lette e interpretate attraverso un richiamo
costante alle Scritture d’Israele. Questo genere di
commento è, per lo più, compiuto a partire dalla
consapevolezza di trovarsi nella «pienezza del tempo» (cf. Gal 4,4) o in un tempo fattosi «breve» (cf.
1Cor 7,29). A proposito degli scritti neotestamentari
risulta, quindi, più proprio evocare la forma letteraria del pesher (commento alla Scrittura dotato della
pretesa di essere definitivo), che quella del midrash
(commento aperto a una pluralità di sensi).
Specie negli ultimi decenni, si è fatta sempre più
netta la convinzione stando alla quale molti degli
scritti neotestamentari sono stati influenzati da apporti provenienti dalla cosiddetta letteratura giudaica extracanonica. Una solida comprensione degli
scritti neotestamentari presuppone la conoscenza
di questi tre ambiti ora elencati: Scritture d’Israele,
letteratura giudaica extracanonica, fonti della storia
ebraica.
Nella storia cristiana si è progressivamente formata un’unità canonica costituita dalla Bibbia composta da Antico e Nuovo Testamento. Sorse quindi
il problema di come leggere il rapporto fra le due
parti della Bibbia cristiana. Alcune delle soluzioni
adottate, ad esempio un certo modo di intendere la
tipologia o il ricorso sistematico all’allegoria, vanno
giudicate improprie in quanto depotenziano lo statuto di parola di Dio proprio dell’Antico Testamento e strumentalizzano in modo indebito la storia
ebraica.
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– Qual è il senso secondo cui Gesù adempie le
Scritture?
– Quale senso attribuiscono i cristiani all’ininterrotta lettura delle Scritture e al loro continuo
commento compiuti dal popolo ebraico?
6. Il legame permanente della Chiesa
con il popolo d’Israele
La varietà di orientamenti teologici presenti
negli scritti neotestamentari si riflette anche nella
molteplicità di prassi e di visioni ecclesiologiche in
essi contenute. Le Chiese residenti nelle varie città
(«La Chiesa di Dio che è in…») erano consapevoli
di costituire una forma di comunità profondamente
nuova e diversa rispetto al modo di essere di Israele
come popolo, ma non per questo estranea o alternativa a Israele.
Ciò può essere detto sia per le comunità composte da ebrei, a iniziare dalla «Chiesa madre» di
Gerusalemme, sia per le comunità «miste» (prima
fra tutte quella di Antiochia), vale a dire costituite
sia da ebrei sia da gentili. In alcune comunità si
registrò un’aspra divergenza tra le tendenze che
volevano imporre anche ai gentili l’osservanza integrale dei precetti della Torah e l’orientamento di
Paolo, che rifiutava radicalmente questa opzione,
la quale avrebbe reso ebrei tutti i credenti in Gesù
Cristo. Grazie alla fede in Cristo i gentili credenti
venivano, comunque, inseriti nell’economia della
promessa: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa»
(Gal 3,29).
La presenza a un tempo di questa differenza
e di questo legame nei confronti di Israele è un
presupposto per comprendere i capitoli 9-11 della Lettera ai Romani, la più articolata riflessione
neotestamentaria dedicata al rapporto tra le comunità formate dai credenti in Gesù Cristo e il popolo
ebraico.
Anche in strati più recenti del Nuovo Testamento, dove si iniziò a impiegare la parola «Chiesa» al
singolare, sarebbe restata ferma la prospettiva che
attesta l’esistenza di un insostituibile rapporto di
ogni credente con Israele. In questa luce un particolare rilievo va assegnato al brano della lettera agli
Efesini in cui, rivolgendosi ai credenti di origine
gentilica, l’autore afferma che quando essi erano
senza Cristo erano estranei alla cittadinanza d’Israele, mentre ora in Cristo chi un tempo era lontano è
diventato vicino (cf. Ef 2,11-13).
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L’annuncio dell’Evangelo alle genti implica perciò di comunicare a esse le peculiarità proprie e inimitabili del popolo ebraico, frutto della scelta e delle
opere compiute da Dio.
– Come interpretare il permanere di questo legame
con Israele dei credenti in Cristo, evitando il rischio di appropriazioni indebite delle peculiarità
del popolo d’Israele?
– Che cosa comporta, per una Chiesa costituita da gentili, fare memoria delle proprie origini
ebraiche?
– Come promuovere una presa di coscienza sia della novità dell’Evangelo, sia del legame tra Chiesa e Israele?
7. La teologia della sostituzione non è
conforme al Nuovo Testamento
La cosiddetta «teologia della sostituzione» è fondata su tre convincimenti di base: a) fino alla venuta di Gesù Cristo, il popolo d’Israele è stato titolare
dell’elezione; b) questo popolo ha perduto l’elezione
a causa del suo rifiuto di Gesù Cristo; c) l’elezione
è passata alla Chiesa la quale si presenta, quindi,
come nuovo (o vero) Israele.
Questa visione, predominante nelle tradizioni
cristiane già a partire dal II secolo, ha influito in
maniera massiccia soprattutto nell’elaborazione
delle visioni tipiche del «regime di cristianità». La
teologia della sostituzione ha trovato, infatti, la
sua piena realizzazione quando il cristianesimo è
stato soggetto a processi di risacralizzazione (evidenti specie nel modo di concepire il sacerdozio)
e di territorializzazione (non ci sono più Chiese
«pellegrine» nelle varie città, ma territori cristiani). Il suo influsso fa sì che, fino a oggi, con «genti»
s’intendono per lo più i non cristiani (e non già i
non ebrei), specie se nei loro confronti si stanno
attuando forme di azioni missionarie (cf. l’espressione missio ad gentes).
Nel Nuovo Testamento è assente la teologia della sostituzione in quanto vi si afferma tanto l’irrevocabilità della chiamata di Dio rivolta al popolo
d’Israele, quanto la peculiarità della novità evangelica. La visione teologica sostituzionista, oltre
ad alimentare l’antigiudaismo cristiano, ha infatti
influito in modo globale sulla costruzione di una
ecclesiologia incapace di salvaguardare appieno
la novità dell’Evangelo. Letta in chiave teologica,
la distinzione Israele-genti consegue dall’elezione. L’alleanza non revocata comporta, quindi, la
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permanente validità teologica ed ecclesiologica di
questa distinzione. Secondo il Nuovo Testamento,
il proprium della Chiesa è di essere costituita dai
chiamati provenienti sia da Israele sia dalle genti (cf. Rm 9,24). Questa caratteristica, legata alla
chiamata alla fede, fa sì che la Chiesa non sostituisca né Israele né le genti.
– Quali conseguenze ha, per la vita della Chiesa,
la teologia della sostituzione in ambito liturgico,
esegetico e catechetico?
– Quali conseguenze hanno, per la missione della
Chiesa, i processi di inculturazione determinati dalla religione cristiana anziché ispirati all’Evangelo?
8. L’ebraismo, realtà viva e multiforme
È convinzione ormai largamente diffusa che anche nel periodo successivo al I secolo e.v. la tradizione ebraica si sia sviluppata in modo spiritualmente
e culturalmente molto ricco. Il giudaismo rabbinico,
nel cui seno si sono affermati la Mishnah, il Talmud
e la lettura midrashica, ha fornito un contributo culturale di grande rilievo e ciò costituisce un apporto
imprescindibile per conseguire un’intelligenza più
completa delle Scritture. Altrettanto certo è il fatto
che questo tipo di giudaismo formi un riferimento
indispensabile per comprendere tutti gli ulteriori
sviluppi dell’ebraismo.
Meno consolidata fra i cristiani è la convinzione
secondo la quale tutta la multiforme vita del popolo
ebraico è contraddistinta da componenti storiche e
culturali di grande significato che si collocano anche al di là della dimensione religiosa. Invece, per
comprendere la storia e la cultura ebraiche occorre
convincersi sia del fatto che l’ebraismo non si è mai
ristretto alla sola sfera religiosa sia del fatto che, al
giorno d’oggi, quest’ultima, a seguito dell’incontro
degli ebrei con la modernità, si presenta in modo
pluralista.
In conclusione, la conoscenza della storia ebraica
nel suo complesso è un presupposto fondamentale
per lo svolgimento del dialogo cristiano-ebraico. Alcuni pregiudizi e fraintendimenti da parte cristiana
sono imputabili alla fragilità delle conoscenze storiche relative, in particolare, al lungo periodo che va
dall’inizio dell’era volgare al XX secolo.
– Quali pregiudizi sono derivati dall’aver considerato l’ebraismo una religione legata solo al passato
e non una realtà viva e multiforme?
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9. Definizioni ostili e autoreferenziali
L’espressione che meglio sintetizza la posizione
qui indicata si ebbe quando ci si riferì collettivamente agli ebrei qualificandoli come popolo testimone
sia della propria perfidia sia della verità cristiana.
In senso proprio, per perfidia si intende «mancanza di fede» in Gesù Cristo. L’antigiudaismo cristiano ha giudicato quel rifiuto frutto della natura
«carnale» del popolo ebraico incapace di vedere,
a differenza di quanto compiuto dalla lettura cristiana, il senso «spirituale» presente nelle sue stesse Scritture. Inoltre, l’antigiudaismo ha valutato la
condizione ebraica umiliata e dispersa come una
prova storica della verità cristiana (cf. l’iconografia
della Sinagoga bendata accanto alla Chiesa regale).
Discorso analogo vale per le visioni escatologiche,
stando alle quali la «fine dei tempi» era ritenuta
strettamente connessa alla conversione di massa degli ebrei.
Anche quando, a partire dalla seconda metà
del XX secolo, si sono voltate le spalle all’antigiudaismo, non sono del tutto scomparsi i modi strumentali di valutare gli ebrei in funzione della verità
cristiana. Per esempio, certi usi dell’espressione «fratelli maggiori» o della più elaborata formulazione
di «testimoni viventi della fede biblica» rischiano di
muoversi appunto in questa direzione.
Per contrastare simili tendenze è fondamentale
per i cristiani prestare un ascolto attento ai modi in
cui gli ebrei si autodefiniscono.
– Come l’ascolto delle autodefinizioni ebraiche interagisce con i modi in cui i cristiani si definiscono a partire dall’esperienza del dialogo cristianoebraico?
10. Inammissibile la missione
cristiana verso gli ebrei
La missione finalizzata alla conversione dagli
idoli all’unico Dio non ha senso nei confronti del
popolo scelto dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La ragione ultima dell’improponibilità della
missione cristiana nei confronti del popolo ebraico
si trova nella dimensione del mistero: ciò significa
che, per la fede neotestamentaria, fa parte dell’opera di Dio sia aver eletto Israele sia aver costituito
Gesù Cristo e Signore.
All’origine della Chiesa vi sono stati ebrei che
hanno annunciato Gesù Cristo ad altri ebrei. Que-
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sto annuncio e questa testimonianza continuano ad
avere per le Chiese una funzione fondativa. Inoltre nessuno scritto neotestamentario attesta che un
gentile credente in Gesù Cristo abbia annunciato
l’Evangelo agli ebrei. Solo una Chiesa che si pensa,
indebitamente, come nuovo Israele si sente titolata
a compiere un’azione missionaria nei confronti degli ebrei.
Una speciale attenzione va rivolta alle ambiguità
contenute in alcune visioni escatologiche cristiane
concernenti il popolo ebraico. In effetti all’interno
delle Chiese è sempre rimasto vivo il convincimento
relativo alla natura escatologica dell’affermazione
paolina stando alla quale «tutto Israele sarà salvato» (Rm 11,26). Tuttavia essa è stata interpretata in
modo improprio, come se l’entrata storica e generale degli ebrei nella Chiesa fosse un indispensabile
preludio all’eschaton o come se la missione nei loro
confronti rappresentasse un momento costitutivo
della realizzazione escatologica. Occorre invece ribadire che la salvezza di tutto Israele è, nella prospettiva neotestamentaria, un «mistero» (cf. Rm
11,25), frutto della diretta azione salvifica di Dio.
– A quali condizioni il cristiano può testimoniare
che la sua fede in Gesù Cristo si compie nella fedeltà al Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe?
– Per quali vie i cristiani possono valorizzare la
testimonianza ebraica come feconda e pertinente
alla missione volta alla conversione dagli idoli?
11. Il dialogo cristiano-ebraico:
necessario all’ecumenismo e al
rapporto corretto con le religioni
Toccando in modo diretto la natura e il compito
della Chiesa, risulta evidente che la relazione con il
popolo ebraico costituisce un fondamento per ogni
discorso ecumenico intracristiano. Oltre a essere
accomunate dal legame con il popolo di Israele,
che riguarda da un lato l’origine e dall’altro l’eschaton, le Chiese cristiane si trovano tutte ugualmente
di fronte alla necessità di ripensare alla loro storia
contraddistinta da avversione o almeno da profonde ambiguità nei confronti degli ebrei. Una comune
confessione di peccato nei confronti del popolo d’Israele e il riconoscimento del permanere dell’alleanza di Dio con Israele sono passaggi fondamentali
per il conseguimento di una piena riconciliazione
intracristiana.
Il riconoscimento della specificità del dialogo cristiano-ebraico è anche premessa comune a tutte le
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Chiese per il dialogo interreligioso. Per la teologia
cristiana il rapporto con le altre religioni non deve,
contrariamente alla prassi consueta, prescindere
dalla relazione tra Israele e le genti. In virtù di questa fondamentale relazione il dialogo cristiano-ebraico non va assunto come paradigma del dialogo
interreligioso.
– In che modo la scarsa centralità finora attribuita alla riflessione sul rapporto Chiesa-Israele
si ripercuote nelle attuali difficoltà del dialogo
ecumenico?
– In che modo la teologia cristiana, alla luce della distinzione tra Israele e le genti, può pensare
il dialogo interreligioso come incontro tra la fede
biblica e le religioni?
12. Il popolo ebraico
e la sua terra
Nel consueto modo di parlare di ‘Erez Israel
(terra d’Israele) ricorrono due espressioni: una è
«terra promessa», l’altra è «terra santa». Esse valgono, con forti varianti, sia nell’ambito ebraico sia
in quello cristiano. Nell’orizzonte biblico la terra è
un dono, frutto del giuramento del Signore conforme alla promessa fatta ai patriarchi. Gerusalemme
inoltre è un riferimento costante delle profezie rivolte al futuro shalom che si dovrà instaurare tra
tutti i popoli. Il ricordo degli eventi della storia della salvezza costituisce il riferimento principale in
ambito cristiano per giudicare santa quella terra;
nell’ebraismo invece la santità della terra dipende in massima parte dai peculiari precetti che vi si
compiono. Ciò comporta la necessità di una presenza ebraica al fine di attuare la «triangolazione»:
Torah, popolo, terra.
Il sorgere e lo svilupparsi a partire dal XIX secolo di una serie di movimenti sionisti – diversificati
tra loro per intenti e modi di procedere – ha comportato una profonda revisione (cf. il cosiddetto sionismo religioso) dei modi tradizionali di concepire
il futuro rapporto messianico tra popolo ebraico e
terra d’Israele.
La presenza di un’accentuata dialettica intraebraica rispetto al modo di rapportarsi con la terra
conferma l’irrinunciabilità di questo riferimento sia
per confrontarsi, su un piano più generale, con la
effettiva realtà storica (passata e presente) del popolo ebraico, sia per valutare, in maniera teologica, i
significati connessi all’alleanza perenne che lega il
Signore al suo popolo.
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Ai cristiani, rispetto al tema della terra, è richiesta un’effettiva conoscenza dell’intera storia ebraica
estesa fino ai nostri giorni. Solo un’approfondita e
articolata competenza è, infatti, in grado di evitare
di formulare giudizi impropri basati su inadeguate
precomprensioni teologiche. In ogni caso l’attuale
consistente presenza ebraica in Israele risulta già di
per sé confutazione definitiva del pregiudizio, tuttora
diffuso, secondo cui l’esistenza diasporica del popolo
ebraico dopo il 70 e.v. sarebbe punizione causata dal
rifiuto di accogliere Gesù Cristo come messia.
– Quale ruolo ha la visione ebraica della terra
d’Israele per la concezione cristiana della storia
della salvezza?
– Per quali vie Gerusalemme può essere simbolo
riconoscibile dello shalom tra i popoli?
13. La riflessione sull’evento Shoah
Con il trascorrere dei decenni la Shoah è stata
sempre più considerata svolta decisiva nella storia
del mondo occidentale. In molti campi, l’espressione «dopo Auschwitz» contraddistingue l’esistenza di
un vero e proprio spartiacque. Colto nell’orizzonte
del dialogo cristiano-ebraico questo convincimento
si manifesta soprattutto in tre direzioni.
La Shoah esige di prestare ascolto, con inedita intensità, a una testimonianza ebraica contraddistinta
dall’essere soprattutto voce imperativa volta a sostenere tanto il ricordo, quanto modi di agire conformi
al rispetto integrale della dignità umana.
In secondo luogo la Shoah impone una profonda e coraggiosa riflessione sull’incidenza avuta
dal cristianesimo nella storia e, in particolare, sul
ruolo svoltovi dall’antigiudaismo. I nessi tra antisemitismo razzista e ideologia antigiudaica cristiana
sono argomenti da affrontare attraverso rigorose
ricerche storico-culturali; in ogni caso la riflessione
sulla Shoah da parte cristiana va sostenuta da un
profondo spirito penitenziale e da un conseguente
cambiamento di mentalità che coinvolga il pensare
teologico e il linguaggio sia liturgico sia catechetico. La riflessione, da parte dei cristiani, va allargata anche ai decenni precedenti, specie in relazione
alle modalità in cui si affermò il potere nazista.
Il terzo principale compito imposto ai cristiani
da Auschwitz è di elaborare una riflessione teologica
relativa al tradimento dell’Evangelo connesso alle
immagini «imperiali» di Dio affermatesi nel corso
dei secoli cristiani. Questo compito esige l’elaborazione di una teologia fedele al lascito evangelico e
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attenta a non trasmettere contraddittorie pretese di
egemonia spirituale spesso caratterizzate, loro malgrado, da residui antigiudaici.
– In quali modi la memoria della Shoah può continuare a essere luogo di interrogazione autentica
e non retorica per la coscienza e la fede cristiane?
14. L’attesa delle «cose ultime»
accomuna e distingue nella speranza
La rivelazione biblica, di cui il popolo ebraico è
il primo testimone, ha diffuso nel mondo la convinzione secondo cui la storia si conclude con il pieno
avvento della redenzione. Per questa via la speranza
è diventata una caratteristica propria tanto di Israele
quanto della Chiesa, entrambe chiamate a rivolgere
il loro sguardo all’avvenire di Dio.
A motivo dell’annuncio del Regno, della Pasqua di
Gesù Cristo e dell’effusione dello Spirito, l’attesa cristiana è contraddistinta da una peculiare tensione tra il
«già» e il «non ancora»: l’attesa cristiana si fonda infatti sull’evento della morte e resurrezione di Gesù Cristo.
In ambito ebraico un’analoga tensione è presente
tra la promessa e l’attesa del suo compimento. Un
detto ebraico afferma che il messia non è ancora venuto: per questo si può ancora sperare. Un altro detto sostiene che il vero messia è sempre quello ancora
da venire, mentre quello venuto è sempre falso. Le
due frasi ribadiscono il primato che, secondo la prevalente visione ebraica, l’età messianica ha rispetto
alla persona stessa del messia. Colta da parte ebraica,
la fede cristiana in Gesù appare rivolta verso un re
privo di regno messianico. Resta, però, ugualmente
vero che le vicende storiche degli ultimi secoli hanno
reso spesso arduo da parte ebraica vivere un’attesa
messianica perennemente dilazionata.
La ricerca di come vivere fedelmente, nel mondo
attuale, l’attesa messianica è un compito che si prospetta a un popolo ebraico che voglia assumere su di
sé la missione affidatagli da Dio. Dal canto suo, la testimonianza ebraica relativa alla natura non redenta
della storia si presenta ai cristiani come un pungolo
perenne tanto in relazione a una comprensione più
profonda della missione e dell’opera di Gesù Cristo,
quanto rispetto alla necessità di porre, di nuovo, al
centro della fede l’attesa della seconda venuta.
– Di fronte ai drammi del mondo, come possono
ebrei e cristiani, pur nella diversità delle loro rispettive attese, testimoniare la speranza nell’avvento definitivo della redenzione?
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